stdClass Object ( [id] => 19515 [title] => E Dio fu salvato dalle donne [alias] => e-dio-fu-salvato-dalle-donne [introtext] =>ContrEconomia/10 - Pregavano, con lacrime e baci e mani, preghiere mute e bellissime
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 07/05/2023
Dove è l’amore di Dio, quantunque embrionale, rozzo, grezzo, oscurato, sotterraneo e non all’aperto, ivi è il cuore quantunque ferito dell’uomo; ed è da pensare che lì vi sia Iddio, e dunque la pietà
Giuseppe De Luca, Introduzione all’archivio italiano della storia della pietà, p. XXITermina oggi, con la grande sovversione femminile della pietà popolare, il percorso di ContrEconomia. E termina anche questa terza pagina domenicale.
Le metafore teologiche sono indispensabili e pericolose. In queste settimane molti lettori e alcuni teologi hanno ribadito, di fronte alle mie critiche, la necessità della metafora economico-commerciale per comprendere la rivelazione cristiana. Perché la troviamo nel Nuovo Testamento, e anche san Paolo la usa.
[fulltext] =>In effetti, nella Prima lettera ai Corinzi troviamo addirittura la parola prezzo: «Siete stati comprati a caro prezzo» (7,23). Una frase, tra l’altro, molto amata e “cara” al teologo Dietrich Bonhoeffer, che contrapponeva la salvezza “a caro prezzo” alla salvezza “a buon mercato”. Ma nelle lettere di Paolo troviamo altre metafore, tra queste quella sportiva: «Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio?… Io dunque corro; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria» (1 Corinzi 9, 24-26). Nessuno, leggendo queste immagini sportive, ha però mai pensato che il pugilato o la corsa siano essenziali e necessarie per spiegare la teologia di Paolo. Né qualche teologo ha (ancora) mai pensato di descrivere la vita cristiana o la Chiesa come una corsa di atletica o un combattimento di pugilato, dove “solo uno conquista il premio”. Si sono fatti invece usi parziali della metafora sportiva senza spingerla fino in fondo. Ma, sorprendentemente, ciò che non si è fatto per lo sport lo si continua a fare con l’economia, che è molto più amata dai teologi che dagli economisti. Alcuni teologi si sono talmente innamorati dell’economia da non usarla soltanto in senso generico e parziale; la usano integralmente e immaginano “l’economia della salvezza” come uno scambio di equivalenti, come un vero e proprio contratto commerciale - Gesù ha pagato il prezzo, il suo sangue, per acquistare dal Padre la salvezza. Le metafore bibliche sono invece aurora di discorso, il suo inizio. L’altra metà deve restare non detta, per non finire imprigionata dal linguaggio: solo le metafore parziali sono buone, perché, essendo incomplete, lasciano uno spazio libero tra il mistero di Dio e le nostre idee teologiche. Le metafore sfruttate fino in fondo si divorano il mistero che vorrebbero svelare.
In queste settimane abbiamo incontrato, qua e là, il tema della pietà popolare. Come ha scritto don Giuseppe de Luca, che sulla pietà ha vergato le pagine più belle, «nella vita cristiana la pietas così concepita coincide, non tanto con l’ascetica né con la mistica non tanto con la devozione o con le devozioni, quanto con la “Caritas”» (Introduzione all’Archivio italiano della storia della pietà, p. XIII). La pietà sarebbe quindi una faccenda d’amore, di agape. E lo è stata, forse la più grande.
Senza l’immenso movimento della pietà, ad esempio, non avremmo sviluppato nei Paesi cattolici le infinite opere sociali, gli ospedali, le scuole: «Mentre i grandi collegi educavano la nobiltà e la grande borghesia benestante, le scuole popolari, dal Calasanzio al De la Salle, badavano al popolo minuto. Insieme sorgevano le opere di assistenza “de fonte pietatis”» (Introduzione, p. LXI). Gli abbracci e i baci alle statue nelle chiese divennero abbracci a uomini e donne in carne ed ossa. Anche se, come sottolinea De Luca, tutti i grandi processi producono i loro effetti indesiderati: «Indigenti, orfani, malati, invalidi, dal secolo XVII in qua è stato un daffare sempre crescente per soccorrerli, sino a indurre il sospetto se la carità, tanta mole di carità, non finisse per schiacciare nel cuore degli uomini il concetto di giustizia, che vi ha avuto sempre pochissimo posto. Piace assai più essere generoso che giusto» (Ivi). Nell’Europa moderna abbiamo avuto diverse visioni delle ragioni del soccorrere i poveri. Da una parte, ci sono pastori, santi, benefattori che davano vita a istituzioni di assistenza con lo scopo di far sì che chi si trovava in condizioni di indigenza potesse presto uscirne. Dall’altra parte, ci sono altri, quelli menzionati da De Luca, che erano meno preoccupati delle povertà e vivevano l’aiuto ai poveri come opera buona per la salvezza dei ricchi: «Dio avrebbe potuto rendere ricchi tutti gli uomini, ma ha voluto i poveri affinché i ricchi avessero l’occasione di redimere i propri peccati» (“La vita di Sant’Eligio”, citato in B. Geremek La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, 1986, p. 9). Un’idea, questa, che è giunta fino alla modernità cattolica: «I poveri si salveranno soffrendo con pazienza la loro povertà e domandando con pazienza gli aiuti ai ricchi. I ricchi troveranno come riscattare i loro peccati portando compassione verso i poveri… Per i ricchi è un dovere indispensabile fare l’elemosina ai poveri perché ne dipende la loro salvezza» (Sermons du Curé d’Ars, Vol. 1, p. 77). Questa visione della pietà tende, in buona fede, a perpetuare la divisione tra ricchi e poveri.
L’altra idea di aiuto ai poveri era invece quella dei Monti dei pegni dei francescani chiamati, non a caso, Monti di pietà. Nell’età della Controriforma anche i Monti di Pietà conobbero un declino. Non furono più legati al mondo francescano, e i frati restarono come cappellani. A partire dal Seicento i Monti gradualmente si estinsero, quelli che sopravvissero si trasformarono in banchi dei pegni con funzioni residuali o di assistenza (ringrazio fra Felice Autieri per questa informazione).
La pietà popolare è stata qualcosa di molto più grande di queste cose già grandissime. Più grande perché è stata qualcosa di piccolo, di minuscolo. I libri di pietà, scritti da vescovi e da teologi, raccontavano una idea di Dio distante, severo, tutto preoccupato ad apparecchiarci il tribunale del giudizio finale. I catechismi popolari insegnavano che il «fine dell’uomo» era «servire Dio», in vista della salvezza futura (Esercizi spirituali per monache, Il Buon Pastore, Lodi, 1911, p. 20). Dal fine dell’uomo derivava poi il «fine della donna»: «Dio creò la donna per consolare Adamo» (p. 28). Per le monache, poi, non avendo un Adamo, il fine doveva evolvere, e divenne «salvare le anime degli altri», in particolare (in quell’Istituto) delle fanciulle: «Quale fine ebbe Dio nel creare tante povere fanciulle? Procurar loro il Paradiso» (p. 43). Religione trasformata in disumanesimo, dove l’amore di Dio generava un disamore per le cose umane create.
In questa religione tutta orientata alle “cose di lassù”, la pietà popolare divenne un immenso esercizio collettivo di sovversione, una via di salvezza per le “cose di quaggiù”. Fu, a modo suo, un meraviglioso inno alla vita. Quelle statue con il volto stupendo di Maria e di Gesù, quelle immagini di santi e sante che somigliavano moltissimo a loro, ai loro figli e figlie, quelle chiese barocche popolate di angeli-bambini e da una infinità di Gesù-bambino più numerosi dei crocifissi, furono i veri protagonisti dell’altra religione della gente, furono il volto diverso e buono di Dio - la pietà fu la ControControriforma popolare, fu la risposta, sovversiva e mite, delle donne alla religione troppo clericalizzata.
Il 90 o 98% della gente, soprattutto quella delle campagne, delle montagne, dei borghi, i libri di preghiere non li poteva leggere, né aveva i soldi per comprarli. Quelle cose erano per le persone istruite, per i preti, forse per le suore e per le monache che furono le grandi vittime della Controriforma, mortificate da una fede non-biblica tutta orientata al paradiso delle anime che trasformò la terra dei loro monasteri in un inferno dei corpi. Ma – e qui sta lo scacco matto della Provvidenza – la gente del popolo, le donne soprattutto, furono protette dal loro analfabetismo, e così restarono (quasi) immuni da quella teologia troppo divina per essere anche umana.
Non saper leggere i libri e le preghiere colte le costrinse a inventarsi una loro preghiera: e fu stupenda. Ogni tanto restarono catturati dagli antichi riti del malocchio e della magia, ne abbiamo parlato. Ma molte altre volte inventarono parole e immagini per parlare con Dio: e nacque lo spettacolo della pietà popolare, che fu un grande luogo di libertà, soprattutto delle donne in un mondo che restava per loro di servitù. Entravano in Chiesa, facevano finta di rispondere alle preghiere incomprensibili e alle giaculatorie latine dei preti, ma nel loro cuore e dalla loro bocca uscivano, sussurrate, parole e suoni diversi. E soprattutto piangevano: bagnavano quelle statue con tutte le loro lacrime fino a consumare colori, legno e stucchi. Pregavano con le lacrime e soprattutto con i baci e con le mani: preghiere mute bellissime fatte di carezze e di baci, mani nodose e nere che però sapevano fare carezze stupende e baciare le statue dei santi, della Madonna, e soprattutto degli angeli e dei bambinelli, carezze e baci che a casa non ricevevano mai da nessuno, perché troppo terrestri per poter essere religiosi. E in quegli angeli bellissimi rivedevano i loro troppi bambini nati morti, i figli volati via fanciulli e giovinetti. Così sconfiggevano quelle teologie assurde che per innalzare Dio abbassavano l’uomo e la donna. E trasformavano le lodi alla Madonna (“La Donna del paradiso” di Jacopone da Todi) in stupendi canti ai loro figli morti: «Figlio, amoroso giglio, figlio occhi giocondi, figlio di mamma scura, figlio della sparita, figlio attossicato, figlio: a chi mi appiglio? Figlio mi hai lasciato, figlio perché t’ascondi dal petto, oh sei allattato» (citato in De Martino, Morte e Pianto…, p. 341).
La fede cattolica è ancora viva, anche se malata gravemente, soprattutto per queste donne del popolo che l’hanno umanizzata con la loro pietà, con baci e carezze, l’hanno salvata con la loro trasgressione: «Il virgiliano ramo d’oro è la pietas» (De Luca, Introduzione, p. LXVI). E così con le loro mani e i loro baci toccarono davvero Dio e scrissero i loro bellissimi “kerigma” popolari, diversi da quelli del catechismo ma che avevano l’odore e la fragranza della vita e del pane: «Cristo fu seminato dal Creatore, germogliò, venne a maturazione, fu mietuto, legato in un covone, traportato nell’aia, trebbiato, vagliato, macinato, chiuso in un forno e dopo tre giorni tratto fuori e mangiato come pane» (citato in De Martino, p. 343).
Si conclude oggi questa breve serie sull’Economia della Controriforma, e si chiude anche la lunga stagione, oltre dieci anni, della mia terza pagina domenicale. Una avventura meravigliosa: ho visto gli angeli salire e scendere sulla scala del paradiso, ho imparato la Bibbia (quindici i libri dell’Antico Testamento commentati), i carismi, le vocazioni, ho scoperto un’altra economia, forse anche un Dio più vicino al cuore dei poveri. L’abbiamo imparata insieme in un cammino settimanale tenace, che non si è interrotto mai, nonostante tutto. Un cammino collettivo iniziato grazie alla fiducia rischiosa e forse profetica di Marco Tarquinio, che ebbe il coraggio di affidare i commenti biblici a un economista. E con lui oggi si chiude, si deve chiudere, non potrebbe essere che così, perché questo lavoro è stato un vero tandem, dalla scelta dei temi ai titoli e sottotitoli di ogni articolo, rivisto da lui fino alle virgole. Auguri cari al nuovo direttore Marco Girardo, che possa continuare lo spettacolo di fedeltà creativa dell’“Avvenire” della stagione che oggi finisce. In questi casi ringraziare è necessario ma è sempre troppo poco. Una storia è finita, ma non è finita la storia.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 07/05/2023
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 30/04/2023
"Con una teologia falsa si è spesso avuto una pietà vera. Il sonar l’organo, osservava Galileo, non s’impara da quelli che sanno far gli organi ma da chi li sa suonare. I teologi fanno gli organi, quanto a sonarli è un’altra cosa. Il più inerudito cristiano può riuscirci meglio."
Giuseppe De Luca, Introduzione all’archivio italiano per la storia della pietà, p. LIX
La cristianizzazione delle feste della natura, l’affermarsi dei santi intercessori e d’una dura teologia, la forza semplice della fedeltà a Dio, il Dio della vita.
«Che dire di quelli che in ogni regione reclamano il loro particolare santo protettore? Questo fa passare il mal di denti, quello assiste alle partorienti, uno fa recuperare gli oggetti rubati, quello che salva dai naufragi, la Vergine alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al Figlio». Sono parole del grande Erasmo da Rotterdam (Elogio della Follia, § 40), scritte nel 1509 mentre Lutero stava maturando la sua Riforma, alla quale Erasmo non aderì. Erasmo non fu ascoltato. Quattro secoli dopo, oggi leggiamo: «C’è un monte, a poca distanza dal Pollino, con un culto arboreo che qui chiamano “Ndenna”, si svolge a metà giugno a Castelsaraceno. La prima domenica del mese si va a tagliare il faggio destinato a vestire gli abiti dello sposo (la “Ndenna”). La domenica successiva si sceglie il pino, la ‘cunocchia’ che farà da sposa. E infine sant’Antonio benedice l’unione» (Domenico Notarangelo, I sentieri della pietà, 2000).
[fulltext] =>Questa festa lucana della “Ndenna” è espressione dello sviluppo cattolico delle feste della natura. “Piantare il maggio” era una antica tradizione europea, presente ancora anche in Basilicata (Accettura) e anche in diverse zone dell’Italia centrale. Fino a tutto il Medioevo, nella notte del primo maggio i giovani piantavano rami e fiori davanti alle case delle fanciulle. Ma «verso la fine del Cinquecento iniziò la cristianizzazione del rito, invitando a orientare a Maria gli omaggi e le offerte floreali». Poi, a partire dal Settecento, i fiori degli altarini della Madonna subirono un ulteriore sviluppo «trasformandosi in “fioretti” spirituali: piccoli sacrifici offerti in omaggio alla Madonna per tutto il mese di maggio» (Ottavia Niccoli, La vita religiosa nell’Italia moderna, 2004, pp. 181-182). Ecco come nasce il “maggio mariano” con i “fioretti”. Tradizioni carine e belle, ma... non è facile capire cosa c’entri la Madonna con quegli antichi riti degli innamorati e i piccoli sacrifici con i fiori alle fidanzate. Un legame si può sempre trovare, certo. Ma si sarebbe potuto fare anche una scelta diversa: lasciare i culti antichi della fertilità e dei raccolti, non combatterli come fece Lutero, ma chiamarli “folklore”, considerarli tradizioni popolari senza volerli ricondurre dentro il cristianesimo – il problema nella festa della ‘Ndenna’ non è il matrimonio tra gli alberi ma la presenza di sant’Antonio. Con le antiche tradizioni si poteva fare qualcosa di simile a quanto fatto con la Befana, che non è diventata “la moglie dei re magi”, ma è rimasta fuori dal presepe, lì accanto.
La scelta di ibridazione religiosa degli antichi riti naturali, in sé anche comprensibile, ha comunque avuto costi alti, che si legano al grande tema del culto dei santi. Il Concilio di Trento corresse gli eccessi magici, ma ribadì la liceità teologica e liturgica dell’antica intercessione dei santi, che continuarono a essere mediatori e protettori dei raccolti dalla grandine o del mal di gola. Tra la Trinità e la gente venne così a formarsi una crescente schiera di intercessori, di passaggi intermedi che dovevano favorire e semplificare l’ottenimento delle nostre preghiere: «Dio vede i nostri bisogni e quindi potrebbe provvedere direttamente: ma la divina sapienza si compiace di comunicare i suoi doni attraverso intermediari» (Atti del Concilio Trento, Sessione XXV, 1563). Cresce quindi una idea di Dio troppo distante per essere raggiunto direttamente da noi creature infime. Ma, grazie a Dio, ci sono i santi, percepiti come creature mediatrici, perché simili un po’ a Dio e un po’ a noi, che quindi capiscono entrambi (i popoli latini hanno sempre amato i semi-dei: non a caso i templi di Ercole erano tra i più diffusi). La religione cattolica divenne una religione di Dio e dei santi, una esplosione di biodiversità religiosa, una foresta spirituale abitata da una infinità di esseri dove ognuno svolgeva la sua funzione nell’ecosistema del culto, dando vita a una perfetta “divisione religiosa del lavoro”. Peccato che nel frattempo in troppi ci siamo dimenticati che Dio si era fatto uomo proprio per ridurre la distanza mitica tra cielo e terra. Nel mio paese i santi e le sante erano presenti molto più della Trinità, anche perché quando si deve sopravvivere tra fame e malattie la pericoresi è un lusso che la gente non può permettersi.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 30/04/2023
"Con una teologia falsa si è spesso avuto una pietà vera. Il sonar l’organo, osservava Galileo, non s’impara da quelli che sanno far gli organi ma da chi li sa suonare. I teologi fanno gli organi, quanto a sonarli è un’altra cosa. Il più inerudito cristiano può riuscirci meglio."
Giuseppe De Luca, Introduzione all’archivio italiano per la storia della pietà, p. LIX
La cristianizzazione delle feste della natura, l’affermarsi dei santi intercessori e d’una dura teologia, la forza semplice della fedeltà a Dio, il Dio della vita.
«Che dire di quelli che in ogni regione reclamano il loro particolare santo protettore? Questo fa passare il mal di denti, quello assiste alle partorienti, uno fa recuperare gli oggetti rubati, quello che salva dai naufragi, la Vergine alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al Figlio». Sono parole del grande Erasmo da Rotterdam (Elogio della Follia, § 40), scritte nel 1509 mentre Lutero stava maturando la sua Riforma, alla quale Erasmo non aderì. Erasmo non fu ascoltato. Quattro secoli dopo, oggi leggiamo: «C’è un monte, a poca distanza dal Pollino, con un culto arboreo che qui chiamano “Ndenna”, si svolge a metà giugno a Castelsaraceno. La prima domenica del mese si va a tagliare il faggio destinato a vestire gli abiti dello sposo (la “Ndenna”). La domenica successiva si sceglie il pino, la ‘cunocchia’ che farà da sposa. E infine sant’Antonio benedice l’unione» (Domenico Notarangelo, I sentieri della pietà, 2000).
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 23/04/2023
"L’avulsione delle Chiese protestanti dalla Chiesa cattolica fu sciagura molto più profonda che non quella degli scismi orientali."
Giuseppe de Luca, Introduzione all’Archivio Italiano per la storia della pietà
Purtroppo l’età della Controriforma ha anche generato una pericolosa visione del dolore, che tanti danni ha prodotto nel popolo cattolico, soprattutto nelle donne.
La Bibbia ci ha rivelato un Dio diverso dagli dèi naturali. Non ha scelto di riconoscere il sentimento religioso che c’era già nel mondo dando nuove forme agli antichi culti e riti della fertilità, della morte, del raccolto. La Bibbia e, poi, i primi cristiani hanno invece fatto di tutto per salvare la novità del loro Dio. Lo hanno difeso e custodito al punto di chiamare “idoli” tutti gli altri dèi. E ogni volta che nella storia biblica il popolo d’Israele ha prodotto un idolo, lo ha fatto perché non riusciva a restare all’altezza di un Dio troppo diverso e quindi voleva un “dio come tutti gli altri popoli”, un dio più semplice, toccabile, a portata di mano e di incenso. E così il popolo ha fabbricato i vitelli d’oro, e i profeti li hanno distrutti. Anche i profeti sapevano che nei culti della natura c’era una certa misteriosa presenza del Dio vero: «I cieli narrano la gloria di Dio» (Salmo 19). Lo sapevano bene, ma sapevano di più che dovevano assolutamente distinguere il Dio che ci raggiunge “dal cielo” dai culti che cercano di raggiungerlo “dalla terra”, altrimenti la forza della terra avrebbe mangiato la novità fragile del cielo. E tenendo altissimo il mistero di Dio ha tenuto altissima la nostra dignità, e da tremila anni continua a ripeterci: “non sei fatto a immagine di idolo”.
[fulltext] =>La vicenda del Cristianesimo medioevale e moderno è però in parte diversa. Incontrando i popoli europei ha spesso tollerato che la gente continuasse i suoi riti naturali dei campi, coltivasse i suoi spiriti locali, e “battezzò” con nomi cristiani i culti precedenti. E nacque l’Europa cristiana. Così, mentre l’umanesimo biblico aveva provato a liberare gli uomini e le donne svuotando il mondo dai tanti spiriti e demoni, i cristiani lo hanno lasciato abitato da angeli, santi e demoni, sperando, magari in buona fede, che bastasse questa sostituzione per liberare gli esseri umani dalla paura della morte e del dolore.
Con la fine del Medioevo e con l’Umanesimo apparve evidente a molti che la Chiesa medioevale romana aveva un urgente bisogno di una riforma generale (basterebbe pensare alle tesi di Erasmo da Rotterdam). La Riforma di Lutero cambiò e complicò i piani. La reazione della Controriforma cattolica bloccò quella prima stagione di rinnovamento interno e produsse una restaurazione proprio sugli aspetti più criticati da Lutero che, e qui sta il punto, erano davvero quelli più bisognosi di una vera riforma. E così le antiche pratiche meticce (culto dei santi, devozioni, indulgenze, voti, reliquie, …) divennero un tratto distintivo della Chiesa cattolica. Sta qui la radice di molti nostri mali.
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di Luigino Bruni
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Giuseppe de Luca, Introduzione all’Archivio Italiano per la storia della pietà
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 16/04/2023
"Il rapporto tra taranta e San Paolo era un rapporto estremamente confuso e contraddittorio, nel quale coesistevano un San Paolo protettore dei tarantati, al quale si implorava la grazia, un San Paolo che iniziava le tarante per punire qualche colpa, e un San Paolo-taranta esorcizzabile con la musica, la danza e i colori"
Ernesto de Martino, La terra del rimorso
Continua l’analisi sugli effetti cultural-economici della Controriforma. I seri effetti della versione commerciale della grazia nel mondo di concepire religione e vita civile.
Le religioni sono il primo strumento con cui gli esseri umani hanno cercato di sconfiggere la morte, sono il grande cimento per rendere immortale ciò che naturalmente non lo è. Sono quindi il risultato del grande desiderio collettivo di metamorfosi della morte in valore. Il sacrificio è il medium che dovrebbe operare questa alchimia mirabile. E così, piante o animali destinati per loro natura alla morte, nel momento in cui vengono, nel rito, sacrificati escono dall’ordine naturale mortale e entrano in quello divino immortale - qui c’è il senso dell’etimologia di sacrificio: “fare sacro”. Uccidendo contro-natura la vita sull’altare la si rende immortale. È questa una spiegazione anche degli arcaici sacrifici umani: offerti agli dèi morivano sacrifica mente contro-natura e quindi non morivano più nella natura. Così, «l’uomo si costituisce come procuratore di morte nel seno stesso del morire naturale» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, p. 236).
[fulltext] =>L’uomo antico vedeva la natura morire di una morte parziale e non definitiva, perché il ciclo delle stagione faceva “risorgere” in primavera ciò che moriva in autunno, e ciò gli suggeriva che da qualche parte doveva accadere qualcosa di simile anche per gli uomini: «Un vecchio canto Dinca lamenta che mentre il sole sorge, passa e tuttavia ritorna, e così pure la luna, soltanto l’uomo nasce, passa e non ritorna più» (De Martino, ivi). Donando agli dèi cose vive queste escono dal tempo ed entrano nell’eternità – non capiamo la teologia antica della vita consacrata senza questa trasformazione e divinizzazione del dono della vita, né capiamo il profondo senso del lutto, cioè «procurare al defunto quella seconda morte culturale che vendica lo scandalo della morte naturale» (De Martino, ivi).
Con il Cristianesimo fa però irruzione sulla terra qualcosa di inedito. Cristo ribalta anche la logica delle religioni antiche: non siamo più noi che offriamo alla divinità i nostri doni-sacrifici mortali chiedendo di renderli immortali. Nell’eucarestia, quella sintesi viva della passione-morte-resurrezione di Cristo, è Gesù che donandosi a noi come pane ci fa partecipare della divinità. Non sono più i nostri doni a morire per poter vivere per sempre, ma è Dio che morendo-risorgendo ci dona qualcosa di vero della sua immortalità. L’eucarestia è dunque l’anti-sacrificio, è la parola fine sulla logica sacrificale, è la buona charis, la bella gratitudine. È tutta gratuità assoluta perché libera dal registro commerciale. Sta qui l’umanesimo del Cristianesimo. Nella prassi della tradizione cattolica, però, a partire soprattutto dalla Controriforma, questa dimensione assoluta di gratuità non sì è affermata nella cultura-culto nel popolo. Le persone continuavano ad interpretare la religione con il registro sacrificale, dove nessuna grazia è gratis: «“Se non accettate la gallina, la grazia non vale, e il bambino nascerà cieco”. “La grazia è gratuita”, disse don Paolo. “Le grazie gratuite non esistono”, rispose la donna». (Ignazio Silone, Vino e pane). La reazione cattolica alla salvezza per “sola grazia” dei protestanti rafforzò e amplificò l’idea della religione delle “opere” con le quali che si deve “meritare” la salvezza. La grazia non è avvertita come gratuità incondizionate: occorre lucrarla, guadagnarcela.
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Dovremmo ricordarci che Dio è soprattutto agape e amore, mai «do ut des»
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 16/04/2023
"Il rapporto tra taranta e San Paolo era un rapporto estremamente confuso e contraddittorio, nel quale coesistevano un San Paolo protettore dei tarantati, al quale si implorava la grazia, un San Paolo che iniziava le tarante per punire qualche colpa, e un San Paolo-taranta esorcizzabile con la musica, la danza e i colori"
Ernesto de Martino, La terra del rimorso
Continua l’analisi sugli effetti cultural-economici della Controriforma. I seri effetti della versione commerciale della grazia nel mondo di concepire religione e vita civile.
Le religioni sono il primo strumento con cui gli esseri umani hanno cercato di sconfiggere la morte, sono il grande cimento per rendere immortale ciò che naturalmente non lo è. Sono quindi il risultato del grande desiderio collettivo di metamorfosi della morte in valore. Il sacrificio è il medium che dovrebbe operare questa alchimia mirabile. E così, piante o animali destinati per loro natura alla morte, nel momento in cui vengono, nel rito, sacrificati escono dall’ordine naturale mortale e entrano in quello divino immortale - qui c’è il senso dell’etimologia di sacrificio: “fare sacro”. Uccidendo contro-natura la vita sull’altare la si rende immortale. È questa una spiegazione anche degli arcaici sacrifici umani: offerti agli dèi morivano sacrifica mente contro-natura e quindi non morivano più nella natura. Così, «l’uomo si costituisce come procuratore di morte nel seno stesso del morire naturale» (E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, p. 236).
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 09/04/2023
"La pietà sta alla religione come la poesia alla letteratura: ne è la cima più alta, ... con una differenza, tuttavia, che poeti si è in pochi, pii si può essere tutti."
Giuseppe de Luca, Introduzione alla storia della pietà
L’età della Controriforma è anche un tempo importante per la liturgia che si fa “spettacolo” distante dal popolo, e questo molto influenzerà la cultura economica latina.
La Resurrezione è il centro della fede cristiana. Non sempre, però, è stata il centro anche della pietà popolare cattolica. La storia del cristianesimo ha conosciuto molte “eclissi della Resurrezione”. Una particolarmente lunga e decisiva è avvenuta durante l’età della Controriforma. Una premessa. Il Medioevo aveva creato la sua civiltà distinguendo la vita monastica dalla vita civile. L’immaginario di un Medioevo tutto cristiano dice qualcosa di vero solo se guardiamo monasteri e abbazie e quelle porzioni di mondo che i monaci e le monache riuscivano a contagiare. La cultura cristiana era essenzialmente una faccenda monastica e di alcune élite urbane. Ma la gran parte della gente che viveva nei piccoli centri, nelle campagne e nelle montagne conosceva molto poco della fede cristiana, e le pratiche religiose erano sostanzialmente quelle “pagane” – latine, celtiche, sassoni, picene... –, con alcuni influssi cristiani che spesso si limitavano a nomi nuovi per antichi riti, spiriti e divinità. Da questo punto di vista, il cristianesimo non era la cultura di massa del Medioevo.
[fulltext] =>Con la Riforma salta anche la distinzione medioevale tra monastero e popolo. Dopo Lutero, le regioni protestanti chiusero i monasteri e cercarono di trasformare il monastero in città. L’ora et labora uscì dalle abbazie e divenne la legge etica dell’intera civiltà protestante, in una liturgia laica. I monaci di ieri divennero i “lavoratori”, il lavoro (labora) incorporò al suo interno la preghiera (ora). Anche nel mondo cattolico si superò quella dicotomia medievale. Con la Controriforma il popolo vive un suo nuovo e inedito protagonismo religioso. Ma qui fu la religione a occupare il lavoro: i “monaci” di ieri divennero i devoti, la pietà invase il lavoro. Così, mentre il Nord Europa iniziava a inventare il capitalismo, nel Sud cattolico il lavoro, la grande eredità medioevale di artigiani e mercanti, fu invece assorbito da una devozione che riempì progressivamente l’intera vita del popolo. La creazione di una «Europa dei devoti» (Louis Châtellier) fu un progetto intenzionale religioso e sociale del Concilio di Trento, un piano molto ambizioso. I vescovi e il Papa presero coscienza dello stato sostanzialmente pagano di molta popolazione “cristiana”. Iniziò così una nuova azione popolare in Europa, e presto nei continenti. Un progetto immenso e impressionante: la grande diffusione del cattolicesimo nel mondo moderno è il risultato della rifondazione popolare controriformista.
La prima e fondamentale strategia del progetto tridentino fu “battezzare” la religiosità meticcia delle campagne e del popolo. La Chiesa cattolica fece in età barocca qualcosa di simile a quanto fatto dai cristiani nei confronti del mondo greco-romano nei primi secoli, che presero molto delle pratiche religiose esistenti e ci edificarono sopra la nuova religione. Analogamente, i nuovi ordini, i vescovi e i parroci formati nei seminari risemantizzarono tutto il sacro che trovarono. E nacque la cultura barocca. Sono i secoli dell’esplosione delle immagini sacre, delle edicole nei crocicchi, dei patroni in ogni villaggio, dei santi protettori di ogni ambito e momento della vita. E grazie al nuovo culto finalmente popolare nacque la cultura cristiana – ogni cultura di massa nasce da un culto, incluso il culto capitalistico. La religione coprì tutto lo spazio e tutto il tempo della vita, la liturgia non fu più prerogativa dei soli monaci e divenne la vita del popolo. Lo spazio e il tempo vengono infatti segnati e insegnati come spazio e tempo sacri. I luoghi (urbani e rurali) furono marcati da una infinità di simboli, e il tempo delle famiglie divenne una forma semplificata di “liturgia delle ore”. Il tempo sacro bucò l’orizzonte umano sconfinando nel culto del Purgatorio e delle sue “anime”, che divennero abitanti presentissimi del nuovo mondo.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 02/04/2023
"Per quanto si cerchi, non si troverà mai nella Controriforma altra idea che questa: che la Chiesa cattolica era un’istituzione altamente salutare, e perciò da serbare e rinsaldare."
Benedetto Croce, Storia della età barocca in Italia
È proprio all’età della Controriforma che dobbiamo iniziare a guardare se vogliamo capire le differenze tra il capitalismo nordico e protestante e il nostro.
È difficile capire il capitalismo senza attraversare la Riforma protestante e il suo “spirito”, lo sappiamo. Che bisogna attraversare anche la Controriforma cattolica lo sappiamo invece di meno. Perché le forme teologiche, sociali, etiche e pastorali della risposta cattolica alla Riforma di Lutero ebbero effetti molto importanti nel modo di intendere e praticare gli affari in Italia e negli altri Paesi cattolici. Lo vedremo in queste nuove pagine.
[fulltext] =>La Riforma di Lutero è stata la crisi più grave e importante nella storia del cristianesimo, i suoi effetti furono molto più pesanti e pervasivi di quelli del primo scisma Occidente-Oriente. La Chiesa di Roma vide in quanto stava avvenendo in Germania la possibilità concreta della propria dissoluzione. In quella rivolta non c’erano soltanto un’eresia e uno scisma: c’era una critica radicale alla versione che il cristianesimo aveva assunto nella Chiesa romana e italiana che per Lutero era gravemente sbagliata, a tratti diabolica. I papi e molti vescovi capirono l’enorme portata teologica ed etica di quella crisi tedesca, e si impaurirono molto. Da questa paura nacque una strategia di difesa radicale e su tutti i fronti che, dobbiamo dirlo, fu efficace, anche se i costi umani furono molto alti. L’Inquisizione, i gesuiti e gli altri nuovi ordini religiosi, la confessione privata auricolare, l’indice dei libri proibiti, il ritorno al passato, il concilio di Trento, il rinnovamento della formazione dei sacerdoti e l’evangelizzazione degli abitanti delle campagne, furono mezzi potenti di questa difesa. Sul piano teologico, Lutero aveva attaccato alcune colonne portanti dell’edificio ecclesiale. La rivendicazione della salvezza per “sola grazia” e non per le opere, minava alle fondamenta tutta la pratica e il mercato delle indulgenze, dei pellegrinaggi, dei giubilei, che si erano sviluppati nell’ultima stagione del Medioevo ed erano anche il fulcro del funzionamento politico ed economico della vita della Chiesa romana.
La Controriforma fu dunque soprattutto una reazione, e questa natura “reazionaria” ne condizionò l’intera teologia e prassi. Così, mentre al centro dell’azione riformatrice di Lutero c’era la coscienza e il suo libero esame, l’azione controriformatrice si incentrò sul ruolo dell’autorità ecclesiastica e i suoi criteri di verità esterni alla persona, basati su gerarchie oggettive di meriti e di colpe. Nascendo dal bisogno primario di confutare le nuove dottrine eretiche per bloccarne il dilagare, la stagione della Controriforma si tradusse in una straordinaria produzione di casistiche di peccati, di divieti, di anatemi, e quindi in un complesso sistema per individuare i sintomi dell’errore e dell’eresia annidati nell’animo umano, a volte persino a sua insaputa. Il foro esterno era gestito dall’Inquisizione, il foro interno dai confessori, due fori complementari che diventarono i principali strumenti di quella cattolicità.
C’è poi un aspetto etico che continua ad apparire paradossale. Se è vero che la teologia della Controriforma fu reazione a quella della Riforma, ci saremmo aspettati nel mondo cattolico una reazione anche all’agostinianesimo radicale di Lutero (ex monaco agostiniano) e al suo pessimismo antropologico, e quindi una maggiore fiducia nelle capacità morali degli uomini; non fosse altro per coerenza con quel Tommaso, divenuto nel frattempo punto di riferimento assoluto del cattolicesimo, che, rispetto ad Agostino, aveva uno sguardo più positivo sulla natura umana e sulla nostra capacità di bene nonostante il peccato originale. E invece quando andiamo a leggere la teologia e la prassi della Controriforma ritroviamo una esasperazione della cultura della colpa, un’azione pastorale basata sulla gestione dei peccati tramite una grande diffusione nelle masse del sacramento della confessione privata di peccati dettagliatissimi in “specie e numero” e così moltiplicati all’infinito. Troviamo anche un rilancio del Purgatorio, dell’angoscia per l’Inferno, delle danze macabre e delle chiese barocche riempite di teschi e scheletri.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 02/04/2023
"Per quanto si cerchi, non si troverà mai nella Controriforma altra idea che questa: che la Chiesa cattolica era un’istituzione altamente salutare, e perciò da serbare e rinsaldare."
Benedetto Croce, Storia della età barocca in Italia
È proprio all’età della Controriforma che dobbiamo iniziare a guardare se vogliamo capire le differenze tra il capitalismo nordico e protestante e il nostro.
È difficile capire il capitalismo senza attraversare la Riforma protestante e il suo “spirito”, lo sappiamo. Che bisogna attraversare anche la Controriforma cattolica lo sappiamo invece di meno. Perché le forme teologiche, sociali, etiche e pastorali della risposta cattolica alla Riforma di Lutero ebbero effetti molto importanti nel modo di intendere e praticare gli affari in Italia e negli altri Paesi cattolici. Lo vedremo in queste nuove pagine.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 16/03/2023
"Nessuno libera nessuno, nessuno si libera da solo: gli uomini si liberano nella comunione."
Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi
Dalla genetica possiamo apprendere insegnamenti preziosi per la vita delle nostre organizzazioni e comunità (pure a movente ideale) e imparare come si risolvono veramente i conflitti.
La biodiversità è una legge fondamentale della vita, quindi anche della vita economica, delle imprese, della consulenza. Fondamentale in ogni ambito, la biodiversità diventa veramente decisiva quando entriamo nel mondo delle Organizzazioni a Movente Ideale (Omi), cioè quelle realtà nate dalle nostre passioni più grandi, quelle che aggregano i nostri sogni collettivi. Per molti aspetti queste somigliano a tutte le altre realtà umane, per altre fondamentali dimensioni sono però diverse, qualche volta molto diverse.
[fulltext] =>Una premessa. La scienza ha scoperto che la specie umana ha in comune con gli altri primati superiori quasi tutto il suo materiale genetico (circa il 98%), ma il nostro è anche organizzato diversamente. L’organizzazione dipende dai geni e da come si esprimono, dalle mutazioni, dai “riarrangiamenti” cromosomici. Da questa prospettiva siamo quasi uguali agli scimpanzé, ma è in quel “quasi” dove si concentrano molte delle cose essenziali per capire cosa è veramente l’homo sapiens, per comprendere quindi cultura, linguaggio, relazioni, coscienza, ideologie, fede. L’1 o il 2% in questi fenomeni sono numeri grandissimi, quasi infiniti. Perché la bio-diversità tra le specie e intra-specie dipende soprattutto da come le stesse lettere dell’alfabeto (cioè il Dna) si combinano in parole (i geni) che insieme agli spazi vuoti tra una parola e un’altra diventano frasi (i cromosomi) con cui si compone il discorso di ogni singolo essere vivente, in continua evoluzione. L’epigenetica, poi, ci insegna che molti cambiamenti degli esseri viventi sono dovuti all’interazione del genoma con l’ambiente che provoca una diversa espressione dei geni dell’organismo senza modificare le sequenze di Dna – forse Lamarck col suo “collo delle giraffe” aveva più ragione di quanto pensassero i miei insegnanti di scienze.
Utilizzando questa potente metafora genetica (quindi da prendere come tale), anche le molte organizzazioni umane condividono quasi tutto il loro Dna. Se però chi studia le organizzazioni si limitasse all’analisi della sequenza genetica organizzativa giungerebbe alla conclusione che le organizzazioni umane sono (quasi) tutte uguali. Ma, anche qui, le differenze che davvero contano non si trovano tanto nella sequenza del Dna – cioè negli organigrammi, nei diagrammi di flusso, nelle job description, nella governance formale, nella suddivisione in unità, uffici, mansioni. Perché viste da questa prospettiva “genetica” le organizzazioni sono davvero troppo simili, non vediamo la vita, ma soltanto le sue tracce, non cogliamo quelle diversità che invece dovremmo individuare – siamo molto più complessi del nostro codice e programma genetico.
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Pubblicato su Avvenire il 16/03/2023
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 19/03/2023
"Mi spaventa soprattutto la sofferenza che avanza nel mondo come un rullo compressore. Me ne importa poco della colpa, poco della giustizia, poco della verità, poco della bellezza: me ne importa della sofferenza."
Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso
L’uscita di scena del consulente alla fine del processo è parte della sua eccellenza. Nel libro di Daniele ci sono preziose indicazioni su come interpretare le visioni degli altri senza diventarne padroni.
Le crisi ambientali, finanziarie e militari di questo inizio di millennio rischiano di farci sottovalutare o dimenticare una non meno grave triplice crisi: della fede, delle grandi narrative e del generare. Un mondo che non attende più il paradiso, senza narrative collettive e senza figli, non trova più un sufficiente senso per vivere e quindi per lavorare. Perché dovrei lavorare se non spero più in una terra promessa (sopra o sotto il cielo), se non ho nessuno che attende dal mio lavoro un presente e futuro migliori? Il mondo del lavoro non ha mai creato né esaurito il senso del lavoro. Ieri erano la famiglia, le ideologie, la religione a dare al lavoro il suo primo senso. La fabbrica, i campi o l’ufficio rafforzavano quel senso che però nasceva fuori. Il lavoro è grande, ma per essere visto nella sua grandezza deve essere guardato da fuori, da una porta che si apre sull’esterno; senza questo spazio largo, la stanza del lavoro è troppo angusta, il suo tetto troppo basso perché quell’animale malato d’infinito che è l’homo sapiens possa restarci a lungo senza asfissiare.
[fulltext] =>La nostra Costituzione è fondata sul lavoro perché il lavoro era fondato su qualcos’altro. L’economia registra un crescente disagio del lavoro: ma quando capiremo che questo malessere lavorativo è prima malessere esistenziale generato da questa triplice carestia? «Dov’è andato Dio?… ve lo voglio dire! Noi lo abbiamo ucciso, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini! … Non stiamo vagando in un infinito nulla?» (F. Nietzsche La Gaia Scienza). Quell’uomo folle grida la morte di Dio nel «mercato», poiché «proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio». Nel mercato, il banditore della morte di Dio «suscitò grandi risa» (La Gaia Scienza, 125). I mercanti ridevano; forse perché speravano che quel “super-uomo” necessario per vivere in un mondo senza Dio sarebbe stato l’homo oeconomicus, grazie alla sua nuova religione capitalistica. Ma i mercanti che ieri ridevano oggi si stanno rendendo conto che quell’infinito nulla sta divorando la stessa economia. La consulenza è l’ultimo tentativo che il mercato sta compiendo per resistere al vento della vanitas. Perché sulla linea dell’orizzonte della terra senza dèi non è apparso nessun superuomo: abbiamo invece visto un uomo sempre più fragile e solo. Sofferente, nascosto dalla maschera buffa dell’edonismo.
Avevamo lasciato i consulenti dentro la riflessione sulla sussidiarietà. Manca ancora un ultimo passaggio: una buona consulenza sussidiaria deve sapere andar via nel giusto momento. Terminato il suo lavoro, il consulente deve sapersi ritirare, sparire, uscire dal processo per non trasformare il legame in vincolo, favorendo l’autonomia di chi ha aiutato. Ma essendoci nella consulenza anche una dimensione di potenziale conflitto di interessi (l’aiutato è anche fatturato), l’uscita non è mai semplice né garantita. Così, qualche volta, il rapporto di aiuto dura troppo e quindi si perverte. Spesso la non-uscita è voluta dal “cliente” che durante il processo di aiuto ha progressivamente sviluppato una relazione di dipendenza dai suoi accompagnatori. L’arte preziosa del consulente (che si occupa di persone e di relazioni) e dell’accompagnatore sta allora nella sua capacità di scomparire, di lasciar andare. Rendersi col passare del tempo sempre meno necessario, fino a diventare inutile – l’inutilità finale dovrebbe essere il suo obiettivo esplicito, sta qui la sua eccellenza. Quando invece il passare del tempo aumenta il bisogno del consulente, quella consulenza sta fallendo e grande diventa il rischio di manipolazione: il consulente da aiuto per il discernimento diventa colui/colei che decide e governa: era entrato per servire, finisce per comandare.
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Ancora sull’ultimo tentativo che il mercato sta compiendo per resistere al vento della vanitas
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 19/03/2023
"Mi spaventa soprattutto la sofferenza che avanza nel mondo come un rullo compressore. Me ne importa poco della colpa, poco della giustizia, poco della verità, poco della bellezza: me ne importa della sofferenza."
Sergio Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso
L’uscita di scena del consulente alla fine del processo è parte della sua eccellenza. Nel libro di Daniele ci sono preziose indicazioni su come interpretare le visioni degli altri senza diventarne padroni.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 12/03/2023
"Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà."
Andrè Neher, L’esilio della parola
Questo principio sta alla base e richiama la legge di molte relazioni umane, incluse le relazioni aziendali e l’arte dei consulenti, che dovrebbero agire solo al termine di un lungo processo, di ascolto.
Alcuni errori gravi nel rapporto tra le imprese e i loro consulenti hanno a che fare con la sussidiarietà, una parola assente nei corsi di formazione per manager delle business school, in genere lontana anche dalla teoria e dalla prassi delle varie forme della consulenza. Sussidiarietà è parola prima di ogni buona comunità e società. È essenzialmente un’indicazione sull’ordine e sulle priorità di azione quando gli interventi necessari per gestire un problema sono più di uno e gli attori si trovano a distanze diverse dal problema da risolvere. La raccomandazione del principio di sussidiarietà è in realtà semplice: il primo che deve agire ed essere ascoltato è quello più vicino al problema, e tutti gli altri attori devono intervenire solo dopo per aiutare (in “sussidio”) chi è più prossimo alla situazione da gestire. Le applicazioni più note del principio di sussidiarietà sono quelle politiche (verticali e orizzontali), talmente note che si finisce per dimenticare che la sussidiarietà ha una portata molto più vasta.
[fulltext] =>L’origine della sussidiarietà si trova nel pensiero di Aristotele e poi di san Tommaso d’Aquino. Ma la sussidiarietà la troviamo già nella Bibbia, dove il primo ad applicarla è Dio stesso nei suoi rapporti con gli uomini e le donne. Perché non si sostituisce alla loro responsabilità ma li “aiuta” (sussidia) a realizzare la loro vocazione, e poi si fa da parte, tace, si ritrae (tzimtzum), si ritira, esce di scena - è anche questo il significato del “settimo giorno” della creazione e dello shabbat (Genesi 2,2). È il Dio della “seconda battuta”, dell’“ultima istanza”, che interviene solo dopo che abbiamo fatto tutta la nostra parte per risolvere i nostri problemi. Tanto che in alcuni libri biblici – da Ester al Cantico, da Rut a Qoelet – l’azione diretta di Dio è quasi assente, per far spazio a quelle degli uomini e ancor più delle donne. Nella sussidiarietà, infatti, c’è qualcosa di femminile. Il Dio della Bibbia ci accompagna senza prendere il nostro posto, perché, diversamente dagli idoli, non abusa del suo potere, lo usa in modo sussidiario.
Nella Bibbia, poi, troviamo anche episodi dove la sussidiarietà è esplicita. Uno riguarda la costruzione del tempio di Salomone. A un certo punto, la responsabilità dell’opera passa dai sacerdoti ai lavoratori, «ai muratori, agli scalpellini», e «il denaro veniva consegnato nelle mani degli esecutori dei lavori» (2 Re 12,12-13). La gestione del processo produttivo viene così tolta a chi era più distante e con meno competenze (i sacerdoti) e data ai lavoratori, coloro più vicini all’opera – a ricordarci anche che senza sussidiarietà non abbiamo mai laicità ma solo clericalismo. La sussidiarietà la ritroviamo, poi, anche nei Vangeli, in particolare nel grande racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci: «Gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: “Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla…”. Ma egli rispose loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Gli dissero: “Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane?”. Ma egli disse loro: “Quanti pani avete? Andate a vedere”. Si informarono e dissero: “Cinque pani e due pesci”» (Mc 6,35 ss).
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 12/03/2023
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 05/03/2023
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Edgar Morin, Insegnare a vivere
Si è radicata la tendenza a esternalizzare, fuori dai luoghi del lavoro comune, la gestione delle relazioni e delle emozioni. Un modello esportato in altri settori della società.
Siamo dentro una grande trasformazione della cultura d’impresa, che iniziata nell’ultimo scorcio del XX secolo oggi conosce una stagione di grande sviluppo e di vasto consenso. Ma come accade in tutti i grandi processi sociali, è proprio nel momento del suo massimo successo che in questo nuovo umanesimo aziendale iniziano a evidenziarsi i segni del declino, le prime crepe che minacciano e prefigurano il possibile crollo dell’intero edificio. Senza accorgercene, nell’arco di circa mezzo secolo la grande impresa da luogo paradigmatico dello sfruttamento e dell’alienazione è divenuta icona dell’eccellenza, del merito, del benessere e persino della fioritura umana, e in quanto tale imitata e importata in tutti gli ambiti del sociale, fino a includere, recentemente, il mondo non-profit e persino delle comunità spirituali.
[fulltext] =>Partiamo da una parola che sembra lontana dal mondo del business: fragilità. Le generazioni precedenti avevano saputo trasmetterci la capacità di far fronte alle difficoltà dell’esistenza, e pur tra molte contraddizioni avevano creato nelle persone un capitale interiore fatto di religione, di saggezza e pietà popolare e poi dei valori delle grandi ideologie di massa che erano anche narrazioni collettive sul senso della vita, del dolore e della morte. E questo perché le culture di ieri erano umanesimi dell’imperfezione; quindi ponevano al centro il limite, la fatica, l’incompiutezza, il sacrificio, e la felicità era vissuta come un intervallo breve tra due lunghe infelicità. La vita era dura, povera, breve, e l’arte di formazione del carattere consisteva nel rendere quella vita dura una vita possibile e sostenibile, magari un poco migliore per i figli senza illudersi e illuderci che sarebbe stata troppo migliore. Nessuno avrebbe mai pensato, nel mondo dei nostri nonni, di educare i giovani alla cultura del successo, incoraggiandoli a diventare “vincenti”, perché tutti sapevano che sarebbe stata la via perfetta per condurre una vita da frustrati e incattiviti. La partita della vita finiva bene se si portava a casa un buon pareggio, in un eterno catenaccio.
Con il passaggio di millennio, dall’umanesimo dell’imperfezione siamo velocemente passati a quello della ricerca della felicità e del successo. “Guai ai vinti e agli infelici!” è diventato il motto. Ci siamo progressivamente e velocemente dimenticati l’antico mestiere del vivere e la fatica della democrazia e ci siamo innamorati della facile meritocrazia, facile perché immaginaria. La fine delle grandi ideologie e (in Occidente) l’indebolimento della religione, ha operato grandi cambiamenti antropologici. È finito un mondo morale e il suo posto lasciato vacante non è stato occupato da qualcosa di nuovo e di altrettanto robusto.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire il 05/03/2023
"Cammin facendo ho acquistato la convinzione che la nostra educazione soffre di una carenza enorme per quanto concerne un bisogno primario del vivere: ingannarsi e cadere nell’illusione il meno possibile."
Edgar Morin, Insegnare a vivere
Si è radicata la tendenza a esternalizzare, fuori dai luoghi del lavoro comune, la gestione delle relazioni e delle emozioni. Un modello esportato in altri settori della società.
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