Città Nuova

Economia Civile

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A rinascere si impara/3 - Cosa ci dice oggi la metafora evangelica del vino novello? Nei tempi nuovi occorre avere il coraggio di intonare il canto funebre, ringraziare il passato e poi credere di più al presente e al futuro: credere di più ai figli di oggi che ai padri di ieri. Occorre il coraggio di cambiare quasi tutto per non perdere tutto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/03/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 11/2023

Le comunità fanno una grande fatica a capire quando un mondo è finito e ne è cominciato uno nuovo. Sono molte le ragioni di questa fatica collettiva, e in genere poco studiate soprattutto nell’ambito delle comunità di natura religiosa e spirituale, dove i vari livelli dei problemi (economico, organizzativo, carismatico…) si intrecciano e si confondono.

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Su alcuni dei rischi e degli errori ci può ispirare un noto brano del Vangelo di Luca ‒ la Bibbia è anche una preziosa mappa per orientarsi nei passaggi alti e impervi. Eccolo: «Diceva loro anche una parabola: “Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi”». (Luca 5, 36-38).

Gli otri e il vino in essi contenuto sono ottime parabole per comprendere le realtà collettive nate da un carisma. Queste vivono di uno spirito che le ha generate, che possiamo chiamare “carisma”, e anche di strutture, pratiche, organizzazioni, norme, statuti nati per conservare, custodire e accudire il carisma stesso: gli otri. Nel contesto del Vangelo gli otri erano la Legge e le istituzioni mosaiche, mentre il vino era lo spirito, l’avvento del Regno dei cieli. Qualcosa era accaduto, la vigna di YHWH aveva prodotto un vino nuovo, e gli otri di ieri dovevano essere cambiati. Gli otri non erano sbagliati né cattivi: erano semplicemente inadatti (unfit) per contenere un vino nuovo, e se non si cambiavano presto i contenitori si sarebbe disperso anche il contenuto.

La metafora del vino nuovo può indicare oggi molte cose diverse.

Quando un carisma arriva sulla terra, è un vino nuovissimo, frutto di un vitigno mai visto prima, sebbene frutto di innesti di vitigni della stessa grande vigna della Chiesa e dell’umanità. Tutti capiscono, all’inizio, che quel vino nuovo ha bisogno di nuovi otri: ed ecco che la comunità dà vita a istituzioni, statuti, norme, linguaggi inediti che siano capaci di contenere e custodire quella novità. A nessun francescano veniva in mente, nel XIII secolo, di vivere lo spirito di Francesco restando nelle bellissime abbazie benedettine: nacque qualcosa di nuovo, i conventi, fu scritta una nuova regola per contenere quella novità. E nessuno pensava di riadattare lo Statuto Albertino per scrivere la Costituzione italiana dopo il Fascismo.

Molto più difficile è capire quando nella storia di una comunità gli otri vanno ancora rinnovati perché c’è un vino novello. È difficile capirlo perché ormai il vitigno esiste, e molti pensano che gli otri saranno per sempre, che non arriverà più vino nuovo. La morte del fondatore, in genere, è invece uno di questi momenti, quando il vino torna nuovo e gli otri invecchiano.

Il problema decisivo nasce dal fatto che gli otri che vanno cambiati sono quelli costruiti dal fondatore. E così strutture, pratiche, regole, parole, fioretti, statuti e costituzioni sono diventati negli anni molto importanti e amati. Sono eredità, sono patrimonio (cioè patres-munus: dono dei padri), sono una parte bellissima dell’arredo e della ricchezza della casa comunitaria, fino ad amare gli otri quasi più del vino. Ma se ci si affeziona agli otri di ieri, le comunità invecchiano insieme alle loro botti, perché credono più ai contenitori che al vino, e presto assisteranno, inerti, al disfacimento degli otri e del vino.

C’è poi un altro dettaglio alla fine della parabola di Luca: «E nessuno che abbia bevuto del vin vecchio, ne desidera del nuovo, perché dice: Il vecchio è buono» (5, 39). A molti piaceva più il vino vecchio, e non vogliono il nuovo: e i problemi crescono. Altri, poi, cercavano compromessi, provavano a combinare vecchio e nuovo, mettendo pezze di panno nuovo su un vestito vecchio. No: nei tempi nuovi occorre avere il coraggio di intonare il canto funebre, ringraziare il passato e poi credere di più al presente e al futuro: credere di più ai figli di oggi che ai padri di ieri.

C’è un giorno quando gli otri che per “mille anni” hanno contenuto lo spirito del carisma diventano improvvisamente obsoleti, perché un turno di guardia nella notte è stato più lungo di mille anni. Non è cambiata la vite del carisma, è solo arrivato il vino novello di una nuova annata, nelle stesse vigna e viti di ieri. E qui occorre il coraggio di cambiare quasi tutto per non perdere tutto.

Credits foto: © Makalu su Pixabay

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L’essenziale coraggio di cambiare

L’essenziale coraggio di cambiare

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A rinascere si impara/2 - I grandi cambiamenti non sempre avvengono a piccoli passi, e la necessità di procedere per gradi non deve diventare di ostacolo all'intraprendere iniziative urgenti

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 24/01/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 10/2023

Abbiamo da poco ricordato i sessant’anni dal grande discorso profetico di Martin Luther King, I have a dream, pronunciato a Washington il 28 agosto del 1963. Rimeditando quel discorso mi ha colpito un passaggio: «Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che si trangugi il tranquillante del gradualismo». Era molto critico del gradualismo, dell’idea, molto radicata, che i grandi cambiamenti non possono avvenire subito perché la grande complessità della realtà da cambiare richiede un processo graduale e una politica dei piccoli passi. Il gradualismo trova molto consenso, perché sottolinea un valore vero, quello dell’inclusione, della necessità di coinvolgere i vari protagonisti che hanno un ruolo nella creazione dei problemi e quindi anche nella loro soluzione. Da qui i grandi processi di consultazione della base, dei questionari, delle molte commissioni per garantire la sinodalità dell’intero processo di cambiamento.

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Non voglio affermare che il metodo gradualista non sia mai da adottare o sia sempre sbagliato. La domanda è un’altra: perché Martin Luther King era molto contrario al gradualismo? Perché, semplicemente, lui vedeva in chi invocava la politica dei piccoli passi un alibi per continuare a rimandare riforme e cambiamenti urgenti ed evidenti (l’apartheid, ad esempio), e perché svolgeva per i potenti la funzione di ‘tranquillante’ della coscienza. Appellarsi ad un valore, in sé anche valido, diventava solo una giustificazione dello status quo – quasi sempre chi osteggia un processo necessario lo fa in nome di una buona ragione.

Non tutti i cambiamenti avvengono per piccoli passi. In fisica l’acqua si trasforma da liquida in solida in un attimo, le rivoluzioni non avvengono gradualmente, perché certi processi esplodono quando si supera una soglia critica. Oggi, ad esempio, chi continua ad invocare la politica gradualista nell’ambito dei cambiamenti climatici e della transizione ecologica (la stessa parola transizione incorpora l’idea dei piccoli passi), quasi sempre usa questa bella parola per rallentare un cambiamento che era urgentissimo già venti anni fa. L’inclusione di tutti i governi e i vari portatori di interesse economico (stakeholders) è parte essenziale del problema ambientale, è la prima causa del perché stiamo assistendo inerti ad un declino veloce ed inesorabile del clima. Quando la nave affonda, o quando la casa brucia, nessuno pensa di convocare un’assemblea per decidere con complesse procedure il da farsi: ci sarebbe bisogno di un capitano che si prendesse le responsabilità delle scelte e scegliesse. Il mondo non ha un capitano (ed è bene così) e infatti stiamo affondando; ma questo ‘capitano’ può e deve emergere dal basso, dalla popolazione mondiale, da processi civili che possono portare a decisioni veloci ed efficaci sostitutive della mancanza dei ‘capitani’ – e speriamo solo che siano pacifici e non-violenti.

Ma ciò che stupisce è che il gradualismo prende piede anche nelle comunità ideali e nei movimenti dove invece i ‘capitani’ ci sono, dove esiste un governo che le decisione urgenti potrebbe e dovrebbe prenderle. E invece, troppo spesso, anche qui di fronte a crisi generali e serie che richiederebbero un cambiamento veloce, si preferisce il metodo gradualista, la creazione di commissioni che poi un giorno riporteranno le esigenze emerse con la speranza (un po’ ingenua) che alla fine si riesca a fare la sintesi tra tutta la quantità di informazione che si sarà raccolta. E così passano gli anni, i governi, le patologie si aggravano, e mentre i medici discutono sul da farsi il paziente inizia a morire.

Un errore tipico di questi metodi gradualisti, poi, riguarda l’economia. Gli aspetti economici sono i primi che emergono durante una crisi, ma sono gli ultimi che vanno affrontati, perché l’economia è un indicatore di fenomeni molto più vasti e profondi della sola economia. Gli indicatori economici sono la spia rossa che, nell’auto, segnala un guasto al motore: ti dice di sistemare il motore e poi, una volta riparato, la spia si spegnerà da sola. E invece si inizia a sistemare per prima l’economia senza capire le malattie strutturali che hanno generato la crisi economica, e più si ripara l’economia più la malattia cresce nel profondo.

La qualità di un governo nei tempi di crisi dipende molto dalla capacità dei responsabili di intuire, per istinto, dove siano i problemi del ‘motore’, e da lì partire. Riceveranno critiche, accuse di dirigismo, ma forse salveranno il corpo che soffre.

Credits foto: © Unseen Histories su Unsplash

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A rinascere si impara/2 - I grandi cambiamenti non sempre avvengono a piccoli passi, e la necessità di procedere per gradi non deve diventare di ostacolo all'intraprendere iniziative urgenti

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 24/01/2024 - Dalla rivista Città Nuova n. 10/2023

Abbiamo da poco ricordato i sessant’anni dal grande discorso profetico di Martin Luther King, I have a dream, pronunciato a Washington il 28 agosto del 1963. Rimeditando quel discorso mi ha colpito un passaggio: «Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che si trangugi il tranquillante del gradualismo». Era molto critico del gradualismo, dell’idea, molto radicata, che i grandi cambiamenti non possono avvenire subito perché la grande complessità della realtà da cambiare richiede un processo graduale e una politica dei piccoli passi. Il gradualismo trova molto consenso, perché sottolinea un valore vero, quello dell’inclusione, della necessità di coinvolgere i vari protagonisti che hanno un ruolo nella creazione dei problemi e quindi anche nella loro soluzione. Da qui i grandi processi di consultazione della base, dei questionari, delle molte commissioni per garantire la sinodalità dell’intero processo di cambiamento.

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Contro il gradualismo

Contro il gradualismo

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A rinascere si impara/1 - Perché molte riforme di comunità partono coi migliori auspici e poi si bloccano?

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 20/12/2023 - Dalla rivista Città Nuova n. 9/2023

L’arte più preziosa e rara da imparare quando si inizia una riforma di una comunità, è riuscire ad arrivare fino in fondo al processo. La prima fase di una riforma è quasi sempre accompagnata da consensi, incoraggiamenti e applausi, perché, in genere, i movimenti e le comunità iniziano le riforme troppo tardi, quando ormai è evidente (quasi) a tutti che bisogna cambiare molto per non morire; e così il nuovo governo che pone mano a questo lavoro riformatore è salutato come si saluta un salvatore. In pochi sono coscienti che quella riforma necessaria era da fare molti anni prima, quando ancora i sintomi della malattia collettiva erano quasi invisibili e tutto parlava di salute e di successo.

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Per questa ragione, i primi tempi di un processo di rinnovamento, di qualsiasi rinnovamento di un corpo che soffre, scorrono lisci, veloci, accompagnati da soddisfazione e dal grande sollievo tipico di ogni inizio di una cura necessaria. I riformatori si sentono sostenuti dalla comunità intera, e tutto è corredato da un clima di ottimismo e di nuova primavera. Si comprende quindi che nelle riforme i momenti più importanti e decisivi sono i secondi, non i primi, quel “secondo tempo” quando si riduce e poi esaurisce l’apertura di credito quasi infinita dell’inizio.

Molte riforme si bloccano, si impantanano in questa seconda fase e non raggiungono la terza, quella essenziale dell’implementazione vera e concreta della riforma, quando gli annunci si sarebbero dovuti trasformare in grandi cambiamenti di governance. Accade così come a quei giovani che si immergono con la sola maschera perché sanno che dopo 10 metri si arriverà in una grotta emersa dai colori bellissimi: dopo i primi metri sentono diminuire l’ossigeno, si impauriscono, tornano indietro e riemergono in superficie. Se avessero resistito ancora per qualche altro secondo sarebbero arrivati all’aria della grotta stupenda, e invece si sono fermati a metà del cammino.

Perché ci si ferma? Che cosa accade nella fase intermedia che blocca le riforme necessarie e che (quasi) tutti vorrebbero? Un indizio sulle ragioni del fallimento della seconda fase ce lo suggerisce il filosofo francese De Tocqueville (Democrazia in America), con il suo famoso “paradosso”. Studiando le rivoluzioni e le trasformazioni sociali dei popoli, Tocqueville aveva capito qualcosa di importante: non appena i membri di una comunità iniziano a vedere i tanto agognati primi segni di cambiamento, di nuova partecipazione e di democrazia, cominciano a chiedere sempre di più, molto più di quanto i riformatori possono concretamente fare in quella prima fase.

L’appetito di riforma cresce molto più velocemente dei suoi primi risultati. E così, quei riformatori apprezzati, lodati e incoraggiati nel momento dell’annuncio della riforma, appena incominciano a compiere i primi atti riformatori, vedono la stima originale trasformarsi in critiche e insoddisfazione, perché quei primi cambiamenti appaiono troppo timidi, lenti e insufficienti. Al tempo stesso, questo malcontento proveniente oggi dagli stessi entusiasti di ieri, genera delusione e scoraggiamento nei riformatori perché considerano le critiche ingiuste e ingrate. Questo “effetto a tenaglia” – critiche dalla comunità e scoraggiamento nel governo – può bloccare l’esplorazione in apnea per una veloce marcia indietro.

Tante mancate riforme sono quelle “abortite” nella seconda fase, non quelle mai iniziate. Una riforma incominciata e non portata a termine è però peggiore di una mancata riforma. Perché mentre una comunità che non ha mai tentato una riforma necessaria può sempre iniziarne una; quando una comunità ha fallito una prima riforma, diventa molto difficile, se non impossibile, avviarne una seconda, perché la gestione di quel primo fallimento ha consumato molte delle energie disponibili, e quel primo entusiasmo collettivo, necessario per iniziare, nella seconda eventuale riforma sarà molto ridotto se non addirittura inesistente. Nelle riforme delle comunità carismatiche solo “la prima è buona”, la seconda possibilità, che c’è sempre, è (facilmente) inefficace.

Quando allora il governo di una comunità mette mano a una riforma, deve essere consapevole che arriverà la seconda fase delle critiche e dello scoraggiamento. Deve metterlo in conto, non farsi cogliere di sorpresa dal suo arrivo. E così, quando ci mancherà il fiato, continueremo fiduciosi l’immersione, in cerca del nuovo arcobaleno.

 

Credits foto: © 14578371 da Pixabay

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A rinascere si impara/1 - Perché molte riforme di comunità partono coi migliori auspici e poi si bloccano?

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 20/12/2023 - Dalla rivista Città Nuova n. 9/2023

L’arte più preziosa e rara da imparare quando si inizia una riforma di una comunità, è riuscire ad arrivare fino in fondo al processo. La prima fase di una riforma è quasi sempre accompagnata da consensi, incoraggiamenti e applausi, perché, in genere, i movimenti e le comunità iniziano le riforme troppo tardi, quando ormai è evidente (quasi) a tutti che bisogna cambiare molto per non morire; e così il nuovo governo che pone mano a questo lavoro riformatore è salutato come si saluta un salvatore. In pochi sono coscienti che quella riforma necessaria era da fare molti anni prima, quando ancora i sintomi della malattia collettiva erano quasi invisibili e tutto parlava di salute e di successo.

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Quel nuovo arcobaleno che c’è

Quel nuovo arcobaleno che c’è

A rinascere si impara/1 - Perché molte riforme di comunità partono coi migliori auspici e poi si bloccano? di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 20/12/2023 - Dalla rivista Città Nuova n. 9/2023 L’arte più preziosa e rara da imparare quando si inizia una riforma di una comunità, è riuscire ad...
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 Economia è vita - Una riflessione sullo Smart working pubblicata su Città Nuova di Agosto, tutt'ora molto attuale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova di Agosto 2021

Mentre tutto il mondo della scuola, e ancor più le famiglie, hanno capito che la Didattica a distanza è stata una scialuppa di salvataggio durante il naufragio e nessuno vuole fare il resto della traversata dell’oceano sulla scialuppa, i pareri sono diversi e controversi quando si parla di tornare a lavoro negli uffici. Questo anno e mezzo ci ha insegnato che ci sono alcune attività che è bene continuare a fare online – alcune riunioni, alcuni meeting di gruppi di lavoro internazionali o inter-regionali, alcuni consigli di dipartimento... –, ma anche che per la maggior parte delle azioni di cui si compongono i nostri lavori, se dovessimo continuare a svolgerle da remoto, porteremo le nostre imprese e organizzazioni in sentieri di grossa difficoltà.

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La co-presenza off-line nello stesso luogo non è essenziale solo per le riunioni veramente importanti o per gli incontri veramente delicati; no: è essenziale quasi sempre, perché le imprese e le organizzazioni vivono soprattutto grazie a quel lavoro quotidiano, a quella intelligenza feriale e ordinaria, che unita a quella degli altri ci consente di andare avanti, innovare, crescere. Queste innovazioni e queste scelte veramente importanti sono quelle che nascono perché, non più di un secolo e mezzo fa, decidemmo di chiedere agli uomini, poi alle donne, di lasciare la loro gestione naturale della vita e lavorare, artificialmente, in luoghi strani come fabbriche e uffici. Di prendere 8 ore al giorno per 6 giorni – poi passati a 5, e speriamo presto a 4 –, lasciare le loro case e le occupazioni private per occuparsi degli affari della loro azienda. Queste molte ore passate insieme hanno generato i nostri miracoli economici, e la nostra società complessissima e ricca.

Se con il lavoro smart riportiamo i lavoratori dentro casa, tutto cambia, e cambia molto, per il 99% dei lavori che si svolgono collettivamente. Perché, da una parte, se il lavoro ce lo portiamo a casa, per tutti noi, nonostante tutta la serietà e la buona volontà, quelle 8 ore vengono in certa (e non piccola) parte occupate dalla vita della casa e delle sue relazioni. E perché, ancora più seriamente, i prodotti di lavori svolti da ciascuno stando a casa e che alla fine si sommano e si uniscono, non equivalgono al lavoro fatto insieme mentre si lavora insieme. Sono cose diverse, la seconda di qualità e sapore superiori. Il lavoro è azione collettiva, non molto diversa da quella che generiamo quando cantiamo in un coro o giochiamo a calcetto; certo, possiamo anche cantare registrando ciascuno da casa, e poi affidando al computer l’assemblaggio finale. Ma sappiamo che quel che accade in questi “cori” non è quel che accade mentre ci ritroviamo e cantiamo gomito a gomito, e nascono le nuove canzoni e i nuovi progetti. Per non parlare del calcetto.

A me sono mancati molto i colleghi, moltissimo i miei studenti. E non vedo l’ora di ritrovarli, di rivederli, di lavorare con loro. E a voi?

Foto di Sam Lion da Pexels

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 Economia è vita - Una riflessione sullo Smart working pubblicata su Città Nuova di Agosto, tutt'ora molto attuale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova di Agosto 2021

Mentre tutto il mondo della scuola, e ancor più le famiglie, hanno capito che la Didattica a distanza è stata una scialuppa di salvataggio durante il naufragio e nessuno vuole fare il resto della traversata dell’oceano sulla scialuppa, i pareri sono diversi e controversi quando si parla di tornare a lavoro negli uffici. Questo anno e mezzo ci ha insegnato che ci sono alcune attività che è bene continuare a fare online – alcune riunioni, alcuni meeting di gruppi di lavoro internazionali o inter-regionali, alcuni consigli di dipartimento... –, ma anche che per la maggior parte delle azioni di cui si compongono i nostri lavori, se dovessimo continuare a svolgerle da remoto, porteremo le nostre imprese e organizzazioni in sentieri di grossa difficoltà.

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Lavorare insieme o da casa, cosa perdiamo

Lavorare insieme o da casa, cosa perdiamo

 Economia è vita - Una riflessione sullo Smart working pubblicata su Città Nuova di Agosto, tutt'ora molto attuale di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova di Agosto 2021 Mentre tutto il mondo della scuola, e ancor più le famiglie, hanno capito che la Didattica a distanza è stata una scialuppa ...
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L’Economia di Comunione è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale.  Anteprima dal numero di giugno della rivista Città Nuova

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 01/06/2021

Il 29 maggio l’Economia di comunione (EdC) ha compiuto 30 anni. Un arco temporale significativo per un progetto sociale, un tempo brevissimo per una profezia.

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Mi ero appena laureato in Economia, e non potevo sapere che quella nascita mi avrebbe cambiato la vita. Chiara Lubich mi chiamò a lavorare con altri economisti e imprenditori per dare “dignità scientifica” alla sua EdC. Non so se ci siamo riusciti, ma di certo la vita dell’EdC ha dato dignità e senso al mio lavoro di studioso e a quello di molti altri. L’EdC nacque come un progetto sociale di ridistribuzione di ricchezza: imprenditori donavano una parte significativa dei loro profitti per persone in difficoltà e per diffondere quella cultura nuova di condivisione che fu chiamata “cultura del dare”.

Questa espressione fu proposta dalla sociologa Vera Araujo, e il nome del progetto, Economia di comunione, fu suggerito a Chiara da Tommaso Sorgi. Questi contributi dicono che l’EdC è nata sinfonica: con una compositrice, Chiara Lubich, che per scrivere il suo spartito ebbe bisogno dell’apporto creativo di molte persone, a partire dai focolarini brasiliani.

L’EdC vivrà finché resterà sinfonica e creativa. Il dono degli utili da parte degli imprenditori fu all’inizio talmente importante che la prima immagine dell’EdC fu “un terzo, un terzo, un terzo”. Da subito, però, si intuì che dietro quei tre terzi dei profitti c’era molto di più. Chiara aveva intuito che l’impresa era l’istituzione-chiave del capitalismo, un capitalismo che andava riformato. Siamo all’indomani del crollo dei muri del socialismo reale, nel mondo tutto parlava di fiducia nelle sorti progressive del capitalismo e Chiara lancia un’iniziativa che ne mette in discussione il primo dogma: l’appropriazione privata degli utili.

Si capiva che l’EdC non era tanto un’operazione solidale di distribuzione di ricchezza. Ma nelle profezie i segni si svelano solo col tempo. I giovani soprattutto (ero tra quelli) vi vedevano un’altra economia, fraterna, inclusiva, giusta. E così è cresciuta. Negli anni imprenditori e poveri hanno conservato un loro protagonismo, ma insieme è cresciuta la dimensione culturale e teorica dell’EdC. Molti giovani l’hanno fatta oggetto di tesi di laurea e di dottorato, in molte università si è iniziato a studiare questa economia che senza rinnegare il ruolo dell’impresa e degli imprenditori li chiama a diventare “sviluppatori di comunità”, come dicono i membri del Banco Kabajan nelle Filippine.

Cosa abbiamo festeggiato il 29 maggio? Come in tutte le feste delle comunità, abbiamo ringraziato Chiara e i pionieri, molti ormai scomparsi. Poi, come nella Bibbia, abbiamo ricordato i “miracoli” per guardare avanti alla terra promessa. L’EdC è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale. Ringraziare, ricordare, continuare a credere nella profezia di Chiara.

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L’Economia di Comunione è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale.  Anteprima dal numero di giugno della rivista Città Nuova

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 01/06/2021

Il 29 maggio l’Economia di comunione (EdC) ha compiuto 30 anni. Un arco temporale significativo per un progetto sociale, un tempo brevissimo per una profezia.

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30 anni di Economia e di Comunione

30 anni di Economia e di Comunione

L’Economia di Comunione è ancora nella sua aurora, perché in questa epoca di insostenibilità del capitalismo, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e spirituale, la comunione in economia diventa sempre un ideale.  Anteprima dal numero di giugno della rivista Città Nuova di Luigino Brun...
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La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020

La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vulnerabilità (da vulnus: ferita), come molte altre parole vere dell’umano, è infatti ambivalente, perché la buona vulnerabilità convive accanto a quella cattiva, e spesso le due sono intrecciate tra loro.

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La vulnerabilità buona è quella iscritta in tutte le relazioni umane generative, dove se non metto l’altro nella possibilità di “ferirmi”, la relazione non raggiunge la profondità per essere feconda. Questa buona vulnerabilità è anche l’antidoto per proteggersi dalla cattiva vulnerabilità, perché un mondo che aspira all’ideale della vulnerabilità zero è un mondo altamente vulnerabile. Perciò la fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra, mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. La radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia sta proprio in questa esposizione di colui che ci dona la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel “qualcosa” che mettiamo nelle mani dell’altro. La vulnerabilità ha anche il suo valore e delle proprietà tipiche che cambiano la natura di un rapporto, in genere migliorandolo. Quando chi compie un atto di affidamento, fa di tutto per ridurre, e possibilmente annullare, il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Molti rapporti si interrompono sul nascere, perché la volontà di escludere futuri abusi crea un contesto di diffidenza che impedisce al rapporto di iniziare. La fiducia invulnerabile non è un bene ma un male.

Lo vediamo nei confronti del coniuge, dei figli, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro – e loro di noi – senza avere garanzie assolute sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia. La vita è generata da rapporti aperti alla possibilità della ferita relazionale. Non aiuteremmo nessun bambino a diventare una persona libera senza concedergli una fiducia vulnerabile, nelle famiglie, nelle scuole, nei molti luoghi educativi. E da adulti non riusciamo a fiorire nei luoghi di lavoro e della vita senza ricevere e dare fiducia rischiosa e vulnerabile. Generiamo gli altri donando loro fiducia vulnerabile, e gli altri ci generano ogni giorno fidandosi di noi ed esponendosi al rischio della ferita. In mezzo a queste due fiducie vulnerabili c’è tutta l’arte della vita in comune.

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La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020

La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vulnerabilità (da vulnus: ferita), come molte altre parole vere dell’umano, è infatti ambivalente, perché la buona vulnerabilità convive accanto a quella cattiva, e spesso le due sono intrecciate tra loro.

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La buona vulnerabilità della vita

La buona vulnerabilità della vita

La generatività in tutti gli ambiti ha un bisogno vitale di libertà, di fiducia, di rischio, tutti elementi che rendono vulnerabile chi concede queste libertà e questa fiducia di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova Nuova il 06/10/2020 La vulnerabilità è anche una parola buona della vita. La vuln...
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In questo momento di pandemia da coronavirus, abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici. C’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova l'11/04/2020 (da pdf Città Nuova (34 KB) n.04/2020 di aprile 2020)

Questa inedita e grave crisi collettiva ci sta dando, tra l’altro, anche alcune lezioni sulla natura profonda dell’economia e dei mercati. Innanzitutto ci sta mostrando la differenza tra capitalismi. Lo avevamo sempre saputo che lo spirito del capitalismo del Nord Europa è diverso da quello del Sud. Oggi però questa differenza si sta manifestando in aspetti nuovi, (in parte) insospettati e, tutto sommato, tristi per tutti.

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La visione del lavoro come vocazione (beruf, in tedesco) che, come ci ha mostrato già Max Weber, ha caratterizzato la visione protestante del lavoro e del capitalismo, e che ha prodotto frutti straordinari, oggi mostra il suo lato buio. Le ragioni del lavoro e dell’economia sono talmente importanti da poter diventare assolute e “sacre” e così divenire le prime ragioni anche di fronte a una crisi tanto grave. Le frasi che abbiamo sentito dire da premier o ministri dei Paesi del Nord Europa e del Regno Unito, sull’imperativo di evitare a tutti i costi la recessione economica, non le abbiamo sentite pronunciare dai leader dei Paesi di cultura cattolica (Italia, Spagna, Portogallo); non perché siano più altruisti dei loro colleghi, ma perché sotto le Alpi l’economia non è mai stata la parola più importante della vita civile.

In questi ultimi anni lo stava diventando anche da noi (e in certe regioni di più, e lo abbiamo visto), ma questa crisi, inaspettatamente, ci ha fatto scoprire anche la vocazione economica diversa e specifica dei Paesi latini e cattolici. Siamo cresciuti di meno, abbiamo grandi debiti pubblici, abbiamo corruzione diffusa e alta disoccupazione e bassa produttività; ma facciamo di tutto, e un po’ di più, per salvare gli anziani, ad ogni costo. Il familismo non è solo e sempre amorale. E non perché siamo più buoni o più etici, ma perché siamo, semplicemente, diversi, nelle ombre e nelle luci. Forse, per una volta, il Nord Europa avrebbe potuto prendere una lezione dal suo Sud, e sarebbe stato meglio per tutti, avremmo risparmiato tutti morti e dolore.

C’è poi un secondo aspetto. Abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici e umili. Perché se dietro e accanto ai medici e agli infermieri non ci fossero stati le e gli Oss, gli addetti alle pulizie negli ospedali, e poi gli autisti dei camion della logistica, gli spazzini nelle città, i manutentori dell’energia elettrica e delle reti Internet, i commessi nei supermercati, i vigili urbani… questa crisi ci avrebbe travolto molto di più e in modo molto più devastante e forse insostenibile. Abbiamo, improvvisamente, visto quanto amore civile e implicito ci sia attorno a noi.

Molti di noi cerchiamo e vediamo l’amore nei luoghi sbagliati o troppo piccoli: ci siamo accorti che c’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti, che rischia di contagiare genitori e figli solo per fare il proprio dovere.

Anche questo lavoro è vocazione, anche quando è duro, quando sfinisce, quando ci porta sul punto di rischiare molto, a volte quasi tutto. Tanta gente, ne sono certo, si è ricollegata con la parte più profonda e vera del proprio lavoro e della propria vita proprio in questi giorni tremendi e difficili: nella drammaticità e nel dolore hanno rivisto, o visto per la prima volta, la dignità e l’onore del loro lavoro.

Che passi presto il virus: ma non passi questa grande lezione.

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In questo momento di pandemia da coronavirus, abbiamo visto che l’economia vive e non crolla grazie soprattutto ai lavoratori che svolgono lavori più semplici. C’è un amore diverso ma essenziale in chi va a lavorare ogni giorno per noi, con le mascherine e con i guanti.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova l'11/04/2020 (da pdf Città Nuova (34 KB) n.04/2020 di aprile 2020)

Questa inedita e grave crisi collettiva ci sta dando, tra l’altro, anche alcune lezioni sulla natura profonda dell’economia e dei mercati. Innanzitutto ci sta mostrando la differenza tra capitalismi. Lo avevamo sempre saputo che lo spirito del capitalismo del Nord Europa è diverso da quello del Sud. Oggi però questa differenza si sta manifestando in aspetti nuovi, (in parte) insospettati e, tutto sommato, tristi per tutti.

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La natura imprevista dell’economia

La natura imprevista dell’economia

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Ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione,  hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/02/2020 (da pdf Città Nuova (56 KB) n.01/2020 di Gennaio 2020)

«Un giorno, da bambino, mio padre arrivò in fabbrica 20 minuti in ritardo per avermi accompagnato in ospedale per una crisi asmatica. Quel ritardo gli costò 4 ore di stipendio in meno. In quel momento nacque dentro di me “qualcosa” di nuovo, che nel tempo è maturato. Non so cosa esattamente fosse: forse rabbia, forse dolore; so comunque che quel giorno è stato decisivo nella mia scelta che molti anni dopo feci di fondare una mia impresa dove quel “qualcosa” che avevo visto e vissuto non ci doveva essere più, nei genitori e nei bambini». Questo episodio, raccontato da Francesco, un giovane imprenditore, ci dice molte cose su che cosa abbiano vissuto molti imprenditori veri.

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Se andiamo a leggere con attenzione le storie di molti imprenditori, ritroviamo molte vicende simili a quelle di Francesco. Hanno fatto nascere un’impresa in seguito a un’esperienza speciale, a un dolore. Lo hanno fatto forse solo per non lasciar morire l’azienda di famiglia dove erano cresciuti da bambini, dove facevano i compiti mentre i genitori trascorrevano in quel negozio, in quel ristorante o fabbrica i loro anni migliori.

Magari li avevano visti lottare per non chiudere in momenti difficili, per non licenziare un padre di famiglia, li avevano visti piangere, litigare e fare pace. Perché in quella ditta avevano visto soltanto carne e sangue, avevano visto solo vita. E crescendo hanno continuato l’impresa come si continua a vivere. All’origine di queste imprese di seconda o terza vocazione non c’è sempre una “vocazione”, perché nella terra ci sono cose meravigliose fatte anche da chi non ha mai sentito una voce interiore che lo/la chiamava; magari hanno sentito soltanto la voce di un genitore, di un amico o del dolore dei poveri, e hanno detto “eccomi”.

Non hanno fatto l’esperienza del profeta Isaia, ma gli somigliano molto, anche perché, qualche volta, la chiamata arriva dopo, non prima, la nascita dell’impresa.

Altre volte l’impresa nasce per un incontro, per cogliere un’opportunità, senza che, neanche qui, ci sia una specifica vocazione. Qualche volte anche queste imprese-opportunità possono essere cose buone, e generare autentiche esperienze umane, creare beni, posti di lavoro, salari e ricchezza per tanti. Molte imprese reali nascono così, e alcune nascono o diventano cose belle.

Altre imprese nascono, invece, per una rivincita, per una sfida, persino per una forma di vendetta, per far vedere a un padrone che non si stimava che siamo bravi almeno quanto lui, se non di più. Queste imprese, però, raramente hanno successo, perché questi sentimenti negativi (molto comuni) non sono adatti ai mercati e all’economia. L’imprenditore che cresce bene deve guardare il mondo con positività, deve guardare la ricchezza e i talenti degli altri come opportunità per la sua propria crescita e ricchezza futura. L’invidia non è mai una virtù, tanto meno non è una virtù del mercato.

Ma ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione, per una chiamata. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione, un lutto, dentro un’inquietudine nel lavoro che tanti gli invidiavano ma che lui/lei sentiva come una gabbia, hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona. Lo hanno sentito pronunciare in modo chiaro, anche quando non avevano una fede religiosa per chiamare l’autore di quella voce: “Dio” – nel mondo ci sono più persone chiamate delle persone religiose.

Hanno sentito che il loro posto al mondo passava nel dar vita a una cooperativa, a un’associazione, a un’impresa; che quell’economia non era solo economia: era anche un’economia della salvezza, loro e di altri. Hanno capito che se non avessero risposto: “eccomi”, la loro vita sarebbe sfiorita. E hanno risposto.

L’economia ha bisogno di tutte queste forme di imprenditori, di questa tipica biodiversità. Ma senza l’economia per vocazione manca il lievito, e il pane nel mercato è sempre azzimo. La bella notizia è che ogni mattino la voce continua a chiamare nuovi imprenditori. E quando li incontriamo e li riconosciamo, è sempre un giorno di festa – per noi, per loro, per tutti. Perché non c’è bene comune senza santi, artisti e imprenditori.

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Ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione,  hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 12/02/2020 (da pdf Città Nuova (56 KB) n.01/2020 di Gennaio 2020)

«Un giorno, da bambino, mio padre arrivò in fabbrica 20 minuti in ritardo per avermi accompagnato in ospedale per una crisi asmatica. Quel ritardo gli costò 4 ore di stipendio in meno. In quel momento nacque dentro di me “qualcosa” di nuovo, che nel tempo è maturato. Non so cosa esattamente fosse: forse rabbia, forse dolore; so comunque che quel giorno è stato decisivo nella mia scelta che molti anni dopo feci di fondare una mia impresa dove quel “qualcosa” che avevo visto e vissuto non ci doveva essere più, nei genitori e nei bambini». Questo episodio, raccontato da Francesco, un giovane imprenditore, ci dice molte cose su che cosa abbiano vissuto molti imprenditori veri.

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Economia e vocazione

Economia e vocazione

Ci sono poi imprenditori e imprenditrici che nascono per una vocazione. Perché un giorno, magari dentro una crisi, una malattia, una depressione,  hanno sentito il loro nome pronunciato da una voce buona. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova il 12/02/2020 (da pdf Città Nuova (56...
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I giovani, le donne e gli uomini del nostro tempo, non hanno affatto smesso di cercare spiritualità e senso della vita. 

di Luigino Bruni

Originale pubblicato su Città Nuova il 31/12/2019.

«Quel viaggio in bicicletta attraverso la Francia mi ha cambiato la vita». Mi diceva un giovane collega polacco a cena durante un convegno a Cracovia.

«Arrivai in quell’antico monastero in un momento di crisi. Un monaco mi raccontò che quel convento, antichissimo, aveva accolto nel Medioevo monaci benedettini fuggiti dall’Italia». 

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Perché questo incontro gli aveva cambiato la vita? «Perché io stavo attraversando un periodo di crisi nel mio impegno politico e civile a favore dei giovani del mio Paese. Ero stanco e sfiduciato. Ascoltando che quel convento era stato riparo e rifugio per quegli antichi monaci, capii dentro che io dovevo essere ‘rifugio e riparo’ per i giovani del mio Paese 1758». E concludeva: «In quel monastero francese ho riscoperto la mia vocazione».

I giovani, le donne e gli uomini del nostro tempo, non hanno affatto smesso di cercare spiritualità e senso della vita. Lo cercano come ieri, forse di più. Ma, diversamente dai secoli passati, non lo cercano più soltanto dentro le chiese e nei luoghi sacri. Lo cercano ovunque: nello studio, nello sport, nel consumo, sui social, nelle feste e nello svago. Quel giovane, dovendo cercare un ostello per dormire, ha ritrovato la sua vocazione smarrita perché un vecchio monaco ha trovato qualche minuto per stare con lui e raccontargli la sua storia – perché, ai giovani e a tutti, piacciono molto cose, ma di più piacciono le storie grandi.

Il grande rischio del nostro mondo, un rischio che corrono coloro che amano la spiritualità e la fede, è restare nei luoghi del sacro ad attendere persone che vengono sempre meno a trovarci. E così, come nel romanzo Il deserto dei tartari, passare decenni in grandi forti militari vuoti, circondati dal deserto, ad attendere qualcuno che non viene – e mentre si aspetta, il tempo passa, e iniziano i conflitti e le morti dentro il forte.

Mai come in questa generazione le imprese chiedono spiritualità e religione. Si moltiplicano i ritiri spirituali aziendali negli antichi monasteri, nascono nuove figure professionali (spiritual counselor, spiritual coach, meditation manager, spiritual mentalist …), crescono esperti di religione invitati per parlare di spirito e di anima durante le convention aziendali.

Le imprese, prima di altri ambiti, per natura anticipano le tendenze delle gente, e quindi stanno capendo che siamo all’inizio di una grande carestia di senso, ad una fame di interiorità, che non è meno devastante delle carestie di cibo e delle siccità.

C’è un ‘effetto serra dell’anima’ che sta iniziando a toglierci l’aria, la gioia di vivere, la voglia di svegliarci al mattino e andare a lavorare. Una carestia grave che se non capita e affrontata farà sì che la depressione diventi la peste del XXI secolo.

Allora le chiese, le religioni, coloro che hanno esperienze millenarie di spirito e di anima, oggi devono abitare i luoghi del vivere, lasciare i loro fortini e andare ad incontrare la gente là dove si svolge la loro vita ordinaria. Perché le imprese non possono soddisfare da sole le richieste di senso dei loro lavoratori.

Non basta qualche week-end di formazione psicologica, magari online, per diventare spiritual coach e consigliare persone che avrebbero bisogno di figure molto più preparate e che svolgono queste attività per vocazione. Se le grandi tradizioni religiose e spirituali non andranno incontro alle richieste, latenti ma reali, della gente, le imprese e le organizzazioni si riempiranno di finti esperti di spiritualità, che potranno solo aumentare il disagio, la fame e la sete.

Il nostro è un tempo favorevole di grandi e nuove opportunità per lo spirito: “Ecco faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia: non ve ne accorgete?” (Isaia 43,19).

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I giovani, le donne e gli uomini del nostro tempo, non hanno affatto smesso di cercare spiritualità e senso della vita. 

di Luigino Bruni

Originale pubblicato su Città Nuova il 31/12/2019.

«Quel viaggio in bicicletta attraverso la Francia mi ha cambiato la vita». Mi diceva un giovane collega polacco a cena durante un convegno a Cracovia.

«Arrivai in quell’antico monastero in un momento di crisi. Un monaco mi raccontò che quel convento, antichissimo, aveva accolto nel Medioevo monaci benedettini fuggiti dall’Italia». 

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Una grande carestia di senso

Una grande carestia di senso

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Sulla natura sacrale del capitalismo.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 26/11/2019 (da  pdf Città Nuova (60 KB) n.11/2019 di novembre 2019)

L’economia è nata da uno spirito, e continua a rinascere quando trova uno spirito – buono o cattivo. Il denaro da solo è troppo poco per far nascere le imprese. Salvare un’azienda famigliare, l’orgoglio, la stima sociale, l’istinto di creare e costruire, lasciare qualcosa di bello ai figli… queste sono le ragioni più profonde che muovono gli imprenditori, ieri, oggi, sempre.

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Quando è solo il denaro a muovere le imprese, non abbiamo a che fare con imprenditori, ma con speculatori, oggi molto abbondanti.

Anche le economie antiche erano legate a uno spirito, in genere a uno spirito religioso che rimandava al divino e all’invisibile. I beni erano bene-dizione di Dio, e la povertà maledizione. Il capitalismo è profondamente legato allo spirito ebraico-cristiano, talmente legato che alcuni autori (W. Benjamin) ha parlato di “parassitismo”, cioè il capitalismo come un “parassita” del cristianesimo. Con delle novità recenti.

Nei secoli passati, infatti, lo spirito del capitalismo era associato soprattutto all’imprenditore, e allo spirito “calvinista”, all’idea della salvezza legata al successo negli affari. Ma oggi? Quale lo spirito del capitalismo del XXI secolo? Se guardiamo il mondo e i mercati con attenzione, ci accorgiamo che oggi ad essere “benedetto da Dio” non è più l’imprenditore ma il consumatore, che è lodato e invidiato perché ha i mezzi per consumare. Più consumo, più ottengo benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al consumatore. È la sovranità del consumatore la sola riconosciuta dal mono-culto consumista, che sta seriamente minando la cittadinanza politica, perché la democrazia non funziona quando il solo sovrano è il consumatore.

E se poi continuiamo a guardare bene, comprendiamo anche che il primo idolo, il capo del pantheon della religione-idolatria capitalista non è l’imprenditore; non è neanche la merce e il suo feticismo (nelle parole di K. Marx), ma è proprio il consumatore. È lui ad essere adorato, adulato, venerato, lodato.

Pensiamo a un aspetto che può apparire secondario: gli sconti, che sono il centro attorno al quale ruotano liturgie collettive, come i saldi di fine stagione o, ancor più chiaramente, al nuovo culto del Black friday. Anche se ogni anno vengono sollevati dubbi sulla loro “verità”, in realtà gli sconti sono e devono essere “reali”. Sono sconti veri, perché lo sconto è un elemento essenziale di questo nuovo culto.

Gli sconti “devono” essere reali, perché non c’è una religione senza una qualche forma di dono, di grazia e di sacrificio. Con una differenza fondamentale però rispetto alla religioni tradizionali, una differenza che ci svela molto della natura sacrale del capitalismo. Nelle religioni del passato è il fedele che fa doni al suo Dio, per mostrargli la sua devozione o per “lucrare” la salvezza.

Nell’idolatria capitalistica è invece l’impresa che fa doni al suo idolo che è il consumatore. La direzione cambia perché opposto è il senso del culto. Infatti, nella religione del consumo la divinità è il consumatore, che le imprese cercano di fidelizzare (altra parola religiosa) con il loro sacrificio-sconto. Gli sconti, i gadget, persino la filantropia sono forme di dono senza gratuità – è anche per l’assenza di gratuità che quella capitalistica non è una religione ma una banale idolatria.

Il cristianesimo nel XX secolo ha combattuto molto il comunismo e l’ateismo, ma non si è accorta che, mentre era impegnato in queste battaglie, c’era un altro nemico che stava entrando dentro le mura, che non era riconosciuto perché, in quanto parassita, aveva molto in comune con il cristianesimo, incluso il suo “spirito”. E così ha occupato tranquillamente la città, imposto i suoi culti pagani, e noi lo abbiamo accolto con osanna e canti. Fino a quando?

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pubblicato su Città Nuova il 26/11/2019 (da  pdf Città Nuova (60 KB) n.11/2019 di novembre 2019)

L’economia è nata da uno spirito, e continua a rinascere quando trova uno spirito – buono o cattivo. Il denaro da solo è troppo poco per far nascere le imprese. Salvare un’azienda famigliare, l’orgoglio, la stima sociale, l’istinto di creare e costruire, lasciare qualcosa di bello ai figli… queste sono le ragioni più profonde che muovono gli imprenditori, ieri, oggi, sempre.

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Il fedele consumatore

Il fedele consumatore

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Si esce dalle trappole di povertà se si riesce a dare, quando dentro un rapporto sono messo nelle condizioni di poter dare qualcosa a qualcuno.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2019 (da pdf Città Nuova n.10/2019 (57 KB) di ottobre 2019)

Quest’estate mi sono trovato a visitare la bellissima cattedrale di Salerno. All’ingresso trovo un giovane che faceva semplicemente l’elemosina. Spontaneamente gli dico: «Perché non dai qualche informazione sulla chiesa ai turisti, visto che sei qui tutti i giorni?». Sul momento non risponde. Faccio il mio giro (un po’ frettoloso) e mentre ripasso accanto al ragazzo, questo mi dice: «Ma non hai visto la cripta? Se non vedi quella, ti perdi la cosa più bella della chiesa». Mi aveva quindi seguito con lo sguardo, dopo quella mia domanda, aveva osservato i miei passi.

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Lo ringrazio, torno indietro e vado a visitare la cripta, che mi lascia senza fiato per la sua bellezza. Mentre uscivo, l’ho ringraziato, e gli ho dato una mancia. Mentre lo salutavo, lui continuava a dirmi: «Guarda all’ingresso: c’è una scultura importante»; «E poi guarda anche il portone, è stato fatto a Costantinopoli», e ancora altre informazioni sulla chiesa, che aveva imparato nell’ascolto silenzioso delle molte guide che passano in quel luogo.

E mi chiedevo: chissà se sono stato il primo a chiedere a quel giovane qualcosa di diverso, a prenderlo sul serio, ad invitarlo a mettersi in una logica di reciprocità. Immaginavo i suoi ragionamenti: «Questo signore sconosciuto, chiedendomi di dargli qualche informazione, non mi vede solo come uno “scarto”, non mi ha visto come qualcuno che sa solo stendere la mano. Mi ha fatto una domanda come fossi una “persona”». In realtà, la sola cosa che avevo fatto era stato guardare un essere umano che mi si presentava di fronte, essere attento alla vita che mi scorreva accanto e riconoscerla per come mi si presentava: nel volto di un giovane immigrato, che sentivo doveva essere qualcosa di diverso da come si mostrava. E ho capito che quel giovane era più grande della sua richiesta di elemosina. Ma forse neanche lui se lo ricordava, abituato solo a chiedere monetine.

E poi ho pensato a quanta reciprocità inespressa c’è nelle nostre città, e in generale al grande tema della povertà e della marginalità. Le persone per attivarsi hanno bisogno prima di tutto di essere viste, guardate negli occhi. Senza questo sguardo di riconoscimento, le persone non si rialzano, soprattutto quando sono “sedute” da anni. Raramente ci si rialza da soli. Ci si rialza se nel rapporto con qualcuno ci accorgiamo che abbiamo anche noi qualcosa da dare.

Uno dei problemi legati alla povertà è pensare che la soluzione abbia a che fare con il ricevere. E invece si esce dalle trappole di povertà se si riesce a dare, quando dentro un rapporto sono messo nelle condizioni di poter dare qualcosa a qualcuno. Il vero aiuto che possiamo dare a una persona povera è la possibilità di sentirsi degno di dare qualcosa. Ma noi continuiamo a guardare la mano che chiede come mano che sa solo ricevere, e ci dimentichiamo che quella mano può dare molto di più di quanto può ricevere.

Di fronte a persone che si trovano in condizioni di indigenza, lo sforzo dei governi e delle associazioni deve concentrarsi soprattutto nell’aiutare queste persone a rialzarsi per tornare a donare dentro rapporti di reciprocità. Ma, prima, le devono guardare come persone che hanno qualcosa da dare, che non sono così povere da non poterci dare nulla.

Se non avessi incontrato quell’uomo sulla soglia della chiesa, se entrando nel luogo sacro non avessi capito che sulla porta c’era qualcosa più sacro del tempio che stavo per visitare (niente sulla terra è più sacro di un uomo), non avrei visto il tesoro di quella chiesa (la cripta), non avrei incontrato una persona, e non avrei scritto questo articolo. Ma prima ho dovuto vederlo. La prima povertà dei poveri consiste nel non essere visti, diventano invisibili o visti solo in superficie, perché ci fermiamo all’involucro della loro anima. Chissà quante “cripte” bellissime ci perdiamo ogni giorno?!

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Si esce dalle trappole di povertà se si riesce a dare, quando dentro un rapporto sono messo nelle condizioni di poter dare qualcosa a qualcuno.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2019 (da pdf Città Nuova n.10/2019 (57 KB) di ottobre 2019)

Quest’estate mi sono trovato a visitare la bellissima cattedrale di Salerno. All’ingresso trovo un giovane che faceva semplicemente l’elemosina. Spontaneamente gli dico: «Perché non dai qualche informazione sulla chiesa ai turisti, visto che sei qui tutti i giorni?». Sul momento non risponde. Faccio il mio giro (un po’ frettoloso) e mentre ripasso accanto al ragazzo, questo mi dice: «Ma non hai visto la cripta? Se non vedi quella, ti perdi la cosa più bella della chiesa». Mi aveva quindi seguito con lo sguardo, dopo quella mia domanda, aveva osservato i miei passi.

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La forza dello sguardo

La forza dello sguardo

Si esce dalle trappole di povertà se si riesce a dare, quando dentro un rapporto sono messo nelle condizioni di poter dare qualcosa a qualcuno. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.10/2019 (da pdf Città Nuova n.10/2019 (57 KB) di ottobre 2019) Quest’estate mi sono trovato a...
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Oltre il mercato - Keynes capì che il mondo era cambiato ed egli cambiò con esso – cosa che non è successa alla nostra generazione con la nostra crisi economica, perché tutti continuiamo ad insegnare la stessa teoria di prima del 2008.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova il 28/08/2019

Sono in tanti, oggi, ad invocare in economia un ritorno a Keynes. Bello e importante è il volume a lui dedicato dai Meridiani Mondadori. Keynes è attuale anche perché fu capace di stravolgere completamente la sua teoria economica quando la realtà cambiò in seguito alla crisi del 1929. E già questa grande onestà intellettuale è di per sé un messaggio molto attuale, perché quando si è raggiunto un certo successo in un ambito professionale (Keynes nel 1930 era già un affermato economista), è molto difficile auto-sovvertirsi e ricominciare da zero. 

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Infatti, nel 1930 John Maynard Keynes non era ancora “keynesiano”. La crisi economica del ’29 e degli anni successivi fece saltare per aria tutto l’impianto teorico precedente. Keynes capì che il mondo era cambiato ed egli cambiò con esso – cosa che non è successa alla nostra generazione con la nostra crisi economica, perché tutti continuiamo ad insegnare la stessa teoria di prima del 2008.

In particolare Keynes cambiò la sua teoria monetaria, dove era maestro. Nella teoria della moneta di Keynes e dei suoi colleghi, la moneta era una sorta di Giano bifronte. Da una parte era considerata un velo delle transazioni reali, un mero misuratore di prezzi, una riserva di valore e un mezzo di pagamento, ben distinto dalla produzione reale.

Al tempo stesso, però, alle politiche monetarie e ai tassi di interesse sui risparmi si attribuivano grandi poteri e grande fiducia per il superamento delle crisi. Aumenti di moneta in circolazione e variazioni dei tassi di interesse avrebbero assicurato l’equilibro automatico del sistema economico, senza interventi esterni. La crisi infatti durava e il sistema non risolveva i suoi problemi.

I meccanismi monetari non riportavano in equilibrio l’occupazione e non rilanciavano la crescita, come avrebbero dovuto fare se avessero seguito le leggi economiche. Keynes buttò alle ortiche le sue teorie precedenti, e riscrisse da zero una nuova teoria economica, con innovazioni enormi, anche e soprattutto sul terreno monetario.
E nacque la Teoria generale, pubblicata nel 1936. Un grande messaggio della Teoria generale di Keynes è infatti la sfiducia nella politica monetaria e in generale nella moneta, soprattutto nei tempi di crisi vera.

Quando le “aspettative” (grande nuova parola keynesiana) sono pessimistiche, la politica monetaria è inefficace. E quando sono molto negative – quando cioè scatta la famosa “trappola della liquidità” – è addirittura nulla: le banche possono alzare il tasso di interesse all’infinito, ma la gente trattiene tutta la liquidità che riceve per mancanza di fiducia nel futuro; da qui il suo famoso aforisma: «Puoi portare il cavallo alla fontana, ma non puoi costringerlo a bere».

Fu sulla morte della fiducia nella politica monetaria che Keynes inventò la politica fiscale: per uscire dalla crisi, non potendo fare affidamento sulla liquidità e sulla moneta, occorre che il governo investa in spesa pubblica, in concrete e realissime strade e ponti, che non dipendono (se non in minima parte) dalle aspettative della gente.

E così sbloccare il sistema, aumentare occupazione e Pil. Con il secondo Keynes entrano nella macroeconomia e nella politica economica l’incertezza, alla base dell’intero sistema. Questa è la vera modernità: il mondo si è molto complicato, le persone con le loro emozioni e “pance” contano molto, il mondo semplice e ordinato come lo conoscevamo prima non c’è più, e dobbiamo fare i conti davvero con la complessità.

E quando si affrontano sistemi complessi, occorre sempre diffidare delle soluzioni semplici. Come sono molte delle idee che girano in questi ultimi tempi, quando in molti pensano di uscire dalla crisi economica manovrando monete reali o immaginarie. Illusioni contro le quali Keynes reagì ed ebbe successo.

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di Luigino Bruni

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La lezione di Keynes per sbloccare il sistema

La lezione di Keynes per sbloccare il sistema

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Oltre il mercato - Il flusso di viaggiatori culturali è cresciuto in modo esponenziale nei secoli, fino a raggiungere dimensioni bibliche negli ultimi decenni. Ma come conciliare la fruibilità dell'arte con la sostenibilità ambientale?

di Luigino  Bruni

pubblicato su Città Nuova il 09/07/2019

I grandi cambiamenti climatici, che sono stati gestiti per troppi anni in modo irresponsabile, rischiano di modificare profondamente anche l’esperienza e l’esercizio di dimensioni decisive della nostra civiltà. Pensiamo, per un esempio importante, all’arte e alla cultura. Il mercato sta entrando sempre più decisamente dentro la gestione del patrimonio artistico e culturale, e lo fa con i suoi meccanismi (i prezzi). In molti Paesi entrare nei musei costa sempre di più, e andare all’Opera a sentire Verdi o Rossini sta diventando un bene di lusso accessibile solo a un’élite sempre più ristretta.

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La crescente e sempre più urgente necessità di cambiamento negli stili di vita per rallentare o frenare gli effetti del deterioramento climatico cambierà presto anche il “consumo” dei beni culturali. Perché? Le opere d’arte sono, in massima parte, site specific: sono come le piante, legate al suolo. In genere, come le piante, non si spostano e nei rarissimi casi in cui lo fanno (perché prestate per qualche mostra) questo spostamento riguarda pochissime opere per pochissime persone.

Nel Medioevo le opere d’arte erano viste dalle persone che vivevano nei pressi delle opere, e non tutti (in quanti vedevano i capolavori interni nei palazzi dei signori?). Per vedere le opere d’arte delle altre città si doveva viaggiare. Il flusso di viaggiatori culturali è cresciuto in modo esponenziale nei secoli, fino a raggiungere dimensioni bibliche negli ultimi decenni, quando (grazie a Dio) anche grandi numeri di turisti di Paesi orientali si sono riversati nelle città europee in cerca di arte e storia (e viceversa). Ma quando a spostarsi sono centinaia di milioni di persone, gli effetti degli spostamenti sull’ambiente diventano molto importanti. Ecco allora la denuncia delle organizzazioni ambientaliste per l’eccessivo uso di aerei, che sono una grande causa di emissione di CO2. Non sono in pochi, allora, a iniziare a ipotizzare un futuro prossimo in cui il flusso di turismo sarà molto limitato per rendere sostenibili gli spostamenti contro l’inquinamento. E se il mercato continuerà ad essere lo strumento per gestire i flussi, l’esito più probabile sarà un forte aumento del prezzo del “consumo” dei beni culturali per poterlo limitare (come è accaduto con le auto nei centri storici). Con la conseguenza che saranno solo i ricchi a vedere Picasso e Leonardo.

Altri ipotizzano che dovremo sviluppare strumenti informatici sempre più sofisticati che ci consentano di “vedere” le opere da casa, senza spostarci. Musei virtuali sempre più simili ai musei reali. Il secondo esito sembra più probabile (e forse più desiderabile) del primo. Peccato, però, che l’esperienza artistica sia anche e soprattutto un’esperienza fisica e corporea. Quando si entra in un museo e si guarda un Masaccio da 50 centimetri di distanza, in quella visione scatta un rapporto “fisico” con l’oggetto artistico che è lì presente di fronte a noi. Il quadro si vede, certo, ma anche si sente, si odora, siamo visti da lui. Per non parlare delle chiese: queste si camminano, si toccano, si è abitati e visitati dalla loro bellezza. Accade, qui, qualcosa di simile alla differenza che passa tra chattare con un amico su Facebook e andarlo a trovare a casa per stare con lui.

Nel Medioevo, per rendere l’esperienza artistica possibile anche ai molti che non vivevano a Firenze o a Bologna, si sviluppò un enorme mercato di artisti e artigiani che riproducevano e moltiplicavano le opere d’arte. Migliaia e migliaia di copie o di opere simili che riempirono le chiese e le case di mezz’Europa. Non tutti avevano Mantegna dentro casa, ma molti potevano guardare e sentire opere vere di artisti. Inclusi artisti-artigiani popolari, assistenti di bottega, che dipingevano opere semplici per i presepi o per i cartolami della settimana santa (che oggi finalmente si stanno riscoprendo).

Anche quella bellezza popolare e diffusa ci ha formato e fatti tutti migliori.

Saranno nuovi artigiani a permetterci nuove esperienze artistiche quando domani dovremo e potremo viaggiare meno? O dovremo accontentarci di documentari e App sempre più sofisticati? O inventeremo qualcos’altro che ora non riusciamo neanche a immaginare?

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Oltre il mercato - Il flusso di viaggiatori culturali è cresciuto in modo esponenziale nei secoli, fino a raggiungere dimensioni bibliche negli ultimi decenni. Ma come conciliare la fruibilità dell'arte con la sostenibilità ambientale?

di Luigino  Bruni

pubblicato su Città Nuova il 09/07/2019

I grandi cambiamenti climatici, che sono stati gestiti per troppi anni in modo irresponsabile, rischiano di modificare profondamente anche l’esperienza e l’esercizio di dimensioni decisive della nostra civiltà. Pensiamo, per un esempio importante, all’arte e alla cultura. Il mercato sta entrando sempre più decisamente dentro la gestione del patrimonio artistico e culturale, e lo fa con i suoi meccanismi (i prezzi). In molti Paesi entrare nei musei costa sempre di più, e andare all’Opera a sentire Verdi o Rossini sta diventando un bene di lusso accessibile solo a un’élite sempre più ristretta.

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La bellezza è per tutti

La bellezza è per tutti

Oltre il mercato - Il flusso di viaggiatori culturali è cresciuto in modo esponenziale nei secoli, fino a raggiungere dimensioni bibliche negli ultimi decenni. Ma come conciliare la fruibilità dell'arte con la sostenibilità ambientale? di Luigino  Bruni pubblicato su Città Nuova il 09/07/2019...
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Oltre il mercato - I rischi del reddito di cittadinanza se si sgancia dal lavoro. Quest’ultimo è prezioso perché lega le persone attraverso i reciproci bisogni

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.12/2018

Virtù Disinganno Francesco Queirolo cappella sansevero ridHo recentemente visitato a Napoli la “Cappella del principe di San Severo”, col suo splendido “Cristo velato”. Nei lati ci sono imponenti statue che rappresentano alcune virtù, che in genere non vengono inserite nel classico elenco delle virtù cardinali e teologali. Tra queste mi ha colpito “la virtù del disinganno”, perché particolarmente preziosa e rara oggi. Il disinganno è anche una liberazione dalle illusioni, la cui offerta aumenta molto nei tempi di crisi morale.

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Molti inganni si annidano dentro la sfera economica, anche perché, a causa della sua duplice natura di scienza complessa e di faccenda quotidiana, è particolarmente esposta a inganni, illusioni e manipolazioni. Pensiamo al tema del cosiddetto reddito di cittadinanza, che almeno da 30 anni occupa alcune delle migliori menti (incluso John Rawls, forse il più grande filosofo politico del XX secolo, che, tra l’altro, era contrario a un reddito di cittadinanza generalizzato). Immaginiamo una società dove ciascun individuo svolga soltanto le attività che ama fare. Non esiste alcun “mercato del lavoro”, perché non esiste nessuna domanda e nessuna offerta di lavoro. Cosa dovremmo aspettarci? Semplicemente una grande quantità di attività molto gratificanti per chi le pratica, senza alcuna garanzia che siano anche utili a qualcuno e quindi alla società.

Abbonderebbero gli escursionisti, i vacanzieri, i coltivatori di orti condominiali, allevatori e addestratori di animali e piante, e forse gli inventori di nuovi hobbies (non tutti pacifici e innocui) per riempire il tempo. Al tempo stesso, ci sarà una grande quantità di attività non particolarmente gratificanti per chi le svolge, ma altamente utili e necessarie per la vita in comune. Avremmo pochissimi o zero spazzini, manovali, manutentori delle autostrade, pochissimi infermieri negli hospice, autisti di bus notturni, camerieri. Sarebbe quindi una società di individui tutti concentrati sulle proprie passioni, senza alcuna garanzia di incontrarsi con le passioni e con i bisogni degli altri, o di incontrarsi soltanto all’interno di comunità elettive di persone molto simili.

Una società perfettamente narcisista. In un tale contesto immaginario e quindi estremo, possiamo comunque comprendere che cosa sia nella sua essenza il lavoro umano: è il legame che lega le persone attraverso i reciproci bisogni, è il cemento della società. È la principale cura civile del naturale narcisismo che ci porterebbe a sprofondare nelle cose che ci piacciono.

Il reddito è ciò che emerge dal soddisfacimento dei bisogni, è quel valore aggiunto che si crea mentre ci mettiamo insieme per incrociare bisogni e competenze. Il Pil non è altro che la somma, misurata in moneta, delle transazioni per reciproci bisogni che in un anno accadono in un Paese. Il mio reddito è il frutto della mia capacità di soddisfare un bisogno di qualcun altro (persona fisica o istituzione). Il barbiere guadagna perché taglia i capelli a gente che ne ha bisogno, il consulente offrendo consigli e competenze a persone e imprese che li chiedono. Il reddito e il lavoro sono la prima grammatica del discorso sociale.

Se iniziamo a sganciare il reddito dal lavoro, entriamo in un terreno molto pericoloso. Si capisce subito allora che un reddito, svincolato da un rapporto di reciproci soddisfacimenti di bisogni, mette in crisi la grammatica e il discorso sociale se diventa un sostituto del lavoro. Discorso diverso se il reddito che non viene da lavoro è “sussidiario” al lavoro che non c’è. Grazie alla rivoluzione tecnologica il lavoro vivrà qualche decennio di crescente scarsità, perché molti lavori stanno finendo, e perché i computer offriranno molti servizi oggi assicurati dalle persone. Ma ne nasceranno di nuovi, perché gli esseri umani amano troppo le azioni collettive produttive. Probabilmente il lavoro del futuro non sarà la sola fonte di reddito, ma resterà la più importante nella fase adulta della vita.

Lavoreremo diversamente, di meno, ma possibilmente tutti. E nel frattempo parliamo bene del lavoro, “benediciamolo”, e cacciamo via le illusioni.

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