Economia Civile

Economia della gioia

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Economia della gioia 2/ Cosa insegna la vicenda biblica della liberazione degli schiavi durante l’assedio babilonese a Gerusalemme

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/03/2025

La cultura sabbatica e giubilare informa l’intero umanesimo biblico. La celebrazione settimanale dello shabbat, e poi dell’anno sabbatico ogni sette anni e infine del Giubileo, utilizzavano il ritmo ciclico per creare una vera e propria cultura sabbatica. Anche la Chiesa per secoli ha usato il metodo ciclico della liturgia e delle feste per creare la cultura cristiana e la christianitas. Ogni cultura popolare nasce dal culto, quindi da azioni ripetute, quotidiane e cicliche. Lo vediamo bene con il capitalismo e i suoi molti culti di acquisto, incluso l’ultimo rito di entrare in un negozio, pagare 20 euro per ricevere ‘alla cieca’ un pacco mai ritirato dall’acquirente - prima dell’avvento della religione capitalistica, con questi pacchi orfani avremmo fatto pesche di beneficienza. Per questa ragione, nella storia biblica i gesti sabbatici non seguivano soltanto il ritmo settennale. Si potevano svolgere anche al di fuori dell’anno sabbatico o del giubileo, come sappiamo, tra l’altro, da un importante episodio narrato dal profeta Geremia - i profeti sono essenziali per capire la cultura giubilare biblica.

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Siamo a Gerusalemme, che è da tempo assediata da Nabucodonosor e dal suo esercito babilonese, un assedio che porterà alla distruzione della città del 587 a.C. (o 586), e poi all’esilio. Il regno di Giuda aveva già perso autonomia. Dieci anni prima, al tempo della prima deportazione, Nabucodonosor aveva deportato l’allora re Ioiakìm e al suo posto aveva messo Sedecia, l’ultimo re del regno di Giuda, un re che “fece ciò che è male agli occhi del Signore” (2 Re 24,19). Questo re, piccolo e debole, durante i lunghi mesi di assedio di Gerusalemme compie un gesto importante: “Questa parola fu rivolta a Geremia da parte di YHWH dopo che il re Sedecia ebbe concluso un patto con tutto il popolo che si trovava a Gerusalemme, di proclamare la libertà degli schiavi: ciascuno doveva rimandare libero il suo schiavo ebreo e la sua schiava ebrea, così che nessuno costringesse più alla schiavitù un suo connazionale. Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e la propria schiava, così da non costringerli più alla schiavitù” (Ger 34,8-10). Siamo di fronte ad un probabile fatto storico. Sedecia, forse come sua ultima risorsa politico-religiosa per scongiurare la sconfitta totale e su consiglio di Geremia, stipula con il popolo un patto, un gesto che somiglia molto ad un anno sabbatico. Ripete, sembra, addirittura il rito dell’alleanza di Abramo, con il passaggio dei contraenti in mezzo alle due parti del vitello squartato (34,17-21). Questo gesto giubilare riguardava in particolare la liberazione degli schiavi. In quel tempo un ebreo diventava schiavo di un altro ebreo per debiti. Erano schiavi economici. La Legge ricevuta da Mosè stabiliva che la schiavitù economica non potesse durare più di sei anni (il più antico codice di Hammurabi prevedeva un massimo tre anni: § 117). In quella cultura la schiavitù non poteva essere per sempre, un fallimento sul piano economico non doveva diventare una condanna a vita, un ergastolo civile, l’economia non era l’ultima parola sulla vita. Gli schiavi non si liberano, i debiti non si cancellano se tra di noi non c’è un patto più profondo dei contratti. Millenni dopo la legge biblica, abbiamo scritto costituzioni e codici che per certi versi sono più umani e etici della Legge-Torah (grazie anche al seme biblico diventato albero), ma non siamo stati capaci di immaginare un tempo diverso di liberazione dei molti schiavi e dei troppi debiti degli sventurati, perché abbiamo cancellato ogni patto che fosse più profondo dei contratti.

Geremia sapeva che la legge sabbatica non era stata rispettata nei tempi passati: “Così dice il Signore, Dio d'Israele: Io ho concluso un patto con i vostri padri quando li ho fatti uscire dalla terra d'Egitto, liberandoli da quella condizione servile. Ho detto loro: «Alla fine di ogni sette anni ognuno lascerà andare il proprio fratello ebreo che si sarà venduto a te; ti servirà sei anni, poi lo lascerai andare via da te libero». Ma i vostri padri non mi ascoltarono e non prestarono orecchio” (34,12-14). I padri non avevano vissuto la cultura sabbatica. Geremia si domandava, quindi, se questa volta le cose sarebbero andate diversamente.

Dal racconto veniamo subito a sapere che il popolo obbedisce, e quindi gli schiavi vengono effettivamente liberati: “Tutti i capi e tutto il popolo, che avevano aderito al patto, acconsentirono a rimandare liberi ognuno il proprio schiavo e la propria schiava, così da non costringerli più alla schiavitù” (34,10). Tutto sembra andare verso una vera conversione, gli schiavi vengono liberati davvero, dopo tanti fallimenti passati. Di fronte all’imminente tragedia più grande, il patto di liberazione di Sedecia sembra aver finalmente successo.

Ma ecco il colpo di scena: quei liberatori “tornarono a prendere gli schiavi e le schiave che avevano messo in libertà e li ridussero di nuovo a essere schiavi e schiave” (34,11). Siamo di fronte a un anti-pentimento, a una conversione perversa che annulla la prima conversione buona. Il popolo cambia idea e ristabilisce l’originaria condizione iniqua. Non sappiamo le ragioni di questo pentimento all’incontrario, ma probabilmente la sua causa principale fu un allentamento provvisorio dell’assedio di Nabucodonosor (34,22). Una ritirata tattica temporanea produsse una nuova ondata di ideologia nazionalistica da parte dei falsi profeti che avevano sempre combattuto Geremia. Nell’estate del 587, infatti, Nabucodonosor sospese l’assedio di Gerusalemme. I falsi profeti, sempre in cerca di appigli per continuare ad illudere il popolo a proprio vantaggio, avevano quindi usato quell’evento temporaneo per convincere il re che anche questa volta (come ai tempi del profeta Isaia e la sconfitta degli Assiri), Dio stava intervenendo, stava arrivando il miracolo: Davide avrebbe di nuovo abbattuto Golia. Fu dunque sufficiente l’attenuazione della grande paura per violare quel patto di liberazione, per rinnegare l’alleanza. Gli schiavi furono liberati per un attimo, il sogno svanì, ritornarono nella casa di schiavitù.

In ogni patto l’elemento cruciale è il tempo. Il patto è un bene di durata. Possiamo e dobbiamo dirci nel giorno delle nozze ‘per sempre’ con tutta la sincerità e verità di cui siamo capaci; possiamo veramente pentirci e promettere di cambiare vita, dirlo a noi stessi e l’un l’altra. Ma solo Dio e i suoi profeti veri possono cambiare la realtà delle cose dicendole. A noi dire le parole non basta per creare una nuova realtà: quella parola deve diventare carne, individuale e collettiva, ha quindi bisogno del tempo. Anche Maria ebbe bisogno di nove mesi. Non possiamo sapere oggi il grado di verità delle parole che sinceramente ora stiamo pronunciando - questa ignoranza sull’esito delle nostre conversioni sincere è parte del repertorio morale dell’homo sapiens, anche dei migliori. Forse, solo alla fine, nell’abbraccio con l’angelo della morte scopriremo la verità-carne delle parole più belle che abbiamo sinceramente detto lungo la nostra vita.

Ma i pentimenti perversi più gravi e tremendi sono quelli collettivi. Quando una comunità o un’intera generazione rinnega le parole e i gesti che i loro profeti avevano detto e fatto in alcuni momenti luminosi della storia. Rialziamo muri che in un giorno più bello avevamo abbattuto, chiudiamo frontiere che in un giorno splendente avevano aperto, facciamo morire i bambini con la pagella bellissima cucita sulla maglietta (non dimentichiamo) in un mare nostrum diventato mare monstrum. E poi, è sufficiente un finto ‘allentamento dell’assedio’ perché i falsi profeti ci convincano che non c’è nessun vera crisi climatica, che noi siamo innocenti, che i colpevoli sono i ghiacciai e i fiumi. È bastato un piccolo cambiamento degli interessi reciproci nella geopolitica per cancellare parole più alte pronunciate dopo grandi ferite collettive, scolpite nelle lapidi delle nostre piazze, nei cimiteri, nelle nostre costituzioni. E noi torniamo sulle carlinghe con le meridiane di morte, seguiamo i pifferai magici che ci convincono ad armare la guerra citando i profeti veri di ieri. Torniamo nelle strade e andiamo in cerca degli schiavi, li imprigioniamo dentro galere fatte di ideologie meritocratiche e leadercratiche, li condanniamo perché colpevoli della loro povertà e sventura. Caino vince ancora su Abele, il fratricidio sulla fraternità, Getzabele elimina di nuovo Nabot, Uria è ancora ucciso da Davide, il Golgota vince sul sepolcro vuoto.

I falsi profeti avevano per anni fatto di tutto per negare la grande crisi e la fine del regno, avevano convinto (quasi) tutti che il vero nemico non era Nabucodonosor ma Geremia che voleva ingannare il popolo con le sue tesi complottiste e disfattiste. Citavano Isaia per confutare Geremia, come noi citiamo De Gasperi per riarmarci, usiamo persino la ‘spada’ nel vangelo per giustificare le nostre spade. Costruiamo nuovi Fortezze Bastiani, vi inviamo nuovi Giovanni Drogo a difenderla da nemici immaginari, per scoprire, forse, alla fine che il vero nemico da combattere era solo la paura di morire della nostra civiltà morente.

La Bibbia e la storia umana sono striate da una profonda lotta tra profeti onesti e profeti falsi. Con una costante: il potere ascolta (quasi) sempre i falsi profeti. E così, anche se qualche volta durante grandi paure e dolori collettivi (guerre, dittature, tragedie, pandemie…), riusciamo a credere ai profeti veri e ci convertiamo, dopo qualche settimana o mese i falsi profeti vincono ancora. E noi torniamo ancora lungo le strade a dare la caccia a quegli schiavi che avevamo liberato in un giorno migliore.

Tornate profeti veri, tornate ora, la città sta per essere ancora distrutta.

Dedicato a Papa Francesco.

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Economia della gioia 2/ Cosa insegna la vicenda biblica della liberazione degli schiavi durante l’assedio babilonese a Gerusalemme

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/03/2025

La cultura sabbatica e giubilare informa l’intero umanesimo biblico. La celebrazione settimanale dello shabbat, e poi dell’anno sabbatico ogni sette anni e infine del Giubileo, utilizzavano il ritmo ciclico per creare una vera e propria cultura sabbatica. Anche la Chiesa per secoli ha usato il metodo ciclico della liturgia e delle feste per creare la cultura cristiana e la christianitas. Ogni cultura popolare nasce dal culto, quindi da azioni ripetute, quotidiane e cicliche. Lo vediamo bene con il capitalismo e i suoi molti culti di acquisto, incluso l’ultimo rito di entrare in un negozio, pagare 20 euro per ricevere ‘alla cieca’ un pacco mai ritirato dall’acquirente - prima dell’avvento della religione capitalistica, con questi pacchi orfani avremmo fatto pesche di beneficienza. Per questa ragione, nella storia biblica i gesti sabbatici non seguivano soltanto il ritmo settennale. Si potevano svolgere anche al di fuori dell’anno sabbatico o del giubileo, come sappiamo, tra l’altro, da un importante episodio narrato dal profeta Geremia - i profeti sono essenziali per capire la cultura giubilare biblica.

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Pace e libertà a rischio per chi segue i falsi profeti

Pace e libertà a rischio per chi segue i falsi profeti

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Economia della gioia 1/ Le sorgenti ebraiche avviano il viaggio nel significato di un evento dal potenziale rivoluzionario: perché non siamo i “padroni” di nulla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/03/2025

 Il giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava ‘restituire, mandar via’, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.

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Per capire il giubileo cristiano occorre dunque guardare al giubileo biblico, e per comprendere questo occorre partire dall’anno sabbatico e quindi dallo shabbat, dal sabato. Il luogo della Scrittura fondamentale è il capitolo 25 del Levitico. Li troviamo i tre pilastri del Giubileo: la terra, i debiti, gli schiavi. Nel Giubileo si dovevano compiere, con maggiore radicalità, i gesti di fraternità umana (debiti e schiavi) e cosmica (terra e piante) che si celebrano ogni sette anni nell’anno sabbatico. In quell’anno speciale la terra deve riposare. Inoltre, se un pezzo di terra è stata alienata da una famiglia per bisogno, ciascuno rientra nella proprietà precedente: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. … Non farete né semina né mietitura, né farete la vendemmia delle vigne non potate… Potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi” (Lv 25,10-12). Poi i debiti: “Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te, sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi né utili … Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura.” (Lv 25,35-37). Nelle norme sul Giubileo non si parla esplicitamente della remissione o cancellazione dei debiti, perché essendo il giubileo un anno sabbatico si dà per scontato ciò che già si doveva fare ogni sette anni: “Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto” (Dt 15,1-2). Infine, gli schiavi: “Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te … ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri… Se ne andrà libero l'anno del giubileo: lui con i suoi figli” (Lv 25,39-41,54). E nel libro del Deuteronomio abbiamo dettagli importanti: “Se un tuo fratello si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio” (15,12-14). Non solo lo schiavo sarà liberato, ma la liberazione sarà accompagnata dall’eccedenza del dono. Non si deve restare debitori per sempre, non si è schiavi per sempre: solo per sei tempi, non per il settimo.

L’anno sabbatico segue la stessa logica dello shabbat (sabato), questa stupenda istituzione dell’Antico Testamento senza la quale non si coglie l’umanesimo biblico. Lo shabbat è l’icona massima di quel principio caro a Papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio, perché ponendo un sigillo di gratuità su un giorno della settimana ha sottratto il tempo al dominio assoluto e predatorio degli uomini:perché possano riposare il tuo bue e tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero» (Es 23,11-12). Se in un giorno non puoi sfruttare i tuoi animali, la terra, il lavoratore dipendente, lo straniero, te stesso, allora tu, homo sapiens, non sei il dominus del mondo. Sei solo un suo abitante, come tutti gli altri: hai più potere ma non sei il padrone della terra, del lavoro, degli animali, degli alberi, degli oceani, dell’atmosfera. Perché la terra è sempre terra promessa mai raggiunta, perché ogni bene è un bene comune. E lo è anche quel pezzo di terra della nostra casa, lo sono anche i beni che abbiamo legittimamente acquistato sul mercato, lo è anche il nostro conto in banca. Prima della proprietà privata nel mondo esiste una legge di gratuità più profonda e generale che riguarda tutto e tutti, profezia radicale di fraternità umana e cosmica. La terra non è ‘la roba’ di Mazzarò (G. Verga), i lavoratori non sono schiavi né servi, gli animali non valgono soltanto in rapporto a noi: prima di tutto ogni cosa vale in rapporto a se stessa. Perché, per la Bibbia, ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, ogni contratto è incompleto, nessun uomo è veramente e soltanto straniero, la fraternità viene prima dei debiti e dei crediti, e ne cambia la natura.

Lo shabbat è allora caparra di un altro tempo, del ‘settimo tempo’ di Gioacchino da Fiore e dei francescani, di un tempo messianico quando tutto e tutti saremo solo e sempre shabbat. È quindi la distanza tra la legge dell’anno sabbatico e quella degli altri sei il primo indicatore del capitale etico e spirituale di una civiltà, di ogni civiltà. È la distanza tra il cittadino e il forestiero, tra i nostri diritti e quelli di ogni creatura, tra la terra che uso oggi e quella che lascio ai figli, che dicono la qualità morale della società umana. Quando invece ci dimentichiamo che esiste un giorno diverso e libero che non è in nostro controllo, la terra non respira più, gli animali e le piante valgono solo se messi a reddito, gli stranieri non diventano mai persone di casa, le gerarchie diventano spietate, i leader non sono mai follower, il lavoro non è mai fratello lavoro ma solo schiavo o padrone.

Gesù aveva ben presente il Giubileo, come ci ricorda Luca, che ci mostra Gesù appena tornato a Nazareth che nella sinagoga legge il capitolo di Isaia relativo proprio all’anno giubilare: “Lo Spirito del Signore è sopra di me … e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19). Un ‘anno di grazia del Signore’ (aphesis), cioè un anno di liberazione: un anno giubilare. Gesù criticava uno shabbat che stava perdendo profezia per dirci che il Regno dei cieli è uno shabbat perenne, un settimo tempo che diventa tutto il tempo nuovo. Ciò che il Deuteronomio assegna all’anno sabbatico - “Che non vi siano dei poveri in mezzo a voi!” (Dt 15,4) - nella nuova comunità del Regno diventerà regola di vita ordinaria: “Tra i credenti, nessuno era nel bisogno” (At 4,34).

È probabile che il popolo d’Israele non celebrò l’anno giubilare lungo la sua storia, ce lo dicono anche le ripetute denunce dei profeti per gli schiavi non liberati, i debiti non rimessi e le terre non restituite. Neanche i cristiani sono riusciti a fare della comunione dei beni la loro economia normale, non sono entrati nell’economia sabbatica del Regno.

Se l’Occidente avesse preso sul serio la cultura del giubileo non avremmo generato il capitalismo o sarebbe stato molto diverso. Il nostro capitalismo è diventato, infatti, l’anti-shabbat, la sua negazione, il suo anticristo, la sua profezia all’incontrario: “Il capitalismo è la celebrazione di un culto ‘senza tregua e senza pietà’. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante” (W. Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921). Non conosce riposo, il lavoro non si toglie mai il suo giogo; nessuna ora, nessun giorno, nessun tempo è diverso dagli altri, la terra è solo una risorsa da sfruttare, meglio se diventa terre rare.

La presenza dell’anno giubilare è nella Bibbia il suo principale dispositivo anti-idolatrico. Una civiltà che consuma tutto il tempo come merce è tecnicamente idolatrica, perché facendosi padrone di tutti i giorni e di tutti i tempi fa di se stessa l’unico dio da venerare. Il capitalismo è idolatria perché ha segnato la morte definitiva del settimo tempo, ha divorato shabbat e domenica trasformandoli nel week-end, che è l’apoteosi del consumismo.

L’anno giubilare è già iniziato da qualche mese. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. Non stiamo facendo respirare la terra, non stiamo liberando nessun debitore e nessuno schiavo. In queste settimane faremo, con questa nuova serie di articoli, un pellegrinaggio attraverso lo spirito del giubileo, nella sua economia della gioia.

Forse il popolo d’Israele scrisse le norme sull’anno giubilare per fare memoria della grande liberazione dall’esilio babilonese, quindi il ritorno degli schiavi a casa e la restituzione della terra. L’enorme trauma dell’esilio babilonese divenne un anno giubilare forzato che Israele fu costretto finalmente a vivere dopo averlo dimenticato per molto tempo: “Nabucodonosor deportò a Babilonia quanti erano scampati alla spada… fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati” (2 Cronache 36, 20). Fu nell’esilio dove il popolo imparò il giubileo. Saremo anche noi costretti ad imparare un’altra economia della terra e delle relazioni sociali da questo esilio ecologico e dalle nuove guerre?

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Economia della gioia 1/ Le sorgenti ebraiche avviano il viaggio nel significato di un evento dal potenziale rivoluzionario: perché non siamo i “padroni” di nulla

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/03/2025

 Il giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava ‘restituire, mandar via’, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.

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Il Giubileo, “tempo sabbatico” per far respirare la nostra vita

Il Giubileo, “tempo sabbatico” per far respirare la nostra vita

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