Città Nuova

Economia Civile

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Tornando  a casa,  sognando  la comunione  anche per  quella metà  abbondante  del  mondo  che su un aereo non metterà mai piede

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.17/2014 del 10/09/2014

Capitalismo in volo ridTornando da Parigi da una scuola estiva sull’Economia di Comunione, volando sui cieli d’Europa penso al nostro capitalismo. Forse perché in Francia è appena cambiato il ministro dell’economia, forse perché ho appena salutato cinquanta giovani affascinati da un’economia più fraterna e inclusiva, o perché il cuore va ai troppi aerei sbagliati che volano sulle tante terre martoriate dalle guerre, non posso comunque non pensare alla nostra economia di mercato, alle nostre crisi, ai tanti africani e magrebini che ho visto nelle metropolitane parigine e nelle sue periferie esistenziali, economiche e culturali.  

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E per prima cosa rifletto un po’ su che cosa sta accadendo in questo aereo tra me (gli altri passeggeri) e la compagnia area che mi porta a casa. Ho acquistato un ticket, e nel farlo mi sono mosso totalmente dentro la logica del nostro capitalismo. Ho fatto un contratto con una grande compagnia aerea, uno dei principali attori dell’economia globale (che acquista, come le altre grandi compagnie aeree, molti titoli finanziari altamente speculativi [hedge funds] per assicurarsi contro le oscillazioni dei prezzi del petrolio). Ho usato una carta di credito emessa da uno dei principali circuiti finanziari mondiali. Con me, questo contratto lo hanno fatto il top manager che viaggia in business class, la famiglia italiana (genitori e tre ragazzi) che ha trascorso qualche giorno di vacanza a Parigi, e il giovane attivista di una ONG che torna da un congresso dove hanno criticato il nostro sistema economico. La hostess mi sorride e mi tratta con grande gentilezza, senza che ci si conosca, perché il suo contratto lo prevede. Mentre scrivo comodo col mio pc, prodotto da una grande multinazionale.

E da questo aereo il pensiero va poi ad un mio predecessore dell’università di Roma che per recarsi a Parigi duecento anni fa impiegava forse una settimana, doveva attraversare valichi, rischiare di imbattersi in qualche agguato nelle montagne, spendeva un patrimonio, e arrivava fisicamente distrutto. E penso anche che le persone che avevano i mezzi per andare a Parigi o in altre città europee erano molto poche, un numero molto inferiore a quello di oggi.

Se allora ci fermassimo a questo punto del ragionamento non mi sentirei troppo a povertadisagio su questo volo mentre ripenso con un po’ di nostalgia ai giovani di vari paesi del mondo che ho appena lasciato.

In realtà, sotto questo al mio ticket si nasconde però molto di più, un ‘molto’ che facciamo fatica a vedere, anche perché abbiamo smesso di farci domande profonde sul tipo di mondo che abbiamo costruito. Intanto è bene ricordare che sto viaggiando su una macchina che è uno dei principali fattori di inquinamento del nostro pianeta. È vero che tra i programmi che mi offre a bordo c’è anche la possibilità di fare una donazione per piantare alberi che riproducono esattamente quella Co2 che stiamo emettendo, chiedendo però a noi privati cittadini di farci carico di un costo sociale che questa impresa genera e non copre (se non in piccola parte). Ma poi penso a tutti quei cittadini che ho appena incrociato nella metro, che su questi aerei non saliranno mai, o troppo poco. Che ci salgono oggi meno di ieri, perché anche se i ticket costano relativamente meno oggi di dieci anni fa, le diseguaglianze sono aumentate, e oggi il 10% più povero in Europa ha peggiorato le sue condizioni di vita, e continua a peggiorarle. Per non dire dei miliardi di abitanti dell’Africa, dell’Asia, di molte regioni del sud America, che non solo non volano, ma vedono aggravarsi le condizioni dei loro ambienti a causa dei voli del 20% più ricco del pianeta. Eppure anche loro, soprattutto loro, avrebbero bisogno di volare, di conoscere il mondo, avrebbero più bisogno di noi, più di me, di volare e di sognare. Ma – e questo è un aspetto di cui non si parla – se solo il 50% di coloro che oggi sono esclusi e intrappolati nelle periferie esistenziali del mondo iniziasse a volare nei cieli, il pianeta non riuscirebbe a sostenerci, e dovremmo scendere tutti a terra. Il messaggio triste che ci cela sotto questo volo aereo è molto semplice e non dovrebbe lasciarci viaggiare in pace: l’esclusione da questo benessere di una metà di abitanti del pienata è la condizione perché noi possiamo volare. Ecco perché il vero rischio sistemico della nostra epoca è che i tanti costretti a restare a terra un giorno smettano di guardare pacificamente il cielo dove volano solo gli altri.

E così, mentre ormai stiamo atterrando, torno con cuore e con la mente all’Economia di Comunione, a quei giovani pieni di speranze, e mi riconvinco che se esiste un sistema economico-sociale post-capitalistico dove tutti possano sognare e volare, questo nuovo sistema dovrà avere a che fare con la parola comunione. Ma non lo realizzeremo mai se oggi, mentre voliamo e non voliamo, smettiamo di cercarla, di pensarla, di amarla, di crederci.

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Tornando  a casa,  sognando  la comunione  anche per  quella metà  abbondante  del  mondo  che su un aereo non metterà mai piede

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.17/2014 del 10/09/2014

Capitalismo in volo ridTornando da Parigi da una scuola estiva sull’Economia di Comunione, volando sui cieli d’Europa penso al nostro capitalismo. Forse perché in Francia è appena cambiato il ministro dell’economia, forse perché ho appena salutato cinquanta giovani affascinati da un’economia più fraterna e inclusiva, o perché il cuore va ai troppi aerei sbagliati che volano sulle tante terre martoriate dalle guerre, non posso comunque non pensare alla nostra economia di mercato, alle nostre crisi, ai tanti africani e magrebini che ho visto nelle metropolitane parigine e nelle sue periferie esistenziali, economiche e culturali.  

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Il capitalismo in volo

Il capitalismo in volo

Tornando  a casa,  sognando  la comunione  anche per  quella metà  abbondante  del  mondo  che su un aereo non metterà mai piede di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.17/2014 del 10/09/2014 Tornando da Parigi da una scuola estiva sull’Economia di Comunione, volando sui cieli d’Europa penso...
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Il rapporto ISTAT svela un’Italia in grave difficoltà. Bisogna ridarle speranza con una nuova primavera spirituale ed etica

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.12/2014 del 25/06/2014

Lavoro ridIl quadro del rapporto Istat non è felice, e ci vuole molta speranza civile (grande virtù di questi tempi difficili) per non scoraggiarsi e continuare la lotta.

Il primo messaggio di questi ‘numeri’ riguarda il lavoro e la disoccupazione. Siamo al livello più alto dal 1977, gli anni del terrorismo e delle brigate rosse. Il tasso medio nazionale è il 13.6, ma deve farci ancora più paura quando vediamo che per i giovani ha raggiunto il 46%, e al Sud al 60.9%. Non siamo più capaci di creare lavoro per i nostri giovani. Avremmo messaggi ancora più preoccupanti se guardassimo dentro i dati di chi il lavoro ce l’ha, e ci accorgeremmo che la crisi ha ridotto i diritti effettivi dei lavoratori, e che molti devono fare lavori che non amano.

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Quando le crisi toccano i nostri livelli, aumenta molto quella forma di sofferenza che nasce dal dover fare lavori che non corrispondono alla nostra ‘vocazione’ (e ai nostri studi) pur di non ‘morire’ e non far morire i nostri figli – nel rapporto Istat non ci sono questi indicatori, ma noi lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno.

Guardando meglio ci accorgiamo poi che il tasso di disoccupazione delle donne è in media maggiore di due punti e mezzo di quello degli uomini: a livello nazionale raggiunge il 20% e al Sud ha superato il 22%. Tutti questi dati sono peggiorati in questi ultimi cinque anni, il che ci dice che questa crisi ha colpito di più le donne. Molte di loro che avevano tentato di coniugare lavoro e famiglia sono dovute tornare a casa – altro dolore, non contabilizzato, ma realissimo. Parla molto al femminile anche il capitolo demografico del rapporto. In questi ultimi cinque anni le donne in Italia (e in Europa) fanno meno figli (1.42 per donna), li fanno sempre più tardi, e ne fanno meno al Sud dove lavorano meno – occorre sfatare una volta per tutte l’idea diffusa che le famiglie non mettono al mondo figli perché le donne lavorano: dove le donne non lavorano quando vorrebbero lavorare abbiamo meno figli, meno felicità, più depressione. Le famiglie con figli sono oggi 320.000 in meno rispetto a cinque anni fa (2002-2007), e soltanto il 38% del totale delle famiglie. Il Rapporto stima che nei prossimi trent’anni la quantità di anziani che 100 giovani dovranno sostenere sarà più del doppio dell’attuale (da 123 a 278). Sono dati troppo seri per non prenderli sul serio. Che fare allora? Dobbiamo, e possiamo, aumentare i servizi alle famiglie giovani (anche qui il divario tra Nord e Sud è molto, troppo, grande), ma senza una nuova primavera spirituale ed etica, che ridoni ai nostri giovani la voglia di futuro e di vita, sarà durissima invertire questa tendenza al vero declino.

Nel 2013 il 19.4% erano sotto la soglia di povertà (contro il 17% media europea a 28 paesi), e le famiglie in grave deprivazione sono passate dal 6.8% (del 2007) al 12.5, un’impennata impressionante. Colpisce anche notare che il 18.4% delle famiglie ha più di cinque componenti. Il sistema politico, però, ha ancora paura della famiglia: stiamo chiedendo e sperando che il Governo estenda alle famiglie monoreddito il bonus delle 80 euro, perché era troppo difficile, in Italia, capire che se lavora un solo coniuge e guadagna 2000 euro al mese e ha 3 figli piccoli, quella famiglia è in maggiore difficoltà di una coppia senza figli dove ciascuno guadagna 1500 euro (più bonus). Conti troppo difficili se continuiamo a non vedere la famiglia ma solo i singoli individui. La famiglia comunque soffre, ma non molla, e non ci fa affondare.

Buone notizie vengono dall’economia sociale e civile (da quello che chiamiamo ancora, sbagliando, settore ‘non profit’). Negli ultimi dieci anni è il settore più dinamico: 28% in più di imprese, e i lavoratori sono aumentati del 39.4%. Certo, questo aumento è una risposta ad un mondo con più solitudini e fragilità, ma è anche un segnale che ci dice che oggi e domani sarà la cura – nelle sue tante vecchie e nuove professioni - un grande luogo di creazione di nuovo lavoro.

Un’altra buona notizia viene dalla longevità. L’Italia è tra i paesi dove un bambino che nasce ha la più alta speranza di vita: 79.6 anni per gli uomini e 84.4 per le donne. Le donne, però, invecchiano più sole. L’11% delle persone sole (che sono 7.5 milioni) ha più di 85 anni, e il 62% delle donne anziane invecchia sola. Molte di queste donne, non dimentichiamolo, aveva speso gli anni migliori ad accudire e accompagnare padri, mamme, figli, zie e nonni.  

Infine un dato che dovrebbe farci riflettere molto. 370.000 famiglie sono formate da due o più nuclei familiari, e negli ultimi cinque anni le  persone che vivono in questi famiglie multi-nucleo sono aumentate di 438.000 unità. Si tratta di genitori che ri-accolgono figli dopo separazioni, divorzi, emancipazioni non riuscite, o parenti che, per ragioni economiche, si mettono a vivere insieme. Nelle nostre case aumentano celibi, nubili, separati, divorziati, soprattutto persone con meno di 34 anni, e soprattutto donne. Questi giovani che tornano a casa non sono ‘figlioli prodighi’ che hanno divorato i beni dei genitori; sono figlie e figli, spesso fragili, che non ce l’hanno fatta a metter su la famiglia che sognavano. Ma, anche oggi come nel Vangelo di Luca, le nostre famiglie forse non fanno sempre festa, ma sempre li accolgono, ri-arredano le camere, ritirano fuori i letti di qualche anno prima. E ricominciano a lottare e a sperare, insieme.

 

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Il rapporto ISTAT svela un’Italia in grave difficoltà. Bisogna ridarle speranza con una nuova primavera spirituale ed etica

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.12/2014 del 25/06/2014

Lavoro ridIl quadro del rapporto Istat non è felice, e ci vuole molta speranza civile (grande virtù di questi tempi difficili) per non scoraggiarsi e continuare la lotta.

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La dura realtà della disoccupazione

La dura realtà della disoccupazione

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L’indicatore del prodotto interno lordo non è il solo segnale del benessere di un paese

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2014 del 25/05/2014

operai al lavoro 03Stando a quanto dicono i media, il principale obiettivo della nostra politica economica è riportare il Pil  in zona positiva. Rilanciare la crescita. Troppi pochi, purtroppo, formulano invece una semplice domanda: siamo sicuri che  aumentare il Pil, o la crescita, sia sempre e in ogni caso qualcosa di positivo e auspicabile? Il tasso di crescita del  Pil dice troppo poco sul benessere, sulla qualità della vita, sulla democrazia, sui diritti e la libertà di una nazione. È sempre stato così, e i grandi economisti lo sapevano, e lo sanno. Ma nella nostra società la capacità di “parlare” del Pil si è ulteriormente indebolita, sebbene i dibattiti pubblici non lo sappiano, o facciano finta di non saperlo.

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 Nella società del XIX e XX secolo, dove l’economia produceva soprattutto merci e dove la gran parte dell’umanità mancava di molte cose necessarie per una vita decente, aumentare la produzione industriale e in  genere il reddito delle famiglie era direttamente cosa buona; i beni diventavano facilmente ben-essere.

Ma oggi, nelle nostre società dei consumi, che cosa dice, sul benessere delle persone, l’aumento della produzione  e del consumo di telefonini e di divani? È diventato molto più complicato passare dall’aumento dei consumi di  beni all’aumento del ben-essere. Ciò che il Pil indicava ieri, e oggi sempre meno, erano almeno i posti di lavoro: a oggi con la forte meccanizzazione e informatizzazione dell’economia, non ci sono più garanzie che l’aumento del  Pil porti anche all’aumento dell’occupazione, perché se il Pil aumenta grazie a imprese molto robotizzate che vendono per l’export, la crescita economica può portare, e porta già, decrescita di lavoro.

Duecento anni fa, gli economisti scelsero per le merci la parola “beni”, prendendola in prestito dalla filosofi a morale: le merci dell’economia sono cose buone, cioè beni, perché possederli aumentava il bene personale e il  bene comune. Oggi quel significato morale è andato totalmente perso, e chiamiamo ancora “bene” il pane, ma chiamiamo “beni” anche la pornografia, le mine anti-uomo i gratta e vinci e il gioco d’azzardo, purché passino per il mercato. Al punto che in Polonia si parla di voler conteggiare nel Pil anche “beni” che non passano neanche per il mercato, quali la prostituzione e le varie attività illegali.

L’industria dell’azzardo, molto fiorente in Italia (che è la terza economia al mondo in questo settore indecente), è  in forte crescita, e quindi sta contribuendo a rilanciare il Pil, e in questo anche posti di lavoro. Possiamo allora  essere contenti di questa crescita, e magari incentivarla con la pubblicità, come stiamo facendo sempre più? In  realtà dobbiamo dire a voce alta che questo Pil non è cosa buona, anzi è cosa cattiva, molto cattiva. E dobbiamo  dire che questi posti di lavoro non sono una cosa buona, e dobbiamo far di tutto per ridurli.

Ieri come oggi non tutti i posti di lavoro sono stati e sono cosa buona. Ci sono sempre stati lavori sbagliati, che la gente faceva, e fa, pur di non morire. Ma questo non deve impedire di distinguere il grano dalla zizzania, e poi far di tutto perché aumentino i lavori decenti e buoni e diminuiscano quelli sbagliati.

Non dobbiamo dimenticare che con l’abolizione della schiavitù in Europa e in America abbiamo perso migliaia di posti di lavoro, ma dopo pochi decenni abbiamo creato le rivoluzione industriali e tecniche proprio perché era  venuta meno la schiavitù (lavoro a costo zero).

I nostri nonni e genitori hanno lavorato nel Nord Europa in miniere, e poi tanti sono morti di silicosi per non  morire di fame qualche decennio prima. Ma siamo riusciti, con la forza delle idee e del movimento dei lavoratori,  a chiudere quei lavori e ad inventarne di migliori. In Italia e in altri Paesi europei abbiamo però perso la capacità  di produrre buoni nuovi lavori, e così stanno tornando i cattivi lavori che pensavamo di aver sconfitto per sempre.

Stanno aumentando i lavoratori nelle sale bingo, nelle video-lottery, nelle sale slot (oltre 150 mila contando solo  quelli ufficiali), nella pornografia, nel mondo delle tante prostituzioni e abusi. Sta di nuovo aumentando, e di  molto, il consumo di tabacco tra i giovani (anche perché abbiamo mollato la prevenzione nelle scuole), e di alcol,  e il consumo di televisione, dopo un calo tra anni Novanta e inizio di millennio, da qualche anno è di nuovo  aumentato tornando al livello altissimo degli anni Ottanta. Tutto Pil, tutta crescita, dicono in molti. Tutta tristezza,  solitudine, e “disumanesimo”, dicono altri, ma ancora siamo in troppo pochi. La democrazia è stata per secoli una  “distruzione creatrice” che ha fatto morire attività e lavori sbagliati per farne nascere di migliori al loro posto.

In questa cruciale fase di passaggio dell’Italia e dell’Europa, c’è un estremo bisogno di alzare il livello dei dibattiti  pubblici e di riporre al centro la qualità morale del nostro sistema economico.

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L’indicatore del prodotto interno lordo non è il solo segnale del benessere di un paese

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2014 del 25/05/2014

operai al lavoro 03Stando a quanto dicono i media, il principale obiettivo della nostra politica economica è riportare il Pil  in zona positiva. Rilanciare la crescita. Troppi pochi, purtroppo, formulano invece una semplice domanda: siamo sicuri che  aumentare il Pil, o la crescita, sia sempre e in ogni caso qualcosa di positivo e auspicabile? Il tasso di crescita del  Pil dice troppo poco sul benessere, sulla qualità della vita, sulla democrazia, sui diritti e la libertà di una nazione. È sempre stato così, e i grandi economisti lo sapevano, e lo sanno. Ma nella nostra società la capacità di “parlare” del Pil si è ulteriormente indebolita, sebbene i dibattiti pubblici non lo sappiano, o facciano finta di non saperlo.

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Pil e qualità della vita

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Politica ed economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.6/2014 del 25/03/2014

DavosAccanto ad una profonda crisi economica l’era della globalizzazione sta rivelando sempre più una profonda crisi anche della  politica. La politica, lo  sappiamo, ha tra i suoi scopi principali quello di fare sintesi dopo l’analisi, arrivare all’uno dopo il molteplice.

Nel Novecento la democrazia aveva funzionato proprio su questa dinamica, che però era fondata su un mondo relativamente “semplice”: bastava che i politici conoscessero elementi fondamentali del  diritto, dell’economia, della scuola ecc., per poi tentare la sintesi.

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Qualche decennio fa un particolare della vita della società, l’economia e la finanza, si è complessificato ed è uscito fuori dal controllo degli  ambiti e degli strumenti dello  Stato. Una dimensione del “molteplice” non era più controllabile e gestibile in vista del bene comune.

Ecco allora che di fronte a questo vuoto che si è creato, la politica ha iniziato ad appaltare fette crescenti di scelte a chi controllava quel pezzo di vita in  comune che diventava giorno dopo giorno più complesso e più importante a causa della  globalizzazione dei mercati.

Quindi tecnici, economisti, analisti, esperti hanno via via occupato non i Parlamenti  ma  i luoghi delle vere decisioni che si allontanavano e si allontanano sempre più dai luoghi tradizionali della democrazia e dagli Stati nazionali.

Dovremmo allora capire che il potere che i nostri governanti hanno di mantenere le loro promesse è inevitabilmente molto scarso, anche se tutti noi, politici in primis, facciamo fatica a prenderne coscienza. Che fare allora? Anzitutto dovremmo allargare lo sguardo e sapere che i luoghi dove investire di più sono l’Europa e le istituzioni internazionali dando ora un grande peso alle elezioni europee. Poi studiare di più economia e finanza, da parte di giovani e adulti, dando vita a una stagione di alfabetizzazione economico-finanziaria seria (a questo proposito sarebbe da imitare la neonata “Scuola popolare” di Catania). Senza una maggiore comprensione delle nuove dinamiche  economiche  e  finanziarie,  perderemo  quote crescenti di libertà e di democrazia.

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Politica ed economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.6/2014 del 25/03/2014

DavosAccanto ad una profonda crisi economica l’era della globalizzazione sta rivelando sempre più una profonda crisi anche della  politica. La politica, lo  sappiamo, ha tra i suoi scopi principali quello di fare sintesi dopo l’analisi, arrivare all’uno dopo il molteplice.

Nel Novecento la democrazia aveva funzionato proprio su questa dinamica, che però era fondata su un mondo relativamente “semplice”: bastava che i politici conoscessero elementi fondamentali del  diritto, dell’economia, della scuola ecc., per poi tentare la sintesi.

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Scelte decisive appaltate ad altri

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Editoriali - Lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.1/2014 del 10/01/2014

Operaio al lavoro 1Una  delle  costanti  che  si  ritrovano  nei passaggi  epocali  è  l’invecchiamento  velocissimo di parole che erano state centrali nell’epoca  precedente.  

Sono  state  alcune  parole grandi (democrazia, pace, libertà, diritti) che ci hanno consentito di trasformare le macerie fratricide delle guerre in quel progetto e sogno dell’Europa che oggi fa scendere  i  giovani  ucraini  nelle  piazze,  invocandola  e  cantandola.

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Oggi ci servono parole nuove capaci di dar vita a nuovi progetti collettivi, sogni comuni, felicità pubblica, altrimenti non saremo neanche capaci di custodire quelle grandi parole e conquiste delle generazioni passate.

La nostra cultura e i nostri sogni sono sempre più colonizzati da parole piccole (consumo, piacere, centri benessere…), introdotte a scopo di lucro, che ci deludono presto.

C’è una parola però che è ancora capace di trasformare le nostre macerie in nuove città. Questa parola è lavoro, che deve e può diventare l’inizio di un nuovo discorso comune necessario. Sono state le virtù civili e spirituali delle generazioni  del  dopoguerra,  la  loro  capacità  di  resistere alle avversità e alla sofferenza, la loro interiorità irrorata dalla fede semplice e tenace, che hanno trasformato milioni di contadine e contadini semi-servi in lavoratori delle fabbriche e degli uffici.
Il lavoro non si inventa, fiorisce se e quando esistono terreni fertili. Sono questi terreni che si  sono  inariditi,  perché  non  abbiamo  vissuto  la  cultura della custodia. E così sono incapaci di fiorire in lavoro.

Ci siamo collettivamente dimenticati il grande dolore e il grande amore che avevano generato quei lavori che la mia generazione trovava pronti dopo gli studi, e che oggi i nostri giovani non trovano più. Se vogliamo nuovo lavoro, se vogliamo quindi salvarci, dobbiamo metterci a ricoltivare i terreni civili, morali, spirituali, che oggi versano in un grave stato di abbandono.

Chi oggi ama veramente il Bene comune – in primo luogo i carismi – deve dare vita ad una grande e nuova alleanza per il lavoro, a tutti i livelli. Il nuovo lavoro e il nuovo pane rinasceranno se ritroveremo la gioia di stare insieme e dei grandi progetti comuni, se sapremo rincontrarci in cerca di felicità pubblica. Come ieri, come sempre.

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Editoriali - Lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.1/2014 del 10/01/2014

Operaio al lavoro 1Una  delle  costanti  che  si  ritrovano  nei passaggi  epocali  è  l’invecchiamento  velocissimo di parole che erano state centrali nell’epoca  precedente.  

Sono  state  alcune  parole grandi (democrazia, pace, libertà, diritti) che ci hanno consentito di trasformare le macerie fratricide delle guerre in quel progetto e sogno dell’Europa che oggi fa scendere  i  giovani  ucraini  nelle  piazze,  invocandola  e  cantandola.

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In cerca di felicità pubblica

In cerca di felicità pubblica

Editoriali - Lavoro di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.1/2014 del 10/01/2014 Una  delle  costanti  che  si  ritrovano  nei passaggi  epocali  è  l’invecchiamento  velocissimo di parole che erano state centrali nell’epoca  precedente...
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Dallo Speciale di Città Nuova con il commento ai vari capitoli dell'esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii Gaudium, Luigino Bruni commenta gli articoli 53-60

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it  l'8/12/2013

Borsa Tokio ridUn mercato che esclude nega la sua vocazione etica e la sua storia: richiamarlo all'inclusione e alla comunione è una grande operazione di carità civile a vantaggio di tutti.

Papa Francesco coglie nel segno quando stigmatizza la nostra economia come una economia dell'esclusione. È forte, infatti, la tendenza a trasformare i beni comuni in beni di club, dove la differenza tra i due è proprio nell'esclusione.

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I beni comuni – dalla terra all'acqua – sono tali proprio perché non possono essere esclusi a nessuno, perché sono beni di tutti. La crescente cultura della privatizzazione, invece, non fa altro che togliere beni comuni e bene comune alla gente, soprattutto ai poveri, che dovrebbero avere almeno i beni comuni, non riuscendo ad avere beni privati quali reddito e consumo.

Una cultura dell'esclusione che si estende anche al grande tema del lavoro: il lavoro, se è solo un costo di produzione, un capitale o un fattore produttivo, può essere sostituito da qualsiasi macchina o algoritmo meno costosi. La perfetta sostituibilità tra lavoro e capitali è una grande malattia del nostro tempo.

Va poi notato che l'esclusione dei poveri non è la fisiologia dei mercati, ne è una malattia grave. L'economia di mercato, che, non dimentichiamolo, fu inventata e pensata dalla scuola di Francesco (d'Assisi) nel Medioevo, ha acquisito la sua legittimità etica proprio per la sua capacità di includere gli esclusi. Non è, come dice il papa, la «ricaduta favorevole» (54) – l'idea liberista che quando sale la marea tutte le barche si sollevano, anche le più piccole: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri –, il principale effetto positivo dell'esistenza di una economia di mercato; è piuttosto l'inclusione produttiva. Pensiamo a che cosa sono state le fabbriche nel secolo scorso in Italia e in tutta Europa: milioni di contadini, spesso servi della gleba senza diritti e senza stipendio, che entravano in fabbrica, si organizzavano in sindacati, nascevano i diritti. Quando i nostri nonni ricevettero una tuta e la prima busta paga, con quella tuta e quella busta iniziava una nuova fase della civiltà, e della dignità loro e della loro famiglia.

Questa inclusione produttiva, poi, è stata massima nel movimento cooperativo, che è stato, e in molte parti del mondo è ancora, un grande movimento civile e democratico proprio perché il mercato e l'imprese erano luoghi di inclusione, dei poveri soprattutto. La stessa inclusione produttiva operata oggi dal microcredito, e da tanta economia equa e inclusiva. Ecco perché insieme al “no” all'economia dell'esclusione, oggi è necessario dire un “sì” all'economia dell'inclusione, all'economia civile e sociale, ad una economia di comunione (CV, 46). Un mercato che esclude nega la sua vocazione etica e la sua storia: richiamarlo all'inclusione e alla comunione è una grande operazione di carità civile a vantaggio di tutti.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova.it  l'8/12/2013

Borsa Tokio ridUn mercato che esclude nega la sua vocazione etica e la sua storia: richiamarlo all'inclusione e alla comunione è una grande operazione di carità civile a vantaggio di tutti.

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L'economia dell’esclusione

L'economia dell’esclusione

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Capitalismo paradossale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 17/2013, 10/09/2013

Slot machineC’è una ideologia molto pericolosa che sta guadagnando  progressivamente  terreno nel  nostro  sistema  socio-economico.  È  l’idea  che per finanziare le attività sociali (o il “no profit”) occorra utilizzare parte dei proventi di imprese che gestiscono attività socialmente dannose, tra le quali il gioco d’azzardo.

Oggi, per limitarci alla sola Italia, le imprese del gioco d’azzardo devono destinare, per legge, milioni di euro dei loro miliardi di profitti ad associazioni culturali, di assistenza, scientifiche, e molte importanti fondazioni dipendono quasi interamente da questi denari. Tra le associazioni finanziate dai giochi ci sono quelle che lavorano per il recupero dei giocatori d’azzardo patologici: i carnefici che finanziano, con l’1 per cento dei profitti, la “cura” delle loro vittime.

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 E così è ormai normale vedere scritto sui “gratta e vinci” che una parte delle entrate andrà a finanziare fondazioni per la cura dei bambini ed altre attività benemerite, e così mentre si gioca, e spesso ci si rovina, ci si sente anche un po’ buoni.

Ma queste imprese hanno come unico e razionale obiettivo massimizzare i profitti, quindi aumentare i vizi della gente, non ridurli. Non vogliono che si “giochi il giusto”, perché più si esagera nel gioco più profitti fanno.

Dobbiamo  protestare  contro  questo  capitalismo  del “ricco epulone” che lascia le briciole ai “lazzari” che lui  stesso  ha  affamato.  È  questo  il  capitalismo  che stiamo generando, anche in Europa, che invece avrebbe  un’altra  idea  di  economia  di  mercato,  dove  questi intrecci  ipocriti  non  dovrebbero  esistere.  Una  società decente dovrebbe usare le tasse che vengono da simili attività immorali per discariche, inceneritori e nuove fogne, e non far neanche sfiorare i malati e i bambini da questo denaro sporco. E queste tasse dovrebbero essere aumentate, e non condonate, come invece i nostri governi  continuano  immoralmente  a  fare.  

Altrimenti questa ideologia si allargherà e domani vedremo azioni filantropiche associate alla pornografia o al commercio delle armi. Dai vizi nascono solo altri vizi, mai le virtù, e i soldi che nascono dai vizi sono soldi sbagliati, anche perché quasi sempre nascono dai poveri. È ora di dirlo insieme, e con più forza.

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Capitalismo paradossale

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L’azzardo cura le sue vittime

L’azzardo cura le sue vittime

Capitalismo paradossale di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 17/2013, 10/09/2013 C’è una ideologia molto pericolosa che sta guadagnando  progressivamente  terreno nel  nostro  sistema  socio-economico.  È  l’idea  che per finanziare le attivit...
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Rilancio economico

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15/16, 10-25/08/2013

Borsa Francoforte ridIn questa fase in cui l’Italia e buona parte dei Paesi dell’Europa del Sud stanno cercando di trovare vie di uscita possibili alla loro crisi economica e civile, può essere utile ricordare due princìpi-messaggi che sono alla base della scienza economica moderna. E ci provengono proprio da colui che  è  considerato  il  capostipite  degli  economisti moderni, lo scozzese Adam Smith, spesso evocato, erroneamente,  come  il  paladino del capitalismo speculativo.

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 Quei princìpi li troviamo nella prima frase del suo trattato La ricchezza delle nazioni (1776): «Il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui essa trae tutte le cose necessarie e utili per la vita». Il primo messaggio di questa frase riguarda il lavoro: la ricchezza di un Paese è data da quanto lavoro riesce a generare. La misura della  vera  ricchezza di un Paese è il lavoro, e quando la “ricchezza” non nasce dal lavoro ma da scommesse o speculazione non è  buona  e  nasconde  qualche  bluff, che prima o poi si rivela e ci chiede il conto, mai soltanto economico. Quella frase eredita un’antica tradizione di pensiero e fa comprendere la gravità della disoccupazione, soprattutto quando raggiunge i livelli innaturali di questi anni.

Il  secondo  messaggio  è  nell’aggettivo  “annuale”.  La ricchezza di una nazione non è data dai patrimoni, dai tesori, dalle terre, dai mari, e dalle risorse che ha in dotazione, ma dalla capacità di un popolo di trasformare, grazie prima di tutto al lavoro della sua gente, quelle ricchezze e risorse in reddito, cioè in flussi annuali. Sono in molti ad evocare le grandi risorse – artistiche, culturali, paesaggistiche … – del nostro Paese, per ripartire. Ma le risorse e i patrimoni da soli non bastano: il problema cruciale è interno al processo di trasformazione dei nostri patrimoni (cioè il dono dei padri: patres-munus) in lavoro e quindi in vera ricchezza per tanti.

I patrimoni generano buon reddito quando un popolo sa creare sinergie tra tutte le sue componenti. Quando ciò non accade, una generazione deteriora e deprezza i suoi  patrimoni, non crea ma distrugge lavoro, e così diventa ingrata verso i suoi padri e irresponsabile verso i figli.

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Rilancio economico

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.15/16, 10-25/08/2013

Borsa Francoforte ridIn questa fase in cui l’Italia e buona parte dei Paesi dell’Europa del Sud stanno cercando di trovare vie di uscita possibili alla loro crisi economica e civile, può essere utile ricordare due princìpi-messaggi che sono alla base della scienza economica moderna. E ci provengono proprio da colui che  è  considerato  il  capostipite  degli  economisti moderni, lo scozzese Adam Smith, spesso evocato, erroneamente,  come  il  paladino del capitalismo speculativo.

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Più il lavoro del patrimonio

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Gli Editoriali di Città Nuova - Economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2013 del 25/05/2013

Giuramento ippocrate ridUna delle lezioni che dovremmo trarre da questa  crisi,  che  si  prospetta  sempre  più seria e lunga, riguarda le professioni economiche. In medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto  “Giuramento  di  Ippocrate”,  che  viene  prestato  dai medici e odontoiatri prima di iniziare la loro professione.

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 Perché non prevedere qualcosa di simile anche per tutte le professioni economiche, non solo per i manager (per i quali se ne parla già da un po’), ma anche per commercialisti, consulenti, economisti, amministratori, bancari? Lo si potrebbe intitolare a un illustre economista del passato (Adam Smith o Antonio Genovesi, ad esempio), e creare dei momenti pubblici simbolici (al momento della consegna della laurea, dell’iscrizione all’albo, o della firma del primo contratto di lavoro).

Il  giuramento  è  una  forma  di  patto,  che  quindi  utilizza registri e linguaggi più potenti di quelli dei soli contratti. Nel moderno “Giuramento di Ippocrate”, il medico si
impegna, in quella che chiamano «alleanza terapeutica», a difendere la vita, di non compiere mai atti idonei a «promuovere la morte di una persona», di fondare i rapporti di
cura sulla «fi ducia e sulla reciproca informazione», e molto altro ancora. Un giuramento per le professioni economiche dovrebbe comprendere almeno i seguenti punti:

«1. Non userò mai a mio vantaggio e contro gli altri le maggiori informazioni di cui disporrò. 2. Guarderò al mercato come un insieme di opportunità per crescere insieme,
e non ad una lotta. 3. Non tratterò mai i lavoratori solo come un costo, come un capitale, una risorsa, al pari degli altri costi, capitali e risorse dell’economia. I lavoratori sono prima di tutto persone». E altro ancora. Certo, lo sappiamo, non bastano i giuramenti per fare un buon medico o un buon commercialista; ma, se i simboli e le “liturgie” sono curati e pensati, possono aiutare a creare una mentalità,  una  cultura  soprattutto  per  i  nuovi  professionisti.

Nella nostra società di mercato il peso delle scelte economiche nella vita della gente è crescente: si muore per una cura sbagliata, ma anche, lo stiamo tragicamente vedendo,
per un licenziamento sbagliato o per un mutuo sbagliato. L’etica economica è un bene di prima necessità.

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Gli Editoriali di Città Nuova - Economia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2013 del 25/05/2013

Giuramento ippocrate ridUna delle lezioni che dovremmo trarre da questa  crisi,  che  si  prospetta  sempre  più seria e lunga, riguarda le professioni economiche. In medicina da tempi remoti esiste il cosiddetto  “Giuramento  di  Ippocrate”,  che  viene  prestato  dai medici e odontoiatri prima di iniziare la loro professione.

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Il “Giuramento di Genovesi”

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Economia e disoccupazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.8/2013 del 25/04/2013

DisoccupatiÈ  passato  poco  tempo  da  quando  Le  Monde  (2 aprile)  ha  riportato  la  notizia  di  un appello  di un  gruppo  di  studenti  di  economia  (pepseco.wordpress.com) per un insegnamento pluralista della economia nelle scuole e università. Lamentano la presenza di un pensiero unico e la mancanza di una prospettiva storica che darebbe, di per sé, una idea di scienza economica plurale e complessa, nella quale coesistono più visioni, filosofie, visioni dell’uomo.

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 Un po’ di storia, non solo in Francia ma in tutto il mondo e da noi, farebbe scoprire, ad esempio, che è esistito un grande economista di nome John M. Keynes che di fronte alla crisi del ’29 elaborò una teoria alternativa a quella del suo (e nostro) tempo. Dimostrò che per uscire da trappole depressive – si parlava a suo tempo di “grande  depressione”  –  e  di  pessimismo  generalizzato,  c’era bisogno di interventi esterni al mercato che sbloccassero lo stallo. Il principale elemento che serve nelle gravi crisi  è  la  fiducia,  soprattutto  quella  di  sistema:  credere seriamente che non si è da soli e che le istituzioni sono con noi, tra le quali lo Stato e oggi l’Europa.

Ed  è  proprio  questa  fiducia  che  manca  oggi  al  nostro mondo  del  lavoro  e  agli  imprenditori.  Sono  sfiduciati perché vedono che oltre alle gravi difficoltà dei mercati e del fatturato, le istituzioni e la società civile sono distanti e non raramente ostili. Si sentono trattati come evasori (quando faremo una petizione per abolire quegli spot sul “parassita sociale”? Non converte nessuno e crea inimicizia sociale), vessati, confusi con speculatori e faccendieri, e sopratutto non stimati.

Senza stima e amicizia civile e reciproca non si ricrea fiducia,  non  si  crea  nuovo  sviluppo,  non  si  crea  nuovo lavoro. Quel milione di licenziati di quest’anno, un numero pazzesco che non dovrebbe darci pace, interpella le nostre coscienze e convenienze. Non creeremo nuovo lavoro senza generare nuovi imprenditori, o lasciandoli morire. Studiare meglio economia non basta, ma è necessario.

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Economia e disoccupazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.8/2013 del 25/04/2013

DisoccupatiÈ  passato  poco  tempo  da  quando  Le  Monde  (2 aprile)  ha  riportato  la  notizia  di  un appello  di un  gruppo  di  studenti  di  economia  (pepseco.wordpress.com) per un insegnamento pluralista della economia nelle scuole e università. Lamentano la presenza di un pensiero unico e la mancanza di una prospettiva storica che darebbe, di per sé, una idea di scienza economica plurale e complessa, nella quale coesistono più visioni, filosofie, visioni dell’uomo.

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Quel numero pazzesco

Quel numero pazzesco

Economia e disoccupazione di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.8/2013 del 25/04/2013 È  passato  poco  tempo  da  quando  Le  Monde  (2 aprile)  ha  riportato  la  notizia  di  un appello  di un  gruppo  ...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.5/2013, 10/03/2013

Benedetto XVI 01 ridAmore è forse la parola più abusata e logora nella nostra cultura dei consumi, della finanza e dell'edonismo. Amore è stata invece la parola che Benedetto XVI ha messo al centro della sua dottrina sociale. Deus Caritas est, la sua prima enciclica, Caritas in Veritate, l'ultima.

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E così quell’amore che la nostra civiltà ha scartato, Papa Benedetto l’ha scelta come testata d'angolo del suo edificio, della casa della Chiesa, del suo papato e della sua conclusione. L’amore della chiesa e di questo Papa si chiama charitas, una parola latina dalla lunga e complessa storia. Era usata nel linguaggio commerciale (ciò che è caro, che vale), e divenne la parola che i primi cristiani latini scelsero per tradurre agape.

Era questa parola greca che il Nuovo testamento aveva quasi inventato per poter dire una dimensione dell’amore che le altre parole greche usate in quel tempo, cioè Eros e philia (amore di amicizia), non riuscivano a rendere nella sua rivoluzionaria novità. L’agape, infatti, a differenza dell'eros, ama anche ciò che non è desiderabile, e ama anche il non amico. È amore di gratuità. Al tempo stesso l’agape non si oppone a eros e philia, ma li chiama alla loro pienezza. E’ questo un altro grande messaggio di Papa Benedetto, contenuto nella sua prima enciclica, alla cui luce va letta anche la Caritas in veritate, che ci dice che il dono non si oppone al mercato, né la gratuità al contratto. Ma occorre evitare il grave e comunissimo errore di confondere i doni con i regali, e la gratuità con il gratis (prezzo zero).

È questo amore che Benedetto XVI ha posto al centro delle sue encicliche, che non sono solo sociali ma prima antropologiche e teologiche. Solo un Papa autenticamente teologo poteva scrivere lettere autenticamente sociali. Ed economiche. Papa Ratzinger non ha solo detto che l'amore-charitas è il principio dell'autentica socialità, ha anche scritto e detto tante volte in molti modi che questo amore (e non un altro) è anche principio economico. Una rivoluzione culturale di enorme portata che si comprenderà solo in futuro.

Da economista, e da economista di comunione, non posso che dire un grande e profondo grazie a Papa Benedetto, che ponendovi a cuore la charitasha dato all'economia una dignità nuova e altissima. E proprio mentre stava esplodendo questa crisi che mostrava dell'economia il suo volto più distante dall'amore, il successore di Pietro ha richiamato l'economia, il lavoro, l'impresa, la banca, alla loro vocazione più alta e più vera, per salvarle. Tutti coloro che ogni giorno vivono lavoro ed economia come amore, e sono tanti, debbono ringraziare questo Papa teologo che ha avuto il coraggio di accostare mercato a amore, contratto a dono, giustizia a gratuità, economia a comunione.

E chiamare economia amore è il modo più bello per dire laicità, quella vera, che, sulla scia di un altro grande Benedetto, dà lo stesso valore etico all’“ora” e al “labora”, un messaggio di grande speranza in questa crisi che si mostra sempre più crisi del lavoro e dei lavoratori. Il passaggio di Benedetto XVI attraverso i territori dell'economia l'ha allora cambiata per sempre. E l'ha cambiata per tutti, anche per tutti quelli che le sue encicliche non l'hanno lette, perché magari l’abbiamo presentata con modi e linguaggi sbagliati. È anche a nome loro che ti voglio dire grazie, Papa Joseph, perché le tue parole hanno reso più degno e bello il nostro mestiere, il quotidiano, la ferialità della vita. E così hai composto un canto d'amore per l'uomo, che è fatto di pane e di sale (salario), e lo è anche quando ama, pensa, prega. Quando prega, e quando lavora.

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L'impatto delle encicliche sull'economia

L'impatto delle encicliche sull'economia

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Ripubblichiamo un breve articolo del 2011, che può offrire qualche indicazione utile per gli scenari che si apriranno dopo le elezioni

di Luigino Bruni

Cinema-Pirati-dei-CaraibiUn gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo un’offerta di accordo per ripartire il tesoro trovato, ma se non raccoglie la maggioranza dei voti (il voto del più anziano vale doppio in caso di parità) viene eliminato dagli altri quattro compagni (gettato fuori dalla nave), e sarà il secondo più anziano a fare la sua offerta di ripartizione con la stessa regola, e così via.

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Se i pirati sono razionali e auto-interessati, l’offerta ottima che il più anziano deve fare per ottenere il consenso è la seguente: offrire un solo lingotto al terzo e uno al quinto, e tenere per sé i restanti 98.

(La dimostrazione non è banale ma può essere intuita ragionando a ritroso partendo dalla fine: perché il 3° e il 5° pirata – gli unici ai quali il primo chiede il voto – dovrebbero rifiutare l’offerta? Se infatti non la accettano eliminando il primo, il “pallino” passa al secondo, che offrirà ai tre rimanenti che cosa? Offrirà 1 al quarto (il penultimo), e zero agli altri due, che sono esattamente il 3° e il 5° ai quali l’anziano aveva offerto 1: ed essendo il loro un confronto tra 1 e 0, accetteranno l’offerta del più anziano).

Questa storiella è una buona rappresentazione di come si raggiungono gli accordi tra individui razionali e auto-interessati in contesti di scelte non ripetute o tragiche, quando esiste un’asimmetria di potere tra le parti, e quando c’è qualcuno che ha il potere di fare la prima mossa, sapendo però che se non passa esce dal gioco, e il potere passa al secondo, e così via. Il messaggio che proviene da questo gioco è il seguente: non si cerca mai l’accordo con il secondo, ma con l’ultimo, se si vuole evitare di essere eliminato, pur avendo un ampio potere.

Ora, immaginiamo che i gruppi siano 5, ordinati in numero di voti ricevuti al primo turno. Che cosa consiglia in questo caso la logica di questo gioco? Il primo dei cinque, se non vuole sbagliare offerta e lasciare il campo al secondo, deve allearsi con due gruppi minori, il terzo e soprattutto il quinto, il più debole. Non deve cercare il terzo e il quarto, ma il terzo e l’ultimo, poiché il quarto non accetterebbe l’offerta, o la accetterebbe con minor probabilità rispetto a 1 e 3 (ma vorrebbe più di 1 lingotto, poiché otterrebbe almeno la stessa offerta di 1 dal secondo). Cioè le alleanze tendono a divenire: 1-3-5 da una parte, 2-4 dall’altra. 

Altri due corollari:

1.    Il primo proponente si può salvare (non venire gettato giù dalla nave, o vincere) non se offre una divisione equa (20 ciascuno), ma se offre una distribuzione fortemente iniqua: se, infatti, avesse offerto distribuzione diversa da (98, 1, 1), sarebbe stato gettato giù dalla nave da una ciurma razionale (non avrebbe trovato l’accordo, poiché i giocatori avrebbero potuto offrire al secondo turno la stessa allocazione, ma con uno in meno (25 ciascuno, 100/4), e così via.

2.    Il gioco cambia radicalmente quando i pirati sono tanti e superano una soglia. Se ad esempio con un tesoro di 100 i giocatori fossero più di 200, il primo proponente si salverebbe la vita (o eviterebbe un bagno nell’oceano) solo se propone una divisione del denaro dove non tiene niente per sé (dovrebbe dare un lingotto ad ogni pirata numerato pari, fino al 198°).

Possono queste riflessioni servire a qualcosa di pratico? Chissà!

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Ripubblichiamo un breve articolo del 2011, che può offrire qualche indicazione utile per gli scenari che si apriranno dopo le elezioni

di Luigino Bruni

Cinema-Pirati-dei-CaraibiUn gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo un’offerta di accordo per ripartire il tesoro trovato, ma se non raccoglie la maggioranza dei voti (il voto del più anziano vale doppio in caso di parità) viene eliminato dagli altri quattro compagni (gettato fuori dalla nave), e sarà il secondo più anziano a fare la sua offerta di ripartizione con la stessa regola, e così via.

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I pirati e le elezioni

I pirati e le elezioni

Ripubblichiamo un breve articolo del 2011, che può offrire qualche indicazione utile per gli scenari che si apriranno dopo le elezioni di Luigino Bruni Un gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo u...
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Uno studioso che cita Dante e capovolge il pensiero dominante. Intervista esclusiva con il Premio Nobel.

a cura di Luigino Bruni

Pubblicato su Città Nuova n.3/2013 il 10/02/2012

Sen_YunusPer capire chi è Amartya Sen, un buon punto di partenza sono le ultime parole del suo libro del 2010, L’idea di giustizia (Mondadori): «La filosofia può esercitarsi con esiti di straordinario interesse su una varietà di questioni che non hanno nulla a che fare con le miserie, le iniquità e la mancanza di libertà che affliggono la vita umana.

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La filosofia, però, può anche contribuire a dare maggiore rilevanza alle riflessioni sui valori e sulle priorità, nonché a quelle sulle privazioni, le angherie e le umiliazioni cui in tutto il mondo gli esseri umani sono soggetti». Sen è soprattutto per il secondo esercizio della filosofia, e dell’economia, e chiunque oggi voglia fare altrettanto, deve incontrare il magistero di Sen su questi e altri temi. 

Sen (ottant’anni) è uno degli intellettuali globali più influenti oggi in circolazione, ed è anche un grande economista (premio Nobel nel 1998), perché è più grande della scienza economica, incarnando così con la sua vita e opera una frase cara a molti economisti del passato: «Un economista che è solo economista è un cattivo economista».

Sen è stato uno studioso che non solo ha portato contributi rilevanti in temi classici dell’economia e ormai della filosofi a politica, rispondendo meglio ad alcune domande di sempre su povertà, diseguaglianza, scelte collettive. Sen ha anche cambiato le domande della scienza economica
inserendo fra i temi di cui anche l’economia deve occuparsi il tema dei diritti, della libertà e quindi delle ormai note capabilities (la reale capacità di fare ed essere). Da queste nuove e antiche domande, Sen è arrivato ad occuparsi di well-being (ben-essere), altra sua parola chiave, un concetto che egli ha voluto distinguere da happiness (felicità).

Per Sen il well-being si misura sulla base di che cosa una persona fa, non di quanto sente (happiness): quindi è faccenda di libertà, diritti, capacità e funzionamenti. Per capire, allora, il messaggio di Sen occorre accostare la sua opera, molto vasta, ai classici del pensiero, Adam Smith, J.S. Mill, Karl Marx, o J.M. Keynes; economisti che avevano posto al centro delle loro riflessioni i grandi temi dello sviluppo, la ricchezza delle nazioni e la pubblica felicità, e quindi il grande tema della distribuzione del reddito, della povertà e della ricchezza, la disuguaglianza e l’equità.

Nomi che si incontrano sempre nei testi e nelle lezioni di Sen, compresa l’ultima tenuta a Roma il 18 gennaio 2013, in occasione del Festival
delle scienze, quest’anno dedicato alla “Felicità”, dove ha parlato di felicità, diseguaglianza, Europa.

Sen ha parlato di happiness, in particolare, all’interno di un ricco dibattito che va avanti da almeno 40 anni. L’economista indiano ha iniziato ad occuparsi di benessere, o well-being, come ama dire, all’inizio degli anni Ottanta. Il periodo in cui è iniziato il filone di ricerca sull’“Economia della felicità”: studiavano la felicità delle persone sulla base dell’ipotesi di poter misurare la felicità soggettiva grazie a dei questionari. La domanda principale nei formulari è la seguente: «Pensa alla peggiore situazione nella quale potresti trovarti: assegnale zero punti; ora pensa alla situazione migliore in assoluto, e assegnale 10. Valuta, infi ne, la tua situazione presente con un voto tra 0 e 10». Secondo tali studiosi questi numeri possono essere confrontati anche tra persone diverse e in differenti Paesi. A partire da questa forte tesi si è giunti a mostrare soprattutto che il reddito pro capite (e il Pil) conta poco, o certamente meno di quanto gli economisti pensino, nella felicità delle persone.

Sen ha, quindi, un suo modo di accostarsi al tema della felicità, e ce lo ha detto anche nella conferenza romana. Ho avuto la gioia e l’onore di introdurre Sen in questa conferenza, e di stare con lui l’intera giornata. Lo avevo conosciuto da studente, nel 1988, in un convegno a Roma, e non
l’ho più perso di vista, poiché lo considero come uno dei miei maestri di pensiero. Al Festival delle scienze abbiamo avuto modo di parlare di molte
cose, in un dialogo ricco, tra economia, politica, filosofi a e vita.

Professor Sen, lei ha una sua posizione originale riguardo gli studi sulla felicità. In generale sembra essere critico nei confronti del modo con cui oggi economisti e sociologi misurano la felicità. È così?

«Sì e no. Se per felicità, o meglio happiness, poiché il significato della parola inglese non è esattamente quello dell’italiana “felicità”, intendiamo
quanto il pensiero utilitarista di J. Bentham evidenziava con questa espressione, allora non posso che essere critico, come tutta la mia critica
all’utilitarismo di questi decenni dice. Ma dobbiamo intenderci su cosa intendiamo con happiness, e che posto occupa nella vita delle persone».

E come cambia?

«Non ci sono dubbi sul fatto che la felicità sia qualcosa di grande da ottenere. Ma non è la sola cosa per la quale abbiamo ragioni per attribuirle
valore. Il problema allora si pone quando costruiamo una teoria etica, come fanno gli utilitaristi (Bentham in particolare), basata soltanto sulla felicità, misurata come differenza tra i piaceri e le pene, una prospettiva, questa, che sta avendo un grande revival in questi ultimi anni. Questa visione ristretta del benessere basato sulla felicità (happiness) è molto problematica e pericolosa quando la usiamo per confronti tra diverse condizioni di deprivazione e miseria delle persone. In effetti, le valutazioni della propria felicità sono soggette a effetti di adattamento, poiché le persone si adattano a circostanze anche molto sfavorevoli, pur di sopravvivere. Ma la capacità di adattamento delle persone può portare a trarre conclusioni, anche di politiche sociali ed economiche, sbagliate».

Questo tema, noto come “lo schiavo felice”, è una delle costanti del pensiero di Amartya Sen sulla felicità. Andrebbe stampato e affisso alle pareti di ogni istituzione e organizzazione che si occupa di sviluppo umano o di lotta alla indigenza. Così scriveva l’economista nativo del Bengala, nel 1993: «Si prenda in considerazione una persona molto svantaggiata che sia povera, sfruttata, di cui si abusi lavorativamente e che sia malata, ma che le condizioni sociali hanno reso soddisfatta della propria sorte (per mezzo ad esempio della religione, della propaganda politica o dell’atmosfera culturale dominante). Possiamo forse credere che se la cavi bene perché è felice e soddisfatta?».

Mi sembra una critica molto importante e totalmente condivisibile. La coautrice di Sen, la filosofa Martha Nussbaum, dice che esistono delle “buone pene” e “cattivi piaceri”, come le buone sofferenze legate alle lotte per la conquista dei diritti per sé e per gli altri, o i cattivi piaceri di chi cerca nell’abusare di altre persone. Quindi il semplice criterio di massimizzare i piaceri e minimizzare le pene non dice nulla, o troppo poco, sulla qualità della vita di una comunità o società.

Il lavoro con altri economisti (Stiglitz e Fitoussi) per l’ individuazione di nuovi indicatori di benessere, che superino il Pil, si basa sulla impossibilità di affidarsi alla sola misurazione della felicità soggettiva?

«È proprio così. Infatti ho molti dubbi che la felicità individuale sia un buon indicatore del benessere (well-being) delle persone. Come detto, la metrica utilitaria basata esclusivamente sulla felicità può essere molto ingiusta nei confronti di coloro che sono sistematicamente deprivati. Ad esempio, per coloro che si trovano agli ultimi posti delle nostre società stratificate, minoranze oppresse in comunità intolleranti, e cioè i disoccupati e i precari che vivono in un mondo con grandi incertezze, lavoratori sfruttati in contesti industriali, o casalinghe sottomesse in culture sessiste. Certo, grazie alla loro capacità di adeguarsi alle condizioni di vita, riescono a sopravvivere, ma questi adattamenti distorcono le valutazioni soggettive della felicità di queste persone. Nella valutazione delle condizioni di vita e di benessere delle persone più povere della società, gli indicatori di felicità ci dicono molto meno di altri indicatori sulle condizioni oggettive di deprivazione e mancanza di libertà. Essere riconciliati e contenti con i propri svantaggi, è cosa ben diversa dal non avere questi svantaggi».

Per lei, professor Sen, in linea con Aristotele e tutta la tradizione classica dell’etica delle virtù, la “vita buona” si misura dunque sulla base di quanto la gente “fa e può fare”, non in base a che cosa “sente”. Come a dire che le moderne democrazie hanno bisogno di più indicatori di benessere (incluso il Pil), poiché qualunque riduzione ad un solo indicatore, compreso un indicatore di felicità, mette sempre in pericolo la democrazia e la libertà.

«Sì, credo che anche gli indicatori basati sulla felicità siano molto problematici, perché fanno commettere errori gravi a danno delle persone più
svantaggiate della società. E come ho avuto modo di scrivere nel mio ultimo libro, L’idea di giustizia: “Non c’è bisogno di essere Gandhy (o Martin
Luther King o Nelson Mandela o Aung San Suu Kyi) per comprendere che gli obiettivi e le priorità di una persona possono andare ben al di là
degli angusti confini del ben-essere e della felicità individuale”».

Vorrei chiudere con la frase di Dante con cui ha aperto la sua conferenza all’Auditorium della musica di Roma alla presenza di oltre 700 persone (quelli che hanno trovato i biglietti): «O gente umana, per volar su nata, perché a poco vento così cadi?» (Purgatorio, XII).

«In effetti, la domanda di Dante è molto importante. È grande il contrasto tra le grandi cose che gli esseri umani possono raggiungere, e le esistenze così povere e limitate che molti uomini e donne finiscono per vivere. Le potenzialità degli esseri umani – di condurre una vita buona, di essere contenti e felici, di essere liberi – sono molto maggiori di quanto riusciamo, concretamente a realizzare».

Se il compito dell’economista, almeno di quelli come Sen, fosse quello di studiare per contribuire a ridurre gli ostacoli oggettivi e soggettivi che ci
impediscono di esprimere al meglio le nostre potenzialità, allora fare l’economista sarebbe un buon mestiere.

 

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Amartya Sen. Cambiamo l'economia

Amartya Sen. Cambiamo l'economia

Uno studioso che cita Dante e capovolge il pensiero dominante. Intervista esclusiva con il Premio Nobel. a cura di Luigino Bruni Pubblicato su Città Nuova n.3/2013 il 10/02/2012 Per capire chi è Amartya Sen, un buon punto di partenza sono le ultime parole del suo libro del 2010, L’idea di giustiz...
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Editoriali - Finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013

Euro_ridNei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanziarie dal 15 al 20 per cento.

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Buona notizia, ma la domanda cruciale è un’altra: come mai la tassazione delle rendite è così bassa? Anche in Italia siamo attorno al 20 per cento per le rendite finanziarie, che è molto meno della tassazione del reddito d’impresa (ben oltre il 30 per cento), per non parlare del lavoro (oltre il 40 per cento). Si tassano soprattutto i lavoratori (cioè le famiglie, e il ceto medio-basso), poi gli imprenditori, e infine i percettori di rendite.

Perché? Dal punto di vista etico questa domanda non trova nessuna risposta; per cercarla dobbiamo parlare del potere. Anche se non si dice più, nelle nostre società esistono ancora le classi dominanti, che hanno il controllo delle regole del gioco, che scrivono a proprio vantaggio.

Ma c’è di più. Se guardiamo i nostri sistemi fiscali, ci accorgiamo che il vero conflitto sociale oggi non si trova più tra lavoro e capitale, tra operai e padroni, come siamo stati abituati a pensare per oltre un secolo. Non è più la fabbrica il luogo dove guardare per capire la dinamica sociale e i veri potenti. Il vero conflitto è tra le rendite e l’intero mondo del lavoro, lavoratori e imprenditori assieme, anche perché la fi nanza e le banche hanno in mano le stesse imprese. La sostituzione degli imprenditori tradizionali con nuovi speculatori e top manager superpagati è una delle più gravi malattie del nostro tempo.

Chi oggi ha veramente a cuore le ragioni del bene comune deve dunque leggere il mondo con occhi diversi. Innanzitutto comprendere che è
l’intero mondo del lavoro che sta soffrendo, schiacciato dalle troppe rendite di pochi. Di questo mondo del lavoro non fanno parte gli speculatori e i redditieri, mentre vi appartiene il vero imprenditore, che soffre come – e a volte più – degli operai. Supereremo questa profonda crisi solo con una nuova lettura della realtà, e poi con un nuovo impegno per cambiarla, nella giusta direzione.

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Editoriali - Finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013

Euro_ridNei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanziarie dal 15 al 20 per cento.

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Conflitto fra lavoro e rendite

Conflitto fra lavoro e rendite

Editoriali - Finanza di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.2/2013 del 25/01/2013 Nei giorni scorsi, molti (non tutti) hanno gioito per il raggiunto accordo fiscale negli Usa, che non ha solo aumentato di poco la tassazione dei super-ricchi, ma ha innalzata l’imposta sulle rendite fi nanzia...