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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2024
“Mi si dirà: non concludo. Rispondo: L’intelligenza non conclude nulla: vede. Se vede.”
Don Giuseppe De Luca, Intorno al ManzoniLa democrazia è una distruzione di regali-obblighi per creare le condizioni per i doni-gratuità. Quelli che non ci sono nel Cristo di Levi.
Gli scrittori, soprattutto i più grandi, prima vedono i loro personaggi, le scene, i paesaggi, i dialoghi, gli spazi vuoti, poi li scrivono. Non si può narrare se prima non si vede. Anche in questo lo scrittore somiglia al profeta biblico, che prima di udire la parola, la vede: “Parola che vide Isaia” (Is 2,1), “Parola che Amos vide” (Am 1,1). “E venne la vigilia di Natale… I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati” (Cristo si è fermato a Eboli, p. 181).
[fulltext] =>Qui Carlo Levi ci mostra una pratica del dono diversa dalle teorie del dono che qualche decennio prima erano state elaborate dall’antropologo Marcel Mauss e dai suoi colleghi. Mentre quegli studiosi ci spiegavano che il circuito del dono ha una struttura ternaria fatta di donare-accettare-contracambiare, Levi ci raccontava invece un dono che era solo obbligo: munus, dicevano i romani, o regalo, che deriva da re (rex, regis), e cioè le offerte obbligatorie ai re, ai signori, ai superiori, alla divinità. Nella società dell’Italia contadina descritta da Levi i doni-regali dei poveri non conoscevano la reciprocità: dovevano essere fatti ai signori, e basta. Il donare-accettare-contraccambiare si riduceva al solo donare; è vero che qualche volta i signori non accettavano i doni, ma non per non essere obbligati a contraccambiare ai poveri (quest’obbligo non c’era mai); se non accettavano era solo perché non erano adeguati e graditi: e questa era davvero una disgrazia. Quello dei contadini era un obbligo unilaterale, senza ritorno. Il mondo pre-moderno non conosceva cosa fosse il dono-gratuità: conosceva solo i regali, gli obblighi, ma il dono gratuito non era tra gli strumenti dell’uomo e ancor meno della donna antica. Levi sente di dover violare quell’antica liturgia che, da uomo moderno e liberale, vedeva solo come retaggio feudale: “Anche io dovetti ricevere, quel giorno, bottiglie di olio, di vino, e uova, e canestrelli di fichi secchi, e i donatori si meravigliavano che io non li accettassi come una decima obbligatoria, ma che me ne schermissi, e facessi, in cambio, come potevo, qualche dono. Che strano signore ero io dunque, se non valeva per me la tradizionale inversione della favola dei re Magi, e si poteva entrare a casa mia mani vuote?” (pp. 181-182). Bello il riferimento ‘all’inversione’ della tradizione (‘favola’) dei Magi: quei signori del vangelo di Matteo portavano doni ad una madre e ad un bambino poveri, mentre i signori cristiani di Gagliano i doni-regali li pretendevano dai poveri e dalle donne. Le mie nonne, mia madre, mio padre non hanno conosciuto i doni. Hanno avuto, qualche volta, un po’ di frutta secca a Natale e alla Befana, ma i doni come li intendiamo noi (gratuiti e liberi) non c’erano quasi mai, né per i compleanni né per altro. I doni erano vissuti (quasi) sempre come destino senza l’esperienza della libertà. C’erano invece le offerte necessarie ai santi, per le messe, le regalie dai potenti in momenti speciali per rafforzare le gerarchie.
Queste antiche pratiche di dono-senza-gratuità erano intrecciate con una idea religiosa di sacrificio, cresciuta durante la Controriforma cattolica: i contadini, le donne, i poveri dovevano sacrificarsi per la famiglia, per la chiesa, per Dio, ma dall’altra parte non c’era nessuno che si doveva sacrificare per loro. Anche il sacrificio a Dio era vissuto come regalo, come offerta da fare al più potente dei potenti, regali che non hanno liberato i poveri e li hanno legati più stretti al loro triste destino. Anche se, lo sappiamo, gli esseri umani sono più grandi del loro destino, e dai mondi del solo-obbligo, sono sempre fioriti anche dei doni - e continuano a fiorire.
Il cammino della democrazia è stata una distruzione creatrice di regali per poter iniziare a fare i doni, perché il dono è l’altro nome della libertà, non è il registro dei servi e degli schiavi. E ogni volta che nelle nostre relazioni sociali e religiose tornano i regali-obblighi, stiamo retrocedendo al mondo feudale.
Questi regali senza gratuità sono presenti anche nella figura di Don Trajella, il parroco di Gagliano. Don Giuseppe Trajella da Tricarico è un ‘vinto’ del ciclo del Cristo. Il primo incontro tra Carlo Levi e l’arciprete compone uno degli acquerelli più belli del romanzo: “Era un vecchio piccolo e magro, con degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato.… Da tutto il suo aspetto spirava un'aria stanca di miseria mal sopportata; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce”. Da giovane era stato professore di teologia al seminario di Napoli e a quello di Melfi, scrittore, autore di biografie di santi, scultore e pittore. A Gagliano era stato mandato “per punizione”, e in paese non era amato, dove si diceva “che era sempre ubriaco”. Ormai non era “che un povero prete perseguitato e inasprito, una pecora nera e malata in un gregge di lupi”. La disgrazia “lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l'aveva buttato, come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva più toccato un libro né un pennello… Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava” (pp. 42-43). Levi anche per questo vecchio prete sventurato ha occhi di pietas: lo vede nella sua disgrazia, lo guarda, a modo suo lo redime e salva con i suoi occhi buoni. Un altro compagno di sventura, di un confino diverso e simile, un altro sconfitto dalla vita e da quel tempo infelice. E Levi sa stare bene in questa compagnia scomoda, nella ‘corte dei miracoli’ del suo Cristo, di cui Carlo non è il re ma semplicemente uno di loro.
Don Trajella è il protagonista della esilarante messa della notte di Natale del 1935. I fedeli erano in chiesa, ma “di Don Trajella non si vedeva traccia”. Dopo mezz’ora di attesa, Don Luigino, il capo dei fascisti locali, pensò che il prete fosse di nuovo ubriaco: manda un ragazzo a cercarlo e il parroco finalmente arriva. Alla fine della messa, dopo l’ite missa est, Don Trajella sale sul pulpito per proclamare la sua predica e, dopo qualche minuto di mezze parole e di scuse, finalmente parla: “Fratelli carissimi… avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l'avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L'avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo più, l'ho perduta; e non mi ricordo più di nulla. Come fare?” (p. 183). Don Luigino non gli crede, e non trattiene la sua ira: “È uno scandalo, è una profanazione della casa di Dio. Fascisti, a me”. Ma mentre il prete giace, prostrato, in ginocchio, accade qualcosa di straordinario: “Miracolo, miracolo! Gesù mi ha ascoltato! … Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio”. Sotto il crocifisso di legno spuntò un foglio con sopra stampata la lettera di un sergente di Gagliano, proveniente dalla guerra di Abissinia. E quella lettera diventa la sua nuova predica sulla guerra e sulla pace, sottolineando che “questa guerra non è una guerra, ma un’azione di pace”. Intanto, mentre Don Trajella predicava, Don Luigino e i suoi fascisti avevano iniziato a cantare in chiesa “Faccetta nera" e poi “Giovinezza”. Ma Trajella, indifferente al disordine, continua deciso la sua predica, mette da parte la lettera del sergente e così conclude: “Il divino infante è nato proprio in quest'ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus… Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non battezzati i vostri figli, non vi confessate, non vi comunicate… E perciò la pace non è con voi. Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire Pax in terra hominibus? Vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l’usanza, al vostro pastore. Invece non l'avete fatto. Perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonae voluntatis, non avete la volontà buona, così non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensateci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagate i debiti per i suoi terreni che glieli dovete dall'anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, ispiri la pace nei vostri cuori, se volete che la pace torni nel mondo e finisca la guerra” (p. 183). Un diverso ‘agnello’ che porterà un’altra pace; altri ‘debiti’ rimessi da altri debitori.
Don Luigino, quella notte stessa denunciò don Trajella al podestà, e fu presto trasferito. Durante quella stessa notte, Giulia, la sua domestica, rivelò a Carlo gli incantesimi più potenti, “quelli che possono far ammalare e morire - Soltanto a Natale si possono dire, in grandissimo segreto, e con giuramento di non ripeterli a nessun altro… In tutti gli altri giorni è peccato mortale” (p. 187). Anche io ricordo bene Pierina, una signora anziana del mio paese, amica di famiglia, che soltanto nella notte di Natale poteva rivelare le formule segrete per togliere l’invidia (tramite un rito con l’olio); non l’ho mai imparate, ero troppo piccolo per un giuramento, ma quel mondo magico-religioso mi incantava, e mi ha lasciato in dono il senso del mistero che scorre dentro la vita.
L’economia, la miseria e lo sfruttamento dei contadini, sono l’orizzonte del Cristo, qualche volta ne sono il contenuto: “I contadini erano pagati con salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena mietitura, le lunghe file di donne, che salivano con in testa un sacco di grano, come dei dannati dell'inferno, sotto il sole feroce.… Il migliore e più umano pensatore di questa terra, Giustino Fortunato, amava chiamarsi ‘il politico del niente’. Io pensavo a quante volte ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. - Ninte - come dicono a Gagliano: ‘Che cosa hai mangiato?’. - Niente -. ‘Che cosa speri?’ - Niente - ‘Che cosa si può fare? - Niente - E gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo” (p. 169). Un altro nichilismo, diverso da quello dei filosofi. La scuola pubblica e gratuita, la sanità universale, il lavoro per tutti, gli insegnanti di sostegno, sono stati e sono gli strumenti e i luoghi dove abbiamo cercato di superare quel ‘niente’. Oggi altri ‘niente’ stanno occupando le anime e i cuori della nostra gente, di troppi giovani. Un niente di pace, di speranza, di comunità, di relazioni, di incontri, di Dio.
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pubblicato su Avvenire il 17/11/2024
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2024
“Ringraziare desidero per il fatto di avere una sorella.”
Mariangela Gualtieri, Ringraziare desidero
Due episodi del Cristo di Carlo Levi, l’incontro con sua sorella e il bambino salvato dalla Madonna di Viggiano, ci introducono in un mondo che ha ancora molto da dirci.
Il Cristo si è fermato ad Eboli è, prima di tutto, un libro ricco di episodi scritti con una prosa bellissima, capaci di donarci brani di una umanità tanto bella quanto ormai perduta. Nella prima parte del romanzo, troviamo la visita di Luisa a Carlo Levi, suo fratello. Lei era una celebre neuropsichiatra infantile, nota per i suoi studi pionieristici sull’educazione sessuale dei bambini. Luisa era di quattro anni più grande di Carlo (era nata nel 1898), e il fratello ce ne dona una bellissima descrizione in pagine tra le più intense del romanzo. Al suo arrivo, la vede scendere dall’automobile del ‘tassista’ di Gagliano: “I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto della sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben noti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine… il suo arrivo era quello di un'ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero” (p. 78). È grazie al racconto che Luisa fa al fratello del suo arrivo in treno a Matera che abbiamo forse le pagine più note del Cristo: “Di bambini ce n'era un’infinità… Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, le mosche che si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili… Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria” (p. 82). Una descrizione tremenda che contrasta, e questa volta il contrasto è tutto buono, con la stupenda Matera di oggi, diventata una delle città europee più belle. L’Italia è stata capace anche di queste metamorfosi civili, che però non devono mai farci dimenticare che la Basilicata e il Sud non sono soltanto quello luminoso di Matera.
[fulltext] =>Il racconto dell’arrivo di Luisa a Gagliano è pieno di emozioni, soprattutto quando Carlo descrive come il paese accolse e lesse quella visita sororale: “Finora io ero stato, per loro, qualcuno piovuto dal cielo: ma mi mancava qualcosa: ero solo. L'aver scoperto che anch'io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti… Quando, verso sera, passeggiavamo per l'unica strada del paese, mia sorella ed io, tenendoci a braccetto, i contadini dalle soglie ci guardavano beati. Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: - Benedetto il ventre che vi ha portati - … - Benedette le mammelle che vi hanno allattati! - … Una sposa è una bella cosa: ma una sorella è molto di più! - Frate e sore, core e core“ (pp. 84-85). Parole che ricordano quelle delle donne al passaggio di Gesù (Lc 11,27).
Il mondo greco conosceva più parole per dire ciò che noi oggi chiamiamo ‘amore’. Philadelphia e storgé erano utilizzate per esprimere quella particolare forma di amore che è tipica dei legami familiari. Paolo, nella Lettera ai Romani (12.10), usa la rara parola philostorgos - composta unendo philos (amico) e storgé - per dire: “Amatevi l’un l’altro con affetto fraterno”. L’amore tra fratelli e sorelle è una forma d’amore tra le più forti e profonde, diversa da quella coniugale e anche da quella per i (e dei) genitori. È fatto di poche parole e di molta sostanza silenziosa, di libertà, di litigi che spesso si ricompongono il minuto dopo in cui sorgono. L’amore, poi, tra sorelle è ancora diverso da quello tra i fratelli, ma quello tra un fratello e una sorella è ancora diverso, e forse quello più delicato e bello. Vive di grazia, di dolcezza, di abbracci lunghissimi, di bellezza, di tanta commozione. Perché, diversamente da quelli tra maschi e tra femmine, l’affetto tra una sorella e un fratello ha una tipica tenerezza e una complicità unita alla delicatezza, al rispetto, alla confidenza, al pudore. Certi grandi dolori intimi noi maschi li diciamo più facilmente - e qualche volta soltanto - ad una sorella. Non è un amore scelto come è invece quello dell’amicizia (la philia); le sorelle (e i fratelli) ci capitano, ce le troviamo dentro casa prima di noi o arrivano dopo, ma questa non-scelta invece di ridurre l’affetto e la libertà l’accrescono, è lievito di molte altre libertà cercate e conquistate. Il dono di avere una sorella cambia e cresce insieme a noi, gli anni lo svelano, ne mostrano tutti i tesori che restano nascosti da ragazzi. Pochi dolori sono più grandi di quelli che nascono da una sorella gravemente malata, o umiliata e offesa, e la morte giovane di una sorella è forse, con quello per la morte dei figli, il dolore più grande sulla terra. Oggi, in un tempo di famiglie fragili e brevi e di troppe solitudini, l’amore sororale resta un’àncora per le nostre felicità. Fraternità è una bellissima parola ma da sola non basta per esprimere l’emozione provata dalle donne nel vedere Carlo e Luisa a braccetto. Ci vorrebbe una parola diversa, ‘frate e sore’ insieme, la fraternità e la sororità; una parola che non c’è, ma che non dovremo mai smettere di cercare e magari un giorno trovare.
Particolarmente delicate sono poi anche le pagine su un’altra donna, Margherita, che faceva le faccende a Carlo: “Una vecchia, con un viso pieno di bontà”, che “era considerata una delle donne più intelligenti e colte del paese” - le pagine più belle del Cristo sono quelle che hanno donne per protagoniste. Margherita aveva fatto “fino alla quinta elementare, e ricordava perfettamente tutto quello che aveva imparato. Quando veniva nella mia camera, mi ripeteva infatti le poesie di quei suoi vecchi tempi di scuola: la Spedizione di Sapri, la Morte di Ermengarda. Le ripeteva stando in mezzo alla stanza, ritta in piedi, con le braccia rigide e pendenti lungo il corpo, recitandole come cantilene” (p. 165). In quel mondo l’intelligenza era qualcosa di diverso da quanto è diventata dopo. Riguardava anche la bontà, perché nessuna persona che non fosse buona poteva essere chiamata intelligente. Qualcosa di simile a quella che la Bibbia chiamava sapienza. Anche la scuola era importante per l’intelligenza, sebbene non essenziale, perché la scuola era poca e quindi preziosa come l’oro. Nel mondo contadino, poter andare a scuola, sopratutto per le bambine, era sempre giorno di festa, un’oasi di bellezza in una quotidianità difficile fatta di fatica e di dolore. Per i contadini di ieri, le parole che ascoltavano dalla maestra nelle aule multiclasse era il luogo delle novità vere: la storia con i suoi popoli misteriosi, la geografia con le sue capitali del mondo. Oggi scoprivano gli assiri, domani i babilonesi, dopodomani Madrid: tutti abitanti del loro mondo magico. Ma soprattutto amavano le poesie. Non le capivano, ma le imparavano a memoria come si imparavano le preghiere, perché erano belle come le statue della madonna e dei santi, piene di colori e ricoperte d’oro. Quei bambini sapevano che gli anni della scuola erano molto pochi, due o forse cinque, e quindi non perdevano una parola della maestra. Per intuire qualcosa di cosa fosse la parola nella Bibbia, dovremmo tornare con la memoria nelle scuole dei bambini poveri di ieri, o in una classe africana di oggi: ogni parola era caparra della terra promessa. In Margherita che recitava le poesie, ho rivisto quelle di mia madre, anche lei arrivata solo fino alla quinta elementare, che ogni 10 agosto ci recitava (e recita ancora) a memoria e con la stessa posa bambina, la poesia ‘San Lorenzo’, a cui nei giorni speciali si aggiungevano ‘Breus’ e ‘La cavallina Storna’ - la sua amata maestra Anna Filippini amava molto Pascoli.
Un giorno Margherita raccontò a Carlo, “fra le lagrime”, la storia del suo terzo bambino: “Questo figlio era il più bello di tutti… Un giorno d’inverno, Margherita l’aveva affidato a una comare e vicina, che l’aveva portato con sé in campagna, mentre andava a far la legna. Alla sera la vicina tornò a casa sola, e disperata. Aveva lasciato il bambino, che camminava ben poco, per pochi minuti, mentre raccoglieva, nel sentiero del bosco, delle frasche: ma, tornata, il bambino non c’era più. Aveva girato attorno dappertutto, del bambino nessuna traccia… Il quarto giorno, alla mattina, Margherita che girava sola e sconsolata per la campagna, incontrò alla volta di un sentiero, una donna grande e bella, col viso nero. Era la Madonna di Viggiano. Le disse: - Margherita, non piangere. Il tuo bambino è vivo. È laggiù nel bosco, in una fossa da lupi. Va a casa, fatti accompagnare, e lo troverai -. Margherita corse, e, seguita dai contadini e dai carabinieri, giunse nel luogo indicato dalla Madonna. Nella fossa da lupi, in mezzo alla neve, giaceva il suo bambino, tranquillamente addormentato, tutto rosa e tiepido in mezzo a quel freddo. La madre lo abbracciò, lo svegliò. Tutti piangevano, anche i carabinieri. Il bambino raccontò che era venuta una donna col viso nero, e che per quattro giorni l’aveva tenuto con sé, e gli aveva dato il latte, lì in quella fossa, l’aveva tenuto caldo” (pp. 165-166). Poi il bambino morirà qualche anno dopo, cadendo da una scala, ma quel latte che aveva ricevuto dalla madonna di Viggiano lo aveva reso speciale per sempre. Noi oggi alle donne ‘grandi e belle, col viso nero’ che incontriamo lungo i nostri sentieri, chiudiamo i porti, le respingiamo, non crediamo ai loro racconti di vita. Ma chissà quanti bambini nelle nostre ‘fosse da lupi’ continuano ad essere ‘allattati’ dalla ‘Madonna di Viggiano’, e non muoiono?!.
Nel mondo narrato da Levi le donne erano le prime amministratrici del sacro, sempre intrecciato con il magico. Era una gestione condivisa tra molte persone. Nel mondo protestante il sacro popolare è stato combattuto, in quello cattolico istituzionale è stato concentrato nei preti, in un monopolio maschile. Nel mondo contadino cattolico, invece, è rimasto femminile, plurale e popolare, quindi selvaggio e indomato, ed è sopravvissuto, intrecciato con la magia ma vivo. In quel campo meticcio la fede ha trovato terreno fertile, l’umiltà naturale ha alimentato l’humus cristiano. Se il cristianesimo, dopo questa notte oscura, avrà ancora una nuova stagione, questa sarà annunciata da un’alba popolare, contadina, femminile, spuria. Non sarà il cristianesimo dei teologi né quello del tempio il giardino dove la pietra potrà ancora rotolare.
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Le figure di donne nel grande romanzo che svelò il Meridione contadino mostrano segreti di relazioni affettive e di memoria religiosa
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2024
“Ringraziare desidero per il fatto di avere una sorella.”
Mariangela Gualtieri, Ringraziare desidero
Due episodi del Cristo di Carlo Levi, l’incontro con sua sorella e il bambino salvato dalla Madonna di Viggiano, ci introducono in un mondo che ha ancora molto da dirci.
Il Cristo si è fermato ad Eboli è, prima di tutto, un libro ricco di episodi scritti con una prosa bellissima, capaci di donarci brani di una umanità tanto bella quanto ormai perduta. Nella prima parte del romanzo, troviamo la visita di Luisa a Carlo Levi, suo fratello. Lei era una celebre neuropsichiatra infantile, nota per i suoi studi pionieristici sull’educazione sessuale dei bambini. Luisa era di quattro anni più grande di Carlo (era nata nel 1898), e il fratello ce ne dona una bellissima descrizione in pagine tra le più intense del romanzo. Al suo arrivo, la vede scendere dall’automobile del ‘tassista’ di Gagliano: “I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto della sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben noti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine… il suo arrivo era quello di un'ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero” (p. 78). È grazie al racconto che Luisa fa al fratello del suo arrivo in treno a Matera che abbiamo forse le pagine più note del Cristo: “Di bambini ce n'era un’infinità… Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, le mosche che si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili… Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria” (p. 82). Una descrizione tremenda che contrasta, e questa volta il contrasto è tutto buono, con la stupenda Matera di oggi, diventata una delle città europee più belle. L’Italia è stata capace anche di queste metamorfosi civili, che però non devono mai farci dimenticare che la Basilicata e il Sud non sono soltanto quello luminoso di Matera.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/11/2024
“Dalle esperienze di confino di un altro antifascista, Levi, nacque Cristo si è fermato ad Eboli, che vuole essere ed è l'opera di un letterato, ma a cui noi tutti dobbiamo qualche cosa di più di una semplice suggestione letteraria.”
Ernesto de Martino, La terra del rimorso, 1961, p. 28
Con il Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi ci svela l’anima della gente lucana, e ci porta dentro la loro religiosità, forse più cristiana di quanto Levi non pensasse.
Cristo si è fermato ad Eboli è parte della coscienza morale del secondo Novecento italiano ed europeo. Carlo Levi e Ignazio Silone ci hanno mostrato un’anima popolare dell’Italia meridiana, contadina e povera molto più complessa e ricca di come l’avevano descritta i primi storici moderni e illuministi, per i quali quei contadini italiani erano semplicemente ‘pagani’, molto simili se non identici agli abitanti pre-cristiani della Magna Grecia; come se il cristianesimo non fosse mai passato in quelle terre rurali del Sud, che, per la poca o inesistente cultura cristiana, erano state già definite dai gesuiti del ‘600 le ‘Indie d’Italia’. Cristo non si era fermato solo a Eboli: non era mai uscito dalle mura aureliane di Roma, dai seminari e dai trattati di teologia.
[fulltext] =>Cristo si è fermato ad Eboli è ambientato tra Grassano e Aliano (chiamato Gagliano nel libro), due comuni nella provincia di Matera. Il tema religioso nei suoi rapporti con la magia è un elemento essenziale del romanzo: “Nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia” (Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, 1947, p. 20). Quest’estate ho trascorso alcuni giorni in quei due paesi, per respirare il loro spirito, e lì, tra letture e un pellegrinaggio a piedi alla Madonna di Viggiano, ho deciso di scrivere questi pochi articoli sul Cristo di Carlo Levi. La presenza di Levi è ancora vivissima in quelle terre, a svelarci quella capacità sublime che ha la letteratura di cambiare la storia e la geografia dei luoghi mentre ce ne svela l’anima profonda. Il mondo cambia ogni giorno mentre proviamo a raccontarlo.
Il Cristo di Levi è molte cose. A prima vista è un romanzo autobiografico, una sorta di diario antropologico e sociale scritto tra il 1943 e il 1944 a Firenze, che racconta il periodo di confino lucano (1935-1936) dell’anti-fascista Carlo Levi, pittore, medico, attivista politico e scrittore. Il romanzo è anche la denuncia della condizione disumana degli abitanti e dei bambini denutriti e malarici di Matera. Ma le sue pagine più belle sono ancora altre. Sono le descrizioni dei sentimenti della povera gente, delle loro molte paure, delle meschinità morali di tutti i fascismi e di tutte le censure, del senso religioso e magico di un mondo popolare e contadino di cui sopravvive un richiamo vero e vivo. Ma il Cristo è soprattutto un libro scritto con una prosa meravigliosa. Levi era un pittore, anche quando scrive dipinge; usa la penna per disegnare paesaggi e piccoli dettagli, volti di uomini, di donne, di bambini, di poveri.
‘Cristo’ non è solo la prima parola di uno dei titoli più geniali della storia della letteratura; è anche uno dei protagonisti centrali del romanzo, protagonista nella sua assenza: “Noi non siamo cristiani - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo… Noi non siamo cristiani, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie”. E poi specifica: “Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno lasciano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato fin qui” (pp. 9-10).
Per Levi, Cristo e la sua fede diversa non si trovano in quelle terre, non sono scesi fin lì; al loro posto c’era invece la magia, la stregoneria, i monachicchi (gli spiriti dispettosi dei bambini morti senza battesimo), i morti: “Per il vecchio, le ossa, i morti, gli animali e diavoli erano cose familiari, legate, come lo sono del resto, qui, per tutti, alla semplice vita di ogni giorno - Il paese è fatto delle ossa dei morti - mi diceva nel suo gergo scuro, gorgogliante come un'acqua sotterranea che esca improvvisamente tra le pietre” (p. 67). C’erano anche alcuni santi e la Madonna di Viggiano che però di cristiano avevano, per Levi, davvero molto poco o nulla: “La madonna di Viggiano era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra” (p. 113).
La visione che Levi ci dona dei contadini della Basilicata è simile, ma anche diversa, a quella di Ernesto de Martino, emersa dai suoi studi etno-antropologici sulla Lucania e il Sud, condotti più o meno negli stessi anni di Levi. Per de Martino tra religione cattolica popolare e magia si realizzò una mutua contaminazione, sebbene l’elemento dominante restasse la magia, che era molto più radicata, popolare, diffusa della fede cristiana che era arrivata nel Sud da fuori, dall’alto e parlante una lingua incomprensibile. De Martino era poi convinto che un certo elemento magico fosse intrinseco allo stesso cattolicesimo: “Dall'esorcismo extra-canonico di stregoni e fattucchiere si passa agli esorcismi del messale (benedizione dell'acqua, del sale, della preghiera contro Satana e degli altri spiriti maligni al termine della messa etc.), del pontificale, del rituale romano …, delle medaglie di San Benedetto e soprattutto degli esorcismi” (Sud e Magia, 1959, p. 120). Per De Martino, laico e comunista, diversamente da Levi qualcosa di Cristo e del cristianesimo era arrivato oltre Eboli, formando una parte, forse non la più importante, della religione meticcia di quelle genti. Ancora più lontano da Levi si era spinto in quegli stessi anni don Giuseppe de Luca, intellettuale tra i massimi del ‘900 e grande storico della pietà popolare, che ci ha raccontato una fede del popolo cattolico certamente meticcia ma anche cristiana, sebbene fosse un cristianesimo diverso da quello dei catechismi (Introduzione alla storia della pietà, 1951). Anche per De Luca la pietà del popolo meridiano e contadino era un meticciato di cristianesimo e altre cose. Cristianesimo mescolato, impuro, contaminato, ma sempre cristianesimo, non meno vero di quello dei teologi della Controriforma.
Nel mondo descritto da Levi, non così diverso da quello dei miei nonni, c’erano gli spiriti, i santi, moltissimi morti, tutto era avvolto da una certa atmosfera spirituale più negativa e paurosa che positiva e rassicurante; una presenza sovrannaturale costante fatta di elementi arcaici, di molta magia e di qualche innesto cristiano assorbito presto dall’humus animista antico. Non possiamo negarlo. L’Europa cristiana, la Christianitas medioevale e pre-moderna è stata, infatti, frutto soprattutto dell’immaginazione dei teologi e degli ecclesiastici che confondevano la fede delle élite urbane e delle casate aristocratiche con quella di tutto il popolo cristiano. In realtà, nelle campagne, nelle montagne, i poveri e gli analfabeti hanno vissuto in un’attesa del messia molto simile a quella del popolo biblico, che ancora continua. Eppure, nonostante tutto ciò, Cristo superò Eboli, raggiunse quei popoli contadini e magici, che lo incontrarono davvero dentro le preghiere latine riscritte in dialetto, nelle statue dei santi bagnate dalle lacrime, nelle prediche dei missionari itineranti, persino in quella strampalata di Don Trajella per la vigilia di Natale. Il cristianesimo non fu la massa della fede della nostra gente, ma un granello piccolissimo del suo lievito la lievitò, e continua a lievitarla.
La religione cristiana si era fermata e Eboli, o molto prima, ma Cristo no: lui era sceso fino alla Basilicata e alla Sicilia, si era mescolato e coperto con molte altre cose per poter penetrare più dolcemente dentro la vita della gente, e lì è restato. Quel popolo contadino magico incontrò dunque davvero Cristo, un Cristo popolare, dialettale, bambino, travestito con abiti tradizionali e folkloristici; ma Cristo era lì, a Gagliano, dentro gli amori e soprattutto i dolori dei poveri, degli uomini e soprattutto delle donne, per le quali gli abbracci e i baci alle statue dei santi e della madonna erano i pochi momenti di tenerezza e di bellezza in un mondo che per loro era quasi sempre di servitù. Donne analfabete, un po’ cristiane e un po’ streghe, tutte bellissime, alcune descritte magistralmente anche nel Cristo di Levi; donne del popolo, con la stessa fede dei pastori del presepe, della donna siro-fenicia e dell’emorroissa, quella della Maddalena, di Marta, di Maria. Fedi teologicamente imperfette, popolari, fatte di lacrime, di carne e di corpi, ma vere.
Carlo Levi non vide questa pietas cristiana nella Lucania. Non la vide perché non la cercò. Non gli interessava. Per questa dobbiamo leggere de Luca. Ma Levi trovò altro, e non meno interessante. La perla del Cristo di Levi è lo sguardo del suo autore. Uno sguardo buono e mai giudicante sulla vita dei contadini che aveva incontrato. Pur essendo figlio di un altro mondo (quello della scienza) e parte di un altro universo religioso (era laico e di famiglia ebrea torinese benestante), Levi non esprime giudizi di valore sulla condizione morale dei suoi protagonisti: registra le loro passioni, i loro gesti, le loro fedi, i loro grandi dolori disperati, ma non li giudica mai. Non giudica la sua domestica, Giulia, che ha avuto 17 bambini con altrettanti uomini, né gli esorcismi delle altre ‘streghe’, e neanche Don Trajella, parroco confinato a Gagliano, ubriacone e avaro. Anzi, qua e là, arriva addirittura ad esprimere parole positive su quei metodi magici di ‘gestione’ delle malattie e del malessere della vita, rivelando persino un certo scetticismo nei confronti della scienza positivista del suo tempo che trattava tutta la conoscenza popolare come superstizione da eliminare: “La ragione e la scienza possono assumere lo stesso carattere magico della volgare magia… Perciò io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l’antichità e l’oscura, misteriosa semplicità, preferivo essere loro alleato che loro nemico”. Anche perché, aggiungeva Levi, “la maggior parte della ricette basterebbe a guarire i malati, se, senza essere spedite, fossero appese al collo con una cordicella, come un abracadabra” (p. 215). Rispetto ed onore quindi; non si entra nel mondo contadino ‘senza una chiave di magia’, certamente; ma non si entra nel loro mistero senza anche ‘rispettarli ed onorarli’ - ieri e oggi.
Levi ha scritto pagine sui contadini che ancora ci commuovono, perché li ha onorati e rispettati, perché ha lasciato la sua condizione agiata borghese ed è sceso sotto il tavolo del ricco epulone, in compagnia di Lazzaro. E da lì, dal basso, ha visto panorami diversi. In questo esercizio etico e spirituale la sua condizione di confinato lo aiutò, quella sua povertà politica e civile gli donò una autentica fraternità con la povertà naturale dei contadini. E da questo incontro tra persone diverse rese uguali dalla sventura, nacque il capolavoro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/11/2024
“Dalle esperienze di confino di un altro antifascista, Levi, nacque Cristo si è fermato ad Eboli, che vuole essere ed è l'opera di un letterato, ma a cui noi tutti dobbiamo qualche cosa di più di una semplice suggestione letteraria.”
Ernesto de Martino, La terra del rimorso, 1961, p. 28
Con il Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi ci svela l’anima della gente lucana, e ci porta dentro la loro religiosità, forse più cristiana di quanto Levi non pensasse.
Cristo si è fermato ad Eboli è parte della coscienza morale del secondo Novecento italiano ed europeo. Carlo Levi e Ignazio Silone ci hanno mostrato un’anima popolare dell’Italia meridiana, contadina e povera molto più complessa e ricca di come l’avevano descritta i primi storici moderni e illuministi, per i quali quei contadini italiani erano semplicemente ‘pagani’, molto simili se non identici agli abitanti pre-cristiani della Magna Grecia; come se il cristianesimo non fosse mai passato in quelle terre rurali del Sud, che, per la poca o inesistente cultura cristiana, erano state già definite dai gesuiti del ‘600 le ‘Indie d’Italia’. Cristo non si era fermato solo a Eboli: non era mai uscito dalle mura aureliane di Roma, dai seminari e dai trattati di teologia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/10/2024
“Veramente preziosi sono i doni che la vita ci fa; preziosi e strani, risponde Marta. Chi vuole goderli, e si affanna per goderli, e si angustia dalla mattina alla sera per goderli, non li gode affatto, ma li brucia e incenerisce presto. Strani doni. Chi invece li dimentica, e dimentica se stesso, e si consacra interamente, perdutamente, a qualcuno e a qualche cosa, quegli riceve mille volte più di quello che dà, e alla fine della vita quei doni ricevuti dalla natura sono ancora fiorenti in lui, come grandi rose di maggio.”
Ignazio Silone, Vino e Pane, 1937, p. 18
L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone é una profonda riflessione sulla natura del potere, e una mediazione sulla fede come attesa di un Regno che non può tardare.
Chi attraversa, con attenzione, i libri di Ignazio Silone e conosce la sua biografia, non può non riconoscere qualcosa - qualche volta molto - del suo autore in Berardo Viola (Fontamara), Pietro Spina (Il seme sotto la neve), Don Paolo Spada (Vino e Pane), Luca Sabatini (Il segreto di Luca), e infine papa Celestino V (L’avventura di un povero cristiano). Perché, “se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro (e che altro può metterci?) la sua opera non può non costituire un unico libro” (I. Silone, L’avventura di un povero cristiano, Oscar Mondadori, ed. 2017, p. 6).
[fulltext] =>Che altro, infatti, uno scrittore può mettere nelle sue opere se non ‘tutto se stesso’? In realtà, uno scrittore, soprattutto se grande (e Silone lo è), quando crea i personaggi dei suoi romanzi parte senz’altro da ‘tutto se stesso’ ma poi giunge altrove, in un luogo sconosciuto dove ‘se stesso’ non c’è più o c’è molto poco. Perché gli scrittori e le scrittrici svelano bene quella frase, misteriosa e bella, di Jacques Lacan: “L'amore consiste nel dare ciò che non si ha” (Seminario VIII, 1960-1961). Iniziano da ciò che hanno, dalla loro anima intera, ma poi ci amano davvero quando ci danno ciò che non hanno, quando i loro personaggi diventano più grandi e liberi dei loro autori già grandi e grandissimi, e iniziano a vivere in una terra del non-ancora, ignota in primis ai loro creatori. Anche in questo la letteratura è creazione, è l’inedito vero, è allargamento dell’orizzonte dell’umano per popolarlo con altri esseri viventi che arricchiscono e migliorano le storie esistenziali dei loro autori e la storia di tutti. Si scrive anche per provare ad abitare, senza mai colmarla, la distanza siderale tra la realtà e i nostri desideri, tra la terra e il paradiso. ‘Vieni fuori’ non è soltanto il grido che ogni autore sussurra alle sue creature: è lui, è lei, il primo destinatario di quel grido, per provare a risorgere nei suoi personaggi - perché l’unico vero desiderio è risorgere.
Pietro da Morrone, papa Celestino V, il protagonista de L’Avventura di un povero cristiano (1968), è l’ultima puntata del ‘ciclo dei vinti’ di Silone. E’ anche l’ultimo libro di Silone, scritto come opera teatrale, che chiude la sua quarantennale riflessione sulla giustizia sociale, sui cafoni, sui poveri, sull’utopia, sul vangelo, sul cristianesimo e sul suo Regno che deve ancora venire, e che forse verrà davvero. L’ambiente del libro, quello più esplicitamente religioso di Silone, sono le montagne abruzzesi di fine Duecento, dove eremiti e piccole comunità di cenobiti vivevano in un clima escatologico ed apocalittico, un ambiente spirituale fatto di francescanesimo e della profezia di Gioacchino da Fiore, nell’attesa “di una terza età del genere umano, l’età dello Spirito, senza Chiesa, senza Stato, senza coercizioni, in una società egualitaria, sobria, umile e benigna, affidata alla spontanea carità degli uomini” (p. 23). In quel tempo, infatti, non pochi francescani (tra questi il più celebre fu Pietro Olivi, noto anche per le sue idee economiche) videro in Francesco il profeta della nuova Età dello Spirito annunziata da Gioacchino, dell’attesa non-vana e imminente dell’avvento del Regno. Angelo Clareno, personaggio presente nel testo di Silone, fu un francescano condannato e imprigionato perché aderì alle idee gioacchinite.
Anche il Pietro da Morrone de L’avventura di un povero cristiano è figura di un cristianesimo profetico, di Francesco e Gioacchino da Fiore insieme, spirituale e messianico, al quale l’ultimo Silone affida le proprie speranze per una Chiesa e un mondo diversi. Narrando il fallito e incerto tentativo di fra Pietro di riconciliare la Chiesa istituzionale (il papato) con quella carismatica, Silone ci annuncia la sua idea di Chiesa e di vita buona: “Il mito del Regno non è mai scomparso dall'Italia meridionale, questa terra di elezione dell'utopia” (p. 23). Non capiamo l’Italia meridionale senza prendere molto sul serio questa sua anima utopica e messianica: il Sud è anche l’attesa di un altro mondo, una profezia incompiuta di un’altra economia e di un’altra società (Tommaso Campanella), la speranza ancora viva nell’avveramento di una promessa. Il Sud, tutti i Sud del mondo insieme alle sue terre marginali, sono innanzitutto un’attesa collettiva di un non-ancora, una domanda sul Regno che deve venire, che nessuna promessa di merci e profitti potrà mai saziare veramente - sta in questa sete e fame la salvezza non-vana del Sud.
Il libro è costellato dalle riflessioni auto-biografiche di Silone, in particolare dall’evento decisivo della sua vita, l’adesione giovanile al Partito comunista di cui era stato fondatore nel 1921, che più tardi divenne delusione e infine uscita - Silone scrisse i suoi romanzi anche per elaborare il lutto della morte del grande sogno della sua giovinezza. Un evento esistenziale cruciale che con il passare degli anni divenne anche una ‘teoria’ sulle dinamiche dei movimenti ideali e ideologici, di cui parlerà in diversi scritti (Uscita di sicurezza) e interviste (L’avventura di un uomo libero), ancora di grande interesse: “I fondatori sono di solito delle aquile, i seguaci generalmente delle galline” (p. 65). E ancora ne L’avventura, su questo scriveva: “L’esperienza dimostra che la grande comunità genera spontaneamente aspirazioni di potenza, volontà mai interamente soddisfatta di successi e di trionfi… A mano a mano che una comunità si allarga, diventa perciò fatale che essa assomigli alla società che la attornia [e che contestava]. E allora? Dove va a farsi benedire la salvezza del gregge?”. Per queste dinamiche, “anche Gioacchino da Fiore si dimise da capo del suo ordine. Anche San Francesco. Una grande comunità esige compromessi che, non dico un santo, ma un semplice onest’uomo non può accettare” (p. 69).
Temi che diventeranno via via centrali nel libro quando, una volta eletto papa, Fra Pietro, diventato Celestino V, sperimenterà sulla propria anima e pelle le difficoltà di salvare la sua coscienza cristiana insieme all’esercizio del potere. Il conflitto interiore si risolverà con le sue famose dimissioni e il (probabile) dantesco ‘gran rifiuto’. Dopo aver abdicato, dirà: “Ho imparato a mie spese che non è facile essere papa e rimanere buon cristiano… L’esercizio del comando asservisce, cominciando da quelli che lo esercitano” (p. 130). Il libro è infatti anche una profonda e bella riflessione sulla natura del potere e sulla sua logica: “Il maledetto ‘a fin di bene’. Figli miei, non lo dimenticate: c'è solo il bene, puro è semplice; non c'è ‘a fin di bene’… Servirsi del potere? Che perniciosa illusione. È il potere che si serve di noi. Il potere è un cavallo difficile da guidare: va dove deve andare, o meglio va dove può andare o dov'è naturale che vada… L'aspirazione a comandare, l'ossessione del potere è, a tutti i livelli, una forma di pazzia. Mangia l'anima, la stravolge, la rende falsa. Anche se si aspira al potere ‘a fin di bene’, soprattutto se si aspira al potere ‘a fin di bene’” (pp. 157-158). Il potere è un padrone che rende schiavo innanzitutto chi comanda, anche chi lo ha cercato ‘a fin di bene’; è un sovrano spietato che si nutre prima dei capi che ha incantato e solo indirettamente dei loro sudditi. È questa la maledizione di ogni potere voluto e ottenuto, che per questa sua dimensione confina davvero con il demoniaco: “La tentazione del potere è la più diabolica che possa essere tesa all’uomo, se Satana osò proporla perfino a Cristo” (p. 158). Molto belle e profetiche sono le pagine su un altro ‘gran rifiuto’ del Celestino V di Silone, quello di benedire le armi: “Col segno della Croce e i nomi della Trinità, si può benedire il pane, la minestra, l’olio, l’acqua, il vino, se volete anche gli strumenti da lavoro, l’aratro, la zappa del contadino, la pialla del falegname, e così di seguito, ma non le armi. Se avete un assoluto bisogno di un rito propiziatorio, cercatevi qualcuno che lo faccia in nome di Satana. È stato lui a inventare le armi” (p. 123).
Ma L’avventura di un povero cristiano è soprattutto una riflessione sulla natura della fede e sulla possibilità di fare del vangelo la magna carta per una società nuova, per un Regno diverso qui ed ora, e non solo un testo sacro di una religione come tante. Da cui nasce la domanda cruciale: il Regno di Cristo può diventare qualcosa di storico, o la vita su questa terra è solo la sala d’attesa del paradiso? Una dimensione essenziale dello spirito evangelico di questo Regno dei cieli atteso è per Silone la semplicità. In un dialogo, ambientato a Napoli, tra l’ormai Celestino V e alcuni retori e predicatori di corte, il nuovo papa dice: “Devo anzitutto dirvi: nel predicare, se vi è possibile, cercate di essere semplici... La vera semplicità è una conquista assai difficile”. E conclude con una frase di grande bellezza: “L’intera esistenza di un cristiano, si può dire, ha appunto questo scopo: diventare semplice” (p. 100). Una intuizione che è ad un tempo tutta umana e tutta biblica. Nella Bibbia c’è un’anima profonda, quella dei profeti, che vede lo sviluppo della fede come una diminuzione, una riduzione verso una progressiva semplicità ed essenzialità, come esercizio dell’arte del levare. Il cammino del popolo con il suo Dio diverso iniziò alle pendici del Sinai dove ‘c’era soltanto una voce’, una voce nuda che poi divenne tabernacolo, quindi arca, tenda, infine Tempio e reggia di Salomone. I profeti hanno continuato a ripetere, in varie forme e molta forza, che quella crescita e quell’aumentare non erano stati buoni, perché la salvezza Israele l’avrebbe trovata nella riduzione e nel cammino di ritorno dalla reggia alla voce sola, che avvenne grazie all’esilio babilonese: “Forse, per poter risorgere, la Chiesa dovrà prima integralmente imputridire” (p. 159).
Ma anche il buon sviluppo della vita umana è una prima crescita che va dall’infanzia alla vita adulta, cui fa seguito una seconda parte di progressiva e crescente diminuzione verso l’essenziale, quella che dalla vita adulta conduce al suo compimento, dove ci sarà ‘soltanto una voce’ che pronuncerà solo il nostro nome nudo. La dote che porteremo sarà la mitezza che avremmo imparato durante questa buona diminuzione, per diventare talmente piccoli da riuscire a passare per la cruna dell’ago dell’angelo della morte.
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L’intera esistenza di un cristiano, dice il Celestino V di Silone, ha uno scopo: diventare semplice
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/10/2024
“Veramente preziosi sono i doni che la vita ci fa; preziosi e strani, risponde Marta. Chi vuole goderli, e si affanna per goderli, e si angustia dalla mattina alla sera per goderli, non li gode affatto, ma li brucia e incenerisce presto. Strani doni. Chi invece li dimentica, e dimentica se stesso, e si consacra interamente, perdutamente, a qualcuno e a qualche cosa, quegli riceve mille volte più di quello che dà, e alla fine della vita quei doni ricevuti dalla natura sono ancora fiorenti in lui, come grandi rose di maggio.”
Ignazio Silone, Vino e Pane, 1937, p. 18
L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone é una profonda riflessione sulla natura del potere, e una mediazione sulla fede come attesa di un Regno che non può tardare.
Chi attraversa, con attenzione, i libri di Ignazio Silone e conosce la sua biografia, non può non riconoscere qualcosa - qualche volta molto - del suo autore in Berardo Viola (Fontamara), Pietro Spina (Il seme sotto la neve), Don Paolo Spada (Vino e Pane), Luca Sabatini (Il segreto di Luca), e infine papa Celestino V (L’avventura di un povero cristiano). Perché, “se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro (e che altro può metterci?) la sua opera non può non costituire un unico libro” (I. Silone, L’avventura di un povero cristiano, Oscar Mondadori, ed. 2017, p. 6).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/10/2024
“Sotto il foglio da me faticosamente redatto, tua madre firmava con un segno di croce. Sapevo già che era la firma usuale degli analfabeti; ma, anche se ciò non fosse stato, come si sarebbe potuto immaginare una firma più consona a tua madre? Una piccola croce. Una firma più personale di quella? Ricordo che, l'anno dopo, all'esame di catechismo don Serafino mi chiese di spiegargli il segno della croce. "Esso ci ricorda la passione di nostro Signore" io risposi "ed è anche il modo di firmare degli infelici.”
Ignazio Silone, Il segreto di Luca
La scala sociale di Fontamara ci dona una riflessione sulla commedia umana, sui poveri e sul Cristianesimo, che culmina nella conclusione della storia di Berardo, che muore, martire, per sconfiggere il suo destino.
“E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: - In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe Torlonia. Poi vengono i cani delle guardie del Principe Torlonia. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ed è finito.” (1947, p. 34). Questo è forse il brano più noto di Fontamara di Ignazio Silone, perché è la sintesi del suo spirito e possiede una straordinaria forza lirica ed etica.
[fulltext] =>Quel Dio immaginato un gradino sopra i Torlonia finiva, suo malgrado, per legittimare e sacralizzare quella gerarchia tremenda, ponendo il suo sgabello in cima ad una piramide più alta e sbagliata di quella dei faraoni, senza neanche poter dire: ‘non nel mio nome’. Il cristianesimo era arrivato da diciannove secoli sulla terra, ma si era fermato a Eboli o ad Avezzano, senza raggiungere le montagne, le campagne, i poveri, i cafoni che non sapevano che il Dio di Gesù non stava seduto sulla stessa scala dei Torlonia. I cafoni non conoscevano il Dio diverso del vangelo, perché troppo velato e nascosto dalle teologie della Controriforma e dal latinorum dei preti. Eppure qualche volta l’hanno incontrato, soprattutto in fondo ai loro dolori, dove, sotto le sembianze della Madonna, degli angeli o dei santi li aveva visitati, toccati e consolati - non solo lo Spirito ma tutta la Trinità è ‘padre dei poveri’, perché se non lo fosse anche il Dio cristiano sarebbe solo uno dei tanti idoli divoratori dei miseri.
La religione è un grande tema del romanzo. Nel primo capitolo, Michele Zompa racconta un suo sogno a Marietta e ‘al forestiero’: “Ho visto il papa discutere con [Gesù] Crocifisso. Il Crocifisso diceva: per festeggiare questa pace [i Patti Lateranensi] sarebbe bene distribuire la terra del Fucino ai cafoni che la coltivano ed anche ai poveri cafoni di Fontamara… E il papa rispondeva: - Signore, il principe Torlonia non vorrà mica. E il principe è un buon cristiano. Il Crocifisso diceva: - Per festeggiare questa pace sarebbe bene dispensare i cafoni dal pagare le tasse. E il papa rispondeva: - Signore, il governo non vorrà. E i governanti sono anch’essi buoni cristiani… Allora il papa gli propose: - Signore, andiamo sul posto. Forse sarà possibile fare qualche cosa per i cafoni che non dispiaccia né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi”. Così i due partirono verso la Marsica, e “il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi e li lanciò sulle case dei poveri dicendo: - Prendete, o figli amatissimi, prendete e grattatevi” (pp. 31-32). Il parroco proibì a Michele di raccontare il suo sogno. Il mondo cattolico dovrebbe presto iniziare un cammino di purificazione della memoria, perché se è vero che nei suoi carismi sociali tanto ha fatto per alleviare la sorte delle vittime e dei poveri, è altrettanto vero che per non dispiacere ‘né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi’ troppe volte la chiesa ha associato il volto del suo Dio a quello del potere e dei forti, magari chiedendo loro di aiutare i poveri. Il Cristianesimo, moribondo in Occidente, potrà sperare ancora in una primavera se sarà capace di ribaltare la scala di Silone, e annunciare un Cristo che si trova al di sotto dei cafoni e che da lì scompagina ogni giorno i piani dei forti e dei grandi - ‘Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili’.
Nella scala sociale di Silone c’è poi un dettaglio essenziale. In tutti i luoghi e in tutti i tempi non si passa regolarmente e direttamente dai ‘cani delle guardie’ ai ‘cafoni’. No: in mezzo ci sono tre spazi vuoti. Dopo i cani ci sono tre fogli bianchi - ‘poi nulla, poi ancora nulla, poi ancora nulla’ -. Nella scala verso l’alto, dopo il suolo dove si trovano i cafoni mancano tre gradini, c’è un buco tre volte più largo della distanza che separa le guardie dai loro cani. Importante e profetico è il riferimento ai cani, che oggi nella gerarchia della nostra morale perversa si trovano ben al di sopra dei migranti deportati dal nostro governo in Albania. Con il passare dei decenni lo spazio tra i cani e i cafoni è cresciuto molto, le pagine vuote da tre sono diventate dieci, cento, si sono moltiplicate e continuano a moltiplicarsi. In quella Italia di Silone, dove ancora era viva e attiva la pietà popolare, i cafoni abitavano negli stessi villaggi di tutti, erano visibili, si incontravano per strada, erano parte della stessa gente. Da quegli incroci di sguardi ancora orizzontali potevano nascere movimenti di liberazione, insieme a scrittori, artisti e poeti capaci di dar voce al ‘non ancora’ del loro tempo. Oggi i cafoni non li vediamo più, li deportiamo all’estero, il capitalismo li ha nascosti alla vista e al cuore; la pietas cristiana l’abbiamo dimenticata e ridicolizzata nel giro di una generazione. I cafoni della terra sono sempre più dannati, non ci guardano e riguardano più nelle “nostre tiepide case” (Primo Levi) - dove sono, se ci sono, i nuovi Silone e Levi capaci di cantare il dolore infinito dei cafoni? Quel triplice salto di pagina segna il grande abisso che separa chi sta sopra da chi sta sotto, perché senza quel vuoto chi sta sotto non starebbe veramente sotto e chi sta sopra non starebbe veramente sopra. Quel vuoto tra i cani e i cafoni dice allora che l’abisso è invalicabile, che, per Silone ormai deluso anche dal comunismo, la miseria e il potere sono per sempre: circolano le élite, gira la giostra delle classi sociali, ma tra i cafoni e i Torlonia il solco resta insormontabile. Fino a quando? Oppure, per dirlo con le ultime parole di Fontamara: “Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto sangue, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione: che fare?” (p. 250).
L’epopea di Fontamara raggiunge il suo culmine drammatico nella triste e stupenda conclusione della storia di Berardo Viola. Berardo è un giovane forte, generoso, buono, con uno spiccato senso di giustizia sociale; anche per questo è la speranza di riscatto dei suoi compaesani. Nipote dell’ultimo brigante di Fontamara (assassinato dai piemontesi), Silone ce lo presenta così: “Aveva gli occhi buoni, aveva conservato da adulto gli occhi che aveva da ragazzo” (p. 89), che è forse la parola più bella che si possa dire di un adulto, se è vero che la buona fatica del vivere sta quasi tutta nell’arrivare alla fine con qualcosa degli occhi con i quali ci siamo giunti. Berardo aveva ereditato dal padre un pezzo di terra, lo aveva venduto per avere il denaro per emigrare in America, “ma prima d’imbarcarsi, una nuova legge sospese tutta l’emigrazione”. Così rimase a Fontamara, senza terra e “come un cane sciolto dalla catena che non sa che farsene della libertà e si aggira disperato attorno al bene perduto”. Ma, aggiunge Silone, “come può un uomo della terra rassegnarsi alla perdita della terra?” (p. 84). Perché “fra la terra e il contadino è una storia dura e seria… E’ una specie di sacramento”. Quindi aggiunge parole sulla terra tra le più belle della nostra letteratura, che solo un contadino può ancora capire: “Non basta comprarla, perché una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col sudore, con le lagrime, con i sospiri. Se hai terra, nelle notti di maltempo tu non riesci a dormire, perché non sai quello che sta succedendo alla tua terra” (p. 85). Berardo implora invano l’acquirente della sua terra, don Circostanza, di ridagliela indietro. Finalmente, riesce ad ottenere un pezzo di terra sulla montagna, tra le rocce, nella “contrada dei serpenti”. La lavora duramente - “O la montagna ammazza me, o io ammazzo la montagna” (p. 87) -, vi pianta del granoturco. Ma ci fu una forte alluvione, “venne giù la montagna”, e “un'enorme fiumana d’acqua portò via il campicello di Berardo” (p. 88). E Silone si chiede: “Si può vincere contro il destino?” (p. 89), un destino che è il co-protagonista del romanzo. E per provare a sfidare ancora il destino, Berardo parte per Roma in cerca di lavoro.
Tra un ufficio di collocamento e l’altro, “al settimo giorno che eravamo a Roma non ci restavano più di quattro lire” (p. 216). Dopo tre giorni di digiuno, Berardo e il suo amico (la voce narrante) smisero di uscire dalla stanza, restarono fermi per la fame, distesi sul letto. Finché non vengono arrestati dai fascisti per un errore, scambiati per sovversivi sobillatori. Erano arrivati per lavorare, finirono in un carcere - ieri, e oggi. Ma è dentro quel carcere sbagliato che Berardo vive la sua resurrezione. Dice di essere lui “il solito sconosciuto”, un ricercato accusato di diffondere “la stampa clandestina”, ad incitare “gli operai a scioperare, i contadini a disubbidire” (p. 223), e con una bugia dice al commissario: “Il solito sconosciuto sono io” (p. 231). In quel carcere Berardo riesce a vincere il suo destino. Con un atto di sacrificio vicario si carica di una colpa che non ha, e riesce ad arrivare fino alla fine, non ritrattando nonostante le dure torture. Berardo sfugge al destino impresso alla sua vita fin dalla storia di suo nonno, donando la vita per una fedeltà misteriosa ai suoi ideali di giustizia. Il suo martirio laico riscatta Fontamara al culmine della sua sconfitta. E al termine di un libro dove il grande vincitore era stato proprio il destino, ci dice: siamo più grandi del nostro destino.
Anche se Silone non ci spiega perché Berardo da innocente si sia auto-incolpato, non è difficile vedere in lui una immagine del Cristo e della sua passione: “E se io muoio? - Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri”. Le sue ultime parole: “Sarà qualche cosa di nuovo. Un esempio nuovo. Il principio di qualche cosa del tutto nuovo” (p. 238). Quel qualcosa di nuovo nel tempo maturerà in Silone, fino a fiorire suo ultimo capolavoro, L’avventura di un povero cristiano (del 1968).
Cristo sta risorgendo anche oggi in Libia, in Albania, sui barconi, a Gaza, nel Congo, in Sudan, in Libano. Noi non lo sappiamo, non lo vediamo, non lo riconosciamo, perché lo cerchiamo nei sepolcri vuoti e non nei luoghi dei crocifissi. ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’, fu il primo grido del Risorto.
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Dalla gerarchia dei Torlonia al messaggio di Berardo, che muore martire per sconfiggere il suo destino
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/10/2024
“Sotto il foglio da me faticosamente redatto, tua madre firmava con un segno di croce. Sapevo già che era la firma usuale degli analfabeti; ma, anche se ciò non fosse stato, come si sarebbe potuto immaginare una firma più consona a tua madre? Una piccola croce. Una firma più personale di quella? Ricordo che, l'anno dopo, all'esame di catechismo don Serafino mi chiese di spiegargli il segno della croce. "Esso ci ricorda la passione di nostro Signore" io risposi "ed è anche il modo di firmare degli infelici.”
Ignazio Silone, Il segreto di Luca
La scala sociale di Fontamara ci dona una riflessione sulla commedia umana, sui poveri e sul Cristianesimo, che culmina nella conclusione della storia di Berardo, che muore, martire, per sconfiggere il suo destino.
“E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: - In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe Torlonia. Poi vengono i cani delle guardie del Principe Torlonia. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ed è finito.” (1947, p. 34). Questo è forse il brano più noto di Fontamara di Ignazio Silone, perché è la sintesi del suo spirito e possiede una straordinaria forza lirica ed etica.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 13/10/2024
«Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti»
Ignazio Silone, Fontamara, p. 89Inizia con Fontamara una nuova serie attraverso alcuni capolavori della letteratura, in cerca di nuove parole per l’economia e per il nostro tempo difficile.
Se ci bastasse la realtà non ci sarebbe bisogno della letteratura. Siamo infinito, i romanzi accorciano la distanza tra noi e l’eternità; siamo desiderio, gli scrittori aumentano le cose desiderabili perché i sogni ad occhi chiusi sono troppo poco. La gioia si nutre anche dei mondi creati dalla letteratura, la nostra giustizia cresce mentre ci indigniamo leggendo un romanzo, abbiamo imparato la pietas dai genitori e dagli amici ma anche dalle fiabe e dai racconti degli scrittori. Non saremmo stati capaci di immaginare la terra promessa della democrazia, della libertà e dei diritti se non l’avessimo incontrata nei miti e nei romanzi, intravista in una poesia. Abbiamo conosciuto Dio perché la Bibbia ce lo ha insegnato attraverso racconti, e le parole umane hanno custodito un’altra Parola. Tutte le fedi finiranno nel triste giorno in cui smetteremo di scrivere storie, e di raccontarcele.
[fulltext] =>“Ignazio Silone ha oggi la sua maturità coronata e sovranamente fissata in opere d’arte che sono al medesimo tempo il suo ‘canto delle creature’ e la sua visione apocalittica della nuova spiritualità democratica… Noi pensiamo di far cosa quanto mai tempestiva, dando qui in appendice al nostro settimanale, il primo suo romanzo che diede al mondo internazionale la sensazione acuta della sofferenza del popolo italiano in regime fascista” (7 marzo 1945). Così scriveva Ernesto Buonaiuti introducendo la pubblicazione dei primi capitoli di Fontamara nel primo numero del suo settimanale “Il Risveglio”. Buoaniuti, il grande e amato professore di storia del cristianesimo a La Sapienza di Roma, tra i dodici accademici che non giurarono al regime fascista, sacerdote scomunicato dalla chiesa cattolica per le sue tesi moderniste - stiamo ancora aspettando la sua riabilitazione, forse in tempo di Giubileo.
Fontamara fu scritto da Ignazio Silone (Secondino Tranquilli) nei primi mesi del 1930 durante il suo esilio svizzero. Fu pubblicato dapprima in tedesco (Zurigo, Oprecth & Helbing, aprile 1933, traduzione di Nettie Sutro), cui seguì una prima edizione in lingua italiana (Zurigo-Parigi, novembre 1933) ristampata a Londra nel 1943 (J. Cape, con data 1933). La prima edizione in Italia arrivò solo nel 1947 grazie al piccolo editore romano ‘Faro’, e infine nel 1949 con Mondadori. Il suo successo internazionale fu notevole, ma per essere stampata in Italia si dovette attendere il crollo del fascismo.
Nel 1930 Silone si trovava da due anni in Svizzera, tra Zurigo e Davos, per il suo impegno clandestino per il partito comunista che aveva contribuito a fondare nel congresso di Livorno nel 1921. Sempre nel soggiorno svizzero iniziarono i suoi dissidi con Togliatti per le sue posizione anti-staliniane, cui seguirà l’espulsione dal partito nel 1931. In sanatorio per curare una malattia respiratoria (apparente tubercolosi), depresso, angosciato per la situazione di suo fratello Romolo, l’unico della sua famiglia che nel 1915 si era salvato con lui sotto le macerie del terremoto di Pescina, che era stato messo in prigione dal regime fascista, torturato e poi ucciso nel 1932 - Silone dedica Fontamara a suo fratello e a Gabriella Seidenfeld, la sua compagna conosciuta nel 1920 dalla quale si stava separando sentimentalmente.
Fontamara è dunque il distillato di anni terribili, il frutto di una metamorfosi molto dolorosa. Una profondissima crisi esistenziale che generò il capolavoro. Fontamara non è soltanto un romanzo che ha svelato all’Italia e al mondo l’anima profonda del mondo contadino meridionale, e non è neanche soltanto un classico dell’anti-fascismo. Fontamara è soprattutto un capolavoro letterario, un romanzo stupendo, una di quelle opere che forse solo il grande dolore sa generare. Silone, dirà più tardi, trovò la sua salvezza nella letteratura, superò quella notte buissima diventando scrittore - e che scrittore! Ci sono molti modi per provare a salvarsi dai buchi neri della vita, la scrittura e l’arte sono tra i più potenti e comuni, perché si esce dal buco imparando a volare.
Per capirlo e gustarlo c’è comunque bisogno di svolgere alcuni esercizi etico-spirituali essenziali. Il primo è quello più difficile, forse impossibile ma davvero necessario: provare a dimenticare i nostri confort, il culto delle merci, gli uffici e gli incentivi, e recarci con l’anima nel mondo di Fontamara: “Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente” (1951, p. 9). È il regno di Sisifo, ma diversamente dal Sisifo di A. Camus, il Sisifo di Silone non è felice: “A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato … sembra un villaggio come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni” (p. 8). Nella prima edizione de ‘Il Risveglio', al termine di questo paragrafo Silone aveva aggiunto: “Lo spettacolo della vita vi è più scarno, più visibile e comprensibile, e nulla di essenziale vi manca”, una frase che poi scomparve nelle edizioni successive.
Il secondo esercizio d’immaginazione spirituale riguarda il mondo contadino. Quello di Silone, come quello di Carlo Levi (che vedremo), è un mondo che ho conosciuto anche io, sfiorandolo grazie al rapporto con i miei nonni lavoratori della terra ascolana. È molto probabile, se non certo, che la mia generazione sia l’ultima erede morale di millenni di storia contadina, fatta di cristianesimo, di magia, di moltissimi bambini vivi e morti, di tanto amore popolare e di tantissimo dolore di tutti, delle donne di più. Quel mondo sempre uguale nei suoi tratti essenziali, è stato il mondo della mia infanzia. Ero ancora ragazzo, ma anche io ho visto quel Sisifo contadino, poco mito e tutta carne. È parte essenziale della mia anima, dove lo custodisco gelosamente. Fontamara è il mio paese.
Quello era un mondo italiano ma dove si parlavano altre lingue: “A nessuno venga in mente che i fontamaresi parlino l’italiano… La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta” (p. 15). Quando ricordo o sogno i miei nonni, per provare ad entrare ancora in sintonia con il loro cuore devo sintonizzarmi con il dialetto, perché solo in quella lingua potevano e possono dirmi le parole giuste e perfette, raccontare le storie più belle con una eloquenza e ricchezza che diventava subito goffaggine e disagio non appena dovevamo passare all’italiano (l’italianizzazione dei contadini è stata anche violenza): “Tuttavia, se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fondamentale. È quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia” (p. 16). Forse anche il mio amore per le parole è nato ascoltando i racconti delle mie zie, o quelli lunghissimi di ‘Caterina vecchia’ che stava con noi fratellini nelle lunghe sere d’inverno. Questa serie di articoli che oggi inizia è dunque anche un contributo alla custodia della memoria di un mondo che ho conosciuto e che sta finendo insieme alle sue storie: chissà se i nostri figli saranno ancora capaci di comprendere e commuoversi per Silone o Levi?
Infine, il terzo esercizio è semantico, e riguarda la parola-chiave di Fontamara: cafone. Scrive, tra parentesi, Silone: “(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, forse anche di onore)” (p. 10).
Si entra in Fontamara se riusciamo a raggiungere ora quel paese di domani dove ‘il dolore non è più vergogna’; lì poniamo la tenda e con Silone usiamo il nome cafone come ‘nome di rispetto e di onore’. E così neghiamo tutte le ideologie meritocratiche che stanno allontanando quel paese di domani, introducendo ogni giorno nuovi argomenti per convincerci che il povero deve vergognarsi della sua povertà perché è colpevole della propria sventura - e mentre ci convince di questa menzogna, il capitalismo si libera da ogni responsabilità.
Fontamara non è un ‘borgo’, una parola entrata nei pertugi del nostro tempo banale che ha perso contatto con l’anima dei luoghi veri. A Fontamara “i contadini non cantano … tantomeno (e si capisce) andando a lavoro. Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce” (p. 14). Non si entra nel mondo dei poveri se si ha paura delle bestemmie e delle maledizioni, perché sono, spesso, paradossali parole d’amore.
In Fontamara l’economia è una nota costante, declinata come terra, lavoro, ossessione del ‘pagare’, miseria, tasse, il potere. L’ingiustizia sociale, centrale nel romanzo, è anche e soprattutto una ingiustizia economica, quella del latifondo e dell’’impresario' appoggiato dalle istituzioni, dai piccoli proprietari e dal clero (Don Abbacchio). Ed arriva fino alla morte di Berardo, nelle pagine forse più intense del romanzo.
Fontamara è una storia di riscatto sociale fallito, di liberazione non riuscita. I cafoni truffati dalla deviazione del ruscello per portare acqua all’impresario, restano poveri e truffati dall’inizio alla fine del romanzo. Fontamara sembra un eterno venerdì santo, con qualche squarcio di sabato, senza domenica. E in questo somiglia a tanti altri grandi romanzi, dove Fantine vende i suoi denti e muore senza risorgere, o alla Bibbia dove l’esodo e l’esilio continuano oltre il Mar Rosso e dopo l’editto di Ciro, perché l’arameo errante non ha mai smesso di errare. La sola resurrezione che salva è quella che inizia sul Golgota. E così, più Silone ci conduce negli abissi del dolore dei cafoni, più noi vi intravvediamo una strana bellezza e una luce luminosa - non riusciremo a sollevare i molti ‘cafoni’ dalle loro miserie finché non impareremo la bellezza nascosta dentro la povertà, e a guardare i poveri con onore e rispetto.
Infine, il terzo esercizio è semantico, e riguarda la parola-chiave di Fontamara: cafone. Scrive, tra parentesi, Silone: “(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, forse anche di onore)” (p. 10).
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Con il capolavoro letterario dello scrittore abruzzese inizia un nuovo viaggio attraverso storie (e parole) custodi di un mondo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 13/10/2024
«Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti»
Ignazio Silone, Fontamara, p. 89Inizia con Fontamara una nuova serie attraverso alcuni capolavori della letteratura, in cerca di nuove parole per l’economia e per il nostro tempo difficile.
Se ci bastasse la realtà non ci sarebbe bisogno della letteratura. Siamo infinito, i romanzi accorciano la distanza tra noi e l’eternità; siamo desiderio, gli scrittori aumentano le cose desiderabili perché i sogni ad occhi chiusi sono troppo poco. La gioia si nutre anche dei mondi creati dalla letteratura, la nostra giustizia cresce mentre ci indigniamo leggendo un romanzo, abbiamo imparato la pietas dai genitori e dagli amici ma anche dalle fiabe e dai racconti degli scrittori. Non saremmo stati capaci di immaginare la terra promessa della democrazia, della libertà e dei diritti se non l’avessimo incontrata nei miti e nei romanzi, intravista in una poesia. Abbiamo conosciuto Dio perché la Bibbia ce lo ha insegnato attraverso racconti, e le parole umane hanno custodito un’altra Parola. Tutte le fedi finiranno nel triste giorno in cui smetteremo di scrivere storie, e di raccontarcele.
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