Economia Civile

Economia narrativa

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Economia Narrativa/12 - Oggi i “barbari“ che si sono affacciati alle “frontiere della civiltà” sono le armate del capitalismo consumista

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/12/2024

«Se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori degli ultimi secoli bui, non siamo del tutto privi di speranza. Questa volta, però [diversamente dal tempo del crollo dell’impero romano] i barbari non sono in attesa oltre le frontiere; ci governano già da tempo. Non stiamo aspettando Godot, ma un altro San Benedetto».

Alistair McIntyre, Dopo la virtù, 1981, ultima pagina

La sfida più difficile per chi vuole provare a salvare il piccolo seme della fede ricevuta, sta nel riuscire a dialogare con la modernità senza perdere contatto con l’eredità della pietà popolare

La sfida più difficile per chi oggi vuole provare a salvare il piccolo seme delle fede ricevuta, sta nel riuscire in un unico-duplice esercizio: dialogare con la modernità (con il suo spirito, i suoi angeli, i suoi dèmoni) senza perdere contatto con l’eredità della pietà popolare. Per poterlo fare dovremmo abitarne la contraddizione, perché la morte della pietà popolare, liquidata velocemente come superstizione, è stato il primo prezzo che il vecchio ha dovuto pagare al nuovo. I due spiriti, i due venti, si sono scontrati, e quello più giovane, razionale e maschile ha spazzato via l’altro fragile, affettivo, femminile - anche perché, qualcosa dell’antico doveva essere eliminato affinché in quello spazio liberato potesse nascere una novità vera. Eppure quella nostalgia struggente di qualcosa di profondo e bellissimo non ci molla e non smette di chiamare per nome la nostra razionalità, come voce tenace di silenzio sottile. Il capitale spirituale di domani, quello più prezioso, nascerà da un incontro antico e nuovo tra voci diverse.

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La ‘Madonna brutta’ è uno dei racconti più toccanti del ‘Mondo Piccolo’ di Giovannino Guareschi: “La gente la chiamava la ‘Madonna brutta’: una cosa questa da far drizzare i capelli perché sa di bestemmia collettiva” (Mondo Piccolo. Don Camillo e il suo gregge, 1953, p. 180). Una statua alta più di due metri, di terracotta pitturata “con dei colori così vigliacchi da far venire il mal d’occhi”. Non era brutta, a detta di don Camillo, perché scolpita da un dilettante. No: era stata invece realizzata da uno “che ci sapeva fare benissimo”, e che “aveva impiegato tutta la sua abilità di scultore per fare una Madonna brutta. E c’era riuscito” (p. 181). Era “brutta ma antica”, portava incisa sul basamento la data del 1693, e quindi nessuno la toccava: “Gesù, perché non mi aiutate? Come potete permettere che la gente chiami la Madre di Dio ‘Madonna brutta’? - Don Camillo - rispondeva il Cristo - la vera bellezza non è quella del volto… - Amen - rispondeva don Camillo” (p. 182).

Arrivò il giorno della grande processione, e don Camillo pensò di risolvere il problema una volta per tutte. Era agosto, faceva un gran caldo, e don Camillo convinse i portatori che un camion ben addobbato sarebbe stata una soluzione migliore per portare in giro la Madonna: “La strada era pavimentata a ciottoli e il camion, che oltre alla frizione scassata aveva le gomme dure come un ferro, pur andando adagio pareva avesse il ballo di San Vito”. E così "un sobbalzo più forte degli altri e la statua si sgretolò” (pp. 187-188). Ma ecco la grande sorpresa: “L'urlo che si levò da tutta la gente, non fu perché la ‘Madonna brutta’ era andata in pezzi. Fu per la Madonna bella. La gente sbarrò gli occhi e lanciò un urlo perché, caduta in pezzi la ‘Madonna brutta’, dal mozzicone di piedistallo che era rimasto legato alla piattaforma del camion, emergeva scintillante, come un frutto d'argento liberato dalla ruvida scorza, una meravigliosa Madonna, più piccola dell'altra, ma tutta d’argento” (p. 188). Don Camillo rimase sbalordito e commosso non meno della folla che gridava al ‘miracolo’: “Ti rimetterò a posto, pezzetto per pezzetto - disse don Camillo ad alta voce… Ti rimetterò a posto io, povera ‘Madonna brutta’, che hai salvato la Madonna d’argento dalla cupidigia di tutti i barbari piovuti qui da quel giorno del 1600 a ieri. Chi ti plasmò in fretta ricoprendo con la tua crosta la Madonna d’argento, ti fece brutta e misera per salvarti dalle mani dei predoni… Io, involontariamente ho provocato la tua misera fine” (p. 189). Involontariamente: “Qui don Camillo disse la più sfacciata bugia della sua vita… Lui aveva scelto l'itinerario più lungo e sassoso, lui aveva gonfiato fino a scoppiare le gomme del camion, lui aveva sabotato la frizione…”. Tornato a casa, davanti al suo Crocifisso conclude il suo mea culpa con parole tra le più belle e profetiche di Mondo piccolo: “Tu, povera ‘Madonna brutta’, hai salvato la Madonna d'argento dalle rapaci unghie dei barbari che hanno infestato le nostre terre da quei tempi lontani a ieri. Chi salverà la Madonna d'argento dai barbari di oggi che si affacciano minacciosi alle frontiere della civiltà e guardano con occhio feroce la Cittadella di Cristo? Vuol forse essere un presagio?” (pp. 189-190).

Guareschi in quegli anni pensava all’avanzata del comunismo e dell’ateismo scientifico; oggi noi invece sappiamo che i ‘barbari’ che si sono affacciati alle ‘frontiere della civiltà’ sono le armate del capitalismo consumista, che negli oltre settant’anni che ci separano da Mondo Piccolo hanno mostrato ‘unghie’ molto più ‘rapaci'. Ma noi non ce ne siamo accorti e ci siamo lasciati occupare cuori e chiese dall’idolatria del consumo - eppure basterebbe guardare a quale povera cosa è stato ridotto il Natale, dove Gesù bambino, che non genera business, è scomparso da questa festa della nuova religione. Ma c’è di più. Anche se Guareschi non ce lo dice, in questa ‘Madonna brutta’ che aveva custodito nel suo grembo una ‘Madonna bella’, possiamo scorgere un prezioso messaggio antropologico. Non è raro che ciò che gli altri vedono di noi è una ‘madonna brutta’ che nasconde una invisibile ‘madonna bella’, che per svelarsi ha bisogno di un tratto di vita accidentato, di un suo scossone più forte, dello sgretolamento di una depressione o di una malattia; qualche volta provocati da un ‘don camillo’ che fa emergere il capolavoro.

Continuando la lettura di Don Camillo e il suo gregge, arriviamo all’ultimo capitolo - ‘Il muraglione’ - e lì ritroviamo ancora la Madonna. Nell’orto di un certo Manasca si trovava un antico muraglione, ormai in rovina. Il padrone decise di demolirlo per farci un palazzo di quattro piani, con “negozi, un caffè, un ristorante” (p. 435), e così dare lavoro a tanta gente. Peppone ne fu entusiasta: “Qui c’è di mezzo l’avvenire del paese”. E così, una settimana dopo iniziò il lavoro di demolizione: “Il muraglione era una gran porcheria di sassi e di rottami e malta… ma…”. C’era un ma: “C’era sul muraglione una cosa che tutti sapevano ma cui nessuno aveva pensato prima. Sul lato dello stradone, a un metro dallo spigolo verso la piazza, c’era la Madonnina”, una edicola con una grata di ferro arrugginito. Era stata dipinta “da un poveretto”, ma che da due o trecento anni stava lì: “Tutti la conoscevano e tutti l’avevano salutata un milione di volte e tutti avevano infilato un fiore dentro il barattolo da conserva posato sulla mensolina di legno” (p. 436). Una di quelle edicole che ancora si vedono nelle stradine di campagna o nei muri delle case antiche: le vediamo, ma raramente le guardiamo, quasi mai le riconosciamo, perché abbiamo dimenticato la lingua con cui parlare con loro e ascoltare le loro parole; e così abbiamo dimenticato anche la lingua degli angeli, dei morti, di Dio.

Bagò, il caposquadra, si fermò: “Io non la butto giù neanche se me lo ordina il Papa - disse” (p. 437). Vanno a chiamare don Camillo, che dà inaspettatamente il suo consenso alla demolizione. Ma nessuno della squadra se la sentiva di dare la picconata fatale: “Allora Peppone … alzò il piccone, vide che gli occhi della Madonnina lo guardavano e buttò il piccone. - Vecchio mondo! - urlò. Ma perché deve essere il sindaco a fare questo? Cosa c’entra il sindaco con le Madonne?” (p. 440). Non distruggete le madonnine dei vostri padri: era un undicesimo comandamento della nostra gente, che abbiamo cancellato insieme agli altri dieci. Quel mondo piccolo non aveva i nostri diritti né il nostro benessere, ma i poveri non distruggevano le nicchie dei santi; e custodendole non custodivano solo il passato: custodivano il futuro loro e dei figli.

Peppone si arrese, e si rivolse a don Camillo: “Le madonne e i santi sono roba vostra. Io non vi ho mai chiamato per tirar giù a picconate il busto di Lenin o di Stalin! - Ma se mi chiami vengo - esclamò don Camillo”. E poi aggiunse: “Gli occhi di quella Madonnina hanno visto tutti i nostri morti. Davanti a quella immagine c’è la disperazione e la speranza, i dolori e le gioie di due o trecento anni” (p. 441). Questa di don Camillo è una stupenda definizione di cosa fosse davvero quella pietà popolare che noi abbiamo prima ridicolizzata e poi demolita con i nostri picconi. Quegli antichi incroci di sguardi veri erano molto più della religione - erano amore, dolore, sogni, speranza, l’unica tenerezza in una vita ruvida, che hanno protetto le nostre nonne da teologie spesso assurde e lontane. Noi abbiamo voluto cancellare tutto questo e ci siamo ritrovati dentro un vuoto infinito, insieme ad una infinita sete di quegli sguardi diversi: “‘Peppone, ti ricordi quando nel ’18 siamo tornati dalla guerra? I fiori erano miei, ma la gavetta era la tua’. Peppone grugnì” (p. 440).

Ed ecco infine un fremito inatteso: “Una crepa si aperse lentamente. Il muro non cadde: si sgretolò”. Ma nello stupore di tutti, “in cima, liberata dal graticcio rugginoso e dalle ombre secolari della nicchia, era la Madonnina, intatta”. “Ritornerà al suo posto nel muro nuovo - disse il Manasca”. E Peppone “pensò alla sua vecchia gavetta con dentro i fiori di don Camillo” (p. 442).

Con queste parole di Peppone si chiude il secondo volume di ‘Mondo Piccolo’, e forse non ci sono parole migliori per salutare don Camillo, Peppone e il loro autore che, insieme a Silone e a Carlo Levi, ci hanno fatto compagnia in queste dodici settimane. Un bel cammino, e per questo ringrazio ancora Avvenire, nel suo Direttore Marco Girardo, per la fiducia che continua a donarmi. Ammaliato da ‘Mondo Piccolo’ , e prima da ‘Fontamara’ e dal ‘Cristo si è fermato a Eboli’, non ho realizzato il mio progetto iniziale di commentare anche Kafka, Buzzati, Calvino e Manzoni, forse perché anche nel mestiere dello scrivere la realtà è superiore all’idea, ed è lei che decide ritmo e contenuti. Magari lo faremo in una serie futura. Grazie, a voi lettrici e lettori, miei amici ormai necessari. E buon 2025: ne abbiamo un grande bisogno. Arrivederci.

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Economia Narrativa/12 - Oggi i “barbari“ che si sono affacciati alle “frontiere della civiltà” sono le armate del capitalismo consumista

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/12/2024

«Se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori degli ultimi secoli bui, non siamo del tutto privi di speranza. Questa volta, però [diversamente dal tempo del crollo dell’impero romano] i barbari non sono in attesa oltre le frontiere; ci governano già da tempo. Non stiamo aspettando Godot, ma un altro San Benedetto».

Alistair McIntyre, Dopo la virtù, 1981, ultima pagina

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Il barattolo di latta, i fiori e quelle Madonnine che non riconosciamo più

Il barattolo di latta, i fiori e quelle Madonnine che non riconosciamo più

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Economia Narrativa/10 - L’estraneità degli umili rispetto ai codici delle classi colte (e della Chiesa) ha prodotto uno spaesamento che si ripropone ancora oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/12/2024

«Continuiamo imperterriti a fare la storia come se gli uomini che ci precedettero, tutti, non fossero vissuti ad altro fuorché a produrre noi; come se i fiori di quest'anno potessero pretendere che le primavere passate, tutte quante le primavere passate, non avevano fiori per proprio conto ma soltanto si succedevano umilmente allo scopo superbo di preparare con i loro fiori di transito e di prova i fiori di quest'anno, i fiori nostri. Non ci riesce di guardare con rispetto a chi ci ha preceduto e pensare che, forse, avevano raggiunto una vita perfetta, più perfetta della nostra. La storia della pietà è in grado di insegnarci tale modestia… L'uomo, nel suo rapporto con Dio, può giungere al proprio compimento più perfetto senza che prima debba aver progredita l'umanità intera perché vi possa giungere lui».

Don Giuseppe de Luca, Introduzione all’archivio per la storia della pietà, p. XLVII

Nel confronto del sindaco con don Camillo, Guareschi mostra la distanza tra la lingua degli istruiti e quella del popolo. E la via per colmarla.

La parola è all’origine della civiltà. L’homo sapiens, animale capace di parola, ha potuto fare cose straordinarie perché, forse 100.000 o 150.000 anni fa, iniziò a parlare. Il linguaggio ha facilitato e affinato la comunicazione dentro e tra i gruppi umani, quindi la cooperazione. In principio, dunque, era la parola. Dopo molto tempo la parola orale divenne anche parola scritta, e con essa nacquero gli scribi, gli specialisti e i padroni della parola, e chi sapeva tradurre le parole in segni detenne un grande potere. La maggior parte della gente continuava a parlare, ma solo una piccola élite sapeva anche scrivere. Tra la parola orale e quella scritta, tra i parlanti e gli scriventi, si venne così a creare un fossato, un conflitto. Gli scribi, poi, crearono le ortografie, le grammatiche, le sintassi, e i padroni della parola definirono quale fosse il modo giusto di scrivere e di parlare. La parola scritta era nata da quella orale ma fu la scrittura a comandare sulla parola orale. Don Camillo, per vocazione e compito, stava dalla parte degli scribi, non da quella del popolo ignorante. Peppone era invece uomo della parola parlata, del dialetto. Questo contrasto emerge con grande forza da uno dei più bei racconti di ‘Mondo Piccolo’: Il proclama.

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Peppone, dopo un ‘incidente’, aveva preparato un proclama da affiggere nel paese. Don Camillo entra in possesso della bozza; lo legge e vede che è zeppo di errori: “Ancora ieri sera una vile mano anonima ha scritto un’offensivo insulto sul nostro giornale murale. … Qualora il quale non la smette dovrà poi pentirsene quando sarà ormai irreparabile. Ogni pazzienza a un limite. Il segretario della Sezione, Giuseppe Bottazzi”. Tornato in canonica, don Camillo lo commenta con Gesù: “Non è un capolavoro?”. “Ognuno si esprime come può”, rispose Gesù. “Mica è lecito pretendere che uno il quale ha fatto solo la terza elementare badi alle sfumature linguistiche’” (Piccolo Mondo. Don Camillo, 1948, p. 12). In questo dialogo sul proclama di Peppone si concentrano temi che sono ancora al centro della giustizia, della scuola, del dolore dei poveri. I poveri, tutti i poveri della terra, quelli che Silone chiamava “cafoni”, hanno in comune un profondo e diffuso senso di inferiorità che nasce dall’incompetenza nella lingua ufficiale, soprattutto in quella scritta. Nel mio paesello ascolano, come in quasi tutti i paesi italiani, la gente parlava in dialetto. Quasi tutti, ma soprattutto i contadini, gli operai, i più poveri. Con i miei nonni parlavo solo in dialetto, e ci parlo ancora in sogno. Il primo libro l’ho visto e letto a scuola, perché i libri stavano nelle case dei pochi signori, non in quelle popolari come la mia. In quel ‘mondo piccolo’ bastava il dialetto, non mancava nulla. Ma ricordo ancora perfettamente le emozioni dei miei nonni e dei miei zii (e mie) quando, in un raro incontro con un ‘signore’, dovevano lasciare la lingua madre e tentare di parlare in italiano.

Perdevano immediatamente tutta la loro eloquenza, si vergognavano perché quell’incompetenza nella lingua italiana diventava incompetenza nel pensiero, nelle relazioni, nella dignità, una incompetenza che dagli istruiti veniva chiamata ignoranza: ‘siamo ignoranti’, ‘siamo cafoni’, diventavano le parole per descrivere quella loro indigenza. Quando i miei nonni parlavano in dialetto, non si sentivano ignoranti. Non sapevano la storia dei babilonesi, non conoscevano le opere di Foscolo e di Leopardi, né l’algebra; ma conoscevano molto bene altre cose e ne andavano fieri, soprattutto erano orgogliosi della conoscenza del loro mestiere, degli animali, delle piante, delle persone, della terra e della natura. Quando poi entravano in chiesa lì si sentivano doppiamente ignoranti: non capivano bene l’italiano e non capivano nulla del latino. Quindi non comprendevano la religione dei teologi, e per loro restavano solo i santi, la Madonna, Gesù crocifisso. Quella lingua esoterica allontanava la gente più di quanto già non facessero il pulpito e l’altare, e separava il sacro dal profano, i sacri dai profani. La religione, da questa prospettiva, ha aumentato il fossato che separava i poveri dagli scribi, chi ‘parlava e basta’ da chi ‘parlava e scriveva’. È stato l’arrivo delle lingue scritte ad inventare la brutta parola ‘analfabeta’, perché nel mondo della parola nessuno era analfabeta. I contadini e i poveri erano maestri nella loro lingua, si sentivano a casa tra le loro poche ma vive parole, erano analfabeti solo nella lingua degli scribi - è ancora possibile, in certe regioni, assistere a recite in dialetto di vecchie e vecchi contadini, o a dialoghi nei bar e nelle case, con una padronanza e ricchezza lessicale straordinarie. Quando la scuola divenne universale e obbligatoria, all’inizio la vergogna linguistica dei poveri non si ridusse ma aumentò. Perché studiare fino alla seconda o alla quinta elementare non dava sufficienti competenze nella nuova lingua mentre accresceva la percezione della propria carenza. Dentro la Costituzione e la Democrazia c’è anche questa specifica sofferenza dei poveri, dei migranti del Sud, dei ‘cafoni’, che hanno vissuto un forte spaesamento linguistico che diventava subito spaesamento di autostima e di dignità. Oggi possiamo intuire ancora qualcosa di quel lontano dolore e spaesamento se riusciamo ad entrare nel cuore degli immigrati di prima generazione e dei loro figli. Troppo spesso rinasce in loro ancora quell’antica vergogna, che a volte viene amplificata da chi - persone e istituzioni - attorno ad essi si comportano come voleva comportarsi don Camillo con Peppone.

Continuando il dialogo col Crocifisso, don Camillo confessa il suo peccato: “Peppone - gli dice Gesù - parla di un insulto che qualcuno ha scritto sul suo giornale murale. Quando tu, ieri sera, sei andato dal tabaccaio, non sei per caso passato davanti a quel giornale murale? Cerca di ricordarti”. "Effettivamente sì, ci sono passato”, ammise francamente don Camillo”. “E quando te ne sei andato, don Camillo”, replicò il Cristo, “hai visto se c’era scritto qualcosa di strano?”. E don Camillo: “Ripensandoci bene, mi pare, quando me ne sono andato, di aver visto che su un foglio c’era scarabocchiato qualcosa in lapis rosso”. Messo alla strette, sta per interrompere il dialogo-interrogatorio: “Compermesso: credo che ci sia gente in canonica” (p. 14). Ma Gesù lo ferma: “Don Camillo!… E allora?”. “‘E allora sì’, borbottò don Camillo, ‘… mi è scappato scritto ‘Peppone asino’…”. E Gesù: “Peppone si è preso dell’asino da te ieri era e domani si prenderà ancora dell’asino da tutto il paese… e tutto per colpa tua. Ti pare bello?” (p. 15). Don Camillo commentò: “D’accordo: ma ai fini politici generali …”. E Cristo: “Non mi interessano i fini politici generali, ai fini della carità cristiana l’offrire alla gente motivo di deridere un uomo per il fatto che quest’uomo è arrivato soltanto alla terza elementare, è una grossa porcheria, e tu ne sei la causa, don Camillo”. Sì, don Camillo, Gesù ha proprio ragione: è proprio una grossa porcheria!

Queste pagine fanno grande Mondo piccolo e il suo autore. Quell’Italia e buona parte del mondo si trovavano nelle condizioni di Peppone. In questo racconto è lui la vittima con cui Guareschi ci chiede di empatizzare, per entrare nelle sue viscere - di ‘illuiarci’, direbbe Dante. Guareschi stava, socialmente, dalla parte di don Camillo. Era uno scrittore, figlio di una maestra, apparteneva a quella ristrettissima élite borghese che padroneggiava la lingua e la cultura. Ma, per il daimon artistico che lo abitava e per la sua origine popolare che coltivò per tutta la vita, fu capace di risorgersi in quel suo personaggio. Entrò nell’anima dei tanti uomini e tantissime donne del suo tempo e lì incontrò quel dolore speciale che nasce dalla vergogna della parola. E riuscì a far risorgere con sé anche don Camillo. Eccolo alla fine del racconto: “Signore: cosa posso fare?”, disse don Camillo. “Chi fa il peccato faccia la penitenza. Arrangiati” (p. 15). Don Camillo tornò in canonica, e lì accade qualcosa di inedito: nel suo Mondo piccolo entra la Madonna. “Si volse alla statuetta della Madonna. ‘Signora, la prego, aiutatemi voi’. ‘É un affare di stretta competenza di mio Figlio’, sussurrò la Madonnina. ‘Non posso immischiarmene’. ‘Metteteci una buona parola’. ‘Proverò’, rispose” (p. 15). Se pensiamo all’intercessione dei santi e della Madonna con le categorie della teologia della Controriforma non la capiamo, e fuggiamo da essa. Ma se la pensiamo con il cuore, la mente, le lacrime e il dolore della gente e dei poveri, allora possiamo capire che quella che la religione chiama ‘intercessione’ è, in realtà, un incontro di parole buone, quasi sempre dette in dialetto. Sono preghiere, salmi, pianti diversi, speranza di ultima istanza.

Ecco la risposta: improvvisamente in chiesa arriva Peppone: “Sentite… C’è in paese un farabutto, un vigliaccone nero, un Giuda Iscariota dal dente velenoso, il quale tutte le volte che appare al nostro albo una carta con la mia firma di segretario, si diverte a scriverci sopra ‘Peppone asino’” (p. 16). Peppone rivolge a don Camillo una richiesta di aiuto, bellissima e umanissima: “Siccome non mi va di fare la figura dell’asino, voi dovreste dare una guardata alla bozza del proclama prima che Barchini [il tipografo] stampi il manifesto” (p. 17). Peppone porse la bozza a don Camillo, che “prese la matita e corresse con cura la bozza”. “Quanto vi debbo?”, “niente”, rispose don Camillo. E Peppone: “vi manderò delle uova”. La reciprocità diversa degli onesti, fatta di poche parole e di molti gesti silenziosi.

Tornato nella canonica, don Camillo passò a salutare Gesù, che gli chiese: “Come è andata?”. “Un po’ duretta, ma bene. Peppone non sospetta neppure lontanamente che sia stato io ieri sera”. “Invece lo sa benissimo”, ribatté il Cristo. “Sempre tu e tutt’e dodici le volte. Ti ha anche visto un paio di sere” (p. 18). Peppone lo aveva visto, ma restò nascosto perché si sentiva veramente un asino, e si vergognava. È questa una profonda sofferenza dei poveri, che ormai non riusciamo più neanche a capire. E così, diversamente da don Camillo, noi non ci convertiamo e non correggiamo con il lapis le bozze dei poveri.

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Economia Narrativa/10 - L’estraneità degli umili rispetto ai codici delle classi colte (e della Chiesa) ha prodotto uno spaesamento che si ripropone ancora oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/12/2024

«Continuiamo imperterriti a fare la storia come se gli uomini che ci precedettero, tutti, non fossero vissuti ad altro fuorché a produrre noi; come se i fiori di quest'anno potessero pretendere che le primavere passate, tutte quante le primavere passate, non avevano fiori per proprio conto ma soltanto si succedevano umilmente allo scopo superbo di preparare con i loro fiori di transito e di prova i fiori di quest'anno, i fiori nostri. Non ci riesce di guardare con rispetto a chi ci ha preceduto e pensare che, forse, avevano raggiunto una vita perfetta, più perfetta della nostra. La storia della pietà è in grado di insegnarci tale modestia… L'uomo, nel suo rapporto con Dio, può giungere al proprio compimento più perfetto senza che prima debba aver progredita l'umanità intera perché vi possa giungere lui».

Don Giuseppe de Luca, Introduzione all’archivio per la storia della pietà, p. XLVII

Nel confronto del sindaco con don Camillo, Guareschi mostra la distanza tra la lingua degli istruiti e quella del popolo. E la via per colmarla.

La parola è all’origine della civiltà. L’homo sapiens, animale capace di parola, ha potuto fare cose straordinarie perché, forse 100.000 o 150.000 anni fa, iniziò a parlare. Il linguaggio ha facilitato e affinato la comunicazione dentro e tra i gruppi umani, quindi la cooperazione. In principio, dunque, era la parola. Dopo molto tempo la parola orale divenne anche parola scritta, e con essa nacquero gli scribi, gli specialisti e i padroni della parola, e chi sapeva tradurre le parole in segni detenne un grande potere. La maggior parte della gente continuava a parlare, ma solo una piccola élite sapeva anche scrivere. Tra la parola orale e quella scritta, tra i parlanti e gli scriventi, si venne così a creare un fossato, un conflitto. Gli scribi, poi, crearono le ortografie, le grammatiche, le sintassi, e i padroni della parola definirono quale fosse il modo giusto di scrivere e di parlare. La parola scritta era nata da quella orale ma fu la scrittura a comandare sulla parola orale. Don Camillo, per vocazione e compito, stava dalla parte degli scribi, non da quella del popolo ignorante. Peppone era invece uomo della parola parlata, del dialetto. Questo contrasto emerge con grande forza da uno dei più bei racconti di ‘Mondo Piccolo’: Il proclama.

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Peppone, l’ignoranza dei poveri e il nostro lapis contro la vergogna

Peppone, l’ignoranza dei poveri e il nostro lapis contro la vergogna

Economia Narrativa/10 - L’estraneità degli umili rispetto ai codici delle classi colte (e della Chiesa) ha prodotto uno spaesamento che si ripropone ancora oggi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 15/12/2024 «Continuiamo imperterriti a fare la storia come se gli uomini che ci precedettero,...
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Economia narrativa/9 - Il Logos che ha preso la nostra carne ama dialogare. E si apre a imprevedibili cirenei

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 08/12/2024

Io invece ogni giorno
a qualche orlo di piazza,
a uno sbocco di strade.
Nel giorno, sempre,
a cercare un pane per chi ha fame,
a portare lume,
nella notte a tutta la città.
Straniero agli stessi fratelli
sola compagnia una fede
che è mistero a me stesso.

Davide Maria Turoldo, ‘Sola Compagnia’, in Udii una voce, 1952

Don Camillo nei suoi dialoghi col Crocifisso dà del ‘tu’ a Dio, e ci ricorda che il tu è l’unico pronome giusto della fede.

Una delle novità radicali portate dal Cristianesimo è la buona notizia dell’Eterno che è diventato uno di noi. Non c’è nulla di più umanistico ed umano del Dio di Gesù Cristo, che ha dato del ‘tu’ alle donne e agli uomini, e ci ha insegnato come dare del ‘tu’ a Dio. Eppure, lo stesso Cristianesimo ha presto disimparato questa vicinanza assoluta e ha applicato alla divinità gli stessi privilegi (amplificati) dei re, dei potenti, dei grandi, facendo di Dio ‘il Re dei re’, l’Altissimo sopra tutti i sovrani. Lo abbiamo così immaginato talmente lontano nell’alto dei cieli che per raggiungerlo ci voleva l’intercessione dei santi e della Madonna, perché loro sì erano vicini, quindi ci capivano, come se il Dio cristiano non fosse più vicino di tutti i santi e le sante messi insieme. Questo era anche il mondo religioso di Guareschi, che invece si inventò e ci donò un don Camillo che parlava tutti i giorni con Dio come si parla con un amico. Come Mosè, che, ci dice la Bibbia, è stato il solo uomo a parlare con Dio faccia-a-faccia, “come un uomo parla con un altro uomo” (Es 33,11). L’unico uomo Mosè. … insieme a don Camillo, il prete di Guareschi che dà spesso del ‘tu’ al suo Dio (e anche quando con Gesù usa il ‘voi’, è sempre un tu). Questo tu-a-tu lo conoscevano anche i poveri che non possedendo abbastanza sintassi per i ‘lei’ e i ‘voi’, erano e sono costretti ad usare l’unico pronome veramente cristiano della preghiera: il ‘tu’.

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Per i nostri nonni e genitori cattolici (almeno i miei), Gesù, tra le molte divinità cui veniva accostato, aveva uno statuto speciale. Gesù era considerato un essere divino, “ma Dio no: Dio è un’altra cosa”, dicevano. Il centro della pietas della gente non era certo la teologia trinitaria né la cristologia, faccende troppo lontane dal grano e dall’acqua, poco chiare persino ai parroci di campagna che avrebbero avuto il compito di fare da ponte tra la vera teologia e la religione popolare e magica dei ‘semplici’. Ma, in quell’olimpio di esseri divini Gesù e la Madonna erano comunque diversi e molto amati. Lo erano per molte cose, ma soprattutto per i loro ‘grandi dolori’. Gesù poi stava quasi sempre in croce, nelle chiese, nelle edicole e nelle case. E non solo per la bizzarra teologia dolorista della Controriforma, ma anche perché i contadini e il popolo si identificavano molto più facilmente con un Crocifisso che con un Risorto, in una esistenza che ricordava molto più il venerdì santo che la domenica di resurrezione. Le pietre dei sepolcri non rotolavano per porre termine alla sofferenza e alla miseria. I figli non tornavano dalle guerre, i bambini morivano, la fame non finiva. E per questo abbiamo molto amato il crocifisso, lo abbiamo riempito di parole, di carezze e di lacrime, fino a ieri. Non ci stupiamo, allora, se anche don Camillo parla con il suo Gesù crocifisso, non con il Risorto. E anche se il contesto dei racconti è allegro e spesso umoristico, i dialoghi tra don Camillo e Gesù crocifisso sono molto seri, a volte anche drammatici, quasi sempre bellissimi. Come quelli dell’episodio Via Crucis.

Don Camillo aveva combinato dei pasticci in paese con un certo Marasca, con cui erano venuti alle mani: “Ne scaturì un tal can can che il vecchio vescovo mandò a chiamare don Camillo e gli disse: - Monterana è senza parroco: parti per Monterana e vieni giù quando torna il parroco vecchio. Don Camillo balbettò: - ma il parroco di Monterana è morto. - Appunto - replicò il vescovo” (G. Guareschi, Don Camillo e il suo gregge, 1953, p. 229). Monterana era un paesino sperduto tra le montagne, “il paese più disgraziato dell’universo”. Don Camillo vi arrivò prima in corriera poi a piedi, su per un canalone sassoso: “Entrò in canonica e parve che gli mancasse il respiro”. Entrò poi anche in chiesa, si inginocchiò sul gradino dell’altare e “levò gli occhi verso il crocifisso: - Gesù - disse. Poi gli mancarono le parole: il Crocifisso dell’altar maggiore era una croce nera, di legno screpolato, nuda e cruda. Del Cristo di gesso rimanevano soltanto le mani e i piedi trafitti dai grossi chiodi. Ne ebbe quasi paura”. E gli nacque questa preghiera semplice: “Gesù, cosa ne è della mia fede se io oggi mi sento solo?” (p. 230). È la solitudine di don Camillo, che è anche quella di molti parroci di campagna dei secoli scorsi. Una vita trascorsa in mezzo alla gente ma, in fondo, da soli, perché la compagnia sociologica della missione non riusciva quasi mai a colmare la solitudine esistenziale della casa e della notte. Ma, come ci svela Guareschi, quei parroci spesso avevano nel dialogo con Gesù una compagnia diversa e vera. Don Camillo è immagine di quegli antichi parroci, che magari non erano sempre profeti o specchi di virtù, ma erano amici di Gesù, e quasi sempre dei poveri e della gente - ne ho conosciuto alcuni, tra questi don Isaia Picca, il parroco della mia giovinezza.

Dopo queste parole, don Camillo tornò in canonica, e trovò “su un tovagliolo un pezzo di pane e un pezzettino di formaggio”. E chiede: “Di dove viene questa roba? La vecchia, la governante del parroco morto, gli portò una brocca d’acqua, allargò le braccia, non lo sapeva neanche lei: “per anni e annorum era sempre stato così col prete vecchio. Adesso il miracolo continuava col prete nuovo”. Il Signore rifà il letto al malato, recita il Salmo (41,4). La prima esperienza che fa don Camillo, confinato e solo in una Barbiana diversa, è l’abbandono da parte del suo Dio; ma, subito dopo, sperimenta la sua provvidenza. Il mondo è pieno di donne e uomini che mentre vivono ogni forma di abbandono, di solitudine e di depressione spirituale sono raggiunti da una misteriosa ma reale provvidenza, che diventa quel tozzo di pane e bicchiere d’acqua che ti fa sentire amato e capace di continuare il cammino. Sulla terra c’è molta più provvidenza di quella che riusciamo a riconoscere e a chiamare con questo dolce nome.

Ma è qui che in don Camillo si insinua un pensiero. Passa alcuni giorni a letto con la febbre, una mattina si alza e nonostante il divieto del vescovo (“non ti muovere per nessuna ragione”), scende dalla montagna, sale sulla corriera e torna nel suo paese (Ponteratto, o Brescello nei film), precisamente nel cortile della casa di Peppone. Gli chiede il suo camion per un servizio urgente, e nel pieno della notte partono. Prima si fermano nella chiesa del paese. Peppone resta alla guida, e don Camillo fa il suo lavoro. Percorrono una trentina di km, giunti al bivio per Monterana don Camillo scende, prende il suo carico, “e quando Peppone lo vede apparire sotto la luce dei fari, sbarrò gli occhi. Il Cristo crocifisso”. Don Camillo era sceso dalla montagna per riprendersi il suo Gesù. “Posso darvi una mano, reverendo?”, esclamò Peppone. “Non toccare! vattene”. Buon viaggio, rispose Peppone. E, “nella notte incominciò la via crucis di don Camillo” (p. 234).

Il crocifisso era enorme: “Il Cristo scolpito in legno duro e massiccio. La mulattiera era ripida e i grossi sassi bagnati e scivolosi”. Cadde su una pietra appuntita, “sentì il sangue colargli dal ginocchio, e non si fermò. Un ramo gli portò via il cappello, e gli ferì la fronte, e non si fermò… E il suo viso sfiorava il viso del Cristo crocifisso”. Dopo quattro ore, “ormai non aveva più forze ed era soltanto la sua disperazione a tenerlo su. Quella disperazione che viene dalla speranza” (p. 235). Qui Guareschi ha forse messo in questa via crucis gli anni trascorsi nei campi di prigionia durante la guerra, dove, come tutti i prigionieri di tutte le guerre, per non morire aveva dovuto scoprire una misteriosa speranza disperata - anche questa speranza paradossale è provvidenza per i poveri (‘vieni padre dei poveri’), la manna quotidiana nei deserti. Fu “una lotta da gigante ma, alla fine, il Cristo Crocifisso era lassù” (p. 235).

Don Camillo voleva il suo Gesù. Non gli bastava un Gesù qualsiasi, voleva il suo. A dirci, forse, e nonostante le intenzioni di Guareschi, qualcosa di importante - non dimentichiamo che don Camillo è anche Guareschi ma non è soltanto Guareschi, e noi non dobbiamo far ricadere sui figli (i personaggi) le colpe o i limiti dei loro padri. La fede non è generica, non è un astratto credere a Dio o a verità teologiche e dogmi. No: la fede è un incontro, è un rapporto, quindi è dialogo. Non è invocare l’altissimo ma dare del ‘tu’ ad una presenza personale, vicina e amica, misteriosissima eppure di casa. Ecco perché quando la fede si perde, o sentiamo che si può perdere, si torna nei luoghi dove abbiamo incontrato e dialogato col nostro Gesù, col nostro Dio.

Ogni fede è così, ma quella cristiana lo è in modo tutto speciale, perché quel logos divenuto carne, dentro quella carne divenne dia-logos. Gesù era un profeta-maestro dialogante, un dialogo così importante che i vangeli ce lo mostrano in dialogo con uomini persino sulla croce. E se la fede è incontro e dialogo allora è una faccenda personale, personalizzata, interpersonale: ogni credente ha il suo Gesù, e pronuncia questo nome con un timbro e un tono unici e inconfondibili - chissà se, alla fine, saremo chiamati per nome perché riconosciuti da come Lo chiamiamo?

In chiesa c’erano due persone soltanto, e una era Peppone, che non era andato via (‘vattene’), e "pur non avendo sulle spalle la croce, aveva partecipato a quella immane fatica come se il peso fosse stato anche sulle sue spalle” (p. 235). Peppone era diventato un altro Cireneo. Per quella pietas, ancora viva in quella generazione di italiani e di cristiani, che oltre o prima delle lotte politiche e ideologiche sapevano riconoscere nel volto di ogni uomo, persino in quelli dei soldati degli eserciti nemici, il volto di un fratello, di un cristiano. E così, quando l’avversario si imbatteva nella sventura, si deponevano le armi e si apparecchiava per lui la tavola di casa, gli si offriva un pasto, lo si accompagnava, magari in silenzio, nelle sue vie crucis. Finché in una comunità le persone sono capaci di accompagnare le vie dolorose degli avversari, quella comunità ha ancora un’anima - quella che noi stiamo perdendo: per sempre?

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Economia narrativa/9 - Il Logos che ha preso la nostra carne ama dialogare. E si apre a imprevedibili cirenei

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 08/12/2024

Io invece ogni giorno
a qualche orlo di piazza,
a uno sbocco di strade.
Nel giorno, sempre,
a cercare un pane per chi ha fame,
a portare lume,
nella notte a tutta la città.
Straniero agli stessi fratelli
sola compagnia una fede
che è mistero a me stesso.

Davide Maria Turoldo, ‘Sola Compagnia’, in Udii una voce, 1952

Don Camillo nei suoi dialoghi col Crocifisso dà del ‘tu’ a Dio, e ci ricorda che il tu è l’unico pronome giusto della fede.

Una delle novità radicali portate dal Cristianesimo è la buona notizia dell’Eterno che è diventato uno di noi. Non c’è nulla di più umanistico ed umano del Dio di Gesù Cristo, che ha dato del ‘tu’ alle donne e agli uomini, e ci ha insegnato come dare del ‘tu’ a Dio. Eppure, lo stesso Cristianesimo ha presto disimparato questa vicinanza assoluta e ha applicato alla divinità gli stessi privilegi (amplificati) dei re, dei potenti, dei grandi, facendo di Dio ‘il Re dei re’, l’Altissimo sopra tutti i sovrani. Lo abbiamo così immaginato talmente lontano nell’alto dei cieli che per raggiungerlo ci voleva l’intercessione dei santi e della Madonna, perché loro sì erano vicini, quindi ci capivano, come se il Dio cristiano non fosse più vicino di tutti i santi e le sante messi insieme. Questo era anche il mondo religioso di Guareschi, che invece si inventò e ci donò un don Camillo che parlava tutti i giorni con Dio come si parla con un amico. Come Mosè, che, ci dice la Bibbia, è stato il solo uomo a parlare con Dio faccia-a-faccia, “come un uomo parla con un altro uomo” (Es 33,11). L’unico uomo Mosè. … insieme a don Camillo, il prete di Guareschi che dà spesso del ‘tu’ al suo Dio (e anche quando con Gesù usa il ‘voi’, è sempre un tu). Questo tu-a-tu lo conoscevano anche i poveri che non possedendo abbastanza sintassi per i ‘lei’ e i ‘voi’, erano e sono costretti ad usare l’unico pronome veramente cristiano della preghiera: il ‘tu’.

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Il Cristo di Don Camillo. Dio che si fa dare del tu

Il Cristo di Don Camillo. Dio che si fa dare del tu

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Economia narrativa/8 - Critico anticonformista di tutto ciò che appare finto, lo scrittore ha dato voce a personaggi immortali. E a un Gesù che ci commuove

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/12/2024

«Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Salì in auto con qualche diffidenza, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato. Lo riportammo poi indietro in fretta: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara».

Ernesto De Martino, La fine del mondo, 2002

Dopo Silone e Levi, iniziano alcuni articoli sul ‘Mondo Piccolo’ di Guareschi, un altro grande sguardo sul mondo popolare di ieri, e sulla sua anima.

Mondo piccolo. È il mondo raccontato da Guareschi, quella “fetta di pianura che sta tra il Po e l’Appenino” (Mondo Piccolo. Don Camillo, 1948, p. xi). Un mondo molto piccolo, troppo piccolo per noi, ma certamente un mondo che ancora ci affascina, ci chiama, ci interroga in un tempo quando il mondo è diventato grande, molto grande, certamente troppo grande per starci bene senza subire l’angoscia dello ‘spaesato’. Lo spaesamento è la grande nota antropologica e spirituale del terzo millennio - abbiamo globalizzato il mondo, abbiamo abbattuto tutti i campanili, e ci stiamo perdendo. Don Camillo e Peppone hanno molti difetti, alcune virtù, ma non sono spaesati: vivono sotto lo stesso campanile simbolico.

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Mondo piccolo nacque alla fine del 1946, e per una ventina d’anni più di trecento puntate hanno allietato il mondo - nell’edizione del 1953 di ‘Mondo Piccolo. Don Camillo e il suo gregge’, Rizzoli indicava 27 Paesi dove Don Camillo era stato tradotto. È lo stesso Guareschi che ci racconta quella provvidenziale nascita: “Perché ogni volta ti riduci all'ultimissimo minuto? Io non mi sono mai pentito della mia vita d'aver fatto l'indomani quello che potevo fare oggi… Io la ricordo, l'antivigilia del Natale del 1946. A causa delle feste bisognava finire il lavoro prima del solito… Allora oltre a compilare il ‘Candido’, scrivevo dei raccontini per l’‘Oggi’: era già sera e io non avevo ancora scritto il pezzo che mancava per completare l'ultima pagina del mio giornale.… “Bisogna chiudere subito il Candido!”, mi disse il proto. Allora feci cavar fuori il pezzetto dall’‘Oggi’, lo feci ricomporre in carattere più grosso e lo buttai dentro il Candido. … Se io dando retta ai ‘funzionari' avessi preparato il mio lavoro in tempo, Don Camillo, Peppone e l'altra mercanzia di Mondo Piccolo sarebbero nati e morti l'antivigilia del Natale 1946… E invece, così scherzando scherzando, due ore fa io ho consegnato (all'ultimissimo momento e fra il disgusto dei ‘funzionari’) la 200ª puntata di Mondo Piccolo.” (Don Camillo e il suo gregge, 1953, pp. xii-xiii).

Giovannino Guareschi (1908-1968) è uno dei pochi classici della letteratura popolare, e l’aggettivo ‘popolare’ amplifica il sostantivo. In Italia la sua vita e la sua opera furono molto tormentate. Era nato a Fontanelle (Parma), un paese della Bassa. Figlio di una maestra e di un commerciante di biciclette: “Quando ero ragazzo, mi sedevo spesso sulla riva del grande fiume e dicevo: "chissà se, quando sarò grande, riuscirò a passare sull'altra riva!”. … Adesso ho quarantacinque anni e spesso vado a sedermi come allora sulla riva del grande fiume e, mentre mastico un filo d’erba, penso: “si sta bene qui, su questa riva”” (Don Camillo e il suo gregge, p. xiv).

Iniziò presto a lavorare come vignettista e cronista. Nel 1942 fu arrestato per aver detto parole oltraggiose verso il fascismo e Mussolini. Il 9 settembre del 1943 fu fatto prigioniero dai tedeschi, quindi internato in diversi campi in Germania e in Polonia, fino al settembre 1945. Così lui racconta quell’esperienza decisiva: “Mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all'inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi alla fine. Gli anglo-americani nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia… Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell'oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso” (Diario clandestino, 1949, p. ix). Parole di una immensa intensità e profondità, che non ci aspetteremmo dall’autore di Peppone e Don Camillo, perché non lo abbiamo letto con attenzione, e perché, non conoscendo la Bibbia, pensiamo che i discorsi profondissimi e lo humour non possano stare insieme.

Nel dopoguerra la sua critica pubblica continuò, ma non solo contro il comunismo, come è ampiamente (e troppo) noto. In realtà, Guareschi era un critico radicale e severissimo di tutto ciò che gli appariva finto, falso, ideologico, conformista, ipocrita e opportunista. Fu, infatti, molto criticato da Togliatti (il “trinariciuto’), ma a farlo condannare furono un liberale e un democristiano. Nel 1950 fu condannato per vilipendio ad otto mesi di carcere (non scontati perché incensurato) per una vignetta de Il Candido dove aveva criticato l’uso mercantile che Luigi Einaudi, allora Capo dello Stato, aveva fatto della sua funzione istituzionale per promuovere un suo vino - ‘Nebbiolo, il vino del Presidente’. Ancora più nota è la querela di Alcide de Gasperi per aver pubblicato, nel 1954, due lettere (poi rilevatesi false) nelle quali de Gasperi chiedeva nel 1944 agli Alleati il bombardamento di Roma. Passò 409 giorni in carcere a Parma, e non volle ricorrere in appello - “Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia”, disse. Da questa esperienza devastante non si riprese più. Aumentò il suo isolamento. Nel 1957 lascia la direzione de Il Candido, nel 1961 avrà un primo infarto; il secondo, nel 1968, gli fu fatale.

La sua non è stata una vita di successo, nonostante l’enorme successo internazionale delle sue opere. Fu invece una esistenza costellata da critiche cattive e ingiuste, emarginazione, ridimensionamento delle sue opere declassate a storielle da ridere, e lui derubricato a macchiettista.

Guareschi non si è mai dato arie da scrittore. Non frequentava gli ambienti letterari che contavano, non ha vinto il Nobel (anche se nel 1965 qualcuno provò a candidarlo): “Io, nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole… Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere” (Don Camillo, p. ix). Eppure, basta leggere i suoi racconti, per capire di avere a che fare con un grandissimo scrittore. Lo è perché presenta (almeno) tre talenti che stanno insieme solo negli scrittori grandi e grandissimi.

Il primo è la capacità di saper cogliere l’anima profonda di un tempo e di un luogo. Ci ha svelato la Bassa (almeno) come Levi la Lucania e Silone la Marsica. Ma, più di Silone e Levi, Guareschi è veramente dentro i suoi racconti. È dentro a molte parole e gesti di Don Camillo, ma anche di Peppone, della Signora Cristina, o del Crocifisso: “I personaggi principali sono tre: il prete Don Camillo, il comunista Peppone e Cristo crocifisso. Ebbene, qui occorre spiegarsi: se i preti si sentono offesi per via di Don Camillo, padronissimi di rompermi un candelotto in testa; se i comunisti si sentono offesi per via di Peppone, padronissimi di rompermi una stanga sulla schiena. Ma se qualcun altro si sente offeso per via dei discorsi del Cristo niente da fare; perché chi parla nelle mie storie, non è il Cristo, ma il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza. Roba mia personale, affari interni miei” (Don Camillo, pp. xxxvi-xxxvii).

Il secondo talento è il dono (perché non è virtù: nessun talento è virtù) di non restare intrappolati dentro la gabbia d’acciaio del proprio temperamento, delle proprie ideologie, convinzioni e fedi, dalle quali non si liberano gli scrittori medi e piccoli. Guareschi, fino al secondo prima di scrivere le sue storie e dal secondo dopo averle scritte, non era capace di pensare le parole dei suoi personaggi. Soprattutto in alcune storie, le parole di Peppone, di Don Camillo e Gesù sono più grandi, molto più grandi delle parole di Guareschi: “Io non ho altro da dire su Mondo Piccolo. Nessuno può pretendere da un povero galantuomo che egli dopo aver scritto un libro lo debba anche capire” (Don Camillo della Bassa, Introduzione).

E così arriviamo direttamente al terzo talento, quello che riguarda il rapporto tra lo scrittore e le sue creature. Guareschi appartiene a quei pochi scrittori che non sono i burattinai dei loro personaggi: “Ora non è che io mi dia le arie del creatore: mica dico di averli creati io. Io ho dato ad essi una voce. Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sotto braccio e li ho fatti camminare su e giù per l’alfabeto” (Don Camillo e il suo gregge, p. xiv). All’inizio di Mondo piccolo è stato Giovannino a portare a braccetto i suoi protagonisti; poi sono stati Peppone e Don Camillo a portare a braccetto Guareschi, in storie, emozioni, parole che Giovannino non sapeva né immaginava in quella antivigilia del 1946. Guareschi non avrebbe battezzato il figlio di Peppone col nome di ‘Lenin’: Don Camillo sì (Don Camillo, p. 7); Guareschi non avrebbe corretto l’italiano del discorso di Peppone, Don Camillo sì (p. 17); Guareschi non si sarebbe pentito per aver scritto ‘Peppone asino’, Don Camillo sì (p. 12). Ogni grande opera è, per i suoi lettori, catarsi e metànoia; per il suo autore è, quasi sempre, anche resurrezione.

Tra le parole che, probabilmente, Guareschi non voleva scrivere, e invece scrisse, c’è il messaggio principale e forse più bello del libro: Don Camillo e Peppone litigano sempre, fanno anche a botte, sono diversi in tutto ma… nelle inondazioni del grande fiume vanno insieme lungo l’argine per salvare il paesello - lo vedremo. Che è esattamente quanto manca oggi alla nostra politica e società. E poi ci commuoviamo anche noi nel leggere da Guareschi: “E, sul finire del 1951, quando il grande fiume ha spaccato gli argini e ha allagato i campi felici della Bassa e da lettori stranieri mi sono arrivati pacchi di coperte e indumenti “per la gente di Don Camillo e di Peppone", allora mi sono commosso” (Don Camillo e il suo gregge, p. xiv).

Per tutte queste ragioni ho deciso di commentare Don Camillo di Guareschi. Ma la ragione più profonda è un’altra. Sono stato sedotto dai dialoghi tra Camillo e Gesù. Peppone ci appare quasi sempre insieme ai suoi compagni e alla sua famiglia. Don Camillo è solo. Il suo unico compagno è Cristo, con cui sa parlare, dialogare. Quel mondo piccolissimo diventava infinito in quei faccia-a-faccia, semplicemente meravigliosi. Saremo capaci di ritornare a parlare con Gesù?

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Economia narrativa/8 - Critico anticonformista di tutto ciò che appare finto, lo scrittore ha dato voce a personaggi immortali. E a un Gesù che ci commuove

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/12/2024

«Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Salì in auto con qualche diffidenza, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato. Lo riportammo poi indietro in fretta: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara».

Ernesto De Martino, La fine del mondo, 2002

Dopo Silone e Levi, iniziano alcuni articoli sul ‘Mondo Piccolo’ di Guareschi, un altro grande sguardo sul mondo popolare di ieri, e sulla sua anima.

Mondo piccolo. È il mondo raccontato da Guareschi, quella “fetta di pianura che sta tra il Po e l’Appenino” (Mondo Piccolo. Don Camillo, 1948, p. xi). Un mondo molto piccolo, troppo piccolo per noi, ma certamente un mondo che ancora ci affascina, ci chiama, ci interroga in un tempo quando il mondo è diventato grande, molto grande, certamente troppo grande per starci bene senza subire l’angoscia dello ‘spaesato’. Lo spaesamento è la grande nota antropologica e spirituale del terzo millennio - abbiamo globalizzato il mondo, abbiamo abbattuto tutti i campanili, e ci stiamo perdendo. Don Camillo e Peppone hanno molti difetti, alcune virtù, ma non sono spaesati: vivono sotto lo stesso campanile simbolico.

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Nel «Mondo Piccolo» di Guareschi l’umanità che non resta spaesata

Nel «Mondo Piccolo» di Guareschi l’umanità che non resta spaesata

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Economia narrativa/7 - Dall’amicizia di Gesù con i figli degli uomini sino ai ragazzini di Gagliano, uno spettacolo spirituale che fa rinascere il mondo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2024

Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre i miei undici fratelli. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell'aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto. I nostri campi non finivano mai e avremmo potuto correre anche una giornata intera senza sconfinare.”
Giovannino Guareschi, Mondo piccolo

L’incontro di Levi con i bambini ci rivela un’anima dello scrittore, e una dimensione essenziale di ogni civiltà: l’amicizia tra adulti e ragazzi.

Le bambine e i bambini sono il più grande patrimonio dell’umanità. Non solo perché sono la prima fonte di gioia delle donne e delle famiglie, o perché sono il segno che Dio non ci ha dimenticato, né soltanto perché sono per noi l’unica possibilità di un futuro buono. I bambini sono patrimonio dell’universo per il solo loro essere al mondo. In ogni bambino che nasce si rinnova l’alleanza di Elohim, torna a risplendere l’arcobaleno di Noè sulla terra che non è più la stessa dopo la nascita di ogni bambina e di ogni bambino, che può essere il messia, il goel, il riscattatore dal dolore e dalle ingiustizie. Il primo segno, e quello decisivo, che una civiltà ha iniziato il suo declino è l’assenza dei bambini dalle nostre città. L’indice di natalità vale mille volte di più del PIL, perché possiamo anche ridurre il PIL (magari azzerando la produzione di armi e di azzardo) e vivere bene o meglio, ma quando dalle nostre case spariscono i bambini, possiamo solo piangere o pregare. Lungo la via dolorosa, per le donne di Gerusalemme Gesù espresse la sua profezia di sventura con queste parole tremende: «Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato» (Luca 23,29). Una beatitudine all’incontrario - la resurrezione è anche il compimento della profezia del bambino: l’Emmanuele di Isaia. 

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I bambini sono co-protagonisti del Cristo si è fermato a Eboli. Li ritroviamo accanto alle figure mitiche dei ‘monachicchi’, che compaiono spesso nel mondo magico descritto da Carlo Levi. I “monachicchi” erano gli spiriti della Lucania, le anime dei bambini morti senza battesimo, che continuavano ad abitare in mezzo alla gente. Esseri dispettosi, simpatici e non cattivi. Non fanno danni, sono soltanto birichini, e innocenti. Grandi amici dei bambini, con i quali trascorrono molte ore a rincorrersi e acchiapparsi: “I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei: corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, … fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare” (p. 136). I monachicchi corrono sempre, come tutti i bambini.

Le corse perenni dei bambini sono la nota che accomuna tutti i paesi del mondo. Se devono spostarsi da casa al negozio, non camminano: loro corrono. Poi nei paesi dove di bambini ce ne sono molti, moltissimi, la corsa continua dei bambini riempie il panorama, diventa l’ambiente dentro il quale si svolgono le vicende degli adulti. Quando arrivai per la prima volta in Africa, ciò che più mi colpì non fu la povertà ma i fiumi di bambini che correvano veloci e insieme lungo le strade, molti per andare a scuola - uno dei bei volti della povertà è la fretta dei bambini per arrivare presto a scuola. Una stupenda icona del desiderio di vita e di futuro che ancora c’è in quei paesi, e che noi europei abbiamo perso - quando venne a trovarmi Corneille, un mio amico congolese, dopo un po’ di tempo che girava per la città mi disse triste: ‘ma i bambini dove sono?'. Finché i bambini corrono liberi e selvaggi nelle strade, finché ne correrà almeno uno, si può ancora sperare, perché quella corsa alimenta i sogni grandi. Il numero dei bambini è sempre indicatore di cose decisive. Misurano la povertà e la miseria, ieri e purtroppo ancora oggi; ma indicano molte altre cose belle. Il vero segnale che dirà se e quando in Europa inizierà una primavera civile saranno nuvoli di bambini che correranno di nuovo in compagnia dei … monachicchi.

I bambini di Gagliano sono anche abituali frequentatori della casa di Carlo: “Se non avevo la compagnia dei signori, avevo quella dei bambini. Ce n'erano moltissimi, di tutte le età, e usavano battere al mio uscio ad ogni ora del giorno. Quello che gli aveva attratti, dapprincipio, era Barone [il suo cane], questo essere infantile e meraviglioso. Poi li aveva colpiti la mia pittura, e non finivano di stupirsi delle immagini che apparivano, come per incanto, sulla tela, e che erano proprio le case, le colline e i visi dei contadini”. Levi si riferisce a quei bambini con una parola bellissima: amici: "Erano diventati miei amici: entravano liberamente in casa, posavano per i miei quadri, orgogliosi di vedersi dipinti… Ce n'era sempre, allora, una ventina, e tutti consideravano massimo onore portarmi la cassetta, il cavalletto, la tela: per questo onore si disputavano e si picchiavano” (p. 192). Erano dunque diventati suoi amici

Uno degli spettacoli spirituali più belli della terra è l’amicizia tra gli adulti e i bambini. Oggi ci siamo abituati a parlare quasi unicamente dei pericoli, dei rischi e degli abusi nelle relazioni tra adulti e bambini, e purtroppo dobbiamo farlo. Ma non dovremmo mai dimenticare che il mondo vive e rinasce ogni giorno grazie all’amicizia tra le maestre e i loro bambini e bambine, tra genitori figli e figlie, tra allenatori e i loro allievi e allieve, tra educatori e i frequentatori degli oratori, delle parrocchie, dei campiscuola, delle gite in pullman … La vita, la civiltà e la fede si trasmettono dentro queste relazioni asimmetriche eppure stupende e necessarie. Anche se Aristotele e molti filosofi negavano che ci potesse essere amicizia tra adulti e ragazzi - per la troppa asimmetria -, sono invece convinto che spesso tra di loro esista qualcosa di molto simile a quanto chiamiamo amicizia, perché può esistere una vera reciprocità, il vero ingrediente essenziale di ogni amicizia. Il primo maestro di questa amicizia, speciale e delicatissima, è stato Gesù, che ci ha donato anche la sua amicizia con i bambini. Ci sono nei vangeli troppe parole meravigliose sui bambini per non pensare che Gesù fosse davvero amico dei bambini (perché frequentava le case dove aveva imparato a conoscere ed amare donne e bambini), viveva con loro una misteriosa reciprocità. Altrimenti non avrebbe potuto dire: “In verità io vi dico: se non vi convertite e non diventate come i bambini, non entrerete affatto nel Regno dei cieli.” (Matteo 18,3). E poi aggiungeva: “Guardatevi dal disprezzare qualcuno di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli, nei cieli, vedono continuamente la faccia del Padre mio” (18,10). I loro angeli nei cieli …, cioè i cugini dei monachicchi.

Nel vangelo c’è una teologia e una pedagogia dell’infanzia che ancora attendono di essere prese sul serio. Sui bambini il messaggio di Gesù è davvero forte e rivoluzionario: i bambini sono maestri nella fede, sono coloro cui guardare per convertirsi da adulti. E forse sulla terra non c’è nulla di più bello di un bambino con la fede. Dopo quasi duemila anni da questa pedagogia evangelica, sul piano civile le società hanno fatto grandi progressi nel riconoscimento e rispetto dei bambini, ma è sul piano economico e commerciale dove li stiamo proteggendo poco, e sempre meno, dove stiamo perdendo alcune conquiste del secolo passato. Li lasciamo sempre più esposti, da soli, all’impero della pubblicità, ai mercanti seriali di profitto, alle tecniche del marketing, oggi sempre più penetranti tramite smartphone che sono diventati il loro ambiente naturale - sono convinto che dovremmo chiedere presto, e con molta forza, una moratoria dell’uso dei bambini nella pubblicità.

Nel Cristo c’è poi un episodio particolarmente toccante con uno di loro: “Un ragazzo di otto o dieci anni, Giovanni Fanelli… si era più di tutti entusiasmato per la pittura … Era attentissimo a tutto quello che facevo: mi vedeva preparare la tela con l’imprimitura, tirarla sui telai: queste operazioni, poiché io le facevo, gli parevano tanto essenziali all'arte come il fatto del dipingere”. Quindi ce lo descrive: "Era un bambino timido, arrossiva facilmente, non avrebbe usato, per quanto ne avesse un grande desiderio, farmi vedere le sue opere. Avvertito dagli altri, le vidi. Non erano le solite pitture infantili, né delle imitazioni. Erano cose informi, macchie di colore non prive di incanto”. Quindi conclude: “Non so se Giovanni Fanelli sia diventato o potesse diventare un pittore: ma certo non vidi mai in nessuno quella sua fiducia in una rivelazione che dovesse venire da sola, dal lavoro; quel suo credere nella ripetizione della tecnica come di un'infallibile formula magica, o come di un lavoro della terra, che, arata e seminata, porta il suo frutto” (pp. 192-193). Non sembra - stando almeno ad una mia prima improvvisata ricerca - che Giovanni Fanelli sia diventato un pittore; ma, qualsiasi lavoro abbia fatto da grande, quell’esperienza a casa di Carlo lo cambiò per sempre. Una esperienza artistica vera, soprattutto a otto o dieci anni, imprime uno stampo nell’anima, muta la percezione del mondo, dona un altro punto di vista sulla vita. Aggiunge una quarta dimensione allo sguardo, aumenta lo spazio dell’immaginazione e della creatività - una società meno pan-mercantile della nostra, accanto o al posto dell’alternanza ‘scuola-lavoro’ (PCTO), avrebbe inventato l’alternanza ‘scuola-arte’, forse più essenziale per crescere.

Infine, Levi ci dona altre parole sulla sua amicizia con quei bambini contadini: “Questi ragazzi, … erano vivaci, intelligenti e tristi. Quasi quasi tutti erano vestiti di cenci malamente rattoppati, con le vecchie giacche dei fratelli maggiori, dalle maniche troppo lunghe rimboccate sui polsi: scalzi o con delle grosse scarpe da uomo bucate… Tutti vivi di una vita precoce, che si sarebbe poi spenta con gli anni nella monotona prigione del tempo. Mobili e silenziosi, me li vedevo comparire attorno da ogni parte, pieni di una mutua fedeltà, e di desideri non espressi… Mi erano amici, ma pieni di pudore, ritrosia e diffidenza, avvezzi naturalmente al silenzio, e a nascondere il loro pensiero; immersi in quel fuggente misterioso mondo animale nel quale vivevano, come piccole capre svelte e fugaci” (pp. 193-194).

Erano suoi amici, svelti e fugaci, ma … con alcune note tipiche dei bambini amici dei grandi, ieri e forse ancora oggi: pudore, ritrosia, silenzio, tristezza, persino diffidenza. Mi sembra di rivederli ora quegli incontri bellissimi di Gagliano, forse perché sono stati anche i miei da bambino. Nel mio paese sono stato amato e formato dalla mia famiglia, dalla scuola, dalla parrocchia; ma non meno da alcuni amici e amiche ‘grandi’, che si sono gioiosamente lasciati rubare il ‘mestiere del vivere’.

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Economia narrativa/7 - Dall’amicizia di Gesù con i figli degli uomini sino ai ragazzini di Gagliano, uno spettacolo spirituale che fa rinascere il mondo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2024

Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre i miei undici fratelli. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell'aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto. I nostri campi non finivano mai e avremmo potuto correre anche una giornata intera senza sconfinare.”
Giovannino Guareschi, Mondo piccolo

L’incontro di Levi con i bambini ci rivela un’anima dello scrittore, e una dimensione essenziale di ogni civiltà: l’amicizia tra adulti e ragazzi.

Le bambine e i bambini sono il più grande patrimonio dell’umanità. Non solo perché sono la prima fonte di gioia delle donne e delle famiglie, o perché sono il segno che Dio non ci ha dimenticato, né soltanto perché sono per noi l’unica possibilità di un futuro buono. I bambini sono patrimonio dell’universo per il solo loro essere al mondo. In ogni bambino che nasce si rinnova l’alleanza di Elohim, torna a risplendere l’arcobaleno di Noè sulla terra che non è più la stessa dopo la nascita di ogni bambina e di ogni bambino, che può essere il messia, il goel, il riscattatore dal dolore e dalle ingiustizie. Il primo segno, e quello decisivo, che una civiltà ha iniziato il suo declino è l’assenza dei bambini dalle nostre città. L’indice di natalità vale mille volte di più del PIL, perché possiamo anche ridurre il PIL (magari azzerando la produzione di armi e di azzardo) e vivere bene o meglio, ma quando dalle nostre case spariscono i bambini, possiamo solo piangere o pregare. Lungo la via dolorosa, per le donne di Gerusalemme Gesù espresse la sua profezia di sventura con queste parole tremende: «Beate le sterili, i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato» (Luca 23,29). Una beatitudine all’incontrario - la resurrezione è anche il compimento della profezia del bambino: l’Emmanuele di Isaia. 

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Nel legame tra bambini e adulti la misura del cuore di ogni civiltà

Nel legame tra bambini e adulti la misura del cuore di ogni civiltà

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Economia narrativa/6 - Nel “Cristo si è fermato a Eboli” un viaggio nella miseria contadina che riflette sull’autentica aspirazione dell’umano

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/11/2024

Mi si dirà: non concludo. Rispondo: L’intelligenza non conclude nulla: vede. Se vede.”
Don Giuseppe De Luca, Intorno al Manzoni

La democrazia è una distruzione di regali-obblighi per creare le condizioni per i doni-gratuità. Quelli che non ci sono nel Cristo di Levi.

Gli scrittori, soprattutto i più grandi, prima vedono i loro personaggi, le scene, i paesaggi, i dialoghi, gli spazi vuoti, poi li scrivono. Non si può narrare se prima non si vede. Anche in questo lo scrittore somiglia al profeta biblico, che prima di udire la parola, la vede: “Parola che vide Isaia” (Is 2,1), “Parola che Amos vide” (Am 1,1). “E venne la vigilia di Natale… I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati” (Cristo si è fermato a Eboli, p. 181).

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Qui Carlo Levi ci mostra una pratica del dono diversa dalle teorie del dono che qualche decennio prima erano state elaborate dall’antropologo Marcel Mauss e dai suoi colleghi. Mentre quegli studiosi ci spiegavano che il circuito del dono ha una struttura ternaria fatta di donare-accettare-contracambiare, Levi ci raccontava invece un dono che era solo obbligo: munus, dicevano i romani, o regalo, che deriva da re (rex, regis), e cioè le offerte obbligatorie ai re, ai signori, ai superiori, alla divinità. Nella società dell’Italia contadina descritta da Levi i doni-regali dei poveri non conoscevano la reciprocità: dovevano essere fatti ai signori, e basta. Il donare-accettare-contraccambiare si riduceva al solo donare; è vero che qualche volta i signori non accettavano i doni, ma non per non essere obbligati a contraccambiare ai poveri (quest’obbligo non c’era mai); se non accettavano era solo perché non erano adeguati e graditi: e questa era davvero una disgrazia. Quello dei contadini era un obbligo unilaterale, senza ritorno. Il mondo pre-moderno non conosceva cosa fosse il dono-gratuità: conosceva solo i regali, gli obblighi, ma il dono gratuito non era tra gli strumenti dell’uomo e ancor meno della donna antica. Levi sente di dover violare quell’antica liturgia che, da uomo moderno e liberale, vedeva solo come retaggio feudale: “Anche io dovetti ricevere, quel giorno, bottiglie di olio, di vino, e uova, e canestrelli di fichi secchi, e i donatori si meravigliavano che io non li accettassi come una decima obbligatoria, ma che me ne schermissi, e facessi, in cambio, come potevo, qualche dono. Che strano signore ero io dunque, se non valeva per me la tradizionale inversione della favola dei re Magi, e si poteva entrare a casa mia mani vuote?” (pp. 181-182). Bello il riferimento ‘all’inversione’ della tradizione (‘favola’) dei Magi: quei signori del vangelo di Matteo portavano doni ad una madre e ad un bambino poveri, mentre i signori cristiani di Gagliano i doni-regali li pretendevano dai poveri e dalle donne. Le mie nonne, mia madre, mio padre non hanno conosciuto i doni. Hanno avuto, qualche volta, un po’ di frutta secca a Natale e alla Befana, ma i doni come li intendiamo noi (gratuiti e liberi) non c’erano quasi mai, né per i compleanni né per altro. I doni erano vissuti (quasi) sempre come destino senza l’esperienza della libertà. C’erano invece le offerte necessarie ai santi, per le messe, le regalie dai potenti in momenti speciali per rafforzare le gerarchie.

Queste antiche pratiche di dono-senza-gratuità erano intrecciate con una idea religiosa di sacrificio, cresciuta durante la Controriforma cattolica: i contadini, le donne, i poveri dovevano sacrificarsi per la famiglia, per la chiesa, per Dio, ma dall’altra parte non c’era nessuno che si doveva sacrificare per loro. Anche il sacrificio a Dio era vissuto come regalo, come offerta da fare al più potente dei potenti, regali che non hanno liberato i poveri e li hanno legati più stretti al loro triste destino. Anche se, lo sappiamo, gli esseri umani sono più grandi del loro destino, e dai mondi del solo-obbligo, sono sempre fioriti anche dei doni - e continuano a fiorire.

Il cammino della democrazia è stata una distruzione creatrice di regali per poter iniziare a fare i doni, perché il dono è l’altro nome della libertà, non è il registro dei servi e degli schiavi. E ogni volta che nelle nostre relazioni sociali e religiose tornano i regali-obblighi, stiamo retrocedendo al mondo feudale.

Questi regali senza gratuità sono presenti anche nella figura di Don Trajella, il parroco di Gagliano. Don Giuseppe Trajella da Tricarico è un ‘vinto’ del ciclo del Cristo. Il primo incontro tra Carlo Levi e l’arciprete compone uno degli acquerelli più belli del romanzo: “Era un vecchio piccolo e magro, con degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato.… Da tutto il suo aspetto spirava un'aria stanca di miseria mal sopportata; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce”. Da giovane era stato professore di teologia al seminario di Napoli e a quello di Melfi, scrittore, autore di biografie di santi, scultore e pittore. A Gagliano era stato mandato “per punizione”, e in paese non era amato, dove si diceva “che era sempre ubriaco”. Ormai non era “che un povero prete perseguitato e inasprito, una pecora nera e malata in un gregge di lupi”. La disgrazia “lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l'aveva buttato, come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva più toccato un libro né un pennello… Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava” (pp. 42-43). Levi anche per questo vecchio prete sventurato ha occhi di pietas: lo vede nella sua disgrazia, lo guarda, a modo suo lo redime e salva con i suoi occhi buoni. Un altro compagno di sventura, di un confino diverso e simile, un altro sconfitto dalla vita e da quel tempo infelice. E Levi sa stare bene in questa compagnia scomoda, nella ‘corte dei miracoli’ del suo Cristo, di cui Carlo non è il re ma semplicemente uno di loro.

Don Trajella è il protagonista della esilarante messa della notte di Natale del 1935. I fedeli erano in chiesa, ma “di Don Trajella non si vedeva traccia”. Dopo mezz’ora di attesa, Don Luigino, il capo dei fascisti locali, pensò che il prete fosse di nuovo ubriaco: manda un ragazzo a cercarlo e il parroco finalmente arriva. Alla fine della messa, dopo l’ite missa est, Don Trajella sale sul pulpito per proclamare la sua predica e, dopo qualche minuto di mezze parole e di scuse, finalmente parla: “Fratelli carissimi… avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l'avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L'avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo più, l'ho perduta; e non mi ricordo più di nulla. Come fare?” (p. 183). Don Luigino non gli crede, e non trattiene la sua ira: “È uno scandalo, è una profanazione della casa di Dio. Fascisti, a me”. Ma mentre il prete giace, prostrato, in ginocchio, accade qualcosa di straordinario: “Miracolo, miracolo! Gesù mi ha ascoltato! … Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio”. Sotto il crocifisso di legno spuntò un foglio con sopra stampata la lettera di un sergente di Gagliano, proveniente dalla guerra di Abissinia. E quella lettera diventa la sua nuova predica sulla guerra e sulla pace, sottolineando che “questa guerra non è una guerra, ma un’azione di pace”. Intanto, mentre Don Trajella predicava, Don Luigino e i suoi fascisti avevano iniziato a cantare in chiesa “Faccetta nera" e poi “Giovinezza”. Ma Trajella, indifferente al disordine, continua deciso la sua predica, mette da parte la lettera del sergente e così conclude: “Il divino infante è nato proprio in quest'ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus… Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non battezzati i vostri figli, non vi confessate, non vi comunicate… E perciò la pace non è con voi. Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire Pax in terra hominibus? Vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l’usanza, al vostro pastore. Invece non l'avete fatto. Perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonae voluntatis, non avete la volontà buona, così non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensateci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagate i debiti per i suoi terreni che glieli dovete dall'anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, ispiri la pace nei vostri cuori, se volete che la pace torni nel mondo e finisca la guerra” (p. 183). Un diverso ‘agnello’ che porterà un’altra pace; altri ‘debiti’ rimessi da altri debitori.

Don Luigino, quella notte stessa denunciò don Trajella al podestà, e fu presto trasferito. Durante quella stessa notte, Giulia, la sua domestica, rivelò a Carlo gli incantesimi più potenti, “quelli che possono far ammalare e morire - Soltanto a Natale si possono dire, in grandissimo segreto, e con giuramento di non ripeterli a nessun altro… In tutti gli altri giorni è peccato mortale” (p. 187). Anche io ricordo bene Pierina, una signora anziana del mio paese, amica di famiglia, che soltanto nella notte di Natale poteva rivelare le formule segrete per togliere l’invidia (tramite un rito con l’olio); non l’ho mai imparate, ero troppo piccolo per un giuramento, ma quel mondo magico-religioso mi incantava, e mi ha lasciato in dono il senso del mistero che scorre dentro la vita.

L’economia, la miseria e lo sfruttamento dei contadini, sono l’orizzonte del Cristo, qualche volta ne sono il contenuto: “I contadini erano pagati con salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena mietitura, le lunghe file di donne, che salivano con in testa un sacco di grano, come dei dannati dell'inferno, sotto il sole feroce.… Il migliore e più umano pensatore di questa terra, Giustino Fortunato, amava chiamarsi ‘il politico del niente’. Io pensavo a quante volte ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. - Ninte - come dicono a Gagliano: ‘Che cosa hai mangiato?’. - Niente -. ‘Che cosa speri?’ - Niente - ‘Che cosa si può fare? - Niente - E gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo” (p. 169). Un altro nichilismo, diverso da quello dei filosofi. La scuola pubblica e gratuita, la sanità universale, il lavoro per tutti, gli insegnanti di sostegno, sono stati e sono gli strumenti e i luoghi dove abbiamo cercato di superare quel ‘niente’. Oggi altri ‘niente’ stanno occupando le anime e i cuori della nostra gente, di troppi giovani. Un niente di pace, di speranza, di comunità, di relazioni, di incontri, di Dio.

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Economia narrativa/6 - Nel “Cristo si è fermato a Eboli” un viaggio nella miseria contadina che riflette sull’autentica aspirazione dell’umano

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/11/2024

Mi si dirà: non concludo. Rispondo: L’intelligenza non conclude nulla: vede. Se vede.”
Don Giuseppe De Luca, Intorno al Manzoni

La democrazia è una distruzione di regali-obblighi per creare le condizioni per i doni-gratuità. Quelli che non ci sono nel Cristo di Levi.

Gli scrittori, soprattutto i più grandi, prima vedono i loro personaggi, le scene, i paesaggi, i dialoghi, gli spazi vuoti, poi li scrivono. Non si può narrare se prima non si vede. Anche in questo lo scrittore somiglia al profeta biblico, che prima di udire la parola, la vede: “Parola che vide Isaia” (Is 2,1), “Parola che Amos vide” (Am 1,1). “E venne la vigilia di Natale… I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati” (Cristo si è fermato a Eboli, p. 181).

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Se i doni dei poveri sono obblighi senza l’esperienza della libertà

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Economia narrativa/5 - Le figure di donne nel grande romanzo che svelò il Meridione contadino mostrano segreti di relazioni affettive e di memoria religiosa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/11/2024

Ringraziare desidero per il fatto di avere una sorella.

Mariangela Gualtieri, Ringraziare desidero

Due episodi del Cristo di Carlo Levi, l’incontro con sua sorella e il bambino salvato dalla Madonna di Viggiano, ci introducono in un mondo che ha ancora molto da dirci.

Il Cristo si è fermato ad Eboli è, prima di tutto, un libro ricco di episodi scritti con una prosa bellissima, capaci di donarci brani di una umanità tanto bella quanto ormai perduta. Nella prima parte del romanzo, troviamo la visita di Luisa a Carlo Levi, suo fratello. Lei era una celebre neuropsichiatra infantile, nota per i suoi studi pionieristici sull’educazione sessuale dei bambini. Luisa era di quattro anni più grande di Carlo (era nata nel 1898), e il fratello ce ne dona una bellissima descrizione in pagine tra le più intense del romanzo. Al suo arrivo, la vede scendere dall’automobile del ‘tassista’ di Gagliano: “I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto della sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben noti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine… il suo arrivo era quello di un'ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero” (p. 78). È grazie al racconto che Luisa fa al fratello del suo arrivo in treno a Matera che abbiamo forse le pagine più note del Cristo: “Di bambini ce n'era un’infinità… Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, le mosche che si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili… Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria” (p. 82). Una descrizione tremenda che contrasta, e questa volta il contrasto è tutto buono, con la stupenda Matera di oggi, diventata una delle città europee più belle. L’Italia è stata capace anche di queste metamorfosi civili, che però non devono mai farci dimenticare che la Basilicata e il Sud non sono soltanto quello luminoso di Matera.

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Il racconto dell’arrivo di Luisa a Gagliano è pieno di emozioni, soprattutto quando Carlo descrive come il paese accolse e lesse quella visita sororale: “Finora io ero stato, per loro, qualcuno piovuto dal cielo: ma mi mancava qualcosa: ero solo. L'aver scoperto che anch'io avevo dei legami di sangue su questa terra pareva colmasse piacevolmente, ai loro occhi, una lacuna. Il vedermi con una sorella muoveva uno dei loro più profondi sentimenti… Quando, verso sera, passeggiavamo per l'unica strada del paese, mia sorella ed io, tenendoci a braccetto, i contadini dalle soglie ci guardavano beati. Le donne ci salutavano, e ci coprivano di benedizioni: - Benedetto il ventre che vi ha portati - … - Benedette le mammelle che vi hanno allattati! - … Una sposa è una bella cosa: ma una sorella è molto di più! - Frate e sore, core e core“ (pp. 84-85). Parole che ricordano quelle delle donne al passaggio di Gesù (Lc 11,27).

Il mondo greco conosceva più parole per dire ciò che noi oggi chiamiamo ‘amore’. Philadelphia e storgé erano utilizzate per esprimere quella particolare forma di amore che è tipica dei legami familiari. Paolo, nella Lettera ai Romani (12.10), usa la rara parola philostorgos - composta unendo philos (amico) e storgé - per dire: “Amatevi l’un l’altro con affetto fraterno”. L’amore tra fratelli e sorelle è una forma d’amore tra le più forti e profonde, diversa da quella coniugale e anche da quella per i (e dei) genitori. È fatto di poche parole e di molta sostanza silenziosa, di libertà, di litigi che spesso si ricompongono il minuto dopo in cui sorgono. L’amore, poi, tra sorelle è ancora diverso da quello tra i fratelli, ma quello tra un fratello e una sorella è ancora diverso, e forse quello più delicato e bello. Vive di grazia, di dolcezza, di abbracci lunghissimi, di bellezza, di tanta commozione. Perché, diversamente da quelli tra maschi e tra femmine, l’affetto tra una sorella e un fratello ha una tipica tenerezza e una complicità unita alla delicatezza, al rispetto, alla confidenza, al pudore. Certi grandi dolori intimi noi maschi li diciamo più facilmente - e qualche volta soltanto - ad una sorella. Non è un amore scelto come è invece quello dell’amicizia (la philia); le sorelle (e i fratelli) ci capitano, ce le troviamo dentro casa prima di noi o arrivano dopo, ma questa non-scelta invece di ridurre l’affetto e la libertà l’accrescono, è lievito di molte altre libertà cercate e conquistate. Il dono di avere una sorella cambia e cresce insieme a noi, gli anni lo svelano, ne mostrano tutti i tesori che restano nascosti da ragazzi. Pochi dolori sono più grandi di quelli che nascono da una sorella gravemente malata, o umiliata e offesa, e la morte giovane di una sorella è forse, con quello per la morte dei figli, il dolore più grande sulla terra. Oggi, in un tempo di famiglie fragili e brevi e di troppe solitudini, l’amore sororale resta un’àncora per le nostre felicità. Fraternità è una bellissima parola ma da sola non basta per esprimere l’emozione provata dalle donne nel vedere Carlo e Luisa a braccetto. Ci vorrebbe una parola diversa, ‘frate e sore’ insieme, la fraternità e la sororità; una parola che non c’è, ma che non dovremo mai smettere di cercare e magari un giorno trovare.

Particolarmente delicate sono poi anche le pagine su un’altra donna, Margherita, che faceva le faccende a Carlo: “Una vecchia, con un viso pieno di bontà”, che “era considerata una delle donne più intelligenti e colte del paese” - le pagine più belle del Cristo sono quelle che hanno donne per protagoniste. Margherita aveva fatto “fino alla quinta elementare, e ricordava perfettamente tutto quello che aveva imparato. Quando veniva nella mia camera, mi ripeteva infatti le poesie di quei suoi vecchi tempi di scuola: la Spedizione di Sapri, la Morte di Ermengarda. Le ripeteva stando in mezzo alla stanza, ritta in piedi, con le braccia rigide e pendenti lungo il corpo, recitandole come cantilene” (p. 165). In quel mondo l’intelligenza era qualcosa di diverso da quanto è diventata dopo. Riguardava anche la bontà, perché nessuna persona che non fosse buona poteva essere chiamata intelligente. Qualcosa di simile a quella che la Bibbia chiamava sapienza. Anche la scuola era importante per l’intelligenza, sebbene non essenziale, perché la scuola era poca e quindi preziosa come l’oro. Nel mondo contadino, poter andare a scuola, sopratutto per le bambine, era sempre giorno di festa, un’oasi di bellezza in una quotidianità difficile fatta di fatica e di dolore. Per i contadini di ieri, le parole che ascoltavano dalla maestra nelle aule multiclasse era il luogo delle novità vere: la storia con i suoi popoli misteriosi, la geografia con le sue capitali del mondo. Oggi scoprivano gli assiri, domani i babilonesi, dopodomani Madrid: tutti abitanti del loro mondo magico. Ma soprattutto amavano le poesie. Non le capivano, ma le imparavano a memoria come si imparavano le preghiere, perché erano belle come le statue della madonna e dei santi, piene di colori e ricoperte d’oro. Quei bambini sapevano che gli anni della scuola erano molto pochi, due o forse cinque, e quindi non perdevano una parola della maestra. Per intuire qualcosa di cosa fosse la parola nella Bibbia, dovremmo tornare con la memoria nelle scuole dei bambini poveri di ieri, o in una classe africana di oggi: ogni parola era caparra della terra promessa. In Margherita che recitava le poesie, ho rivisto quelle di mia madre, anche lei arrivata solo fino alla quinta elementare, che ogni 10 agosto ci recitava (e recita ancora) a memoria e con la stessa posa bambina, la poesia ‘San Lorenzo’, a cui nei giorni speciali si aggiungevano ‘Breus’ e ‘La cavallina Storna’ - la sua amata maestra Anna Filippini amava molto Pascoli.

Un giorno Margherita raccontò a Carlo, “fra le lagrime”, la storia del suo terzo bambino: “Questo figlio era il più bello di tutti… Un giorno d’inverno, Margherita l’aveva affidato a una comare e vicina, che l’aveva portato con sé in campagna, mentre andava a far la legna. Alla sera la vicina tornò a casa sola, e disperata. Aveva lasciato il bambino, che camminava ben poco, per pochi minuti, mentre raccoglieva, nel sentiero del bosco, delle frasche: ma, tornata, il bambino non c’era più. Aveva girato attorno dappertutto, del bambino nessuna traccia… Il quarto giorno, alla mattina, Margherita che girava sola e sconsolata per la campagna, incontrò alla volta di un sentiero, una donna grande e bella, col viso nero. Era la Madonna di Viggiano. Le disse: - Margherita, non piangere. Il tuo bambino è vivo. È laggiù nel bosco, in una fossa da lupi. Va a casa, fatti accompagnare, e lo troverai -. Margherita corse, e, seguita dai contadini e dai carabinieri, giunse nel luogo indicato dalla Madonna. Nella fossa da lupi, in mezzo alla neve, giaceva il suo bambino, tranquillamente addormentato, tutto rosa e tiepido in mezzo a quel freddo. La madre lo abbracciò, lo svegliò. Tutti piangevano, anche i carabinieri. Il bambino raccontò che era venuta una donna col viso nero, e che per quattro giorni l’aveva tenuto con sé, e gli aveva dato il latte, lì in quella fossa, l’aveva tenuto caldo” (pp. 165-166). Poi il bambino morirà qualche anno dopo, cadendo da una scala, ma quel latte che aveva ricevuto dalla madonna di Viggiano lo aveva reso speciale per sempre. Noi oggi alle donne ‘grandi e belle, col viso nero’ che incontriamo lungo i nostri sentieri, chiudiamo i porti, le respingiamo, non crediamo ai loro racconti di vita. Ma chissà quanti bambini nelle nostre ‘fosse da lupi’ continuano ad essere ‘allattati’ dalla ‘Madonna di Viggiano’, e non muoiono?!.

Nel mondo narrato da Levi le donne erano le prime amministratrici del sacro, sempre intrecciato con il magico. Era una gestione condivisa tra molte persone. Nel mondo protestante il sacro popolare è stato combattuto, in quello cattolico istituzionale è stato concentrato nei preti, in un monopolio maschile. Nel mondo contadino cattolico, invece, è rimasto femminile, plurale e popolare, quindi selvaggio e indomato, ed è sopravvissuto, intrecciato con la magia ma vivo. In quel campo meticcio la fede ha trovato terreno fertile, l’umiltà naturale ha alimentato l’humus cristiano. Se il cristianesimo, dopo questa notte oscura, avrà ancora una nuova stagione, questa sarà annunciata da un’alba popolare, contadina, femminile, spuria. Non sarà il cristianesimo dei teologi né quello del tempio il giardino dove la pietra potrà ancora rotolare.

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Economia narrativa/5 - Le figure di donne nel grande romanzo che svelò il Meridione contadino mostrano segreti di relazioni affettive e di memoria religiosa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/11/2024

Ringraziare desidero per il fatto di avere una sorella.

Mariangela Gualtieri, Ringraziare desidero

Due episodi del Cristo di Carlo Levi, l’incontro con sua sorella e il bambino salvato dalla Madonna di Viggiano, ci introducono in un mondo che ha ancora molto da dirci.

Il Cristo si è fermato ad Eboli è, prima di tutto, un libro ricco di episodi scritti con una prosa bellissima, capaci di donarci brani di una umanità tanto bella quanto ormai perduta. Nella prima parte del romanzo, troviamo la visita di Luisa a Carlo Levi, suo fratello. Lei era una celebre neuropsichiatra infantile, nota per i suoi studi pionieristici sull’educazione sessuale dei bambini. Luisa era di quattro anni più grande di Carlo (era nata nel 1898), e il fratello ce ne dona una bellissima descrizione in pagine tra le più intense del romanzo. Al suo arrivo, la vede scendere dall’automobile del ‘tassista’ di Gagliano: “I suoi gesti chiari, il suo vestito semplice, il tono schietto della sua voce, l’aperto sorriso erano quelli a me ben noti, che le avevo sempre conosciuto: ma dopo i lunghi mesi di solitudine… il suo arrivo era quello di un'ambasciatrice di un altro Stato in un paese straniero” (p. 78). È grazie al racconto che Luisa fa al fratello del suo arrivo in treno a Matera che abbiamo forse le pagine più note del Cristo: “Di bambini ce n'era un’infinità… Ho visto dei bambini seduti sull'uscio delle case, le mosche che si posavano sugli occhi, e quelli stavano immobili… Ma la maggior parte avevano delle grandi pance gonfie, enormi, e la faccia gialla e patita per la malaria” (p. 82). Una descrizione tremenda che contrasta, e questa volta il contrasto è tutto buono, con la stupenda Matera di oggi, diventata una delle città europee più belle. L’Italia è stata capace anche di queste metamorfosi civili, che però non devono mai farci dimenticare che la Basilicata e il Sud non sono soltanto quello luminoso di Matera.

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Sapienza e umiltà al femminile garanzie di custodia del sacro

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Economia narrativa/4 - Lo sguardo capace di onore e rispetto sulla spiritualità dei contadini del meridione nel romanzo-capolavoro del ‘900

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/11/2024

Dalle esperienze di confino di un altro antifascista, Levi, nacque Cristo si è fermato ad Eboli, che vuole essere ed è l'opera di un letterato, ma a cui noi tutti dobbiamo qualche cosa di più di una semplice suggestione letteraria.”

Ernesto de Martino, La terra del rimorso, 1961, p. 28

Con il Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi ci svela l’anima della gente lucana, e ci porta dentro la loro religiosità, forse più cristiana di quanto Levi non pensasse.

Cristo si è fermato ad Eboli è parte della coscienza morale del secondo Novecento italiano ed europeo. Carlo Levi e Ignazio Silone ci hanno mostrato un’anima popolare dell’Italia meridiana, contadina e povera molto più complessa e ricca di come l’avevano descritta i primi storici moderni e illuministi, per i quali quei contadini italiani erano semplicemente ‘pagani’, molto simili se non identici agli abitanti pre-cristiani della Magna Grecia; come se il cristianesimo non fosse mai passato in quelle terre rurali del Sud, che, per la poca o inesistente cultura cristiana, erano state già definite dai gesuiti del ‘600 le ‘Indie d’Italia’. Cristo non si era fermato solo a Eboli: non era mai uscito dalle mura aureliane di Roma, dai seminari e dai trattati di teologia.

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Cristo si è fermato ad Eboli è ambientato tra Grassano e Aliano (chiamato Gagliano nel libro), due comuni nella provincia di Matera. Il tema religioso nei suoi rapporti con la magia è un elemento essenziale del romanzo: “Nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magia” (Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, 1947, p. 20). Quest’estate ho trascorso alcuni giorni in quei due paesi, per respirare il loro spirito, e lì, tra letture e un pellegrinaggio a piedi alla Madonna di Viggiano, ho deciso di scrivere questi pochi articoli sul Cristo di Carlo Levi. La presenza di Levi è ancora vivissima in quelle terre, a svelarci quella capacità sublime che ha la letteratura di cambiare la storia e la geografia dei luoghi mentre ce ne svela l’anima profonda. Il mondo cambia ogni giorno mentre proviamo a raccontarlo.

Il Cristo di Levi è molte cose. A prima vista è un romanzo autobiografico, una sorta di diario antropologico e sociale scritto tra il 1943 e il 1944 a Firenze, che racconta il periodo di confino lucano (1935-1936) dell’anti-fascista Carlo Levi, pittore, medico, attivista politico e scrittore. Il romanzo è anche la denuncia della condizione disumana degli abitanti e dei bambini denutriti e malarici di Matera. Ma le sue pagine più belle sono ancora altre. Sono le descrizioni dei sentimenti della povera gente, delle loro molte paure, delle meschinità morali di tutti i fascismi e di tutte le censure, del senso religioso e magico di un mondo popolare e contadino di cui sopravvive un richiamo vero e vivo. Ma il Cristo è soprattutto un libro scritto con una prosa meravigliosa. Levi era un pittore, anche quando scrive dipinge; usa la penna per disegnare paesaggi e piccoli dettagli, volti di uomini, di donne, di bambini, di poveri.

‘Cristo’ non è solo la prima parola di uno dei titoli più geniali della storia della letteratura; è anche uno dei protagonisti centrali del romanzo, protagonista nella sua assenza: “Noi non siamo cristiani - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo… Noi non siamo cristiani, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie”. E poi specifica: “Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato ad Eboli, dove la strada e il treno lasciano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato fin qui” (pp. 9-10).

Per Levi, Cristo e la sua fede diversa non si trovano in quelle terre, non sono scesi fin lì; al loro posto c’era invece la magia, la stregoneria, i monachicchi (gli spiriti dispettosi dei bambini morti senza battesimo), i morti: “Per il vecchio, le ossa, i morti, gli animali e diavoli erano cose familiari, legate, come lo sono del resto, qui, per tutti, alla semplice vita di ogni giorno - Il paese è fatto delle ossa dei morti - mi diceva nel suo gergo scuro, gorgogliante come un'acqua sotterranea che esca improvvisamente tra le pietre” (p. 67). C’erano anche alcuni santi e la Madonna di Viggiano che però di cristiano avevano, per Levi, davvero molto poco o nulla: “La madonna di Viggiano era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra” (p. 113).

La visione che Levi ci dona dei contadini della Basilicata è simile, ma anche diversa, a quella di Ernesto de Martino, emersa dai suoi studi etno-antropologici sulla Lucania e il Sud, condotti più o meno negli stessi anni di Levi. Per de Martino tra religione cattolica popolare e magia si realizzò una mutua contaminazione, sebbene l’elemento dominante restasse la magia, che era molto più radicata, popolare, diffusa della fede cristiana che era arrivata nel Sud da fuori, dall’alto e parlante una lingua incomprensibile. De Martino era poi convinto che un certo elemento magico fosse intrinseco allo stesso cattolicesimo: “Dall'esorcismo extra-canonico di stregoni e fattucchiere si passa agli esorcismi del messale (benedizione dell'acqua, del sale, della preghiera contro Satana e degli altri spiriti maligni al termine della messa etc.), del pontificale, del rituale romano …, delle medaglie di San Benedetto e soprattutto degli esorcismi” (Sud e Magia, 1959, p. 120). Per De Martino, laico e comunista, diversamente da Levi qualcosa di Cristo e del cristianesimo era arrivato oltre Eboli, formando una parte, forse non la più importante, della religione meticcia di quelle genti. Ancora più lontano da Levi si era spinto in quegli stessi anni don Giuseppe de Luca, intellettuale tra i massimi del ‘900 e grande storico della pietà popolare, che ci ha raccontato una fede del popolo cattolico certamente meticcia ma anche cristiana, sebbene fosse un cristianesimo diverso da quello dei catechismi (Introduzione alla storia della pietà, 1951). Anche per De Luca la pietà del popolo meridiano e contadino era un meticciato di cristianesimo e altre cose. Cristianesimo mescolato, impuro, contaminato, ma sempre cristianesimo, non meno vero di quello dei teologi della Controriforma.

Nel mondo descritto da Levi, non così diverso da quello dei miei nonni, c’erano gli spiriti, i santi, moltissimi morti, tutto era avvolto da una certa atmosfera spirituale più negativa e paurosa che positiva e rassicurante; una presenza sovrannaturale costante fatta di elementi arcaici, di molta magia e di qualche innesto cristiano assorbito presto dall’humus animista antico. Non possiamo negarlo. L’Europa cristiana, la Christianitas medioevale e pre-moderna è stata, infatti, frutto soprattutto dell’immaginazione dei teologi e degli ecclesiastici che confondevano la fede delle élite urbane e delle casate aristocratiche con quella di tutto il popolo cristiano. In realtà, nelle campagne, nelle montagne, i poveri e gli analfabeti hanno vissuto in un’attesa del messia molto simile a quella del popolo biblico, che ancora continua. Eppure, nonostante tutto ciò, Cristo superò Eboli, raggiunse quei popoli contadini e magici, che lo incontrarono davvero dentro le preghiere latine riscritte in dialetto, nelle statue dei santi bagnate dalle lacrime, nelle prediche dei missionari itineranti, persino in quella strampalata di Don Trajella per la vigilia di Natale. Il cristianesimo non fu la massa della fede della nostra gente, ma un granello piccolissimo del suo lievito la lievitò, e continua a lievitarla.

La religione cristiana si era fermata e Eboli, o molto prima, ma Cristo no: lui era sceso fino alla Basilicata e alla Sicilia, si era mescolato e coperto con molte altre cose per poter penetrare più dolcemente dentro la vita della gente, e lì è restato. Quel popolo contadino magico incontrò dunque davvero Cristo, un Cristo popolare, dialettale, bambino, travestito con abiti tradizionali e folkloristici; ma Cristo era lì, a Gagliano, dentro gli amori e soprattutto i dolori dei poveri, degli uomini e soprattutto delle donne, per le quali gli abbracci e i baci alle statue dei santi e della madonna erano i pochi momenti di tenerezza e di bellezza in un mondo che per loro era quasi sempre di servitù. Donne analfabete, un po’ cristiane e un po’ streghe, tutte bellissime, alcune descritte magistralmente anche nel Cristo di Levi; donne del popolo, con la stessa fede dei pastori del presepe, della donna siro-fenicia e dell’emorroissa, quella della Maddalena, di Marta, di Maria. Fedi teologicamente imperfette, popolari, fatte di lacrime, di carne e di corpi, ma vere.

Carlo Levi non vide questa pietas cristiana nella Lucania. Non la vide perché non la cercò. Non gli interessava. Per questa dobbiamo leggere de Luca. Ma Levi trovò altro, e non meno interessante. La perla del Cristo di Levi è lo sguardo del suo autore. Uno sguardo buono e mai giudicante sulla vita dei contadini che aveva incontrato. Pur essendo figlio di un altro mondo (quello della scienza) e parte di un altro universo religioso (era laico e di famiglia ebrea torinese benestante), Levi non esprime giudizi di valore sulla condizione morale dei suoi protagonisti: registra le loro passioni, i loro gesti, le loro fedi, i loro grandi dolori disperati, ma non li giudica mai. Non giudica la sua domestica, Giulia, che ha avuto 17 bambini con altrettanti uomini, né gli esorcismi delle altre ‘streghe’, e neanche Don Trajella, parroco confinato a Gagliano, ubriacone e avaro. Anzi, qua e là, arriva addirittura ad esprimere parole positive su quei metodi magici di ‘gestione’ delle malattie e del malessere della vita, rivelando persino un certo scetticismo nei confronti della scienza positivista del suo tempo che trattava tutta la conoscenza popolare come superstizione da eliminare: “La ragione e la scienza possono assumere lo stesso carattere magico della volgare magia… Perciò io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l’antichità e l’oscura, misteriosa semplicità, preferivo essere loro alleato che loro nemico”. Anche perché, aggiungeva Levi, “la maggior parte della ricette basterebbe a guarire i malati, se, senza essere spedite, fossero appese al collo con una cordicella, come un abracadabra” (p. 215). Rispetto ed onore quindi; non si entra nel mondo contadino ‘senza una chiave di magia’, certamente; ma non si entra nel loro mistero senza anche ‘rispettarli ed onorarli’ - ieri e oggi.

Levi ha scritto pagine sui contadini che ancora ci commuovono, perché li ha onorati e rispettati, perché ha lasciato la sua condizione agiata borghese ed è sceso sotto il tavolo del ricco epulone, in compagnia di Lazzaro. E da lì, dal basso, ha visto panorami diversi. In questo esercizio etico e spirituale la sua condizione di confinato lo aiutò, quella sua povertà politica e civile gli donò una autentica fraternità con la povertà naturale dei contadini. E da questo incontro tra persone diverse rese uguali dalla sventura, nacque il capolavoro.

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Economia narrativa/4 - Lo sguardo capace di onore e rispetto sulla spiritualità dei contadini del meridione nel romanzo-capolavoro del ‘900

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/11/2024

Dalle esperienze di confino di un altro antifascista, Levi, nacque Cristo si è fermato ad Eboli, che vuole essere ed è l'opera di un letterato, ma a cui noi tutti dobbiamo qualche cosa di più di una semplice suggestione letteraria.”

Ernesto de Martino, La terra del rimorso, 1961, p. 28

Con il Cristo si è fermato ad Eboli Carlo Levi ci svela l’anima della gente lucana, e ci porta dentro la loro religiosità, forse più cristiana di quanto Levi non pensasse.

Cristo si è fermato ad Eboli è parte della coscienza morale del secondo Novecento italiano ed europeo. Carlo Levi e Ignazio Silone ci hanno mostrato un’anima popolare dell’Italia meridiana, contadina e povera molto più complessa e ricca di come l’avevano descritta i primi storici moderni e illuministi, per i quali quei contadini italiani erano semplicemente ‘pagani’, molto simili se non identici agli abitanti pre-cristiani della Magna Grecia; come se il cristianesimo non fosse mai passato in quelle terre rurali del Sud, che, per la poca o inesistente cultura cristiana, erano state già definite dai gesuiti del ‘600 le ‘Indie d’Italia’. Cristo non si era fermato solo a Eboli: non era mai uscito dalle mura aureliane di Roma, dai seminari e dai trattati di teologia.

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E Cristo nell’oltrepassare Eboli incontrò la gente magica del Sud

E Cristo nell’oltrepassare Eboli incontrò la gente magica del Sud

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Economia narrativa/3 - L’intera esistenza di un cristiano, dice il Celestino V di Silone, ha uno scopo: diventare semplice

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/10/2024

Veramente preziosi sono i doni che la vita ci fa; preziosi e strani, risponde Marta. Chi vuole goderli, e si affanna per goderli, e si angustia dalla mattina alla sera per goderli, non li gode affatto, ma li brucia e incenerisce presto. Strani doni. Chi invece li dimentica, e dimentica se stesso, e si consacra interamente, perdutamente, a qualcuno e a qualche cosa, quegli riceve mille volte più di quello che dà, e alla fine della vita quei doni ricevuti dalla natura sono ancora fiorenti in lui, come grandi rose di maggio.”

Ignazio Silone, Vino e Pane, 1937, p. 18

L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone é una profonda riflessione sulla natura del potere, e una mediazione sulla fede come attesa di un Regno che non può tardare.

Chi attraversa, con attenzione, i libri di Ignazio Silone e conosce la sua biografia, non può non riconoscere qualcosa - qualche volta molto - del suo autore in Berardo Viola (Fontamara), Pietro Spina (Il seme sotto la neve), Don Paolo Spada (Vino e Pane), Luca Sabatini (Il segreto di Luca), e infine papa Celestino V (L’avventura di un povero cristiano). Perché, “se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro (e che altro può metterci?) la sua opera non può non costituire un unico libro” (I. Silone, L’avventura di un povero cristiano, Oscar Mondadori, ed. 2017, p. 6).

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Che altro, infatti, uno scrittore può mettere nelle sue opere se non ‘tutto se stesso’? In realtà, uno scrittore, soprattutto se grande (e Silone lo è), quando crea i personaggi dei suoi romanzi parte senz’altro da ‘tutto se stesso’ ma poi giunge altrove, in un luogo sconosciuto dove ‘se stesso’ non c’è più o c’è molto poco. Perché gli scrittori e le scrittrici svelano bene quella frase, misteriosa e bella, di Jacques Lacan: “L'amore consiste nel dare ciò che non si ha” (Seminario VIII, 1960-1961). Iniziano da ciò che hanno, dalla loro anima intera, ma poi ci amano davvero quando ci danno ciò che non hanno, quando i loro personaggi diventano più grandi e liberi dei loro autori già grandi e grandissimi, e iniziano a vivere in una terra del non-ancora, ignota in primis ai loro creatori. Anche in questo la letteratura è creazione, è l’inedito vero, è allargamento dell’orizzonte dell’umano per popolarlo con altri esseri viventi che arricchiscono e migliorano le storie esistenziali dei loro autori e la storia di tutti. Si scrive anche per provare ad abitare, senza mai colmarla, la distanza siderale tra la realtà e i nostri desideri, tra la terra e il paradiso. ‘Vieni fuori’ non è soltanto il grido che ogni autore sussurra alle sue creature: è lui, è lei, il primo destinatario di quel grido, per provare a risorgere nei suoi personaggi - perché l’unico vero desiderio è risorgere.

Pietro da Morrone, papa Celestino V, il protagonista de L’Avventura di un povero cristiano (1968), è l’ultima puntata del ‘ciclo dei vinti’ di Silone. E’ anche l’ultimo libro di Silone, scritto come opera teatrale, che chiude la sua quarantennale riflessione sulla giustizia sociale, sui cafoni, sui poveri, sull’utopia, sul vangelo, sul cristianesimo e sul suo Regno che deve ancora venire, e che forse verrà davvero. L’ambiente del libro, quello più esplicitamente religioso di Silone, sono le montagne abruzzesi di fine Duecento, dove eremiti e piccole comunità di cenobiti vivevano in un clima escatologico ed apocalittico, un ambiente spirituale fatto di francescanesimo e della profezia di Gioacchino da Fiore, nell’attesa “di una terza età del genere umano, l’età dello Spirito, senza Chiesa, senza Stato, senza coercizioni, in una società egualitaria, sobria, umile e benigna, affidata alla spontanea carità degli uomini” (p. 23). In quel tempo, infatti, non pochi francescani (tra questi il più celebre fu Pietro Olivi, noto anche per le sue idee economiche) videro in Francesco il profeta della nuova Età dello Spirito annunziata da Gioacchino, dell’attesa non-vana e imminente dell’avvento del Regno. Angelo Clareno, personaggio presente nel testo di Silone, fu un francescano condannato e imprigionato perché aderì alle idee gioacchinite.

Anche il Pietro da Morrone de L’avventura di un povero cristiano è figura di un cristianesimo profetico, di Francesco e Gioacchino da Fiore insieme, spirituale e messianico, al quale l’ultimo Silone affida le proprie speranze per una Chiesa e un mondo diversi. Narrando il fallito e incerto tentativo di fra Pietro di riconciliare la Chiesa istituzionale (il papato) con quella carismatica, Silone ci annuncia la sua idea di Chiesa e di vita buona: “Il mito del Regno non è mai scomparso dall'Italia meridionale, questa terra di elezione dell'utopia” (p. 23). Non capiamo l’Italia meridionale senza prendere molto sul serio questa sua anima utopica e messianica: il Sud è anche l’attesa di un altro mondo, una profezia incompiuta di un’altra economia e di un’altra società (Tommaso Campanella), la speranza ancora viva nell’avveramento di una promessa. Il Sud, tutti i Sud del mondo insieme alle sue terre marginali, sono innanzitutto un’attesa collettiva di un non-ancora, una domanda sul Regno che deve venire, che nessuna promessa di merci e profitti potrà mai saziare veramente - sta in questa sete e fame la salvezza non-vana del Sud.

Il libro è costellato dalle riflessioni auto-biografiche di Silone, in particolare dall’evento decisivo della sua vita, l’adesione giovanile al Partito comunista di cui era stato fondatore nel 1921, che più tardi divenne delusione e infine uscita - Silone scrisse i suoi romanzi anche per elaborare il lutto della morte del grande sogno della sua giovinezza. Un evento esistenziale cruciale che con il passare degli anni divenne anche una ‘teoria’ sulle dinamiche dei movimenti ideali e ideologici, di cui parlerà in diversi scritti (Uscita di sicurezza) e interviste (L’avventura di un uomo libero), ancora di grande interesse: “I fondatori sono di solito delle aquile, i seguaci generalmente delle galline” (p. 65). E ancora ne L’avventura, su questo scriveva: “L’esperienza dimostra che la grande comunità genera spontaneamente aspirazioni di potenza, volontà mai interamente soddisfatta di successi e di trionfi… A mano a mano che una comunità si allarga, diventa perciò fatale che essa assomigli alla società che la attornia [e che contestava]. E allora? Dove va a farsi benedire la salvezza del gregge?”. Per queste dinamiche, “anche Gioacchino da Fiore si dimise da capo del suo ordine. Anche San Francesco. Una grande comunità esige compromessi che, non dico un santo, ma un semplice onest’uomo non può accettare” (p. 69).

Temi che diventeranno via via centrali nel libro quando, una volta eletto papa, Fra Pietro, diventato Celestino V, sperimenterà sulla propria anima e pelle le difficoltà di salvare la sua coscienza cristiana insieme all’esercizio del potere. Il conflitto interiore si risolverà con le sue famose dimissioni e il (probabile) dantesco ‘gran rifiuto’. Dopo aver abdicato, dirà: “Ho imparato a mie spese che non è facile essere papa e rimanere buon cristiano… L’esercizio del comando asservisce, cominciando da quelli che lo esercitano” (p. 130). Il libro è infatti anche una profonda e bella riflessione sulla natura del potere e sulla sua logica: “Il maledetto ‘a fin di bene’. Figli miei, non lo dimenticate: c'è solo il bene, puro è semplice; non c'è ‘a fin di bene’… Servirsi del potere? Che perniciosa illusione. È il potere che si serve di noi. Il potere è un cavallo difficile da guidare: va dove deve andare, o meglio va dove può andare o dov'è naturale che vada… L'aspirazione a comandare, l'ossessione del potere è, a tutti i livelli, una forma di pazzia. Mangia l'anima, la stravolge, la rende falsa. Anche se si aspira al potere ‘a fin di bene’, soprattutto se si aspira al potere ‘a fin di bene’” (pp. 157-158). Il potere è un padrone che rende schiavo innanzitutto chi comanda, anche chi lo ha cercato ‘a fin di bene’; è un sovrano spietato che si nutre prima dei capi che ha incantato e solo indirettamente dei loro sudditi. È questa la maledizione di ogni potere voluto e ottenuto, che per questa sua dimensione confina davvero con il demoniaco: “La tentazione del potere è la più diabolica che possa essere tesa all’uomo, se Satana osò proporla perfino a Cristo” (p. 158). Molto belle e profetiche sono le pagine su un altro ‘gran rifiuto’ del Celestino V di Silone, quello di benedire le armi: “Col segno della Croce e i nomi della Trinità, si può benedire il pane, la minestra, l’olio, l’acqua, il vino, se volete anche gli strumenti da lavoro, l’aratro, la zappa del contadino, la pialla del falegname, e così di seguito, ma non le armi. Se avete un assoluto bisogno di un rito propiziatorio, cercatevi qualcuno che lo faccia in nome di Satana. È stato lui a inventare le armi” (p. 123).

Ma L’avventura di un povero cristiano è soprattutto una riflessione sulla natura della fede e sulla possibilità di fare del vangelo la magna carta per una società nuova, per un Regno diverso qui ed ora, e non solo un testo sacro di una religione come tante. Da cui nasce la domanda cruciale: il Regno di Cristo può diventare qualcosa di storico, o la vita su questa terra è solo la sala d’attesa del paradiso? Una dimensione essenziale dello spirito evangelico di questo Regno dei cieli atteso è per Silone la semplicità. In un dialogo, ambientato a Napoli, tra l’ormai Celestino V e alcuni retori e predicatori di corte, il nuovo papa dice: “Devo anzitutto dirvi: nel predicare, se vi è possibile, cercate di essere semplici... La vera semplicità è una conquista assai difficile”. E conclude con una frase di grande bellezza: “L’intera esistenza di un cristiano, si può dire, ha appunto questo scopo: diventare semplice” (p. 100). Una intuizione che è ad un tempo tutta umana e tutta biblica. Nella Bibbia c’è un’anima profonda, quella dei profeti, che vede lo sviluppo della fede come una diminuzione, una riduzione verso una progressiva semplicità ed essenzialità, come esercizio dell’arte del levare. Il cammino del popolo con il suo Dio diverso iniziò alle pendici del Sinai dove ‘c’era soltanto una voce’, una voce nuda che poi divenne tabernacolo, quindi arca, tenda, infine Tempio e reggia di Salomone. I profeti hanno continuato a ripetere, in varie forme e molta forza, che quella crescita e quell’aumentare non erano stati buoni, perché la salvezza Israele l’avrebbe trovata nella riduzione e nel cammino di ritorno dalla reggia alla voce sola, che avvenne grazie all’esilio babilonese: “Forse, per poter risorgere, la Chiesa dovrà prima integralmente imputridire” (p. 159).

Ma anche il buon sviluppo della vita umana è una prima crescita che va dall’infanzia alla vita adulta, cui fa seguito una seconda parte di progressiva e crescente diminuzione verso l’essenziale, quella che dalla vita adulta conduce al suo compimento, dove ci sarà ‘soltanto una voce’ che pronuncerà solo il nostro nome nudo. La dote che porteremo sarà la mitezza che avremmo imparato durante questa buona diminuzione, per diventare talmente piccoli da riuscire a passare per la cruna dell’ago dell’angelo della morte.

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Ignazio Silone, Vino e Pane, 1937, p. 18

L’Avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone é una profonda riflessione sulla natura del potere, e una mediazione sulla fede come attesa di un Regno che non può tardare.

Chi attraversa, con attenzione, i libri di Ignazio Silone e conosce la sua biografia, non può non riconoscere qualcosa - qualche volta molto - del suo autore in Berardo Viola (Fontamara), Pietro Spina (Il seme sotto la neve), Don Paolo Spada (Vino e Pane), Luca Sabatini (Il segreto di Luca), e infine papa Celestino V (L’avventura di un povero cristiano). Perché, “se uno scrittore mette tutto se stesso nel lavoro (e che altro può metterci?) la sua opera non può non costituire un unico libro” (I. Silone, L’avventura di un povero cristiano, Oscar Mondadori, ed. 2017, p. 6).

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L’attesa del Regno dei cieli è nell’arte del diminuire

L’attesa del Regno dei cieli è nell’arte del diminuire

Economia narrativa/3 - L’intera esistenza di un cristiano, dice il Celestino V di Silone, ha uno scopo: diventare semplice di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 27/10/2024 “Veramente preziosi sono i doni che la vita ci fa; preziosi e strani, risponde Marta. Chi vuole goderli, e si affanna pe...
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Economia narrativa/2 - Dalla gerarchia dei Torlonia al messaggio di Berardo, che muore martire per sconfiggere il suo destino

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/10/2024

Sotto il foglio da me faticosamente redatto, tua madre firmava con un segno di croce. Sapevo già che era la firma usuale degli analfabeti; ma, anche se ciò non fosse stato, come si sarebbe potuto immaginare una firma più consona a tua madre? Una piccola croce. Una firma più personale di quella? Ricordo che, l'anno dopo, all'esame di catechismo don Serafino mi chiese di spiegargli il segno della croce. "Esso ci ricorda la passione di nostro Signore" io risposi "ed è anche il modo di firmare degli infelici.”

Ignazio Silone, Il segreto di Luca

La scala sociale di Fontamara ci dona una riflessione sulla commedia umana, sui poveri e sul Cristianesimo, che culmina nella conclusione della storia di Berardo, che muore, martire, per sconfiggere il suo destino.

“E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: - In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe Torlonia. Poi vengono i cani delle guardie del Principe Torlonia. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ed è finito.” (1947, p. 34). Questo è forse il brano più noto di Fontamara di Ignazio Silone, perché è la sintesi del suo spirito e possiede una straordinaria forza lirica ed etica.

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Quel Dio immaginato un gradino sopra i Torlonia finiva, suo malgrado, per legittimare e sacralizzare quella gerarchia tremenda, ponendo il suo sgabello in cima ad una piramide più alta e sbagliata di quella dei faraoni, senza neanche poter dire: ‘non nel mio nome’. Il cristianesimo era arrivato da diciannove secoli sulla terra, ma si era fermato a Eboli o ad Avezzano, senza raggiungere le montagne, le campagne, i poveri, i cafoni che non sapevano che il Dio di Gesù non stava seduto sulla stessa scala dei Torlonia. I cafoni non conoscevano il Dio diverso del vangelo, perché troppo velato e nascosto dalle teologie della Controriforma e dal latinorum dei preti. Eppure qualche volta l’hanno incontrato, soprattutto in fondo ai loro dolori, dove, sotto le sembianze della Madonna, degli angeli o dei santi li aveva visitati, toccati e consolati - non solo lo Spirito ma tutta la Trinità è ‘padre dei poveri’, perché se non lo fosse anche il Dio cristiano sarebbe solo uno dei tanti idoli divoratori dei miseri.

La religione è un grande tema del romanzo. Nel primo capitolo, Michele Zompa racconta un suo sogno a Marietta e ‘al forestiero’: “Ho visto il papa discutere con [Gesù] Crocifisso. Il Crocifisso diceva: per festeggiare questa pace [i Patti Lateranensi] sarebbe bene distribuire la terra del Fucino ai cafoni che la coltivano ed anche ai poveri cafoni di Fontamara… E il papa rispondeva: - Signore, il principe Torlonia non vorrà mica. E il principe è un buon cristiano. Il Crocifisso diceva: - Per festeggiare questa pace sarebbe bene dispensare i cafoni dal pagare le tasse. E il papa rispondeva: - Signore, il governo non vorrà. E i governanti sono anch’essi buoni cristiani… Allora il papa gli propose: - Signore, andiamo sul posto. Forse sarà possibile fare qualche cosa per i cafoni che non dispiaccia né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi”. Così i due partirono verso la Marsica, e “il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi e li lanciò sulle case dei poveri dicendo: - Prendete, o figli amatissimi, prendete e grattatevi” (pp. 31-32). Il parroco proibì a Michele di raccontare il suo sogno. Il mondo cattolico dovrebbe presto iniziare un cammino di purificazione della memoria, perché se è vero che nei suoi carismi sociali tanto ha fatto per alleviare la sorte delle vittime e dei poveri, è altrettanto vero che per non dispiacere ‘né al principe Torlonia, né al governo, né ai ricchi’ troppe volte la chiesa ha associato il volto del suo Dio a quello del potere e dei forti, magari chiedendo loro di aiutare i poveri. Il Cristianesimo, moribondo in Occidente, potrà sperare ancora in una primavera se sarà capace di ribaltare la scala di Silone, e annunciare un Cristo che si trova al di sotto dei cafoni e che da lì scompagina ogni giorno i piani dei forti e dei grandi - ‘Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili’.

Nella scala sociale di Silone c’è poi un dettaglio essenziale. In tutti i luoghi e in tutti i tempi non si passa regolarmente e direttamente dai ‘cani delle guardie’ ai ‘cafoni’. No: in mezzo ci sono tre spazi vuoti. Dopo i cani ci sono tre fogli bianchi - ‘poi nulla, poi ancora nulla, poi ancora nulla’ -. Nella scala verso l’alto, dopo il suolo dove si trovano i cafoni mancano tre gradini, c’è un buco tre volte più largo della distanza che separa le guardie dai loro cani. Importante e profetico è il riferimento ai cani, che oggi nella gerarchia della nostra morale perversa si trovano ben al di sopra dei migranti deportati dal nostro governo in Albania. Con il passare dei decenni lo spazio tra i cani e i cafoni è cresciuto molto, le pagine vuote da tre sono diventate dieci, cento, si sono moltiplicate e continuano a moltiplicarsi. In quella Italia di Silone, dove ancora era viva e attiva la pietà popolare, i cafoni abitavano negli stessi villaggi di tutti, erano visibili, si incontravano per strada, erano parte della stessa gente. Da quegli incroci di sguardi ancora orizzontali potevano nascere movimenti di liberazione, insieme a scrittori, artisti e poeti capaci di dar voce al ‘non ancora’ del loro tempo. Oggi i cafoni non li vediamo più, li deportiamo all’estero, il capitalismo li ha nascosti alla vista e al cuore; la pietas cristiana l’abbiamo dimenticata e ridicolizzata nel giro di una generazione. I cafoni della terra sono sempre più dannati, non ci guardano e riguardano più nelle “nostre tiepide case” (Primo Levi) - dove sono, se ci sono, i nuovi Silone e Levi capaci di cantare il dolore infinito dei cafoni? Quel triplice salto di pagina segna il grande abisso che separa chi sta sopra da chi sta sotto, perché senza quel vuoto chi sta sotto non starebbe veramente sotto e chi sta sopra non starebbe veramente sopra. Quel vuoto tra i cani e i cafoni dice allora che l’abisso è invalicabile, che, per Silone ormai deluso anche dal comunismo, la miseria e il potere sono per sempre: circolano le élite, gira la giostra delle classi sociali, ma tra i cafoni e i Torlonia il solco resta insormontabile. Fino a quando? Oppure, per dirlo con le ultime parole di Fontamara: “Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto sangue, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione: che fare?” (p. 250).

L’epopea di Fontamara raggiunge il suo culmine drammatico nella triste e stupenda conclusione della storia di Berardo Viola. Berardo è un giovane forte, generoso, buono, con uno spiccato senso di giustizia sociale; anche per questo è la speranza di riscatto dei suoi compaesani. Nipote dell’ultimo brigante di Fontamara (assassinato dai piemontesi), Silone ce lo presenta così: “Aveva gli occhi buoni, aveva conservato da adulto gli occhi che aveva da ragazzo” (p. 89), che è forse la parola più bella che si possa dire di un adulto, se è vero che la buona fatica del vivere sta quasi tutta nell’arrivare alla fine con qualcosa degli occhi con i quali ci siamo giunti. Berardo aveva ereditato dal padre un pezzo di terra, lo aveva venduto per avere il denaro per emigrare in America, “ma prima d’imbarcarsi, una nuova legge sospese tutta l’emigrazione”. Così rimase a Fontamara, senza terra e “come un cane sciolto dalla catena che non sa che farsene della libertà e si aggira disperato attorno al bene perduto”. Ma, aggiunge Silone, “come può un uomo della terra rassegnarsi alla perdita della terra?” (p. 84). Perché “fra la terra e il contadino è una storia dura e seria… E’ una specie di sacramento”. Quindi aggiunge parole sulla terra tra le più belle della nostra letteratura, che solo un contadino può ancora capire: “Non basta comprarla, perché una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col sudore, con le lagrime, con i sospiri. Se hai terra, nelle notti di maltempo tu non riesci a dormire, perché non sai quello che sta succedendo alla tua terra” (p. 85). Berardo implora invano l’acquirente della sua terra, don Circostanza, di ridagliela indietro. Finalmente, riesce ad ottenere un pezzo di terra sulla montagna, tra le rocce, nella “contrada dei serpenti”. La lavora duramente - “O la montagna ammazza me, o io ammazzo la montagna” (p. 87) -, vi pianta del granoturco. Ma ci fu una forte alluvione, “venne giù la montagna”, e “un'enorme fiumana d’acqua portò via il campicello di Berardo” (p. 88). E Silone si chiede: “Si può vincere contro il destino?” (p. 89), un destino che è il co-protagonista del romanzo. E per provare a sfidare ancora il destino, Berardo parte per Roma in cerca di lavoro.

Tra un ufficio di collocamento e l’altro, “al settimo giorno che eravamo a Roma non ci restavano più di quattro lire” (p. 216). Dopo tre giorni di digiuno, Berardo e il suo amico (la voce narrante) smisero di uscire dalla stanza, restarono fermi per la fame, distesi sul letto. Finché non vengono arrestati dai fascisti per un errore, scambiati per sovversivi sobillatori. Erano arrivati per lavorare, finirono in un carcere - ieri, e oggi. Ma è dentro quel carcere sbagliato che Berardo vive la sua resurrezione. Dice di essere lui “il solito sconosciuto”, un ricercato accusato di diffondere “la stampa clandestina”, ad incitare “gli operai a scioperare, i contadini a disubbidire” (p. 223), e con una bugia dice al commissario: “Il solito sconosciuto sono io” (p. 231). In quel carcere Berardo riesce a vincere il suo destino. Con un atto di sacrificio vicario si carica di una colpa che non ha, e riesce ad arrivare fino alla fine, non ritrattando nonostante le dure torture. Berardo sfugge al destino impresso alla sua vita fin dalla storia di suo nonno, donando la vita per una fedeltà misteriosa ai suoi ideali di giustizia. Il suo martirio laico riscatta Fontamara al culmine della sua sconfitta. E al termine di un libro dove il grande vincitore era stato proprio il destino, ci dice: siamo più grandi del nostro destino.

Anche se Silone non ci spiega perché Berardo da innocente si sia auto-incolpato, non è difficile vedere in lui una immagine del Cristo e della sua passione: “E se io muoio? - Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri”. Le sue ultime parole: “Sarà qualche cosa di nuovo. Un esempio nuovo. Il principio di qualche cosa del tutto nuovo” (p. 238). Quel qualcosa di nuovo nel tempo maturerà in Silone, fino a fiorire suo ultimo capolavoro, L’avventura di un povero cristiano (del 1968).

Cristo sta risorgendo anche oggi in Libia, in Albania, sui barconi, a Gaza, nel Congo, in Sudan, in Libano. Noi non lo sappiamo, non lo vediamo, non lo riconosciamo, perché lo cerchiamo nei sepolcri vuoti e non nei luoghi dei crocifissi. ‘Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?’, fu il primo grido del Risorto. 

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/10/2024

Sotto il foglio da me faticosamente redatto, tua madre firmava con un segno di croce. Sapevo già che era la firma usuale degli analfabeti; ma, anche se ciò non fosse stato, come si sarebbe potuto immaginare una firma più consona a tua madre? Una piccola croce. Una firma più personale di quella? Ricordo che, l'anno dopo, all'esame di catechismo don Serafino mi chiese di spiegargli il segno della croce. "Esso ci ricorda la passione di nostro Signore" io risposi "ed è anche il modo di firmare degli infelici.”

Ignazio Silone, Il segreto di Luca

La scala sociale di Fontamara ci dona una riflessione sulla commedia umana, sui poveri e sul Cristianesimo, che culmina nella conclusione della storia di Berardo, che muore, martire, per sconfiggere il suo destino.

“E Michele pazientemente gli spiegò la nostra idea: - In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe Torlonia. Poi vengono i cani delle guardie del Principe Torlonia. Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. Ed è finito.” (1947, p. 34). Questo è forse il brano più noto di Fontamara di Ignazio Silone, perché è la sintesi del suo spirito e possiede una straordinaria forza lirica ed etica.

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Nella scala sociale di Fontamara miseria e redenzione dei cafoni

Nella scala sociale di Fontamara miseria e redenzione dei cafoni

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Economia narrativa/1 - Con il capolavoro letterario dello scrittore abruzzese inizia un nuovo viaggio attraverso storie (e parole) custodi di un mondo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/10/2024

«Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti»
Ignazio Silone, Fontamara, p. 89

Inizia con Fontamara una nuova serie attraverso alcuni capolavori della letteratura, in cerca di nuove parole per l’economia e per il nostro tempo difficile.

Se ci bastasse la realtà non ci sarebbe bisogno della letteratura. Siamo infinito, i romanzi accorciano la distanza tra noi e l’eternità; siamo desiderio, gli scrittori aumentano le cose desiderabili perché i sogni ad occhi chiusi sono troppo poco. La gioia si nutre anche dei mondi creati dalla letteratura, la nostra giustizia cresce mentre ci indigniamo leggendo un romanzo, abbiamo imparato la pietas dai genitori e dagli amici ma anche dalle fiabe e dai racconti degli scrittori. Non saremmo stati capaci di immaginare la terra promessa della democrazia, della libertà e dei diritti se non l’avessimo incontrata nei miti e nei romanzi, intravista in una poesia. Abbiamo conosciuto Dio perché la Bibbia ce lo ha insegnato attraverso racconti, e le parole umane hanno custodito un’altra Parola. Tutte le fedi finiranno nel triste giorno in cui smetteremo di scrivere storie, e di raccontarcele.

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“Ignazio Silone ha oggi la sua maturità coronata e sovranamente fissata in opere d’arte che sono al medesimo tempo il suo ‘canto delle creature’ e la sua visione apocalittica della nuova spiritualità democratica… Noi pensiamo di far cosa quanto mai tempestiva, dando qui in appendice al nostro settimanale, il primo suo romanzo che diede al mondo internazionale la sensazione acuta della sofferenza del popolo italiano in regime fascista” (7 marzo 1945). Così scriveva Ernesto Buonaiuti introducendo la pubblicazione dei primi capitoli di Fontamara nel primo numero del suo settimanale “Il Risveglio”. Buoaniuti, il grande e amato professore di storia del cristianesimo a La Sapienza di Roma, tra i dodici accademici che non giurarono al regime fascista, sacerdote scomunicato dalla chiesa cattolica per le sue tesi moderniste - stiamo ancora aspettando la sua riabilitazione, forse in tempo di Giubileo.

Fontamara fu scritto da Ignazio Silone (Secondino Tranquilli) nei primi mesi del 1930 durante il suo esilio svizzero. Fu pubblicato dapprima in tedesco (Zurigo, Oprecth & Helbing, aprile 1933, traduzione di Nettie Sutro), cui seguì una prima edizione in lingua italiana (Zurigo-Parigi, novembre 1933) ristampata a Londra nel 1943 (J. Cape, con data 1933). La prima edizione in Italia arrivò solo nel 1947 grazie al piccolo editore romano ‘Faro’, e infine nel 1949 con Mondadori. Il suo successo internazionale fu notevole, ma per essere stampata in Italia si dovette attendere il crollo del fascismo.

Nel 1930 Silone si trovava da due anni in Svizzera, tra Zurigo e Davos, per il suo impegno clandestino per il partito comunista che aveva contribuito a fondare nel congresso di Livorno nel 1921. Sempre nel soggiorno svizzero iniziarono i suoi dissidi con Togliatti per le sue posizione anti-staliniane, cui seguirà l’espulsione dal partito nel 1931. In sanatorio per curare una malattia respiratoria (apparente tubercolosi), depresso, angosciato per la situazione di suo fratello Romolo, l’unico della sua famiglia che nel 1915 si era salvato con lui sotto le macerie del terremoto di Pescina, che era stato messo in prigione dal regime fascista, torturato e poi ucciso nel 1932 - Silone dedica Fontamara a suo fratello e a Gabriella Seidenfeld, la sua compagna conosciuta nel 1920 dalla quale si stava separando sentimentalmente.

Fontamara è dunque il distillato di anni terribili, il frutto di una metamorfosi molto dolorosa. Una profondissima crisi esistenziale che generò il capolavoro. Fontamara non è soltanto un romanzo che ha svelato all’Italia e al mondo l’anima profonda del mondo contadino meridionale, e non è neanche soltanto un classico dell’anti-fascismo. Fontamara è soprattutto un capolavoro letterario, un romanzo stupendo, una di quelle opere che forse solo il grande dolore sa generare. Silone, dirà più tardi, trovò la sua salvezza nella letteratura, superò quella notte buissima diventando scrittore - e che scrittore! Ci sono molti modi per provare a salvarsi dai buchi neri della vita, la scrittura e l’arte sono tra i più potenti e comuni, perché si esce dal buco imparando a volare.

Per capirlo e gustarlo c’è comunque bisogno di svolgere alcuni esercizi etico-spirituali essenziali. Il primo è quello più difficile, forse impossibile ma davvero necessario: provare a dimenticare i nostri confort, il culto delle merci, gli uffici e gli incentivi, e recarci con l’anima nel mondo di Fontamara: “Prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l’insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni si accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l’anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente” (1951, p. 9). È il regno di Sisifo, ma diversamente dal Sisifo di A. Camus, il Sisifo di Silone non è felice: “A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato … sembra un villaggio come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni” (p. 8). Nella prima edizione de ‘Il Risveglio', al termine di questo paragrafo Silone aveva aggiunto: “Lo spettacolo della vita vi è più scarno, più visibile e comprensibile, e nulla di essenziale vi manca”, una frase che poi scomparve nelle edizioni successive.

Il secondo esercizio d’immaginazione spirituale riguarda il mondo contadino. Quello di Silone, come quello di Carlo Levi (che vedremo), è un mondo che ho conosciuto anche io, sfiorandolo grazie al rapporto con i miei nonni lavoratori della terra ascolana. È molto probabile, se non certo, che la mia generazione sia l’ultima erede morale di millenni di storia contadina, fatta di cristianesimo, di magia, di moltissimi bambini vivi e morti, di tanto amore popolare e di tantissimo dolore di tutti, delle donne di più. Quel mondo sempre uguale nei suoi tratti essenziali, è stato il mondo della mia infanzia. Ero ancora ragazzo, ma anche io ho visto quel Sisifo contadino, poco mito e tutta carne. È parte essenziale della mia anima, dove lo custodisco gelosamente. Fontamara è il mio paese.

Quello era un mondo italiano ma dove si parlavano altre lingue: “A nessuno venga in mente che i fontamaresi parlino l’italiano… La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta” (p. 15). Quando ricordo o sogno i miei nonni, per provare ad entrare ancora in sintonia con il loro cuore devo sintonizzarmi con il dialetto, perché solo in quella lingua potevano e possono dirmi le parole giuste e perfette, raccontare le storie più belle con una eloquenza e ricchezza che diventava subito goffaggine e disagio non appena dovevamo passare all’italiano (l’italianizzazione dei contadini è stata anche violenza): “Tuttavia, se la lingua è presa in prestito, la maniera di raccontare, a me sembra, è nostra. È un’arte fondamentale. È quella stessa appresa da ragazzo, seduto sulla soglia di casa, o vicino al camino, nelle lunghe notti di veglia” (p. 16). Forse anche il mio amore per le parole è nato ascoltando i racconti delle mie zie, o quelli lunghissimi di ‘Caterina vecchia’ che stava con noi fratellini nelle lunghe sere d’inverno. Questa serie di articoli che oggi inizia è dunque anche un contributo alla custodia della memoria di un mondo che ho conosciuto e che sta finendo insieme alle sue storie: chissà se i nostri figli saranno ancora capaci di comprendere e commuoversi per Silone o Levi?

Infine, il terzo esercizio è semantico, e riguarda la parola-chiave di Fontamara: cafone. Scrive, tra parentesi, Silone:  “(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, forse anche di onore)” (p. 10).

Si entra in Fontamara se riusciamo a raggiungere ora quel paese di domani dove ‘il dolore non è più vergogna’; lì poniamo la tenda e con Silone usiamo il nome cafone come ‘nome di rispetto e di onore’. E così neghiamo tutte le ideologie meritocratiche che stanno allontanando quel paese di domani, introducendo ogni giorno nuovi argomenti per convincerci che il povero deve vergognarsi della sua povertà perché è colpevole della propria sventura - e mentre ci convince di questa menzogna, il capitalismo si libera da ogni responsabilità.

Fontamara non è un ‘borgo’, una parola entrata nei pertugi del nostro tempo banale che ha perso contatto con l’anima dei luoghi veri. A Fontamara “i contadini non cantano … tantomeno (e si capisce) andando a lavoro. Invece di cantare, volentieri bestemmiano. Per esprimere una grande emozione, la gioia, l’ira e perfino la devozione religiosa, bestemmiano. Ma neppure nel bestemmiare portano molta fantasia e se la prendono sempre contro due o tre santi di loro conoscenza, li mannaggiano sempre con le stesse rozze parolacce” (p. 14). Non si entra nel mondo dei poveri se si ha paura delle bestemmie e delle maledizioni, perché sono, spesso, paradossali parole d’amore.

In Fontamara l’economia è una nota costante, declinata come terra, lavoro, ossessione del ‘pagare’, miseria, tasse, il potere. L’ingiustizia sociale, centrale nel romanzo, è anche e soprattutto una ingiustizia economica, quella del latifondo e dell’’impresario' appoggiato dalle istituzioni, dai piccoli proprietari e dal clero (Don Abbacchio). Ed arriva fino alla morte di Berardo, nelle pagine forse più intense del romanzo.

Fontamara è una storia di riscatto sociale fallito, di liberazione non riuscita. I cafoni truffati dalla deviazione del ruscello per portare acqua all’impresario, restano poveri e truffati dall’inizio alla fine del romanzo. Fontamara sembra un eterno venerdì santo, con qualche squarcio di sabato, senza domenica. E in questo somiglia a tanti altri grandi romanzi, dove Fantine vende i suoi denti e muore senza risorgere, o alla Bibbia dove l’esodo e l’esilio continuano oltre il Mar Rosso e dopo l’editto di Ciro, perché l’arameo errante non ha mai smesso di errare. La sola resurrezione che salva è quella che inizia sul Golgota. E così, più Silone ci conduce negli abissi del dolore dei cafoni, più noi vi intravvediamo una strana bellezza e una luce luminosa - non riusciremo a sollevare i molti ‘cafoni’ dalle loro miserie finché non impareremo la bellezza nascosta dentro la povertà, e a guardare i poveri con onore e rispetto.

Infine, il terzo esercizio è semantico, e riguarda la parola-chiave di Fontamara: cafone. Scrive, tra parentesi, Silone: “(Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, sia della campagna che della città, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, forse anche di onore)” (p. 10).

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Economia narrativa/1 - Con il capolavoro letterario dello scrittore abruzzese inizia un nuovo viaggio attraverso storie (e parole) custodi di un mondo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/10/2024

«Per ordine del podestà sono proibiti tutti i ragionamenti»
Ignazio Silone, Fontamara, p. 89

Inizia con Fontamara una nuova serie attraverso alcuni capolavori della letteratura, in cerca di nuove parole per l’economia e per il nostro tempo difficile.

Se ci bastasse la realtà non ci sarebbe bisogno della letteratura. Siamo infinito, i romanzi accorciano la distanza tra noi e l’eternità; siamo desiderio, gli scrittori aumentano le cose desiderabili perché i sogni ad occhi chiusi sono troppo poco. La gioia si nutre anche dei mondi creati dalla letteratura, la nostra giustizia cresce mentre ci indigniamo leggendo un romanzo, abbiamo imparato la pietas dai genitori e dagli amici ma anche dalle fiabe e dai racconti degli scrittori. Non saremmo stati capaci di immaginare la terra promessa della democrazia, della libertà e dei diritti se non l’avessimo incontrata nei miti e nei romanzi, intravista in una poesia. Abbiamo conosciuto Dio perché la Bibbia ce lo ha insegnato attraverso racconti, e le parole umane hanno custodito un’altra Parola. Tutte le fedi finiranno nel triste giorno in cui smetteremo di scrivere storie, e di raccontarcele.

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Dalla parte dei cafoni di Fontamara, la povertà non è colpa né vergogna

Dalla parte dei cafoni di Fontamara, la povertà non è colpa né vergogna

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