Città Nuova

Economia Civile

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L'augurio di Luigino Bruni, docente di Economia politica all’università Lumsa di Roma è che nascano scuole popolari che si occupino non solo di parole economiche come spread, fiscal compact e spending review ma che aiutino a governare la democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it il 01/01/2013

Operatore_borsa_ridIl 2012 è stato soprattutto l’anno della crisi economica e dell’invasione dell’economia nelle nostre vite. Parole come spread, spending review, fiscal compact (tutte parole inglesi, e non a caso, essendo questa la lingua dell’economia globalizzata), sono diventate consuete nei pasti delle famiglie e hanno determinato preoccupazioni e speranze. La crisi non solo non è finita ma è solo all’inizio, come è solo l’inizio la centralità dell’economia nelle nostre vite, una economia che è diventata la nuova grammatica della società. La crisi sarà lunga perché il mondo è cambiato e ha reso velocemente obsoleto il sistema economico italiano, anche per istituzioni che non hanno fatto le scelte giuste negli anni giusti (Ottanta e Novanta).

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È stata e sarà crisi del lavoro, e quindi della vita. Altra lezione di questo anno è l’importanza dell’economia per la vita della gente, e quindi l’invito ad occuparcene di più tutti, senza lasciarlo agli addetti ai lavori. Non aspettare che il lavoro arrivi, ma inventarlo, e possibilmente assieme. Infine, per poter gestire e governare l’economia occorre studiarla e capirla. Mi auguro che nascano scuole popolari di (buona) economia, nelle parrocchie, associazioni e movimenti, perché senza capire oggi le parole dell’economia non si capisce e non si governa la democrazia, piombata in una profonda crisi. Da questa lunga e profonda notte usciremo lavorando di più e diversamente, studiando meglio, giovani e tutti.

 

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di Luigino Bruni

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L’economia è la nuova grammatica

L’economia è la nuova grammatica

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Verso le elezioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 22/2012 del 25/11/2012

J_M_KeynesIl rapporto tra economia e politica è una delle direttrici su cui su sta snodando la campagna elettorale per le prossime elezioni. E non potrebbe essere diversamente, dato il peso che sta prendendo la vita economica, incluso il lavoro, nel benessere e malessere delle nostre famiglie, soprattutto di quelle giovani con bambini.

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Ma, e qui sta il punto, l’economia negli ultimi decenni si è tremendamente complicata, per un cambiamento radicale della natura dei rapporti economici e sociali (la globalizzazione), e la formazione economica dei leader dei partiti politici è spesso obsoleta per capire finanza e mercati contemporanei.

Questa difficoltà di comprensione di che cosa sta accadendo nell’economia e nella finanza, sta avendo due conseguenze, entrambi cruciali per la nostra democrazia. Il grande economista inglese J.M. Keynes diceva quasi un secolo fa che normalmente i policy makers sono spesso “schiavi” ideologici di "scribacchini". Questi scribacchini una volta erano gli economisti teorici; oggi sono brillanti giornalisti che si stanno trasformando in teorici economici senza teoria, che dalle loro cattedre impartiscono quotidianamente lezioni e ricette. Nel Novecento alcuni grandi economisti furono anche ottimi giornalisti e politici (pensiamo allo stesso Keynes, e in Italia a Luigi Einaudi).

Oggi assistiamo al processo inverso, anche a causa della assenza di bravi economisti che vogliano e sappiano parlare alla gente. E molti pensano di risolvere la complessità della economia attuale rimuovendola, offrendo slogan e battute mediatiche che hanno solo il neo di essere quasi sempre sbagliate. Oppure, seconda conseguenza non meno grave, di fronte alla complessità della sfera economica, e alla sua grande rilevanza in tempi di crisi, i politici rinunciano alla loro vocazione di sintesi, e si affidano interamente agli economisti, perché capaci di decifrare la complessa trama dei mercati, dimenticando così che l’economia è sempre un particolare, non è mai sintesi.

C’è bisogno di un forte investimento in cultura economica, a partire dalle scuole dove è di fatto assente qualsiasi formazione economica. Oggi la democrazia passa anche nella capacità di capire che cosa sta accadendo nei mercati sopra le nostre teste, e poi poter scegliere liberamente, anche i nostri governanti. 

 

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Verso le elezioni

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Politici ed economisti

Politici ed economisti

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Editoriali - Crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.21/2012 del 10/11/2012

Giochi_in_borsa_ridNelle settimane scorse si è molto discusso della sentenza di condanna degli scienziati che hanno sbagliato a prevedere il terremoto de L'aquila. Non è invece mai stato fatto un processo, nè abbiamo mai discusso pubblicamente e seriamente, per quegli scienziati sociali, gli economisti, che hanno totalmente sbagliato le previsioni di questa crisi, e hanno dato consigli pessimi alla popolazione.

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Eppure le vittime non sono mancate neanche in questo secondo caso (si pensi solo ai tanti suicidi di imprenditori), le case continuano a crollare, e le macerie continuano ad accumuaccesi nelle nostre famiglie e comunità. In questa crisi c'è infatti una diretta e grave responsabilità di molti economisti, alcuni dei quali hanno ricevuto il premio nobel, che hanno teorizzato che la totale liberalizzazione e anarchia dei mercati finanziari avrebbe portato a maggiore efficienza e a più ricchezza per tutti, senza alcun serio rischio di sistema.

In realtà si sono sbagliati e di grosso: la grande ricchezza creata dalla finanziarizzazione dell'economia è stata ricchezza che non solo non ha creato vero sviluppo economico, ma ha distratto risorse dall'economia produttiva. Molti, troppi, imprenditori e banche hanno trovato troppo più conveniente investire nella finanza che nelle imprese, e così anche in Italia ci ritroviamo oggi con imprese sottocapitalizzate, che non riescono più a creare lavoro vero.

Ma c'è ancora un ulteriore elemento che aumenta la responsabilità di noi economisti: le errate previsioni dei sismologi non hanno causato il terremoto, che era ignaro dei dibattiti tra scienziati. Le errate ipotesi e previsioni dei modelli economici, invece, influenzano anche i comportamenti effettivi delle persone, perchè a forza di formare studenti di economia e manager sulla base di teorie che oggi possiamo chiamare errate, sono aumentati in questi decenni azioni imprudenti e dannose per il bene comune. Questa crisi deve allora essere una occasione per una nuova stagione di responsabilità morale e civile degli economisti, che dobbiamo rivedere le ipotesi base delle nostre teorie, per uscire da questa crisi, e non causarne di nuove

 

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Editoriali - Crisi

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Un processo agli economisti

Un processo agli economisti

Editoriali - Crisi di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.21/2012 del 10/11/2012 Nelle settimane scorse si è molto discusso della sentenza di condanna degli scienziati che hanno sbagliato a prevedere il terremoto de L'aquila. Non è invece mai stato fatto un processo, nè abbiamo mai discusso...
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Lavoratori volontari

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 20/2012 del 25/10/2012

Antichi_mestieriQualche giorno fa una mia amica e lettrice di Città Nuova mi esprimeva alcuni dubbi su un fenomeno che sembrerebbe tutto e solo positivo. Mi raccontava infatti delle varie iniziative spontanee in aumento in questi tempi di crisi di chi si offre a fare torte per compleanni o matrimoni, il parrucchiere per amici e amiche, come forma di (quasi) volontariato per tutte quelle persone che oggi fanno fatica a permettersi i prezzi di mercato per questi beni e servizi.

Il problema è che queste attività sono anche una forma di non voluta concorrenza sleale nei confronti di parrucchieri e pasticceri che in questi anni faticano a portare avanti correttamente le loro attività e a pagare i loro dipendenti.

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Se infatti allarghiamo lo sguardo e passiamo da questi fenomeni, che potrebbero sembrare tutto sommato di poco conto, all’economia sociale e civile (che in Italia occupa circa il 10 per cento dei lavoratori), ci accorgiamo subito che il problema sollevato dalla mia amica tocca un punto delicato e importante del nostro sistema economico e civile.

Si sta infatti creando una strana guerra fra poveri, quella fra molte cooperative sociali che debbono stare sul mercato e alcune forme di volontariato le quali, potendo utilizzare lavoratori volontari (un volontariato dove spesso il rimborso spese è una forma di salario-ombra molto più basso di quello di mercato), partecipano a bandi pubblici e li vincono grazie ai prezzi stracciati che riescono a offrire. E questo è grave, perché oggi più che mai il vero volontariato deve essere sussidiario all’impresa civile e al lavoro regolarmente remunerato, e non un suo sostituto, altrimenti si verifi cherebbe il paradosso di volontari che, grazie all’attenzione che ricevono, fi niscono di fatto, ovviamente senza volerlo, ad aumentare la disoccupazione e la recessione nel nostro Paese.

La gratuità è l’energia vitale di tutta l’economia, non solo di quella sociale e civile, ma la gratuità vera è sempre alleata del lavoro vero, dei contratti, dei diritti. E, quando ciò non si verifi ca, si ammalano l’economia e anche il vero volontariato.

 

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Lavoratori volontari

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 20/2012 del 25/10/2012

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Una guerra tra poveri

Una guerra tra poveri

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Un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato.

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.17/2012 - 10/09/2012

120817_Manifestazione_ILVA_Taranto_02_ridC’è una branca della scienza economica che studia le cosiddette “scelte tragiche”. Le più classiche e quasi epiche sono quelle che si trova di fronte il comandante della scialuppa di salvataggio troppo affollata (uno fuori o il rischio di affondare tutti?), o l’imprenditore che deve decidere tra il licenziamento di qualche operaio (che per il vero imprenditore è sempre scelta molto dolorosa) o il rischio di fallimento dell’intera impresa.

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La scelta tragica è quella tra due cose “cattive”, mentre la scelta drammatica è quella tra un male e un bene, dove è chiara la direzione da prendere, anche se dolorosa. Esiste però un’altra versione delle scelte tragiche, sempre più frequente nel nostro mondo: quella tra due beni, tra due cose buone. Quanto sta avvenendo con l’Ilva di Taranto (e con la Sulcis di NuraxiFigus, che presenta tratti analoghi), è un esempio di scelta tragica tra due beni: il diritto-dovere al lavoro e il diritto-dovere alla salvaguardia della salute e del creato).

Quando la vita civile porta le persone a scelte tragiche tra due beni, ciò è un segnale di una crisi profonda, e inedita nella nostra storia. E quando ciò accade, il conflitto sociale non è più dentro la fabbrica tra padroni e operai, o tra rendite e profitti e salari, ma dentro delle stesse famiglie e all’interno delle stesse persone. Il conflitto viene ad abitare dentro casa e dentro di noi, perché sono le stesse famiglie che debbono lavorare e che non vogliono morire di inquinamento. E questo fatto nuovo ci pone domande nuove alle quali non sappiamo rispondere, perché non è possibile rinunciare a nessuno di queste due cose buone, e se lo facciamo ci laceriamo, individualmente e come società. Ciò che è certo che in queste nuove forme di tragedie, il classico confronto sociale (sindacati da una parte e il capitale dall’altro) non funziona più, perché operai, sindacalisti, managers, amministratori locali, magistrati, hanno tutti il conflitto dentro casa e dentro di loro.

Ecco perché a Taranto, e in Sardegna, si sta giocando una partita molto più grande di quei territori, e non possiamo darci pace finché non trasformiamo la tragedia in dramma, perché dietro quelle imprese si nasconde una sfida decisiva per la nostra civiltà.

 

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Pubblicato su: Città Nuova n.17/2012 - 10/09/2012

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Ilva di Taranto, domande inedite

Ilva di Taranto, domande inedite

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Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPer capire la cultura di un popolo, con le sue luci e le sue ombre, occorre stare in mezzo alla gente. «Quanto costa arrivare al centro di Roma?», ho chiesto qualche giorno fa a Fiumicino. «50 euro», ha risposto il tassista. «Ma – ha aggiunto – se condividi il viaggio con questo signore, posso fare 40 ciascuno». Per lui 80, per noi lo sconto di 10 euro. Peccato che il regolamento dica 50 euro a corsa, non a persona. Quando ho espresso il mio disappunto, il tassista ha replicato: «Ma scusa: che te interessa se io guadagno de più, tu pensa al tuo risparmio».

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Pessimo tassista, perché non sa che la gente non è interessata in uno scambio di mercato solo al proprio guadagno, ma anche all’equità. La stessa equità che, qualche mese fa, mi fece “punire” il meccanico, che dopo aver ripulito i filtri della mia auto nella quale un benzinaio aveva messo benzina al posto del diesel, mi disse: «400 euro senza, o 500 con fattura». Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Ormai molti studi fanno vedere, con dati empirici e sperimentali, che le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono negli altri comportamenti iniqui.

Oggi in Italia si sta deteriorando un patrimonio di virtù civili costruito nei secoli. La virtù civile non è solo pagare le proprie tasse e adempiere alle leggi, ma anche sostenere dei costi per rimproverare gli altri concittadini. Per uscire dalla crisi c’è bisogno di una rinascita civile, insieme alla riduzione di spread e debito pubblico. Ma per ricreare il tessuto civile ormai troppo deteriorato non è sufficiente che ciascuno faccia il proprio dovere: è necessario prendersi cura degli altri concittadini, rimproverandoli quando c’è bisogno, e premiandoli, anche con un grazie, quando si può. Ci sono troppi pochi rimproveri civili, ma ci sono anche troppi pochi “grazie” e “buongiorno” lungo le strade. L’altro giorno a Milano ho provato a dire buongiorno a uno sconosciuto: si è preso paura, non più abituato a queste parole. Ma senza queste parole, antiche e nuove, non si ricrea quel tessuto civile indispensabile per uscire da ogni crisi, individuale collettiva ed economica.

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Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPer capire la cultura di un popolo, con le sue luci e le sue ombre, occorre stare in mezzo alla gente. «Quanto costa arrivare al centro di Roma?», ho chiesto qualche giorno fa a Fiumicino. «50 euro», ha risposto il tassista. «Ma – ha aggiunto – se condividi il viaggio con questo signore, posso fare 40 ciascuno». Per lui 80, per noi lo sconto di 10 euro. Peccato che il regolamento dica 50 euro a corsa, non a persona. Quando ho espresso il mio disappunto, il tassista ha replicato: «Ma scusa: che te interessa se io guadagno de più, tu pensa al tuo risparmio».

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€ 400 senza, € 500 con fattura

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Accettai di pagare 100 euro in più non solo per il valore della legalità, ma anche per sdegno. Le persone sono disposte a sostenere dei costi quando percepiscono comportamenti iniqui. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.15-16, 10/08/2012 Per capire la cultura di un popolo, con le sue luc...
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Acepté pagar 100 euros más no sólo por el valor de la legalidad, sino también por desdén. Las personas están dispuestas a asumir un coste cuando perciben comportamientos inicuos.

por Luigino Bruni

publicado en Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPara comprender la cultura de un pueblo, con sus luces y sus sombras, hay que estar entre la gente. «¿Cuánto cuesta llegar al centro de Roma?», pregunté hace unos días en el aeropuerto de Fiumicino. «50 euros», respondió el taxista. «Pero –  agregó – si comparte el viaje con este señor, puedo cobrarles 40 a cada uno». Para él 80, para nosotros un descuento de 10 euros. Lástima que el reglamento diga 50 euros por carrera y no por persona. Cuando expresé mi desacuerdo, el taxista replicó: «Pero disculpa: ¿a ti qué te importa si yo gano más? tú piensa en lo que te ahorras».

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Pésimo taxista, porque no sabe que a la gente, cuando realiza un intercambio de mercado, no le importa sólo su propia ganancia, sino también la justicia. La misma justicia que, hace unos meses, me llevó a “castigar” al mecánico que, después de limpiar los filtros de mi automóvil en el que me pusieron gasolina en lugar de diesel, me dijo: «son 500 con factura o 400 sin ella». Acepté pagar 100 euros más no sólo por el valor de la legalidad, sino también por indignación. Ya hay muchos estudios que muestran con datos empíricos y experimentales que las personas están dispuestas a asumir un costo cuando perciben que los demás se comportan de modo injusto.

Hoy en Italia se está deteriorando un patrimonio de virtudes cívicas construido durante siglos. La virtud cívica no consiste sólo en pagar los impuestos y cumplir las leyes, sino también en asumir el coste de un reproche dirigido a otros conciudadanos. Para salir de la crisis hae falta una regeneración cívica, además de la reducción de la prima de riesgo y la deuda pública. Pero para recrear el tejido civil, demasiado deteriorado ya, no es suficiente que cada uno haga sus deberes: es necesario hacerse cargo de los otros conciudadanos, reprochándoles cuando hay necesidad, y premiándoles, a veces con un “gracias”, cuando se puede. Los reproches cívicos son demasiado escasos, pero hoy también se dice pocas veces “gracias” y “buenos días” por la calle. El otro día en Milán le dije “buenos días” a un desconocido; le dio miedo, no estaba acostumbrado ya a estas palabras. Pero sin estas palabras, antiguas y nuevas, no se recrea aquel tejido civil indispensable para salir de toda crisis, individual colectiva y económica.

 

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por Luigino Bruni

publicado en Città Nuova n.15-16, 10/08/2012

Taxi_ridPara comprender la cultura de un pueblo, con sus luces y sus sombras, hay que estar entre la gente. «¿Cuánto cuesta llegar al centro de Roma?», pregunté hace unos días en el aeropuerto de Fiumicino. «50 euros», respondió el taxista. «Pero –  agregó – si comparte el viaje con este señor, puedo cobrarles 40 a cada uno». Para él 80, para nosotros un descuento de 10 euros. Lástima que el reglamento diga 50 euros por carrera y no por persona. Cuando expresé mi desacuerdo, el taxista replicó: «Pero disculpa: ¿a ti qué te importa si yo gano más? tú piensa en lo que te ahorras».

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500 euros con factura, 400 sin factura

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Editoriale - Economia

pubblicato su Citta Nuova n.12, 25 giugno 2012

Agora_Atene_ridAll’ombra della crisi finanziaria, economica e sempre più politica, si cela una grande domanda sul tipo di democrazia che stiamo costruendo. La democrazia moderna nasce profondamente legata agli Stati nazione, e alla subordinazione di mercati, banche e finanza al potere politico. Questo primato del politico sull’economico-finanziario è stata la pietra angolare dell’edificio civile moderno, una costruzione che è entrata in crisi, negli ultimi tre decenni, dalla globalizzazione dei mercati e la conseguenza anarchia della finanza speculativa, che hanno fatto saltare il primato della politica sui mercati.

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Quale democrazia stiamo allora realizzando e sperimentando in Europa e nel capitalismo? È ancora presto per dirlo, ma ciò che è certo è che la situazione che si sta determinando è qualcosa di diverso e di distante dalla democrazia che conoscevamo. Gli indici di borsa e gli spread determinano nascite e fine di governi, le agende politiche e le riforme (anche la riforma dell’articolo 18, che non era certamente la priorità per l’Italia, è parte di questa agenda imposta dalle istituzioni finanziarie). Le dinamiche che sono dietro indici di borsa e spread non hanno a che fare con la democrazia: rappresentano invece gruppi esigui di popolazione che detengono titoli finanziari e che non subiscono, perché ricchi, le conseguenze delle crisi, e non perdono per essa il posto di lavoro.

Il premio Nobel Amartya Sen ha recentemente rimproverato Italia e Grecia di aver abdicato, sotto la pressione della finanza, alla democrazia che loro hanno inventato, quella democrazia che è soprattutto “governare discutendo” (government by discussion). La democrazia non la si custodisce con governi mondiali, anche perché oggi un governo mondiale – lo stiamo assaggiando in Europa,nella gestione della crisi greca – rispecchierebbe necessariamente i rapporti di forza tra gli Stati, mentre sarebbero necessarie authority mondiali, la prima per la finanza. La democrazia si protegge, e si ricrea, discutendo, partecipando e protestando, a tutti i livelli, anche, e soprattutto, quelli della finanza.

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La finanza e la politica

La finanza e la politica

Editoriale - Economia pubblicato su Citta Nuova n.12, 25 giugno 2012 All’ombra della crisi finanziaria, economica e sempre più politica, si cela una grande domanda sul tipo di democrazia che stiamo costruendo. La democrazia moderna nasce profondamente legata agli Stati nazione, e alla subordinazio...
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I padri costituenti volevano sottolineare che la Repubblica non era più fondata su privilegi del sangue né su titoli nobiliari, ma sul lavoro, la vera base di ogni democrazia.

di Luigino Bruni

pubblicato su Citta Nuova n.11/2012 del 10 giugno 2012

operai_in_fabbrica«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Così apre la Costituzione italiana. A distanza di quasi settant’anni da quando quelle parole furono scritte, sono ancora vere, reali? Non credo, o lo sono molto, troppo, meno. Nel fondare la nuova Italia sul lavoro, i padri costituenti volevano sottolineare che la Repubblica non era più fondata sui privilegi del sangue né sui titoli nobiliari, ma sul lavoro e sul lavorare, che è la prima e vera base di ogni democrazia.

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E per qualche decennio l’Italia, l’Europa e l’Occidente hanno conosciuto una espansione dell’uguaglianza, proprio grazie al lavoro: abbiamo costruito, lavorando e con la fatica, una Italia con meno privilegi e caste: il boom economico degli anni Cinquanta-Settanta è stato anche un boom democratico, dei diritti e delle libertà.

Dalla fine degli anni Ottanta, però, questo trend di crescita della democrazia si è arrestato, e la causa è stata soprattutto una eccessiva e insostenibile crescita della finanza in rapporto all’economia reale. Per un paio di decenni questa finanziarizzazione del mondo ha consentito all’Europa e agli Usa di continuare a crescere nonostante le economie reali non crescessero più, e ad un tasso pazzesco, maggiore di quello che l’Europa ha conosciuto durante la prima rivoluzione industriale.

Il 15 settembre del 2008 ha segnato la fine di questa crescita dopata e sbagliata, e ci siamo accorti che in quei due decenni di crescita finanziaria l’Italia e l’Europa erano tornate molto indietro sul piano dell’uguaglianza, e quindi della democrazia e del lavoro. Di nuovo le rendite (finanziarie, delle caste, dei manager, delle banche) sono tornate al centro della scena, dove non c’è più né il lavoro né tantomeno la fabbrica.

Oggi l’asse del conflitto sociale non è più dentro l’economia reale (lavoratori contro padroni) ma tra l’intero mondo del lavoro che soffre tutto (imprenditori insieme ai lavoratori) e il mondo delle rendite (non tassate), che hanno in mano il mondo, la non-democrazia, il lavoro. Le morti di lavoratori sotto le macerie, i suicidi degli imprenditori ci vogliono anche dire che dobbiamo rifondare l’Italia sul lavoro.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Citta Nuova n.11/2012 del 10 giugno 2012

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Fondata sul lavoro

Fondata sul lavoro

I padri costituenti volevano sottolineare che la Repubblica non era più fondata su privilegi del sangue né su titoli nobiliari, ma sul lavoro, la vera base di ogni democrazia. di Luigino Bruni pubblicato su Citta Nuova n.11/2012 del 10 giugno 2012 «L’Italia è una Repubblica democratica fondata su...
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Questi i temi dell'intervento di Luigino Bruni, docente di economia politica, all’apertura dell’Incontro mondiale della famiglia. Ce ne parla in un'intervista

di Violetta Conti

pubblicato su: cittanuova.it il 01/06/2012

120530_Milano_Bruni_ridÈ la famiglia il cuore pulsante del sistema economico ed è sempre lei l'aspetto sofferente con le sue maternità e paternità precarie, le sue fragilità  ed incertezze in questo duro tempo di crisi economico-finanziaria. Ma è sempre alla stessa famiglia che si chiede "inopportunamente" di consumare di più per rilanciare la crescita e di lavorare poco e male.

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La famiglia sembra chiamata a muovere la macchina del capitalismo dominante "senza se e senza ma". Ma è questo il modo giusto? Se lo sono chiesti  i quattromila presenti, il 30 maggio, alla prima giornata del Congresso Teologico pastorale che ha ufficialmente aperto i lavori del VII Incontro mondiale della famiglia.

A rispondere il professor Luigino Bruni, docente di economia politica all'Università di Milano-Bicocca e autore de Le nuove virtù del mercato per Città Nuova che ha rilanciato queste tematiche, parlando di famiglia e lavoro sì, ma anche di festa. Perché? Glielo abbiamo chiesto in quest’intervista.

Impegnativi e delicati i temi di Milano (famiglia e lavoro, ndr.), tanto per le famiglie che si trovano in difficoltà economica quanto per i giovani che seppur con lavoro precario cercano di metter su famiglia. Ma la festa?

«C’è un’interconnessione profonda tra lavoro, festa e famiglia. Prima di tutto perché la famiglia è il principale luogo del lavoro e della festa: Pensiamo ad esempio nelle occasioni di festa quanto del lavoro delle donne troviamo o quanto sia sentito nel lavoro il tempo della festa, dove il primo detta i tempi del secondo.  Ma c’è anche un’altra ragione. Etimologicamente la parola festa deriva da fesia, cioè feria, feriale  e quindi legato ai giorni lavorativi. Oggi però assistiamo sempre di più ad una frattura nell’equilibrio tra lavoro e festa, ad uno stravolgimento dei ruoli. Il mondo economico soffre di eccedenza di festa da un lato e di alto tasso di disoccupazione dall’altro. Manca così una prospettiva più profonda»

Maternità e paternità sempre più precarie, ma anche fine del “welfare state”. Come può restare il soggetto economico principale la famiglia?

«Più che di fine dello stato sociale parlerei della sua crescita vorticosa e senza controllo in un determinato periodo storico ormai sorpassato. Direi che oggi però siamo di fronte ad una preoccupazione che riguarda più l’ambito economico che quello familiare. Lo stato sociale sta cambiando, la famiglia si sta evolvendo (non è più patriarcale come 30 anni fa), ma essa continua a svolgere il ruolo di soggetto economico preminente, il luogo ideale in cui far esperienza di gratuità. In questo senso non è allora la famiglia ma il mondo del lavoro che sta cambiando in modo più radicale perché si sta allontanando dal principio della gratuità. Occorre riscoprirlo, ma non sarei nostalgico di fronte alla fine di quel tipo di welfare state, piuttosto volgerei lo sguardo alla possibilità di creare migliori legami fra generazioni, fra lavoratori con un nuovo patto sociale»

Il mercato del lavoro chiede una diversa conciliazione famiglia-lavoro e l’adattarsi a nuove culture lavorative. Qual è l’atteggiamento giusto per accogliere le nuove sfide al meglio?

«Il mercato del lavoro nel giro di un cinquantennio è mutato molto, ma come ricorda la Rerum Novarum “Il lavoro non è una merce” ed anche oggi va salvaguardato e tutelato per la nostra società  e i nostri giovani. Certamente ci sono molte più opportunità oggi grazie ad internet e ai viaggi, ma ci sono anche diverse problematiche. Nel 1869 l’economista e filosofo J.Stuart Mill scriveva a proposito della donna: “La formazione morale dell’umanità non avrà ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finché non saremo capaci di vivere nella famiglia con le stesse regole morali che governano la comunità politica”. Mill ovviamente faceva riferimento alla sua epoca, quando l’impresa e la famiglia erano ancora dei luoghi illiberali e gerarchici nonostante i progressi nella democrazia. Ma qual è la situazione odierna? In molti Paesi  la relazione uomo donna in famiglia è più incentrata sul rispetto e sull’uguaglianza, ma è il mondo civile, e in particolare quello economico e lavorativo ancora troppo asimmetrico, gerarchico e maschile. Non a misura di famiglia. In me però prevale la speranza. In tempo di crisi la speranza è un dovere civile, una forma di carità alta anche nell’economia»

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La famiglia, la festa e il lavoro

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Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.7/2012 del 10/4/2012

Ragazzi_al_lavoro_ridL’economia ha un estremo bisogno di resurrezione. Ogni resurrezione è preceduta e preparata da una crisi, da un passaggio o cambiamento: non si risorge se prima, in qualche modo, non si muore. Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è, infatti, qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte, sebbene occorrano “occhi di resurrezione” per riuscire a vederlo, e poi a riconoscerlo per quello che veramente è, cioè l’alba di un nuovo giorno. 

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Se avessimo occhi di resurrezione vedremmo, ad esempio, che l’Italia e il mondo vanno avanti, nonostante le crisi e le morti del nostro tempo, perché la maggior parte della gente cerca e fa il bene nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni pubbliche, e continua a farlo nonostante tutto. I malvagi e i furbi esistono, ma sono molti meno di quanto la cultura dominante ci racconta ogni giorno perché vede male il mondo.

Vedremmo poi tanti imprenditori che stimano e rispettano i loro lavoratori, e che, prima di considerarli come dei costi, li vedono come le risorse più preziose e partner essenziali per la vita e lo sviluppo dell’impresa. E vedremmo tanta gente che lavora bene perché è convinta che il lavoro vada fatto bene prima e indipendentemente da quanto denaro si riceve, e che quindi lavora bene anche quando non sono controllati, né puniti né applauditi.

Come vedremmo tanta economia civile, sociale, etica, equa, di comunione, che come il sale dà sapore alla massa, e come il lievito non lascia azzimo il pane nei nostri mercati. Ma per poter vedere il bene che già c’è nella vita civile ed economica, occorre guardare e pensare a partire da una cultura della resurrezione, che sa vedere ciò che la cultura che oggi sta morendo non vede ancora.

C’è oggi un grande bisogno di gente che sa vedere e indicare segni di vita nuova presenti realmente nella nostra quotidianità (se visti bene), e non solo immaginati o sognati. È questa una forma alta di carità civile e, quando manca, il mondo diventa un luogo triste e grigio. Nei tempi della notte occorrono infatti le sentinelle dell’aurora che annuncino la resurrezione, che tutti aneliamo ma che non riconosciamo perché magari non ascoltiamo con attenzione la voce di chi ci chiama per nome nei giardini delle nostre città.

Abbiamo bisogno di Pasqua nel lavoro, di un passaggio epocale da un lavoro visto oggi come problema ad un lavoro riscoperto come responsabilità e brano di vita. Il lavoro umano negli ultimi decenni è stato emarginato da un modello economico centrato sulla finanza speculativa, che prometteva ricchezza senza lavoro e lavoratori, e che quindi è imploso.

Non si uscirà mai da questa crisi senza una resurrezione del mondo del lavoro e dei lavoratori. Soprattutto dei giovani, che hanno il diritto ad una cultura della vita, della speranza, della fiducia: perché, se non c’è Pasqua per i giovani, non ci può essere vera Pasqua per nessuno.

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Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.7/2012 del 10/4/2012

Ragazzi_al_lavoro_ridL’economia ha un estremo bisogno di resurrezione. Ogni resurrezione è preceduta e preparata da una crisi, da un passaggio o cambiamento: non si risorge se prima, in qualche modo, non si muore. Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è, infatti, qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte, sebbene occorrano “occhi di resurrezione” per riuscire a vederlo, e poi a riconoscerlo per quello che veramente è, cioè l’alba di un nuovo giorno. 

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Crisi economica e occhi di resurrezione

Crisi economica e occhi di resurrezione

Nel sistema economico che abbiamo prodotto in questo ultimo secolo c’è qualcosa che sta chiaramente morendo, ma c’è anche qualcosa di nuovo che sta arrivando all’orizzonte. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.7/2012 del 10/4/2012 L’economia ha un estremo bisogno di resurrezione. Ogni res...
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Serve un nuovo patto

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.5/2012 il 10/03/2012

Il tema della decrescita è un tema ambivalente. Quindi le cose più importanti e rilevanti vanno cercate nelle sfumature. La prima domanda che va posta al centro di un dibattito serio attorno a questo tema è la seguente: decrescita di che cosa? È, infatti, evidente che ci sono delle dimensioni dell’attuale modello di sviluppo capitalistico che possono e dovrebbero decrescere se vogliamo migliorare il benessere delle persone e la sostenibilità del pianeta.

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Queste dimensioni sono l’impronta ecologica, troppo pesante nell’Occidente opulento, le merci, soprattutto i beni vistosi, posizionali, di confort (televisori, telefonini, automobili), che hanno un bilancio tra costi e benefici molto negativo e incivile: tutte le volte che esce un nuovo modello di cellulare o un nuovo tv al plasma, il nostro benessere in termini di confort forse aumenta dello 0,001, ma i costi ambientali e sociali sono di gran lunga maggiori. Si pensi, ad esempio, allo scandalo di quanto sta avvenendo in Africa per accaparrarsi le riserve di minerali oggi essenziali per produrre telefonini.

Quindi, se oggi fossimo capaci, a partire da noi consumatori (questo è un tema cruciale), di orientare capitali e risorse verso nuove forme di energia e di consumi a servizio del bene comune, otterremmo tutti un grande miglioramento e la Terra respirerebbe di più.

Personalmente la declinazione della decrescita che amo è la decrescita del peso dell’economico (inteso come scambio mercantile) all’interno della vita civile. In Occidente, negli ultimi decenni, stiamo riempiendo il vuoto lasciato dalla famiglia  tradizionale  e dallo Stato con un mercato sempre più pervasivo: dalla cura alla scuola, dalla sanità al tempo libero.  Oggi  dobbiamo liberare  le  energie  e  le forze della società civile e  dei  cittadini  che  tornino a creare spazi per relazioni di gratuità sottraendole al mercato for pro?t. Non è sostenibile una cura degli anziani e dei bambini af?data prevalentemente  al  mercato.  Oggi  accompagnare alla  morte  un  anziano malato  di  Alzheimer  è un’impresa  che  spesso impoverisce  intere  famiglie,  rende  insostenibile la vita di ?glie e nuore, a meno che non si  riescano  ad  attivare reti di prossimità e di vicinato. Sarà sempre più vero che per crescere un bambino e accudire un anziano “ci vuole un intero villaggio”.
Ecco allora l’urgenza  di  una  decrescita degli scambi economici e  monetari per una crescita degli scambi e degli  incontri  di  reciprocità; di una decrescita delle merci per una crescita dei beni relazionali, dei beni comuni, dei beni ambientali, dei beni spirituali, del ben-vivere o, come dicevano gli economisti toscani del Settecento, del Benestare.

In  tutto  questo  discorso  è  molto importante il tema del lavoro: sono convinto che oggi sia necessario nei Paesi  avanzati  ridurre  il  tempo  di lavoro all’interno del tempo di vita ma con due note: la prima è che il tempo di lavoro non va inteso solo come orario giornaliero di lavoro ma nell’arco dell’intera esistenza. In particolare, va superata la visione  tipica della società fordista del secolo scorso: da giovani si studia, da adulti si lavora e da anziani si è in pensione.

Oggi dobbiamo iniziare a immaginare, dando vita ad un nuovo patto sociale, la possibilità reale di studiare durante gli anni del lavoro, non solo come hobby e come attività totalmente periferica, ma rendendo possibile a tanti di prendere lauree e dottorati anche in  età  adulta,  alternando ad esempio 5 anni di lavoro  con  un  anno  di studio: diventeremo così meno obsoleti come lavoratori e arriveremo alla pensione meno s?niti anche se un po’ dopo.

La seconda nota: non dobbiamo  fare  l’errore grave  di  contrapporre la  vita  economica  ai beni  relazionali  e  alla gratuità. C’è tanto dono nel lavoro, anche se la nostra società non lo vede, e dobbiamo fare in  modo  di  riempire  i luoghi  del  lavoro  con tanti  beni  relazionali e con tanta gratuità. Il lavoro,  l’economia  e il  mercato  sono  pezzi di  vita,  sono  i  luoghi anche  delle  passioni  e delle virtù, e se non siamo capaci di costruire i luoghi dell’economia e del lavoro come i luoghi dell’umano tutto intero, si rischia il grave pericolo di immaginare una economia sociale e solidale che nasca solo per l’1 per cento dell’umanità,  abdicando  così  al  compito  di umanizzare il restante 99 per cento (imprese, uf?ci, scuole…).

La grande sfida che ci sta di fronte allora è quella di costruire una nuova casa comune, un’oikonomia dove l’artigiano, l’imprenditore, il contadino, il funzionario pubblico siano tutti alleati per un nuovo patto sociale.

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Serve un nuovo patto

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.5/2012 il 10/03/2012

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Decrescita di cosa e per cosa?

Decrescita di cosa e per cosa?

Serve un nuovo patto di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.5/2012 il 10/03/2012 Il tema della decrescita è un tema ambivalente. Quindi le cose più importanti e rilevanti vanno cercate nelle sfumature. La prima domanda che va posta al centro di un dibattito serio attorno a questo tema è la ...
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Quando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova n. 02/2012

BCE_ridQuando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo. Un’unica moneta era un segno forte ed eloquente della volontà di unità. La scommessa era però che le economie degli Stati europei nel tempo avrebbero mostrato una convergenza, precondizione fondamentale perché la moneta unica esprimesse una economia sempre più una. A distanza di dieci anni, di fronte alla prima grande crisi della globalizzazione, ci siamo accorti che le istituzioni economiche create attorno all’euro erano troppo fragili, e così l’onda anomala dello tsunami partito dagli Usa nel 2008 ha travolto le troppo fragili istituzioni economiche e finanziarie. 

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In questo contesto la grave crisi greca ha detto che il re (l’euro) era nudo. Gli attuali spread fra i rendimenti dei titoli della Germania e quelli degli altri Paesi a Sud in realtà indicano che per i mercati e per gli indicatori finanziari, oltre l’euro, esistono ancora le antiche monete nazionali e che gli spread sono una sorta di cambio ombra fra il marco e le altre monete che, sebbene scomparse per dar vita all’euro, sono ancora presenti e rappresentate dai diversi andamenti delle economie reali. 

La scommessa e l’utopia di una moneta unica sono le uniche possibilità perché l’Europa abbia un futuro da protagonista nel mondo. Ma oggi sappiamo che un euro senza una vera volontà di dar vita a una maggior unità politica non ha futuro. Nessun Paese europeo (nemmeno la Germania) può ambire a un ruolo da protagonista nell’economia globalizzata senza un euro forte e senza un’Europa più politica. 

È allora urgente dar vita a una banca europea forte che possa svolgere le funzioni tipiche di ogni banca centrale. Ma è ancora più urgente che l’Europa mostri più coraggio e più forza di pensiero, iniziando una nuova stagione dell’economia di mercato: ridimensionare il peso eccessivo della finanza nel mondo e generare un nuovo modello di sviluppo dove il mercato non domini il mondo ma sia a servizio del bene comune.

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Quando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova n. 02/2012

BCE_ridQuando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo. Un’unica moneta era un segno forte ed eloquente della volontà di unità. La scommessa era però che le economie degli Stati europei nel tempo avrebbero mostrato una convergenza, precondizione fondamentale perché la moneta unica esprimesse una economia sempre più una. A distanza di dieci anni, di fronte alla prima grande crisi della globalizzazione, ci siamo accorti che le istituzioni economiche create attorno all’euro erano troppo fragili, e così l’onda anomala dello tsunami partito dagli Usa nel 2008 ha travolto le troppo fragili istituzioni economiche e finanziarie. 

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Urge una forte istituzione

Urge una forte istituzione

Quando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande entusiasmo, come l’inizio di una nuova stagione dell’Europa e del mondo. di Luigino Bruni pubblicato su: Città Nuova n. 02/2012 Quando, dieci anni fa, entrammo nell’era dell’euro, l’evento fu accolto con grande ent...
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Quest’anno è esplosa la prima grande crisi dell’economia globalizzata, che ci ha detto che una certa stagione del capitalismo ha esaurito la sua capacità generativa

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova n.24/2011 del 25/12/2011

Quest’anno è esplosa la prima grande crisi dell’economia globalizzata, che ci ha detto che una certa stagione del capitalismo, quello individualistico-finanziario, ha esaurito la sua capacità generativa e innovativa, e quindi deve presto evolvere. La finanza creativa e innovativa ha consentito all’Occidente industrializzato (in pratica Usa ed Europa) di alzare il suo tenore di vita nonostante negli ultimi venti anni la sua economia reale fosse entrata in profonda crisi, a causa della legittima crescita di Cina, Brasile, India.

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Ma la crisi economica di questi ultimi decenni ha anche una radice in una crisi più profonda, e tutta interna all’Occidente, di natura spirituale, sociale, motivazionale. Di questa seconda crisi si parla poco, troppo poco, ma se l’Europa e gli Usa non saranno capaci di superare la mancanza di entusiasmo e di fame di vita che si insinua da tempo nelle sue persone e istituzioni, nessuna manovra o riforma finanziaria sarà capace di farci uscire dalle secche. L’economia la muovono, ben prima dei governi e delle istituzioni, le passioni e gli ideali dei cittadini, che oggi vanno rilanciati in un nuovo umanesimo, dove al nichilismo consumista si risponda con nuovi valori capaci di futuro e di felicità individuale e pubblica. L’eccessivo indebitamento privato (Usa) e pubblico (Europa) non è la causa della crisi, ma l’effetto, poiché ci siamo indebitati certamente per sprechi, vizi civili e malgoverno, ma anche per qualcosa di più serio.

In un mondo dove le relazioni e le comunità si impoveriscono, si risponde a queste nuove carestie di beni relazionali consumando più merci, e quando i soldi finiscono o ci vengono promessi a basso costo, ci si indebita. Oppure si dà vita (nei Paesi del Sud Europa) a uno Stato ipertrofico come risposta, sbagliata, al bisogno di salvare qualcosa di quella comunità di cui resta ancora una certa nostalgia nel Dna delle nostre culture meridiane.

Ci attende un 2012 impegnativo, difficile, perché questa crisi non è di quelle che passano velocemente. Ma, come accade in tutte le crisi individuali e collettive, le stagioni difficili e dure possono diventare un tempo favorevole per attingere alle nostre energie più profonde, e magari ritrovarci migliori.

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Una crisi non solo economica

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