Economia Civile

Economia della gioia

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Economia della gioia 6/ - Con l’Anno Santo riscopriamo la legge impressa da Dio nel riposo dalle nostre servitù, che dominano nello scorrere della vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/05/2025

 «Se Dio c’è, oggi ha più bisogno di qualcuno che, se non sa dire chi egli è, dica almeno chi non è. Nel senso di una distruzione (o di un tentativo di distruzione) dell’idolo metafisico e imperiale che scambiamo per Dio. La fede può fare a meno di questa operazione, ma può anche soccombere davanti a questo Dio che non c’è».

Paolo de Benedetti, Quale Dio?

Esiste un rapporto profondo tra il Giubileo e le beatitudini. Le beatitudini sono lo shabbat del vangelo, il Giubileo dell’intera Bibbia, l’anno sabbatico della storia, sono quel tempo diverso verso cui tendono, profeticamente, tutti gli altri tempi. Sono l’annuncio di un’altra gioia, della terra promessa libera e non occupata dai nostri affari e dalle nostre armi. Sono il ‘paese del non-ancora’, che da duemila anni giudica la nostra ‘terra del già’ e sempre la giudicherà per provare a convertirla e chiamarla verso un oltre. Le beatitudini sono la mappa per raggiungere il regno e sono anche la sua porta, di quel regno che attraversa, come promessa, le diverse beatitudini di Luca e di Matteo. Parlano quindi di questa vita, non di quella futura, hanno il sapore dei frutti della nostra terra di oggi. Tutta la loro profezia infinita sta in questo loro essere ‘cosa di terra’, sta qui il loro paradosso, perché ci parlano dei nostri poveri, dei nostri perseguitati per causa della giustizia, dei nostri mansueti, dei nostri costruttori di pace; e nella loro terrestrità sta il loro scandalo e oblio, insieme al sarcasmo dal quale sono circondate, ieri e oggi.

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Cancellare la profezia delle beatitudini è molto semplice: basta leggerle come un annuncio che riguarda la vita futura, la vita oltre la morte - i poveri qui in terra sono infelici, ma in paradiso saranno finalmente beati. La vera forza paradossale e straordinaria delle beatitudini sta invece nel pensarle dette e scritte per questa nostra vita sotto il sole, per qui, per ora, per te, per me. Il regno è promessa per questa terra: ‘… perché di essi è il regno dei cieli’, un verbo essere coniugato al presente (‘è’), non al futuro (‘sarà’). È sufficiente trasformare al futuro quel verbo per smarrire la natura delle beatitudini - il ‘verbo’ nei vangeli è qualcosa di molto serio. Le beatitudini stanno dentro il Vangelo come meccanismo di auto-protezione da ogni tentativo di fare della Chiesa un club di cittadini regolari etici e di tranquilli benpensanti, perché da duemila anni continuano a chiamare ‘beati' tutti coloro che noi invece continuamente scartiamo in base alle nostre morali.

Il cristianesimo ha seguito il vangelo in molte cose, molto poco nelle beatitudini. Le ha amate, meditate, pregate, cantate, ma non sono diventate l’umanesimo dei cristiani né, tantomeno, della Christianitas - che cosa potevano essere l’Europa e il mondo, la loro economia e la loro politica, se la civiltà cristiana fosse diventata la civiltà delle beatitudini?! Sono state invece considerate una eccezione dentro lo stesso Vangelo, quasi fossero ospiti in casa di un amico. I cristiani non sono diventati il popolo delle beatitudini. Tutto il Vangelo è stato fin dall’inizio un grido non raccolto e una grande incompiuta, lo sappiamo, lo vediamo, nella storia e ogni giorno. Ma le beatitudini sono l’incompiuta dell’incompiuta, il grido del grido inascoltato. Tutto il Vangelo aspetta da due millenni di essere preso davvero sul serio dalle comunità e dalle società, ma all’interno del Vangelo le beatitudini sono quelle che attendono e gemono di più. I poveri, coloro che piangono, quelli che hanno fame e sono perseguitati, i pacifici, i miti non sono chiamati ‘beati' neanche dai cristiani. Non si entra dentro la logica delle beatitudini e nel loro cielo diverso senza abitarne il paradosso, senza entrare nella logica inedita del regno, un regno che perde sale e lievito quando vogliamo spiegarlo e viverlo uscendo dal suo paradosso essenziale, che inizia con quel ‘beati i poveri’’, che è la prima dell’elenco perché sintesi di tutte quelle che la seguono. È infatti il regno la chiave per entrare nel ‘beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli’ (Luca 6,20). Fuori dal regno le beatitudini non solo non si capiscano, si pervertono, come sanno molto bene coloro che cercano di alleviare le condizioni delle persone indigenti e che a volte vengono ostacolate da interpretazioni perverse del ‘beati i poveri’.

Noi siamo fuori dalla terra diversa del regno. Se siamo onesti lo sappiamo bene, e forse qualche volta ci soffriamo, quando siamo afferrati da un dolore profondo e sottile, da una nostalgia di un’altra casa. Ma la possiamo almeno intravvedere da lontano se non smettiamo di desiderarla, mentre ci nutriamo con le ghiande, magari in ristoranti stellati. Possiamo così intuire che le beatitudini si capiscono alla luce dello shabbat e che il senso cristiano delle shabbat si svela alla luce delle beatitudini, in una mirabile reciprocità. Se, infatti, il Dio biblico e di Gesù ha voluto ogni sette giorni un giorno diverso, se in quel giorno ha impresso una legge che ribalta la legge degli altri sei giorni, allora i poveri, gli afflitti, i piangenti, coloro che sono i più infelici secondo le categorie comuni e nei giorni ordinari della vita, possono essere felici, e lo sono, nel mondo all’incontrario dello shabbat. C’è un giorno in cui gli scartati, gli sconfitti e i perdenti possono sentirsi chiamare beati: è il settimo giorno, ed è un nome vero, non consolatorio. Gesù storico ha criticato e mandato in crisi la lettera dello shabbat - basta leggere i vangeli per accorgersene - non per negare una delle perle della Torah e dei profeti ma per affermare una visione radicale ed escatologica del settimo giorno. Il suo shabbat, il giorno veramente e radicalmente diverso, è quello delle sue beatitudini. Non una faccenda di culto, di regole, di norme, non un giorno diverso che una volta passato viene dimenticato nella prassi degli altri sei, ma un giorno-giudizio su tutti i giorni della storia. Un altro mondo, un’altra società, un’altra economia, un terreno nuovo, fuori le mura, dove collocare il nostro posto di vedetta e da lì guardare il nostro tempo, giudicarlo sulla base delle nostre non-beatitudini, e poi chiamarlo a trasformarsi in attesa di quel regno dove i poveri sono chiamati beati perché lo sono davvero. Shabbat non è l’eccezione che conferma la regola, ma l’eccezione che ha la forza di far esplodere la regola-Legge, se preso veramente sul serio in tutta la sua portata.

Dal posto di vedetta dello shabbat possiamo intuire che ‘Beati i poveri’ è anche la beatitudine dei bambini e quella dei moribondi, che quindi ci ricorda che la vita buona non deve mai dimenticare la verità tremenda e stupenda dell’inizio e della fine, e poi vivere tutti gli altri alla luce di queste alfa e omega. Nel nostro ultimo shabbat sentiremo di nuovo risuonare dalla voce dell’angelo della morte: ‘beati i poveri’ – e coloro che saranno riusciti a conservare una povertà vera fino alla fine si sentiranno benedire con questo bellissimo nome.

Se allora le beatitudini sono lo svelamento del regno dei cieli, allora sono davvero essenziali, se è vero che il cuore dell’annuncio di Gesù sta nell’attesa continua dell’avvento imminente del suo regno. Il cristiano è qualcuno che va a letto la sera con la speranza che domani il regno arriverà finalmente, che il Risorto tornerà, e appena svegliato si rattrista se non è ancora arrivato. E poi continua a sperare, ad operare nell’attesa, e poi il giorno dopo si riaddormenta con la stessa speranza-sogno: è questa la speranza cristiana.

Tutto il regno dei cieli sta dentro il breve tempo del settimo giorno, perché la logica dello shabbat cambia la natura del tempo e lo lega allo spazio. Come l’entrata nel giorno di shabbat - un atto segnato sull’asse del tempo - spezza il ritmo lineare del tempo e lo fa diventare altro, anche l’oltrepassare la soglia del tempio - un atto segnato sull’asse dello spazio - faceva entrare il fedele in un altro tempo non più retto dalla legge spietata di Kronos. Lo shabbat è il tempio del tempo. Per questo salvò, in esilio, il popolo d’Israele: espatriati e con il tempio distrutto, ogni settimana quei deportati entravano nel tempio entrando in shabbat - ‘Shabbat shalom’.

La profezia di Francesco, con la sua oeconomia diversa, si capisce soltanto se lo guardiamo mettendoci dentro quella prima beatitudine, collocandoci con l’anima tra il ‘beati i poveri … ’ e ‘… perché di essi è il regno’. Francesco voleva diventare abitante di quel regno del vangelo, e per questo sposò l’altissima povertà, che vide come la strada buona per trovarlo ed entrarvi. Questo è il miracolo di Francesco, questo il suo paradosso e il suo scandalo generativo. Se non lo leggiamo alla luce del regno e delle beatitudini stravolgiamo il suo mistero, e finiamo per dire che Francesco era povero ma non ‘pauperista’, che amava la povertà ma non la ‘miseria’, che era qualcuno che andava dai poveri ‘per aiutarli’ - la splendida parabola del Buon samaritano non aiuta a comprendere Francesco. Il vangelo muore ogni volta che vogliamo riportarlo dentro la logica del buon senso, della prudenza, dell’equilibrio, della giusta misura. Lo facciamo ogni giorno, e infatti ogni giorno il vangelo muore, e raramente risorge.

Il Giubileo è veramente il tempo delle beatitudini. Potrebbe, dovrebbe essere questo giorno davvero diverso. Il tempo donato per capire le nostre non-beatitudini di debiti non rimessi, di schiavi non liberati, di una terra sempre più asfissiata dai nostri desideri sbagliati. E poi, ogni notte, continuare a sognare l’avvento di un regno diverso. E non smettere più.

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Economia della gioia 6/ - Con l’Anno Santo riscopriamo la legge impressa da Dio nel riposo dalle nostre servitù, che dominano nello scorrere della vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/05/2025

 «Se Dio c’è, oggi ha più bisogno di qualcuno che, se non sa dire chi egli è, dica almeno chi non è. Nel senso di una distruzione (o di un tentativo di distruzione) dell’idolo metafisico e imperiale che scambiamo per Dio. La fede può fare a meno di questa operazione, ma può anche soccombere davanti a questo Dio che non c’è».

Paolo de Benedetti, Quale Dio?

Esiste un rapporto profondo tra il Giubileo e le beatitudini. Le beatitudini sono lo shabbat del vangelo, il Giubileo dell’intera Bibbia, l’anno sabbatico della storia, sono quel tempo diverso verso cui tendono, profeticamente, tutti gli altri tempi. Sono l’annuncio di un’altra gioia, della terra promessa libera e non occupata dai nostri affari e dalle nostre armi. Sono il ‘paese del non-ancora’, che da duemila anni giudica la nostra ‘terra del già’ e sempre la giudicherà per provare a convertirla e chiamarla verso un oltre. Le beatitudini sono la mappa per raggiungere il regno e sono anche la sua porta, di quel regno che attraversa, come promessa, le diverse beatitudini di Luca e di Matteo. Parlano quindi di questa vita, non di quella futura, hanno il sapore dei frutti della nostra terra di oggi. Tutta la loro profezia infinita sta in questo loro essere ‘cosa di terra’, sta qui il loro paradosso, perché ci parlano dei nostri poveri, dei nostri perseguitati per causa della giustizia, dei nostri mansueti, dei nostri costruttori di pace; e nella loro terrestrità sta il loro scandalo e oblio, insieme al sarcasmo dal quale sono circondate, ieri e oggi.

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Beatitudini, “shabbat del Vangelo” che apre un tempo nuovo qui e ora

Beatitudini, “shabbat del Vangelo” che apre un tempo nuovo qui e ora

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Economia della gioia 5/ - L’Anno Santo come tempo propizio per fare memoria della propria liberazione e diventare liberatori per gli altri

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2025

La libertà è un bene speciale. Amiamo molte cose, ma ciò che amiamo è bello e buono se e perché siamo liberi. E se liberi non siamo sacrifichiamo tutti gli altri beni, persino la vita, per diventarlo, pur sapendo che non lo diventeremo mai pienamente e definitivamente, perché il cammino dell’esistenza è un continuo passare da una liberazione ad un’altra. Esiste, infatti, un profondo legame tra libertà e liberazione. Anche se non ne siamo sempre consapevoli, ciò che noi sperimentiamo come libertà - libertà di, libertà da, libertà per, libertà con … - è frutto di una liberazione, di molte liberazioni. Si è liberi perché liberati, da quella prima liberazione stupenda ed essenziale dal grembo materno, per continuare con le molte liberazioni dell’infanzia e della giovinezza (dall’ignoranza, dalla dipendenza economica, materiale, affettiva). Poi per tutta la vita, quando la liberazione prende la forma dell’uscita da ‘trappole di povertà’, dove la mano della vita, degli altri e/o la nostra ci conducono. Fino all’ultima liberazione per mano dell’angelo della morte. In un giorno adulto della vita scopriamo poi che quella nostalgia che ci sorprende in qualche sera, o che si insinua in un sogno ricorrente, non è altro che un profondo desiderio di liberazione. Ci scopriamo bramosi di essere liberati da qualcuno. E finalmente capiamo che anche in quelle che ci sono sembrate, e magari lo erano, auto-liberazioni, c’era, invisibile, la presenza di un’altra mano che sosteneva la nostra: “Il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi” (Jacob Taubes). L’essenza della fede si trova nella consapevolezza, o quantomeno nella speranza, che non solo la vita è dono, ma anche la libertà lo è. E lo è anche quando a liberarci è stata la mano di una persona concreta, o siamo stati noi - questa ‘liberazione di seconda battuta’, che attribuisce le nostre liberazioni a Dio, è un dono collaterale del dono della fede, perché ci libera dai grandi debiti spirituali e morali verso i nostri liberatori terreni: siamo loro grati, ma non ci sentiamo loro debitori. Il sentirci liberati ci libera poi dalla superbia-hybris dell’auto-sufficienza e onnipotenza della nostra mano, che sta diventando la religione più diffusa del nostro tempo, dove l’ego diventa l’unico credente, sacerdote e dio. Il mercato capitalista ama molto questa nuova ‘religione’ di massa, che in Occidente ha già preso il posto del cristianesimo.

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Liberazione è anche l’altro nome del Giubileo e dell’anno sabbatico che ne è la radice. Liberazione degli schiavi dai padroni, dei debitori dai creditori, della terra dal nostro giogo. Nella Bibbia dietro ogni liberazione c’è sempre un’eco della grande liberazione dalla schiavitù dell’Egitto. Ogni shabbat è memoriale di quella liberazione, in ogni anno sabbatico e in ogni Giubileo rivive Mosè, si riapre il mare e il popolo torna ancora libero e scorge il primo brano di terra promessa sulla linea profonda dell’orizzonte. Tutta la Bibbia ci parla di Giubileo, ogni suo libro è irrorato dal suo spirito. Incluso il piccolo libro di Giona, dove non ce lo aspetteremmo.

Giona aveva detto no al comando di Dio che lo aveva inviato a Ninive. Fugge, si imbarca nella direzione opposta verso Tarsis. Si scatena una forte burrasca e la nave sta per affondare. Ma, per un fenomeno di ‘capro espiatorio’ (René Girard), Giona viene gettato dai marinai in mare come vittima sacrificale, per placare gli dèi delle acque. I marinai lo considerano infatti la causa del male che si è scatenato, e Giona si convince di essere davvero lui, per la sua disubbidienza a Dio, l’origine di quella sciagura imminente. Giona finisce tra i flutti ma non muore, perché un pesce-femmina (‘daga’, in ebraico) lo ospita nel suo grembo buono, e dopo tre giorni lo riporta sano e salvo sulla riva. Come nella liberazione dall’Egitto, le acque diventano luogo di una salvezza straordinaria, ancora una liberazione dalla morte che appariva certa.

La storia di Giona ha molto da dirci per comprendere la cultura del Giubileo. Due sono i suoi insegnamenti principali. Innanzitutto, mentre fa l’esperienza della liberazione nel ventre del pesce, Giona prega: “Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce…La mia preghiera è giunta fino a te… La salvezza viene dal Signore” (Giona 2, 3-10). Giona, ci dice la Bibbia, era un profeta, quindi sapeva già pregare. Ma la prima e unica preghiera che troviamo nel suo libro arriva dopo la salvezza dalla morte. Allora in questa preghiera di Giona possiamo trovare una grammatica dell’arte di ricominciare a pregare dopo una grande prova che ci aveva tolto la fede o la preghiera, spesso entrambe. Giona prega perché ha fatto l’esperienza di una liberazione, e poi - condizione sufficiente - attribuisce quella liberazione al suo Dio. Scopre il volto di Dio come liberatore, lo chiama quindi con il suo primo nome. Da adulti - la storia di Giona è anche una iniziazione dei profeti alla vita adulta - molte persone che avevano avuto una gioventù di fede e di preghiera smettono di pregare; la preghiera non ritorna se non si fa l’esperienza di una liberazione e di un liberatore. Perché dopo essere stati liberati (da una malattia grave, da un lutto che sembrava infinito, da una depressione, da un rimorso divorante …), inizia nell’anima qualcosa di davvero importante, una autentica resurrezione. Ci si ritrova a pregare senza accorgersene, la riconoscenza fiorisce naturalmente in preghiera del cuore - la resurrezione è il centro della fede cristiana anche perché non si ritrova la fede, e la preghiera, senza risorgere. Quando nella vita arriva questa consapevolezza di essere stati salvati da qualcuno/a, inizia una stagione tutta nuova e stupenda dell’esistenza. Nasce la gratitudine vera, capiamo cosa è la gratuità, scopriamo un’altra reciprocità, inizia il tempo dell’umiltà buona, che gli altri riconoscono anche quando ne ignorano la radice.

Per questa ragione il Giubileo può diventare il tempo per ricominciare a pregare, in una fede adulta, o per scoprire nuove dimensioni della preghiera. E anche se non riusciamo a fare questa esperienza di essere liberati - queste esperienze non si comprano sul mercato, non si ordinano, non si comandano: accadono e basta, sono tutto dono -, possiamo comunque tentare due strade che generano gli stessi frutti. La prima è fare memoria delle liberazioni che abbiamo avuto nella nostra vita fino ad oggi, incontratane almeno una, attraversare quella porta, e trovarsi nel tempo nuovo della preghiera, o almeno dell’umiltà. Perché ricordare oggi un evento decisivo di ieri e chiamarlo col nome giusto (liberazione), è come riviverlo una seconda volta. L’altra possibilità è diventare soggetti di liberazione per altri, provare a liberare qualcuno da una schiavitù. Fare, in questo, la parte di Dio, imitarlo in quanto liberatore. Il Giubileo passerà invano se non proviamo almeno una di queste liberazioni, se non passeremo attraverso una di queste porte.

Infine, la conclusione del libro di Giona ci svela un’altra dimensione importante della cultura giubilare. Dopo che Giona è stato salvato dal pesce e prega, finalmente obbedisce al comando di Dio, e si reca a predicare a Ninive per annunciare al popolo: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (Giona 3,4). La città - sorprendendo anche Giona che si arrabbierà molto per questo - crede alla parola di Giona, e si converte: “Bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli” (3,5). Il re poi emette un decreto per indire una grande penitenza generale di tutto il popolo, dove troviamo un dettaglio straordinario: “Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco” (3,7-8).

Anche gli animali ‘si coprono di sacco’, quindi, anche la loro penitenza diventa necessaria per la conversione e il perdono. Un brano di alta profezia, che oggi dovrebbe parlarci molto forte, più di ieri. Gli animali - e le piante e tutta la creazione - non erano responsabili dei peccati di Ninive, come oggi non sono responsabili del degrado ecologico del nostro pianeta. Ma non riusciremo a salvarci e salvarli senza un coinvolgimento di tutte le specie viventi nella soluzione del problema. Il problema lo abbiamo generato noi umani, ma, per una solidarietà oggettiva e reale di tutto il creato, non usciremo da questa gravissima crisi ambientale se anche gli animali e le piante ‘non si vestiranno di sacco’. Ormai il male è comune, anche il bene dovrà essere comune. Chi ha tentato una soluzione vera e seria di un problema collettivo e comunitario, sa che l’analisi delle colpe passate può aggravare la crisi se, un giorno, tutti insieme, innocenti e colpevoli, non decidiamo di ‘vestire di sacco’ e guardare finalmente al futuro. Questa partecipazione degli animali alla conversione di Ninive è espressione piena della cultura dello shabbat: se nel ‘settimo giorno’ anche gli animali partecipano al riposo della creazione, se in quel giorno anche l’animale smette di lavorare, allora i due lavori e i due destini sono intrecciati e inseparabili, nel bene e nel male.

La notizia stupenda è che gli animali e le piante stanno già vestendo di sacco. Gli alberi e gli oceani stanno assorbendo molta della C02 che noi produciamo, mitigando così i danni che senza di loro avrebbero già reso invivibile (per noi) il pianeta. Loro, innocenti, hanno già indossato il sacco, hanno iniziato la penitenza della terra: ma noi, umani, quando lo indosseremo?

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Economia della gioia 5/ - L’Anno Santo come tempo propizio per fare memoria della propria liberazione e diventare liberatori per gli altri

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2025

La libertà è un bene speciale. Amiamo molte cose, ma ciò che amiamo è bello e buono se e perché siamo liberi. E se liberi non siamo sacrifichiamo tutti gli altri beni, persino la vita, per diventarlo, pur sapendo che non lo diventeremo mai pienamente e definitivamente, perché il cammino dell’esistenza è un continuo passare da una liberazione ad un’altra. Esiste, infatti, un profondo legame tra libertà e liberazione. Anche se non ne siamo sempre consapevoli, ciò che noi sperimentiamo come libertà - libertà di, libertà da, libertà per, libertà con … - è frutto di una liberazione, di molte liberazioni. Si è liberi perché liberati, da quella prima liberazione stupenda ed essenziale dal grembo materno, per continuare con le molte liberazioni dell’infanzia e della giovinezza (dall’ignoranza, dalla dipendenza economica, materiale, affettiva). Poi per tutta la vita, quando la liberazione prende la forma dell’uscita da ‘trappole di povertà’, dove la mano della vita, degli altri e/o la nostra ci conducono. Fino all’ultima liberazione per mano dell’angelo della morte. In un giorno adulto della vita scopriamo poi che quella nostalgia che ci sorprende in qualche sera, o che si insinua in un sogno ricorrente, non è altro che un profondo desiderio di liberazione. Ci scopriamo bramosi di essere liberati da qualcuno. E finalmente capiamo che anche in quelle che ci sono sembrate, e magari lo erano, auto-liberazioni, c’era, invisibile, la presenza di un’altra mano che sosteneva la nostra: “Il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi” (Jacob Taubes). L’essenza della fede si trova nella consapevolezza, o quantomeno nella speranza, che non solo la vita è dono, ma anche la libertà lo è. E lo è anche quando a liberarci è stata la mano di una persona concreta, o siamo stati noi - questa ‘liberazione di seconda battuta’, che attribuisce le nostre liberazioni a Dio, è un dono collaterale del dono della fede, perché ci libera dai grandi debiti spirituali e morali verso i nostri liberatori terreni: siamo loro grati, ma non ci sentiamo loro debitori. Il sentirci liberati ci libera poi dalla superbia-hybris dell’auto-sufficienza e onnipotenza della nostra mano, che sta diventando la religione più diffusa del nostro tempo, dove l’ego diventa l’unico credente, sacerdote e dio. Il mercato capitalista ama molto questa nuova ‘religione’ di massa, che in Occidente ha già preso il posto del cristianesimo.

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La vera libertà è sempre un dono. Il Giubileo aiuta a comprenderlo

La vera libertà è sempre un dono. Il Giubileo aiuta a comprenderlo

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Economia della gioia 4/ - Dall’esilio del popolo ebraico a Babilonia emerge la semplicità della fede autentica, che si affina e si spoglia nel tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/04/2025

Nella visione profetica di Ezechiele la casa di Dio si trasforma in un fiume, simbolo di una spiritualità che supera i luoghi sacri materiali e muta in acqua viva, laica e concreta

La vita spirituale comincia nella semplicità assoluta - ‘E c’era soltanto una voce’. Presto però si complica mentre si arricchisce, perché la prima voce nuda della giovinezza diventa culto, religione, tempio, oggetti sacri, dogmi. Ma alla fine, dopo molto tempo, se la vita funziona e non ci butta fuoristrada in qualche curva particolarmente ostica e cieca, si ritorna semplici e poveri. E lì, a piedi scalzi, si capisce finalmente che nella vita conta solo provare a diventare sempre più piccoli e semplici per provare a passare attraverso l’asola dell’ago dell’angelo - perché qualsiasi oggetto e suppellettile religioso che ci portiamo dietro ci impediscono il passaggio. Passeranno soltanto quella prima voce sottile, forse un amico buono, e un brandello di verità su noi stessi. Trascorriamo buona parte della vita a cercare Dio nei templi e nei luoghi del sacro, per accorgerci, quasi sempre troppo tardi o alla fine, che quanto cercavamo si trovava, semplicemente, dentro casa, nelle semplici faccende di tutti i giorni, tra le stoviglie e la credenza. Ma non potevamo saperlo prima dell’attraversamento dell’ultima cruna.

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Continuiamo lo studio del Giubileo biblico. Secondo una antica tradizione ebraica, la grandiosa visione del tempio del profeta Ezechiele cadde “nell’anno del Giubileo” (Talmud Arakhin 12b,6). Il Talmud cita infatti lì l’inizio del capitolo 40 di Ezechiele, che contiene il racconto di quella stupenda teofania, un centro di gravità di tutta la Bibbia: “Nell’anno venticinquesimo della nostra deportazione, al principio dell'anno, il dieci del mese, quattordici anni da quando era stata presa la città [Gerusalemme], in quel medesimo giorno, la mano del Signore fu sopra di me ed egli mi condusse là” (Ezechiele 40,1). Un evento collocato sugli assi del tempo e dello spazio con la solennità di un testamento - perché di testamento, in realtà, si tratta.

Questa tradizione talmudica, situando la visione del tempio di Ezechiele in un anno giubilare, ci dice qualcosa di molto utile per la comprensione della natura e della cultura del Giubileo. Alcune coordinate storiche sono forse necessarie. Ezechiele, profeta tra i massimi, svolse la sua missione in esilio, perché a venticinque anni finì in Babilonia durante la prima deportazione (del 598 a.c.), quella che riguardò le elite tecniche e intellettuali. Dobbiamo poi tener sempre presente un altro elemento essenziale. Molte delle parole che la Bibbia ci ha lasciato sul Giubileo e sulla cultura sabbatica che ne rappresenta la radice, furono scritte o completate durante l’esilio babilonese. Sarebbero state molto diverse, certamente meno profetiche, senza Ezechiele, senza il cosiddetto ‘secondo Isaia’ (l’autore, tra l’altro, dei ‘canti del servo di YHWH’), e, sebbene in modo diverso, senza Geremia. Le norme del Giubileo sono parte della Legge, ma non si comprendono senza i profeti. Il Giubileo è, infatti, Legge e Spirito, istituzione e profezia, già e non ancora. Ezechiele aveva profetizzato la distruzione del tempio anni prima che questa si compisse, e aveva fatto di quella futura distruzione il centro del suo messaggio profetico, che rappresenta una vetta, forse la vetta, della profezia biblica. A Babilonia non c’era tempio, c’erano i santuari degli altri dei, falsi e bugiardi. A Gerusalemme, il tempio dell’unico Dio vero sarebbe stato distrutto, profetizzava il giovane Ezechiele, e così accadde. Ad Ezechiele, che era anche sacerdote (senza tempio), spettò il compito decisivo di dover insegnare al popolo che il Dio vero, diversamente dagli idoli, non ha bisogno del recinto sacro del tempio per essere presente e operare. Il dato fattuale dell’assenza di tempio in esilio e della sua distruzione in patria, divenne dato teologico ed etico: il tempio non è necessario per la fede, anzi può diventarne facilmente ostacolo. L’esilio fu una immensa distruzione creatrice della fede d’Israele. Tornando piccoli, poveri, azzerati dalla sconfitta teologica e politica più grande, in quegli esiliati si compì qualcosa di straordinario che segnò l’inizio di una nuova era religiosa: l’età dello spirito, del Dio presente fuori dal tempio e in ogni luogo, quindi l’epoca della laicità vera, della religione della terra. In quella visione del tempio, Ezechiele supera in un attimo millenni di religione materiale che aveva bisogno di vedere statue e immagini nei templi e nei santuari per sentire la presenza della divinità. Non lo potevano sapere, ma in Babilonia quei deportati iniziarono ad adorare Dio ‘in spirito e verità’.

Infatti, la visione di Ezechiele inizia con un nuovo tempio e finisce con la meravigliosa e potente immagine di un fiume, in una pagina tra le più alte di tutta la letteratura antica, che ci lascia ancora incantati: “Mi condusse poi all'ingresso del tempio e vidi che sotto la soglia del tempio usciva acqua verso oriente… Quell'acqua scendeva sotto il lato destro del tempio, dalla parte meridionale dell'altare. Mi condusse fuori dalla porta settentrionale e mi fece girare all'esterno, fino alla porta esterna rivolta a oriente, e vidi che l'acqua scaturiva dal lato destro… Era un torrente che non potevo attraversare, perché le acque erano cresciute; erano acque navigabili, un fiume che non si poteva passare a guado. Allora egli mi disse: «Hai visto, figlio dell'uomo?».” (Ez 47,1-6). Il tempio diventa sorgente e poi fiume. Una sintesi dell’umanesimo biblico. L’acqua dello spirito che feconda la terra, non è donata per lavare gli scolatoi del sangue dei sacrifici sotto l’altare del tempio. E come la Legge, anche il tempio è un pedagogo, che un giorno deve mettersi da parte per far posto al contatto immediato con l’acqua viva. La piazza sarà il nuovo nome del tempio. Qui il giovane sacerdote Ezechiele muore e risorge nel vecchio profeta.

In realtà, noi sappiamo che nonostante la visione di Ezechiele e le parole simili dei Vangeli, di Paolo e dell’Apocalisse, l’homo religiosus di ieri e di oggi ha dimenticato mille volte il senso profondo di quella profezia. Anche i cristiani hanno recintato Dio nei luoghi del sacro, gli hanno consacrato cose e persone, e si sono dimenticati della visione di Ezechiele. Perché alle donne e agli uomini religiosi piacciono più i santuari dei fiumi, più le messe delle piazze, più l’odore dell’incenso di quello della cucina o delle fabbriche. E così, ogni giorno, trasformiamo la fede in un bene di consumo, il tempio in un divano, il Giubileo in un attraversamento di una porta, la religione in una zona di comfort, e Dio ritorna incatenato nei luoghi angusti che noi gli prepariamo senza chiedergli il permesso. La Bibbia lo sa bene, certamente lo sanno i suoi profeti; e per questo ha custodito per noi la visione di un profeta al quale, ormai vicino alla fine della sua missione, in un giorno adulto (aveva ormai più di cinquant’anni, di cui venticinque trascorsi in esilio) lo Spirito fece vedere il nuovo tempio-fiume nella nuova Gerusalemme - e la sua profezia è compiuta. Il tempio si dissolve per diventare acqua che irriga e disseta la terra.

E infine torniamo al Giubileo. È in questo contesto del tempio-sorgente universale e laica, dove troviamo infatti alcune indicazioni economiche: “Abbiate bilance giuste, efa giusta, bat giusto.… Questa sarà l'offerta che voi preleverete: un sesto di efa per ogni homer di frumento e un sesto di efa per ogni homer di orzo… Dieci bat corrispondono a un homer. Dal gregge, dai prati fertili d'Israele, una pecora ogni duecento. Questa sarà data per le oblazioni, per gli olocausti, per i sacrifici di comunione” (Ez 45,10-15). Se il tempio diventa acqua, se il luogo della religione è la strada, non può stupirci che per il Talmud queste sono norme giubilari. E così, nel cuore di questi capitoli tutti consacrati ad una delle più grandi teofanie bibliche, Ezechiele ci parla di bilance, di efa, di bat, di homer (unità di peso e di misura), di monete, di pecore, ci parla di tasse, perché di tasse in effetti si tratta.

Cosa c’entrano le tasse con il nuovo tempio-sorgente? Noi sappiamo che nel mondo antico, Israele compreso, il tempio era anche il centro di raccolta e di impiego delle tasse, in particolare delle decime sui prodotti agricoli. Ma perché si parla di tasse anche nel nuovo non-tempio ormai divenuto grandi acque? La risposta è semplice. Nella Bibbia le tasse non sono né furto, né usurpazione né strumento di guerra, né, tantomeno, dazi: sono reciprocità, espressione della regola d’oro e della legge di comunione che deve ispirare la vita del popolo. Non capiamo, infatti, la Bibbia se non leggiamo la liberazione dall’Egitto insieme alle tasse, la Legge di Mosè con le monete, gli angeli e le visioni insieme ai contratti e ai debiti, i denari di Giuda e del buon Samaritano con il sepolcro vuoto. Ma noi, che abbiamo dimenticato la Bibbia e i vangeli, pensiamo che le cose davvero importanti della fede siano le parole celesti, le preghiere, le apparizioni, e così releghiamo l’economia e la finanza a materia bassa, alle ‘cose di quaggiù’, a faccende secondarie per addetti ai lavori, alle mense dei diaconi. Riduciamo a poca cosa sia la fede che l’economia, entrambe snaturate e pervertite, e poi le collochiamo in un regno di tenebre dove mammona diventa Dio, e Dio diventa mammona. E invece la Bibbia ci ripete in continuazione che le tasse sono shabbat, hanno la stessa importanza del giubileo, della spigolatura di Rut, del roveto ardente e del mare aperto: “Così dice YHWH: Basta, prìncipi d'Israele, basta con le violenze e le rapine! Agite secondo il diritto e la giustizia; eliminate le vostre estorsioni dal mio popolo” (Ez 45,9).

Solo se teniamo assieme l’Ezechiele della visione del nuovo tempio con l’Ezechiele che dice ‘basta’ alle ingiustizie economiche, la Bibbia diventa liberazione e ci aiuta oggi a dire anche noi ‘basta’ alle violenze, alle rapine e alle estorsioni dei nostri potenti e dei nostri re, anche se non lo facciamo mai abbastanza. Sono queste le verità umili, terrestri e laiche che ci donano i profeti, per insegnarci anche il vero senso del Giubileo.

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Economia della gioia 4/ - Dall’esilio del popolo ebraico a Babilonia emerge la semplicità della fede autentica, che si affina e si spoglia nel tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/04/2025

Nella visione profetica di Ezechiele la casa di Dio si trasforma in un fiume, simbolo di una spiritualità che supera i luoghi sacri materiali e muta in acqua viva, laica e concreta

La vita spirituale comincia nella semplicità assoluta - ‘E c’era soltanto una voce’. Presto però si complica mentre si arricchisce, perché la prima voce nuda della giovinezza diventa culto, religione, tempio, oggetti sacri, dogmi. Ma alla fine, dopo molto tempo, se la vita funziona e non ci butta fuoristrada in qualche curva particolarmente ostica e cieca, si ritorna semplici e poveri. E lì, a piedi scalzi, si capisce finalmente che nella vita conta solo provare a diventare sempre più piccoli e semplici per provare a passare attraverso l’asola dell’ago dell’angelo - perché qualsiasi oggetto e suppellettile religioso che ci portiamo dietro ci impediscono il passaggio. Passeranno soltanto quella prima voce sottile, forse un amico buono, e un brandello di verità su noi stessi. Trascorriamo buona parte della vita a cercare Dio nei templi e nei luoghi del sacro, per accorgerci, quasi sempre troppo tardi o alla fine, che quanto cercavamo si trovava, semplicemente, dentro casa, nelle semplici faccende di tutti i giorni, tra le stoviglie e la credenza. Ma non potevamo saperlo prima dell’attraversamento dell’ultima cruna.

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Quando il tempio diventa sorgente e anche le tasse si fanno Giubileo

Quando il tempio diventa sorgente e anche le tasse si fanno Giubileo

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Economia della gioia 3/ La cultura giubilare attraversa la Bibbia in profondità come nei due episodi cruciali del libro di Neemia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 08/04/2025

La cultura giubilare non va cercata soltanto nei testi che regolano espressamente il Giubileo o l’anno sabbatico. In diversi libri della Bibbia ci sono, infatti, passaggi che contengono dimensioni decisive per comprendere l’umanesimo del giubileo. Dopo l’analisi del libro di Geremia, ora guardiamo da vicino un capitolo del libro di Neemia, un alto funzionario (coppiere) della corte del re persiano Artaserse (465-424 a.c.). Neemia era un ebreo laico nato in esilio, che, come Ester, arrivò alle più alte cariche di corte, e poi divenne governatore della Giudea sotto l’occupazione persiana. Neemia, mentre si trovava a Susa, venne a conoscenza della condizione misera dei giudei di Gerusalemme: “I superstiti che sono scampati alla deportazione sono là, nella provincia, in grande miseria e desolazione; le mura di Gerusalemme sono devastate” (Ne 1,3). Neemia sentì una chiamata (cap. 2), chiese al re di essere inviato a Gerusalemme per ricostruirla. Quando, infatti, un parte degli esiliati in Babilonia tornò in patria, la convivenza con gli ebrei restati a Gerusalemme non fu facile. C’erano evidenti ragioni economiche e patrimoniali - le terre dei deportati erano, almeno in parte, passate alle famiglie rimaste e ora venivano reclamate -; ma c’erano anche ragioni teologiche e religiose: chi era scampato alla deportazione tendeva a trattare i deportati come colpevoli che avevano meritato l’esilio (operazioni molto comuni in molte comunità).

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Mentre Neemia inizia a ricostruire le mura insieme alla dignità del suo popolo di Gerusalemme, il suo libro ci riporta un episodio molto importante: “Si alzò un gran lamento da parte della gente del popolo e delle loro mogli contro i loro fratelli Giudei. Alcuni dicevano: «I nostri figli e le nostre figlie sono numerosi; prendiamoci del grano per mangiare e vivere!»”. Neemia fu “molto indignato” da quanto ascoltato. E poi si rivolse ai nobili e ai magistrati: “Voi esigete dunque il pagamento di un interesse tra fratelli?”. Convocò il suo popolo e disse: “Quello che voi fate non va bene… Condoniamo questo debito! Rendete loro oggi stesso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti e le loro case e l'interesse del denaro del grano»”. Risposero: “Restituiremo e non esigeremo più nulla da loro”. Allora, “tutta l'assemblea disse: «Amen» e lodarono il Signore. Il popolo si attenne a questa parola” (5,1-13). Un meraviglioso amen economico e finanziario, tutto laico e tutto spiritualissimo.

Molto importante è anche il grido delle ‘mogli’ verso i maschi della comunità. Parole antiche e forti che dovrebbero farci riflettere molto su una dolorosa costante della storia umana. È la mitezza infinita e la pazienza eroica delle mogli e delle donne che nei millenni hanno subito violenze per guerre scatenate da maschi, e continuano a subirle. Una profonda e vasta sofferenza tutta femminile, impotente ed innocente, che attraversa i luoghi e tempi, tutte le culture. Un colossale patrimonio etico dell’umanità, un dolore collettivo millenario, che meriterebbe almeno il Nobel per la pace, attribuito alle donne di ieri e di oggi, che non solo hanno accudito la pace e combattuto dentro le case e nelle piazze tutte le guerre, ma sono state e sono le prime che subiscono nei loro corpi e nella loro anima le devastazioni e le atrocità di tutte le guerre. I maschi combattevano e combattono le guerre nei campi di battaglia e nelle macchine di morte, le donne le combattono nella loro carne e in quella dei loro figli e mariti: una sofferenza raddoppiata, moltiplicata, infinita. “Ho sempre in mente quanto raccontato da Teresa Mattei, la più giovane delle ventuno costituenti: quando si votò la Costituzione, più in specifico l’articolo 11 relativo al ripudio della guerra, le donne, di qualsiasi appartenenza politica fossero, si presero per mano. Ancora oggi mi emoziono quando leggo questo ricordo” (Lucia Rossi, Segreteria Spi-CGIL). Una stupenda immagine della grande e tenace alleanza di donne per la pace, per dire con il linguaggio muto del corpo e delle mani il loro ripudio assoluto della guerra. Quella splendida solidarietà tra donne che ancora sopravvive, con fatica, è maturata nei secoli durante le guerre, quando hanno imparato a custodire la vita e la speranza in un mondo di maschi che l’uccidevano mille volte con le armi, con i gesti e con le parole sbagliate - il primo potere è sempre quello del linguaggio con cui si scrivono tutti i discorsi e si controllano tutte le parole. Questo lamento e protagonismo delle donne ci rivela un'altra dimensione fondativa della cultura giubilare, che durante la storia della cristianità abbiamo dimenticato relegando le donne al ruolo di comparse nei fondali delle chiese, nei canti, negli ‘amen' liturgici, nelle code delle processioni.

Questo atto di Neemia e delle donne è allora uno degli episodi più belli della Bibbia che ci dice, tra l’altro, che il grande dolore di settant’anni di esilio babilonese non era stato sufficiente per far sì che le leggi mosaiche sul divieto di prestito a interesse diventassero una cultura diffusa tra la gente - come oggi non è sufficiente inserire qualche donna in politica per cambiare la cultura della guerra. I peccati economici continuavano anche dopo il ritorno in patria (538 a.c.). Ma dal grande trauma dell’esilio lungo i fiumi di Babilonia il popolo aveva imparato l’importanza essenziale della cultura sabbatica e quindi della remissione dei debiti e della liberazione degli schiavi. La Bibbia è anche la custode segreta e discreta di pochi gesti diversi, a volte soltanto di uno, perché noi li possiamo trasformare in seme.

Il senso pieno di questo grande episodio si apre solo se lo leggiamo insieme al capitolo otto dello stesso libro di Neemia, in uno dei brani più noti e importanti di tutta la Bibbia, che ha come protagonista il sacerdote Esdra. È un momento cruciale della rifondazione religiosa e comunitaria del popolo, di una rara forza lirica. Eccolo: “Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della Legge di Mosè… Esdra portò la Legge davanti all'assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere… Come Esdra ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani … Tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge” (cap. 8, 1-9). Altri amen, bellissimi - che bello sarebbe poter ripetere uno di questi ‘amen’ come nostra ultima parola su questa terra!

Questo racconto non è soltanto un punto d’origine (forse il punto) della tradizione dell’uso liturgico e comunitario della Scrittura; è anche il dono della parola, della Torah a tutto il popolo - la lettura durò molte ore, e tutti stavano in piedi. Non più monopolio degli scribi e dei sacerdoti, qui la parola diventa elemento essenziale di un nuovo patto sociale, di una resurrezione collettiva - la parola popolo è ripetuta dodici volte. E l’esilio è davvero terminato. Ci sono stati altri momenti nella storia d’Israele di trasmissione della parola. Ma la Bibbia ci ha voluto donare questo momento diverso, un atto solenne presentato con la stessa forza di un testamento, per segnare l’inizio di un tempo nuovo, che può essere il nostro tempo.

C’è poi un dettaglio importante: quell’assemblea del popolo si svolge ‘sulla piazza davanti alla porta delle Acque’. Questo evento liturgico e spirituale decisivo non si compie quindi nel tempio, a dirci che la Parola ha priorità sul tempio - va ricordato che a Gerusalemme il tempio non aveva mai smesso di funzionare. Allora in questo brano troviamo una fondazione della vera laicità biblica: la parola può essere annunciata, forse deve essere annunciata nella piazza, in mezzo alle strade della città, dove poi continua a camminare in ‘processione’ - una processione civile che ricorda le processioni che si facevano in occasione delle fondazioni dei primi Monti di Pietà nel Quattrocento. Da quel giorno sappiamo che per proclamare la parola di Dio non c’è luogo più liturgico di una strada, di una piazza, di un mercato. Con quella piazza di fronte alla porta delle Acque torna la prima piccola tenda che alle pendici del Sinai copriva l’Arca dell’alleanza con dentro le tavole della Torah. Quella tenda un giorno divenne il grande tempio di Salomone, ma nel popolo non si era mai spenta la nostalgia di quella prima tenda mobile, della sua povertà e libertà, quando ‘c’era soltanto una voce’. E sta sempre qui la radice della profezia con cui si chiude la Bibbia: nella nuova Gerusalemme “non vidi alcun tempio” (Ap 21,22), e ‘l’albero della vita’ si trovava “in mezzo alla piazza della città” (22,2).

E ora torniamo alla cultura giubilare. La nuova fondazione comunitaria liturgica, la laicità della piazza che superò la sacralità del tempio, fu preparata dal patto economico-sociale della remissione dei debiti, generato dal grido delle donne del capitolo cinque. Neemia prima ristabilì la comunione e la giustizia nell’ordine delle relazioni sociali, dei beni e dei debiti, e solo dopo rifondò la liturgia e donò la parola. Un messaggio di un valore immenso. Neemia fece l’assemblea in piazza perché quell’assemblea liturgica era già assemblea politica e sociale.

Le riforme religiose, liturgiche, ‘spirituali’ che non sono precedute da riforme economiche, finanziarie e sociali non sono soltanto inutili: sono estremamente dannose perché finiscono per dare un crisma sacrale alle ingiustizie, alle relazioni sociali sbagliate e ai soprusi.

Anche questo nostro giubileo non passerà invano se prima degli attraversamenti delle porte sante e delle indulgenze plenarie saremo capaci di nuovi patti sociali, di cancellare qualche debito, di liberare almeno uno schiavo, di ascoltare il grido delle donne e dei poveri. Ma, ad oggi, non sembra che questi atti giubilari siano all’ordine del giorno delle nostre comunità.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 08/04/2025

La cultura giubilare non va cercata soltanto nei testi che regolano espressamente il Giubileo o l’anno sabbatico. In diversi libri della Bibbia ci sono, infatti, passaggi che contengono dimensioni decisive per comprendere l’umanesimo del giubileo. Dopo l’analisi del libro di Geremia, ora guardiamo da vicino un capitolo del libro di Neemia, un alto funzionario (coppiere) della corte del re persiano Artaserse (465-424 a.c.). Neemia era un ebreo laico nato in esilio, che, come Ester, arrivò alle più alte cariche di corte, e poi divenne governatore della Giudea sotto l’occupazione persiana. Neemia, mentre si trovava a Susa, venne a conoscenza della condizione misera dei giudei di Gerusalemme: “I superstiti che sono scampati alla deportazione sono là, nella provincia, in grande miseria e desolazione; le mura di Gerusalemme sono devastate” (Ne 1,3). Neemia sentì una chiamata (cap. 2), chiese al re di essere inviato a Gerusalemme per ricostruirla. Quando, infatti, un parte degli esiliati in Babilonia tornò in patria, la convivenza con gli ebrei restati a Gerusalemme non fu facile. C’erano evidenti ragioni economiche e patrimoniali - le terre dei deportati erano, almeno in parte, passate alle famiglie rimaste e ora venivano reclamate -; ma c’erano anche ragioni teologiche e religiose: chi era scampato alla deportazione tendeva a trattare i deportati come colpevoli che avevano meritato l’esilio (operazioni molto comuni in molte comunità).

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Il Giubileo inizia fuori dal tempio con azioni concrete e «in piazza»

Il Giubileo inizia fuori dal tempio con azioni concrete e «in piazza»

Economia della gioia 3/ La cultura giubilare attraversa la Bibbia in profondità come nei due episodi cruciali del libro di Neemia di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 08/04/2025 La cultura giubilare non va cercata soltanto nei testi che regolano espressamente il Giubileo o l’anno sabbatico....
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Economia della gioia 2/ Cosa insegna la vicenda biblica della liberazione degli schiavi durante l’assedio babilonese a Gerusalemme

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/03/2025

La cultura sabbatica e giubilare informa l’intero umanesimo biblico. La celebrazione settimanale dello shabbat, e poi dell’anno sabbatico ogni sette anni e infine del Giubileo, utilizzavano il ritmo ciclico per creare una vera e propria cultura sabbatica. Anche la Chiesa per secoli ha usato il metodo ciclico della liturgia e delle feste per creare la cultura cristiana e la christianitas. Ogni cultura popolare nasce dal culto, quindi da azioni ripetute, quotidiane e cicliche. Lo vediamo bene con il capitalismo e i suoi molti culti di acquisto, incluso l’ultimo rito di entrare in un negozio, pagare 20 euro per ricevere ‘alla cieca’ un pacco mai ritirato dall’acquirente - prima dell’avvento della religione capitalistica, con questi pacchi orfani avremmo fatto pesche di beneficienza. Per questa ragione, nella storia biblica i gesti sabbatici non seguivano soltanto il ritmo settennale. Si potevano svolgere anche al di fuori dell’anno sabbatico o del giubileo, come sappiamo, tra l’altro, da un importante episodio narrato dal profeta Geremia - i profeti sono essenziali per capire la cultura giubilare biblica.

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Siamo a Gerusalemme, che è da tempo assediata da Nabucodonosor e dal suo esercito babilonese, un assedio che porterà alla distruzione della città del 587 a.C. (o 586), e poi all’esilio. Il regno di Giuda aveva già perso autonomia. Dieci anni prima, al tempo della prima deportazione, Nabucodonosor aveva deportato l’allora re Ioiakìm e al suo posto aveva messo Sedecia, l’ultimo re del regno di Giuda, un re che “fece ciò che è male agli occhi del Signore” (2 Re 24,19). Questo re, piccolo e debole, durante i lunghi mesi di assedio di Gerusalemme compie un gesto importante: “Questa parola fu rivolta a Geremia da parte di YHWH dopo che il re Sedecia ebbe concluso un patto con tutto il popolo che si trovava a Gerusalemme, di proclamare la libertà degli schiavi: ciascuno doveva rimandare libero il suo schiavo ebreo e la sua schiava ebrea, così che nessuno costringesse più alla schiavitù un suo connazionale. Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e la propria schiava, così da non costringerli più alla schiavitù” (Ger 34,8-10). Siamo di fronte ad un probabile fatto storico. Sedecia, forse come sua ultima risorsa politico-religiosa per scongiurare la sconfitta totale e su consiglio di Geremia, stipula con il popolo un patto, un gesto che somiglia molto ad un anno sabbatico. Ripete, sembra, addirittura il rito dell’alleanza di Abramo, con il passaggio dei contraenti in mezzo alle due parti del vitello squartato (34,17-21). Questo gesto giubilare riguardava in particolare la liberazione degli schiavi. In quel tempo un ebreo diventava schiavo di un altro ebreo per debiti. Erano schiavi economici. La Legge ricevuta da Mosè stabiliva che la schiavitù economica non potesse durare più di sei anni (il più antico codice di Hammurabi prevedeva un massimo tre anni: § 117). In quella cultura la schiavitù non poteva essere per sempre, un fallimento sul piano economico non doveva diventare una condanna a vita, un ergastolo civile, l’economia non era l’ultima parola sulla vita. Gli schiavi non si liberano, i debiti non si cancellano se tra di noi non c’è un patto più profondo dei contratti. Millenni dopo la legge biblica, abbiamo scritto costituzioni e codici che per certi versi sono più umani e etici della Legge-Torah (grazie anche al seme biblico diventato albero), ma non siamo stati capaci di immaginare un tempo diverso di liberazione dei molti schiavi e dei troppi debiti degli sventurati, perché abbiamo cancellato ogni patto che fosse più profondo dei contratti.

Geremia sapeva che la legge sabbatica non era stata rispettata nei tempi passati: “Così dice il Signore, Dio d'Israele: Io ho concluso un patto con i vostri padri quando li ho fatti uscire dalla terra d'Egitto, liberandoli da quella condizione servile. Ho detto loro: «Alla fine di ogni sette anni ognuno lascerà andare il proprio fratello ebreo che si sarà venduto a te; ti servirà sei anni, poi lo lascerai andare via da te libero». Ma i vostri padri non mi ascoltarono e non prestarono orecchio” (34,12-14). I padri non avevano vissuto la cultura sabbatica. Geremia si domandava, quindi, se questa volta le cose sarebbero andate diversamente.

Dal racconto veniamo subito a sapere che il popolo obbedisce, e quindi gli schiavi vengono effettivamente liberati: “Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e la propria schiava, così da non costringerli più alla schiavitù” (34,10). Tutto sembra andare verso una vera conversione, gli schiavi vengono liberati davvero, dopo tanti fallimenti passati. Di fronte all’imminente tragedia più grande, il patto di liberazione di Sedecia sembra aver finalmente successo.

Ma ecco il colpo di scena: quei liberatori “tornarono a prendere gli schiavi e le schiave che avevano messo in libertà e li ridussero di nuovo a essere schiavi e schiave” (34,11). Siamo di fronte a un anti-pentimento, a una conversione perversa che annulla la prima conversione buona. Il popolo cambia idea e ristabilisce l’originaria condizione iniqua. Non sappiamo le ragioni di questo pentimento all’incontrario, ma probabilmente la sua causa principale fu un allentamento provvisorio dell’assedio di Nabucodonosor (34,22). Una ritirata tattica temporanea produsse una nuova ondata di ideologia nazionalistica da parte dei falsi profeti che avevano sempre combattuto Geremia. Nell’estate del 587, infatti, Nabucodonosor sospese l’assedio di Gerusalemme. I falsi profeti, sempre in cerca di appigli per continuare ad illudere il popolo a proprio vantaggio, avevano quindi usato quell’evento temporaneo per convincere il re che anche questa volta (come ai tempi del profeta Isaia e la sconfitta degli Assiri), Dio stava intervenendo, stava arrivando il miracolo: Davide avrebbe di nuovo abbattuto Golia. Fu dunque sufficiente l’attenuazione della grande paura per violare quel patto di liberazione, per rinnegare l’alleanza. Gli schiavi furono liberati per un attimo, il sogno svanì, ritornarono nella casa di schiavitù.

In ogni patto l’elemento cruciale è il tempo. Il patto è un bene di durata. Possiamo e dobbiamo dirci nel giorno delle nozze ‘per sempre’ con tutta la sincerità e verità di cui siamo capaci; possiamo veramente pentirci e promettere di cambiare vita, dirlo a noi stessi e l’un l’altra. Ma solo Dio e i suoi profeti veri possono cambiare la realtà delle cose dicendole. A noi dire le parole non basta per creare una nuova realtà: quella parola deve diventare carne, individuale e collettiva, ha quindi bisogno del tempo. Anche Maria ebbe bisogno di nove mesi. Non possiamo sapere oggi il grado di verità delle parole che sinceramente ora stiamo pronunciando - questa ignoranza sull’esito delle nostre conversioni sincere è parte del repertorio morale dell’homo sapiens, anche dei migliori. Forse, solo alla fine, nell’abbraccio con l’angelo della morte scopriremo la verità-carne delle parole più belle che abbiamo sinceramente detto lungo la nostra vita.

Ma i pentimenti perversi più gravi e tremendi sono quelli collettivi. Quando una comunità o un’intera generazione rinnega le parole e i gesti che i loro profeti avevano detto e fatto in alcuni momenti luminosi della storia. Rialziamo muri che in un giorno più bello avevamo abbattuto, chiudiamo frontiere che in un giorno splendente avevano aperto, facciamo morire i bambini con la pagella bellissima cucita sulla maglietta (non dimentichiamo) in un mare nostrum diventato mare monstrum. E poi, è sufficiente un finto ‘allentamento dell’assedio’ perché i falsi profeti ci convincano che non c’è nessun vera crisi climatica, che noi siamo innocenti, che i colpevoli sono i ghiacciai e i fiumi. È bastato un piccolo cambiamento degli interessi reciproci nella geopolitica per cancellare parole più alte pronunciate dopo grandi ferite collettive, scolpite nelle lapidi delle nostre piazze, nei cimiteri, nelle nostre costituzioni. E noi torniamo sulle carlinghe con le meridiane di morte, seguiamo i pifferai magici che ci convincono ad armare la guerra citando i profeti veri di ieri. Torniamo nelle strade e andiamo in cerca degli schiavi, li imprigioniamo dentro galere fatte di ideologie meritocratiche e leadercratiche, li condanniamo perché colpevoli della loro povertà e sventura. Caino vince ancora su Abele, il fratricidio sulla fraternità, Getzabele elimina di nuovo Nabot, Uria è ancora ucciso da Davide, il Golgota vince sul sepolcro vuoto.

I falsi profeti avevano per anni fatto di tutto per negare la grande crisi e la fine del regno, avevano convinto (quasi) tutti che il vero nemico non era Nabucodonosor ma Geremia che voleva ingannare il popolo con le sue tesi complottiste e disfattiste. Citavano Isaia per confutare Geremia, come noi citiamo De Gasperi per riarmarci, usiamo persino la ‘spada’ nel vangelo per giustificare le nostre spade. Costruiamo nuovi Fortezze Bastiani, vi inviamo nuovi Giovanni Drogo a difenderla da nemici immaginari, per scoprire, forse, alla fine che il vero nemico da combattere era solo la paura di morire della nostra civiltà morente.

La Bibbia e la storia umana sono striate da una profonda lotta tra profeti onesti e profeti falsi. Con una costante: il potere ascolta (quasi) sempre i falsi profeti. E così, anche se qualche volta durante grandi paure e dolori collettivi (guerre, dittature, tragedie, pandemie…), riusciamo a credere ai profeti veri e ci convertiamo, dopo qualche settimana o mese i falsi profeti vincono ancora. E noi torniamo ancora lungo le strade a dare la caccia a quegli schiavi che avevamo liberato in un giorno migliore.

Tornate profeti veri, tornate ora, la città sta per essere ancora distrutta.

Dedicato a Papa Francesco.

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Economia della gioia 2/ Cosa insegna la vicenda biblica della liberazione degli schiavi durante l’assedio babilonese a Gerusalemme

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/03/2025

La cultura sabbatica e giubilare informa l’intero umanesimo biblico. La celebrazione settimanale dello shabbat, e poi dell’anno sabbatico ogni sette anni e infine del Giubileo, utilizzavano il ritmo ciclico per creare una vera e propria cultura sabbatica. Anche la Chiesa per secoli ha usato il metodo ciclico della liturgia e delle feste per creare la cultura cristiana e la christianitas. Ogni cultura popolare nasce dal culto, quindi da azioni ripetute, quotidiane e cicliche. Lo vediamo bene con il capitalismo e i suoi molti culti di acquisto, incluso l’ultimo rito di entrare in un negozio, pagare 20 euro per ricevere ‘alla cieca’ un pacco mai ritirato dall’acquirente - prima dell’avvento della religione capitalistica, con questi pacchi orfani avremmo fatto pesche di beneficienza. Per questa ragione, nella storia biblica i gesti sabbatici non seguivano soltanto il ritmo settennale. Si potevano svolgere anche al di fuori dell’anno sabbatico o del giubileo, come sappiamo, tra l’altro, da un importante episodio narrato dal profeta Geremia - i profeti sono essenziali per capire la cultura giubilare biblica.

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Pace e libertà a rischio per chi segue i falsi profeti

Pace e libertà a rischio per chi segue i falsi profeti

Economia della gioia 2/ Cosa insegna la vicenda biblica della liberazione degli schiavi durante l’assedio babilonese a Gerusalemme di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/03/2025 La cultura sabbatica e giubilare informa l’intero umanesimo biblico. La celebrazione settimanale dello shabbat, ...
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Economia della gioia 1/ Le sorgenti ebraiche avviano il viaggio nel significato di un evento dal potenziale rivoluzionario: perché non siamo i “padroni” di nulla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/03/2025

 Il giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava ‘restituire, mandar via’, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.

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Per capire il giubileo cristiano occorre dunque guardare al giubileo biblico, e per comprendere questo occorre partire dall’anno sabbatico e quindi dallo shabbat, dal sabato. Il luogo della Scrittura fondamentale è il capitolo 25 del Levitico. Li troviamo i tre pilastri del Giubileo: la terra, i debiti, gli schiavi. Nel Giubileo si dovevano compiere, con maggiore radicalità, i gesti di fraternità umana (debiti e schiavi) e cosmica (terra e piante) che si celebrano ogni sette anni nell’anno sabbatico. In quell’anno speciale la terra deve riposare. Inoltre, se un pezzo di terra è stata alienata da una famiglia per bisogno, ciascuno rientra nella proprietà precedente: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. … Non farete né semina né mietitura, né farete la vendemmia delle vigne non potate… Potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi” (Lv 25,10-12). Poi i debiti: “Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te, sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi né utili … Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura.” (Lv 25,35-37). Nelle norme sul Giubileo non si parla esplicitamente della remissione o cancellazione dei debiti, perché essendo il giubileo un anno sabbatico si dà per scontato ciò che già si doveva fare ogni sette anni: “Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto” (Dt 15,1-2). Infine, gli schiavi: “Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te … ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri… Se ne andrà libero l'anno del giubileo: lui con i suoi figli” (Lv 25,39-41,54). E nel libro del Deuteronomio abbiamo dettagli importanti: “Se un tuo fratello si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio” (15,12-14). Non solo lo schiavo sarà liberato, ma la liberazione sarà accompagnata dall’eccedenza del dono. Non si deve restare debitori per sempre, non si è schiavi per sempre: solo per sei tempi, non per il settimo.

L’anno sabbatico segue la stessa logica dello shabbat (sabato), questa stupenda istituzione dell’Antico Testamento senza la quale non si coglie l’umanesimo biblico. Lo shabbat è l’icona massima di quel principio caro a Papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio, perché ponendo un sigillo di gratuità su un giorno della settimana ha sottratto il tempo al dominio assoluto e predatorio degli uomini:perché possano riposare il tuo bue e tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero» (Es 23,11-12). Se in un giorno non puoi sfruttare i tuoi animali, la terra, il lavoratore dipendente, lo straniero, te stesso, allora tu, homo sapiens, non sei il dominus del mondo. Sei solo un suo abitante, come tutti gli altri: hai più potere ma non sei il padrone della terra, del lavoro, degli animali, degli alberi, degli oceani, dell’atmosfera. Perché la terra è sempre terra promessa mai raggiunta, perché ogni bene è un bene comune. E lo è anche quel pezzo di terra della nostra casa, lo sono anche i beni che abbiamo legittimamente acquistato sul mercato, lo è anche il nostro conto in banca. Prima della proprietà privata nel mondo esiste una legge di gratuità più profonda e generale che riguarda tutto e tutti, profezia radicale di fraternità umana e cosmica. La terra non è ‘la roba’ di Mazzarò (G. Verga), i lavoratori non sono schiavi né servi, gli animali non valgono soltanto in rapporto a noi: prima di tutto ogni cosa vale in rapporto a se stessa. Perché, per la Bibbia, ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, ogni contratto è incompleto, nessun uomo è veramente e soltanto straniero, la fraternità viene prima dei debiti e dei crediti, e ne cambia la natura.

Lo shabbat è allora caparra di un altro tempo, del ‘settimo tempo’ di Gioacchino da Fiore e dei francescani, di un tempo messianico quando tutto e tutti saremo solo e sempre shabbat. È quindi la distanza tra la legge dell’anno sabbatico e quella degli altri sei il primo indicatore del capitale etico e spirituale di una civiltà, di ogni civiltà. È la distanza tra il cittadino e il forestiero, tra i nostri diritti e quelli di ogni creatura, tra la terra che uso oggi e quella che lascio ai figli, che dicono la qualità morale della società umana. Quando invece ci dimentichiamo che esiste un giorno diverso e libero che non è in nostro controllo, la terra non respira più, gli animali e le piante valgono solo se messi a reddito, gli stranieri non diventano mai persone di casa, le gerarchie diventano spietate, i leader non sono mai follower, il lavoro non è mai fratello lavoro ma solo schiavo o padrone.

Gesù aveva ben presente il Giubileo, come ci ricorda Luca, che ci mostra Gesù appena tornato a Nazareth che nella sinagoga legge il capitolo di Isaia relativo proprio all’anno giubilare: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19). Un ‘anno di grazia del Signore’ (aphesis), cioè un anno di liberazione: un anno giubilare. Gesù criticava uno shabbat che stava perdendo profezia per dirci che il Regno dei cieli è uno shabbat perenne, un settimo tempo che diventa tutto il tempo nuovo. Ciò che il Deuteronomio assegna all’anno sabbatico - “Che non vi siano dei poveri in mezzo a voi!” (Dt 15,4) - nella nuova comunità del Regno diventerà regola di vita ordinaria: “Tra i credenti, nessuno era nel bisogno” (At 4,34).

È probabile che il popolo d’Israele non celebrò l’anno giubilare lungo la sua storia, ce lo dicono anche le ripetute denunce dei profeti per gli schiavi non liberati, i debiti non rimessi e le terre non restituite. Neanche i cristiani sono riusciti a fare della comunione dei beni la loro economia normale, non sono entrati nell’economia sabbatica del Regno.

Se l’Occidente avesse preso sul serio la cultura del giubileo non avremmo generato il capitalismo o sarebbe stato molto diverso. Il nostro capitalismo è diventato, infatti, l’anti-shabbat, la sua negazione, il suo anticristo, la sua profezia all’incontrario: “Il capitalismo è la celebrazione di un culto ‘senza tregua e senza pietà’. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante” (W. Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921). Non conosce riposo, il lavoro non si toglie mai il suo giogo; nessuna ora, nessun giorno, nessun tempo è diverso dagli altri, la terra è solo una risorsa da sfruttare, meglio se diventa terre rare.

La presenza dell’anno giubilare è nella Bibbia il suo principale dispositivo anti-idolatrico. Una civiltà che consuma tutto il tempo come merce è tecnicamente idolatrica, perché facendosi padrone di tutti i giorni e di tutti i tempi fa di se stessa l’unico dio da venerare. Il capitalismo è idolatria perché ha segnato la morte definitiva del settimo tempo, ha divorato shabbat e domenica trasformandoli nel week-end, che è l’apoteosi del consumismo.

L’anno giubilare è già iniziato da qualche mese. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. Non stiamo facendo respirare la terra, non stiamo liberando nessun debitore e nessuno schiavo. In queste settimane faremo, con questa nuova serie di articoli, un pellegrinaggio attraverso lo spirito del giubileo, nella sua economia della gioia.

Forse il popolo d’Israele scrisse le norme sull’anno giubilare per fare memoria della grande liberazione dall’esilio babilonese, quindi il ritorno degli schiavi a casa e la restituzione della terra. L’enorme trauma dell’esilio babilonese divenne un anno giubilare forzato che Israele fu costretto finalmente a vivere dopo averlo dimenticato per molto tempo: “Nabucodonosor deportò a Babilonia quanti erano scampati alla spada… fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati” (2 Cronache 36, 20). Fu nell’esilio dove il popolo imparò il giubileo. Saremo anche noi costretti ad imparare un’altra economia della terra e delle relazioni sociali da questo esilio ecologico e dalle nuove guerre?

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Economia della gioia 1/ Le sorgenti ebraiche avviano il viaggio nel significato di un evento dal potenziale rivoluzionario: perché non siamo i “padroni” di nulla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/03/2025

 Il giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava ‘restituire, mandar via’, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.

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Il Giubileo, “tempo sabbatico” per far respirare la nostra vita

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