Città Nuova

Economia Civile

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Rubriche - Oltre il Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017

Antonio Genovesi ritratto ridQuest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se consentono di andare indietro per andare avanti, come nel gioco del rugby. Tornare a Genovesi potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di oggi di andare davvero avanti, e nella direzione giusta.

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Antonio Genovesi nasce il 1° novembre 1713 a Castiglione (oggi Castiglione del Genovesi), piccolo paese a 8 miglia da Salerno, e muore a Napoli nel 1769. Nel 1736 fu ordinato prete, e l’anno seguente si spostò a Napoli, dove pochi anni dopo iniziò a insegnare metafisica nella Università dove insegnava Vico.

Per alcune accuse di eresia ebbe problemi con le autorità ecclesiastiche del tempo e con i teologi napoletani, e per questo dovette passare dapprima all’insegnamento della logica (disciplina teologicamente meno controversa), e, infine, nel 1754 all’economia, divenendo il primo cattedratico di economia in Europa, in cattedra privata, nei pressi di Napoli.

Riguardo la persona di Genovesi, il suo illustre allievo e primo biografo Galanti scrive: «La fautrice Natura, che destinato l’avea a gran cose, oltre all’averlo fatto grande della persona, e di corpo bellissimo, e quanto alcun altro esser potesse, di amabile e avvenente figura, conceduto ancora gli avea sanità robusta, maniere costumate ed eleganti, e il talento tanto prezioso quanto singolare di comunicare con nettezza e con grazia i suoi pensieri. A sì fortunate disposizioni accoppiò vasta memoria, dritto intendimento, animo grande; e ciò, ch’è più raro, genio elevato e diverso da quelli dei savi ordinari, i quali non pensano, e non ragionano, se non se sulle idee degli altri».

La lingua che Genovesi scelse per le sue lezioni fu l’italiano, perché, diceva, «scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato». Fu instancabile educatore, diffusore in mezzo al suo popolo della tecnica e delle scienze moderne, riformatore del sistema educativo, e grande docente. In uno dei suoi libri scritti “per gli giovinetti” – i destinatori dei suoi trattati –, scriveva: «Le scuole debbono servire a far teste per la Repubblica, non Grammatici, né Disputanti per gli Café: a far uomini pieni di senso di vera e soda pietà, di giustizia, di onestà, di amicizia, per istruire e reggere l’ignorante moltitudine».

Le difficoltà che Genovesi incontrò sul terreno teologico crearono un ostacolo al fiume delle sue idee, che deviò verso un letto meno controverso della teologia, l’economia, dove i riferimenti a Locke e Hume erano meno sospetti e meno importanti per la salvezza delle anime. Negli ultimi 15 anni della sua vita Genovesi si dedicò quasi esclusivamente alle materie economiche, dove eccelse e incontrò un riconoscimento universale. Al culmine della sua attività di studioso e di docente, scrisse le Lezioni, che sono una summa del suo pensiero e dell’intera Economia civile. In una lettera, così scriveva ad un amico: «Sto ora a far imprimere le mie Lezioni di commercio in due tometti. Raccomando l’opera alla Divina Provvidenza. Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza». Sono molti i messaggi che Genovesi e le sue Lezioni lanciano all’Italia di oggi. Genovesi non ebbe paura di innovare rispetto alla tradizione, lo fece e ne subì anche i costi.

Ma aveva anche una chiara idea della vocazione della tradizione italiana: fu capace di innovare perché conosceva bene il genio della sua cultura. Anche oggi il bivio che abbiamo di fronte è chiaro: possiamo continuare a fare i “birbi” o diventare, finalmente, civili.

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Rubriche - Oltre il Mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017

Antonio Genovesi ritratto ridQuest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se consentono di andare indietro per andare avanti, come nel gioco del rugby. Tornare a Genovesi potrebbe consentire all’Italia e all’Europa di oggi di andare davvero avanti, e nella direzione giusta.

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Abbiamo bisogno di una economia civile

Abbiamo bisogno di una economia civile

Rubriche - Oltre il Mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.09/2017 di Settembre 2017 Quest’anno sono i 250 anni dalla pubblicazione delle Lezioni di Economia Civile di Antonio Genovesi, il più importante trattato della tradizione dell’Economia civile. Gli anniversari sono utili se c...
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In occasione del Premio Nobel per l'Economia a Richard H.Thaler, teorico del "Nudge", ripubblichiamo l'articolo di Luigino Bruni sul tema per la Rubrica "Oltre il mercato"

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.02/2016 di febbraio 2016

Mosca nel gabinetto ridPerché, nonostante tutta l’informazione sull’alimentazione, sugli stili di vita, sulle conseguenze dei nostri comportamenti per il presente e il futuro del pianeta, continuiamo ad inquinare molto con auto e riscaldamenti, ma anche a mangiare male, troppo, e a non fare abbastanza attività fisica? È, infatti, più  semplice capire perché non riusciamo a rinunciare all’aria condizionata e all’auto privata. È un tipico caso dove il beneficio privato (comfort) prevale sul beneficio pubblico (riscaldamento del pianeta).

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Molto più difficile è però comprendere perché mangiamo e beviamo cose che sappiamo farci male. In questo secondo caso non c’è nessun conflitto tra bene privato e bene comune, ma semplicemente un grande bene individuale e sociale (salute, aspettativa di vita, minori costi) cui viene preferito un piccolo bene individuale (cibi grassi e dolci) e un male sociale (aumento della spesa pubblica). In altre parole, è più ‘coerente’ il comportamento di un inquinatore informato di quello di un obeso informato.

Sappiamo sempre più dettagli sui danni certi di zuccheri e grassi, ma poi arriviamo stanchi a casa, vediamo un pezzo di torta sul tavolo e lo preferiamo alla mela che è lì accanto; siamo invitati a casa da un amico, e nel soggiorno tra una parola e un’altra svuotiamo la ciotola di pistacchi e arachidi.

Gli economisti hanno le loro spiegazioni a questi nostri comportamenti. Una delle più note è quella del ‘Nudge’, cioè ‘spintarella’. L’idea di fondo è semplice: la gente si comporta male perché pur sapendo che certe scelte sono sbagliate, quando sono posti di fronte ad una tentazione non riescono a resistere. Più in generale, è come se avessimo delle preferenze e dei gusti più ‘veri’ rispetto alle scelte che facciamo nelle condizioni concrete della nostra vita, dove le decisioni sono inquinate da stress, stanchezza, errori.

Ecco allora la soluzione: rendiamo, artificialmente, più complicata la scelta delle cose che ci fanno male. Chiediamo, ad esempio, ai supermercati di porre gli snack nei display più alti (e lontani dalla cassa), o ai ristoranti di nascondere i dolci nella carta del menu, scrivendoli con caratteri più piccoli, o mettendoli, magari, nelle note dell’ultima pagina. E chiediamo agli amici mettere i pistacchi lontani dal divano – in modo da aumentare il costo di chi li vuole consumare. Non si tratta quindi di proibire certi prodotti, ma solo di rendere più ‘costoso’ il processo di scelta per quei beni che sono più soggetti all’effetto ‘tentazione’. Di darci l’un l’altro una bonaria spintarella nelle scelte dove siamo più deboli. Oppure scegliere i ‘default’ in modo da rendere più semplice la scelta meno costosa - alcuni bancomat, seguendo questa teoria, per la stampa della ricevuta hanno spostato a destra la scelta ‘No’.

Queste pratiche di nudge dovrebbero essere applicate anche a settori eticamente sensibili come l’azzardo, dove invece si pratica invece il ‘nudge all’incontrario’: basta vedere dove sono esposti i gratta-e-vinci nelle edicole o negli autogrill. La prima difficoltà nel rendere operative le molte raccomandazioni del nudge sono gli incentivi delle imprese, che massimizzano i profitti vendendo i prodotti tentatori.

Gli studi presentati ad un convegno a Lugano (‘Economics, Health and Happiness’, 14-16 Gennaio) ci hanno offerto ancora altre spiegazioni. Una ha a che fare con l’errata stima del futuro, soprattutto da giovani. La rinuncia oggi ad un comportamento scorretto è molto evidente e concreta, la salute tra 20 anni è troppo lontana per poter condizionare seriamente il mio comportamento di oggi. Tendiamo, poi, a non prendere abbastanza sul serio le statistiche, perché pensiamo di essere migliori della media, che siamo unici e diversi da tutti. I geni dei nostri genitori e i primi anni di vita pesano molto nelle scelte da adulti. C’è poi il ruolo del lavoro e della solitudine. Quando si lavoro male e/o troppo, si mangia anche male, e la cura delle relazioni è correlata alla cura di sé. Senza rivedere la nostra cultura del lavoro, delle relazioni e della cura, continueremo a sapere che la verdura fa bene e a mangiare panini da soli.

N.d.R. - La foto ritrae un geniale esempio di "Nudge" ideato per l'aeroporto di Monaco di Baviera, che sortisce l'effetto di mantenere i bagni degli uomini puliti più a lungo. La foto è stata suggerita dall'autore dell'articolo, assiduo frequentatore di aeroporti

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.02/2016 di febbraio 2016

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Perché  continuiamo a  farci del male?

Perché continuiamo a farci del male?

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Rubriche - Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (147 KB) n.08/2017 di Agosto 2017

Rapporto ISTAT CN rid«Ero giovane, e mi hai dato lavoro», «ero anziana sola e mi hai visitato». Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese. La disoccupazione giovanile, la solitudine e la vulnerabilità economica delle donne anziane, e poi il lavoro nel Sud e nelle Isole, il bassissimo tasso di natalità sono le grandi ferite del nostro Paese. Tra il «2008 e il 2017 la popolazione italiana residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di 1,1 milioni» (p. 97), e se non avessimo avuto circa 400 mila giovani arrivati dall’estero, la perdita di giovani avrebbe superato il milione e mezzo.

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Un dato che dovrebbe lasciarci senza parole, perché se un Paese perde oltre un milione di giovani in 10 anni, questo Paese è in profonda crisi umana e morale, sintomo e causa di molte altre crisi. Soprattutto se lo leggiamo insieme ad altri due numeri: l’1,3 figli per donna, che ci pone agli ultimi posti assoluti nel mondo, e il 14,1% di bambini 1-14 anni. Se è vero, come diceva il monaco camaldolese ed economista Giammaria Ortes nel 1770, che «la ricchezza di un popolo è la sua gente», ancora più vero è che la ricchezza di un popolo sono i suoi giovani, i suoi ragazzi e ragazze, i suoi bambini. In puero spes, aveva voluto scrivere l’imprenditore Alessandro Rossi in cima al suo grande asilo di Schio del 1872.

La povertà delle anziane sole e quella dei giovani disoccupati sono state giustamente messe insieme dal rapporto, perché sono due gruppi sociali molto diversi ma accumunati dalle stesse gravi vulnerabilità: oltre il 50% di disoccupati e donne anziane sole sono a rischio di povertà e di esclusione sociale, e oltre il 20% in condizioni di grave deprivazione. Sono loro i nuovi scarti, giovani che non riescono a fiorire, e le “esodate delle cura”, donne che hanno speso la loro giovinezza per far fiorire figli, mariti e genitori, e che ora si ritrovano sole, anche perché in un mondo troppo cambiato i figli non possono restituire loro la cura che hanno ricevuto in abbondanza.

Ma anche in questo bel rapporto ci sono dei punti deboli e problematici, che vanno evidenziati per migliorarlo. Il primo è di carattere generale, e riguarda la povertà.

Da qualche decennio, grazie al lavoro di Amartya Sen e di molti altri studiosi, sappiamo che il reddito non è il migliore indicatore di povertà, perché le povertà sono carenze di capitali delle persone, che poi determinano carenze di flussi di reddito. Si è poveri perché non si hanno capacità (capabilities), capitali sanitari, educativi, relazionali, famigliari, sociali, una carenza di capitali che non consente di generare reddito. Di questo non si parla nel rapporto, nonostante l’Istat abbia lanciato il Bes (Benessere equo e sostenibile) che cerca proprio di misurare questi capitali.

Una persona che vive con 1000 euro in una città con molti “capitali pubblici”, cioè trasporti pubblici buoni ed economici, trasporti efficienti, asili, buona sanità, fa una esperienza di povertà molto diversa da un’altra che vive in una città dove questi beni pubblici non ci sono o sono minori. La nostra ricchezza è data dalla somma di beni privati e di beni pubblici.

Molto bella, poi, è l’immagine del condominio usata nel Rapporto: l’Italia è equiparata a un condominio di una nostra città dove vivono famiglie appartenenti ai 9 gruppi del Rapporto. Nei condomini, però, la qualità della vita delle famiglie dipende certamente dai redditi famigliari, ma anche, e a volte soprattutto, dalle relazioni sociali tra le persone abitanti nell’edificio. I beni relazionali, il capitale sociale e civile, però, non sono presenti nel Rapporto, mentre sarebbe bene che ci fossero. Tutti sappiamo che il Pil non basta per misurare il benessere, e l’Istat deve aiutare a dirlo a tutti.

Infine, nel Rapporto si parla di tempo libero e di gioco, ma non si specifica quale gioco: il gioco d’azzardo non è distinto dal buon gioco, e quindi non si capisce se quei giochi producano benessere o malessere, soprattutto tra gli anziani (p. 131). Perché, come ricordava Melchiorre Gioja nel suo trattato Filosofia della statistica del 1829, la statistica deve misurare «la ricchezza e la povertà, la scienza e l’ignoranza, la felicità e l’infelicità dei popoli».

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Rubriche - Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (147 KB) n.08/2017 di Agosto 2017

Rapporto ISTAT CN rid«Ero giovane, e mi hai dato lavoro», «ero anziana sola e mi hai visitato». Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese. La disoccupazione giovanile, la solitudine e la vulnerabilità economica delle donne anziane, e poi il lavoro nel Sud e nelle Isole, il bassissimo tasso di natalità sono le grandi ferite del nostro Paese. Tra il «2008 e il 2017 la popolazione italiana residente di età compresa tra i 18 e i 34 anni è diminuita di 1,1 milioni» (p. 97), e se non avessimo avuto circa 400 mila giovani arrivati dall’estero, la perdita di giovani avrebbe superato il milione e mezzo.

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Luci e ombre dell’Italia

Luci e ombre dell’Italia

Rubriche - Vengono alla mente e al cuore nuove opere di misericordia leggendo e studiando il bel Rapporto annuale Istat 2017: la condizione del Paese di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (147 KB) n.08/2017 di Agosto 2017 «Ero giovane, e mi hai dato lavoro», «ero anziana s...
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Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione

a cura di Giulio Meazzini

pubblicato su Città Nuova - n. 07/2017, luglio 2017

Chi è Luigino Bruni? Sono essenzialmente un economista, con una vocazione umanista. Mi sono sempre occupato, infatti, anche di storia, etica, filosofia. E in economia Luigino Bruni CN ridmi interessano soprattutto le idee, che sono però intrecciate con tutto il resto, come nella vita. Per questo da qualche tempo mi occupo anche di temi come felicità, dono, idealità, passioni, carismi e organizzazioni a movente ideale. Ogni tanto nella vita bisogna essere capaci di ricominciare. Ho appena pubblicato un libretto intitolato La felicità è troppo poco (Pacini Editore): questo vale anche per l’economia. Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo. La vita è bella perché esistono le soprese. Anche nel lavoro. 

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La felicità non basta? Vivendo si capisce che ci sono cose importanti almeno quanto la felicità, come la dignità e la verità su di sé. Oggi la felicità, intesa come piacere, è diventata la priorità, e quindi… siamo infelici. Gli esseri umani vogliono di più: dignità, libertà, fedeltà, verità.

Lei afferma che un’antropologia pessimistica è alla base del capitalismo. Quale futuro per l’economia? Nel ’900 avevamo due modelli di economia: quello anglosassone, basato sull’antropologia agostiniana, luterana e  calvinista, dove l’essere umano è visto essenzialmente orientato al proprio interesse personale, e il bene comune arriva come effetto  non   intenzionale (si pensi alla “mano invisibile” di Smith). Il secondo modello, invece, era il capitalismo di Italia, Francia, Spagna, Portogallo, cattolico e più comunitario, il quale proponeva un’antropologia più positiva, basata sulle virtù e sull’uomo sociale. Portava meno crescita, ma una maggior gioia di vivere, mentre al Nord si accumulava ricchezza e si sviluppava il capitalismo. Ora, con la globalizzazione, anche nel Sud Europa è stato importato questo stile di capitalismo più individualista e solitario, che sta intristendo il modo di concepire il lavoro e la società stessa. Nel mondo ha vinto il capitalismo nordamericano e il Sud Europa soffre.

Quindi? Bisogna intanto esserne coscienti, parlarne, perché ogni Paese ha la sua vocazione all’economia, un genius loci. Con le nostre poche risorse, stiamo cercando di sviluppare la Scuola di economia civile (Sec) e diversi laboratori culturali in tutto il mondo, soprattutto con giovani, ma non bisogna illuderci che il futuro sia luminoso.

Lei è stato uno dei fondatori dell’EdC. È soddisfatto dell’impatto che ha avuto in questi 25 anni? L’EdC l’ha fondata Chiara Lubich, io avevo 25 anni. L’idea che avevo allora, cioè che avremmo cambiato in poco tempo l’economia mondiale (insieme ad altri), non si è realizzata. Però era la molla che serviva per partire per un grande viaggio. Oggi il movimento di EdC cammina insieme a quello dell’Economia sociale e dell’Economia civile, iniziative meno legate al Movimento dei Focolari, anche se ne condividono molte idee e categorie culturali. 25 anni fa quelle dell’EdC sembravano proposte bizzarre o ingenue. Oggi ne parlano molti, non solo nella Chiesa cattolica. È un processo che va avanti sotto traccia. Certo, potevamo  incidere di più nel mondo della cultura, fare più dialogo, più rete, più alleanze.

E nel futuro? Ci sono zone del mondo, come Brasile, alcuni Paesi dell’Africa, Argentina, Balcani, Portogallo, Filippine, dove l’EdC ha una vita intensa e vivace, grazie a una nuova generazione di giovani che hanno preso in mano il movimento. In Italia, invece, non siamo ancora riusciti a fare il necessario ricambio generazionale, anche se la nascita dell’Aipec ha dato un forte impulso. E luglio è il mese della prima “Costituente Edc giovani” a Loppiano.

Dal punto di vista culturale? In questi anni abbiamo fatto ricerca insieme a Zamagni, Becchetti, Gui, Smerilli, Pelligra, Argiolas e molti altri, in vari Paesi del mondo: non credo che in Italia ci sia un gruppo di economisti coeso e impegnato come questo. Abbiamo lanciato temi come felicità, reciprocità, beni relazionali. In futuro dovremo cercare una maggiore mediazione  con  categorie  come i sindacati, Confindustria, gli imprenditori. Ma soprattutto dobbiamo rilanciare la dimensione profetica. L’EdC non è solo economia civile, è fortemente legata all’esperienza spirituale della fondazione che le ha dato Chiara. Questo vuol dire non dimenticare i poveri, stare di più nelle periferie, nelle fratture, in quei luoghi dove la vita e l’economia rinascono ogni giorno.

Lei si sente profeta? Dipende da cosa intendiamo con questa parola. Siccome ho incontrato un carisma, e ho ricevuto da giovane una vocazione, in un certo senso condivido la missione profetica, perché i carismi sono la continuazione dei profeti oggi. Per capire un carisma come quello di Chiara Lubich o di don Giussani, non bisogna pensare tanto ai santi, quanto ad Isaia, Geremia ed Ezechiele. La dimensione profetica attraversa tutta l’umanità, ed è fondamentalmente laica.

Ma cosa fa il profeta? Ha uno sguardo diverso sul mondo, è abitato da una luce che gli consente di vedere cose che gli altri non vedono, sempre dalla prospettiva dei poveri e degli oppressi. Quindi è critico verso i potenti. Infatti, se non è falso profeta, fa sempre una brutta fine: Isaia squartato, Giovanni Battista decapitato. Siccome mette in difficoltà i potenti, non è ascoltato, è un emarginato. L’altra cosa tipica dei profeti è la lotta contro l’idolatria. Gli uomini sono naturali portatori di idoli, il primo è l’io, il secondo è il dio fatto a immagine dell’uomo, l’opposto del Dio biblico. Il profeta svuota il mondo dagli idoli, lo libera dalle ideologie, dicendo: questo non è Dio. Poi ti dice: forse, se vuoi, c’è una voce nel mondo che parla. I profeti sono preziosi, non solo quelli biblici, ma anche tanti contemporanei. Il mondo è pieno di profezia e di profeti, ma non li riconosciamo, pensiamo che siano gente strampalata o fissata.

Citiamo qualche frase dal suo libro “Elogio ndell’autosovversione” (Città Nuova): «La motivazione più grande non è il profitto ma la fraternità». Sì, la fraternità e, in genere, le nostre grandi passioni. Le persone non lavorano mosse solo dal guadagno, ma anche per essere stimate e riconosciute, dagli altri e da  sé stessi. L’idea che per soddisfare l’essere umano basti promettergli qualcosa non funziona, siamo fatti per l’infinito. Ci sono studi che dimostrano che anche chi pensa al guadagno, interpreta spesso i soldi come un indicatore di stima e di successo. Nel passato la gente era stimata con molti linguaggi, mentre oggi l’unico modo è dare soldi; ma noi valiamo più del denaro. Anche l’imprenditore, quando inizia, ha sempre la passione per il suo lavoro: creare un’azienda, portare i profitti, confrontarsi con la gente che lavora con te. È bellissima la capacità degli uomini di compiere azioni collettive. L’imprenditore nasce così, poi però a volte diventa speculatore, si intristisce, dimentica la passione che l’ha fatto nascere. Dobbiamo partire da una visione positiva del mondo e dell’economia, e da lì guardare e correggerne i limiti.

«I nostri figli possono diventare migliori di noi, solo se doniamo loro la libertà di poter diventare peggiori di noi e tradire i nostri sogni». Quando i genitori, per preoccupa- zione, non mettono i figli in condi- zione di “tradirli”, li bloccano, non li fanno fiorire, li fanno diventare degli imbranati. La stessa cosa vale per tutti i rapporti umani, anche per l’economia e i carismi. Nei movimenti c’è sempre il timore che la gente possa “tradire” l’ideale genuino: ma questo crea persone poco fiorite, piccole, poco interessanti, perché non sono libere di crescere diversamente da come dovrebbero, e quindi contraddire le aspettative. A volte abbiamo una visione moralistica dei carismi, che blocca le persone dentro un’etica del “dover essere” che uccide il “poter diventare” qualcosa di imprevisto e sorprendente.

Le associazioni (religiose e non solo) impediscono la maturazione delle persone? Non necessariamente. Ma è vero che, quando un giovane sente una vocazione, è disposto a tutto, non pensa in genere al suo futuro, al suo lavoro, alla sua vita. Sono i suoi responsabili che devono pensare a queste cose: non devono consentirgli di arrivare a 50 anni svuotato, quando ha consumato le risorse morali della sua gioventù e si esaurisce. Non è semplice mettere insieme lo sviluppo umano e professionale di una persona con la dimensione religiosa. Il rischio è che gli appartenenti ai movimenti carismatici non superino mai l’adolescenza spirituale. Ci deve essere la crescita umana accanto a quella religiosa.

«La crisi dei carismi è mancanza di storie capaci di farci muovere dentro e insieme». Le comunità e i movimenti nascono con delle storie che convertono migliaia di persone. Ma poi ad un certo punto cominciano a vivere del passato, si bloccano, ad esempio perché muore il fondatore, e non sono più capaci di aggiungere nuove storie alle vecchie. Si raccontano sempre e solo quelle dei primi tempi, e si vive di rendita. L’errore è pensare che l’unica fonte di innovazione sia il fondatore; invece ogni persona che arriva in una comunità carismatica riceve lo stesso carisma del fondatore, lo ha dentro da sempre. Quindi va incoraggiata alla libertà creativa. Un movimento rimane vivo se le persone sanno ripetere i miracoli dei primi tempi, nuovi fatti e nuove parole.

Quale futuro per Luigino Bruni? La mia grande passione di sempre è il carisma dell’unità. Quello che ho capito vivendo, però, è che nessuna persona può essere contenuta da una sola realtà, perché c’è una dimensione di infinito dentro ognuno di noi. Oggi vorrei essere 100% focolarino, ma allo stesso tempo 100% cittadino, 100% appassionato dei carismi degli altri, 100% economista, 100% pacifista, 100% docente, 100% impegnato contro le povertà e l’azzardo. Uno dei rischi dei grandi carismi, infatti, è far diventare le persone esseri ad una sola dimensione, e quindi spegnerle. Dovremmo invece riuscire a far crescere persone a più dimensioni, a farle fiorire veramente.

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a cura di Giulio Meazzini

pubblicato su Città Nuova - n. 07/2017, luglio 2017

Chi è Luigino Bruni? Sono essenzialmente un economista, con una vocazione umanista. Mi sono sempre occupato, infatti, anche di storia, etica, filosofia. E in economia Luigino Bruni CN ridmi interessano soprattutto le idee, che sono però intrecciate con tutto il resto, come nella vita. Per questo da qualche tempo mi occupo anche di temi come felicità, dono, idealità, passioni, carismi e organizzazioni a movente ideale. Ogni tanto nella vita bisogna essere capaci di ricominciare. Ho appena pubblicato un libretto intitolato La felicità è troppo poco (Pacini Editore): questo vale anche per l’economia. Non si può pensare che la scienza economica sia sufficiente da sola per capire il mondo. La vita è bella perché esistono le soprese. Anche nel lavoro. 

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Intervista a Luigino Bruni

Intervista a Luigino Bruni

Insegna economia politica all’università Lumsa di Roma, dopo 13 anni alla Bicocca di Milano. E ogni settimana commenta i libri biblici su “Avvenire”. Personalità sfaccettata, è membro fin da giovane del Movimento dei Focolari ed è il coordinatore del progetto per una Economia di Comunione a cura d...
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Rubriche - Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia che conosce un enorme successo perché si presenta come una tecnica, di portata universale

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova (201 KB) di giugno 2017

Business religione CN ridLa dimensione religiosa del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Carl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’800 il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una sua famosa lettera scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: “Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome … Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti

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Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. … Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…”». (Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei, 1803). Saint-Simon fondò una vera e propria nuova religione universale e laica, nella quale i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio- consumatore.

Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come una ideologia o religione (quale è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale.

Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido anti-gelo. Così le multinazionali capitalistiche e le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. E così, sotto l’universalismo della tecnica, si veicola una visione del mondo, della persona (individuo), delle relazioni sociali. Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli – al massimo possiamo pagare qualche Ong per occuparsene in modo che non ci diano fastidio. Il dogma dell’incentivo, poi, parte dall’assunto che gli esseri umani si impegnano solo se adeguatamente incentivati con contratti e denaro, perché incapaci di lavorare bene solo per virtù o dovere etico.

In nome della tecnica questa ideologia-religione-idolatria sta entrando nella politica, nella scuola, nella sanità, nelle chiese. E con essa sta avanzando una visione striminzita e rimpicciolita della persona, depotenziata di virtù e motivazioni intrinseche. Gli esseri umani hanno molti meriti, molti più di quelli che vedono e ricompensano le imprese.

Rispondono certamente agli incentivi, ma prima rispondono alla propria coscienza, all’onore, al rispetto, alla dignità, anche nel mondo del lavoro. Finché continueremo a produrre visioni riduttive degli uomini e delle donne, continueremo a generare luoghi del lavoro e del vivere troppo piccoli per quell’animale malato di infinito che si chiama homo sapiens.

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Rubriche - Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia che conosce un enorme successo perché si presenta come una tecnica, di portata universale

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova (201 KB) di giugno 2017

Business religione CN ridLa dimensione religiosa del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Carl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’800 il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una sua famosa lettera scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: “Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome … Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti

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La nuova religione del capitalismo

La nuova religione del capitalismo

Rubriche - Niente più dell’ideologia del business sta dominando il nostro tempo. Una ideologia che conosce un enorme successo perché si presenta come una tecnica, di portata universale di Luigino Bruni pubblicato su  pdf Città Nuova (201 KB) di giugno 2017 La dimensione religi...
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Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di aprile 2017

Denaro 300 ridIl nostro rapporto con la gratuità presenta un elemento paradossale. Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio. Ma in un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi più di ieri, molto di più, perché diversamente dal capitalismo del Novecento, che ancora presentava tratti dell’etica cristiana e biblica del lavoro e dell’impresa, il capitalismo finanziario e consumista del nostro tempo ha cancellato oltre due millenni di cultura per tornare ai riti e ai culti pagani e idolatrici dei popoli del Medio Oriente o del bacino del Mediterraneo. Lo vediamo nei nuovi templi del dio-consumo, lo vediamo nel culto meritocratico delle imprese, che non è altro che una riedizione degli antichi sacrifici pagani.

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La trasformazione del capitalismo in idolatria è stata possibile perché una dimensione  economico-mercantile è presente nel cuore dell’esperienza religiosa. Questa tendenza commerciale e sacrificale della religione è stata duramente combattuta dal profetismo biblico, da Giobbe, da alcuni Vangeli, da Paolo, da Lutero, ma nel nostro tempo sta di nuovo vivendo una fase di grande successo, senza incontrare resistenze robuste.

Il sacrificio è stato il primo linguaggio religioso dell’uomo. Forse anche prima di imparare a parlare, gli uomini sapevano vedere in una nuvola, su un monte alto, in un albero spezzato da un fulmine, in un vulcano, una presenza misteriosa e diversa dalla loro. E nasceva il senso del sacro. Sapevano di essere radicalmente e infinitamente vulnerabili, di non controllare il mondo che li circondava. Sentivano che la terra e il cielo erano abitati da altri esseri invisibili: li intravedevano ovunque, e soprattutto li temevano. L’uomo antico era un grande incantato e un grande pauroso, abitante di un mondo ostile e popolato di dèi. Da questa fragilità e precarietà nacquero il senso religioso e i sacrifici.

Di fronte all’incertezza, al mistero e alla paura del vivere, gli uomini hanno cercato (e cercano) con il sacrificio di accumulare crediti nei confronti della divinità, offrendole i beni più preziosi (animali, bambini, vergini), e così cercare di trasformare Dio in un “debitore.” E quando la dimensione sacrificale e quindi commerciale prende il sopravvento, la fede diventa idolatria, anche quando continua a chiamare i suoi idoli con i nomi di YHWH, Gesù, Allah.

Le fedi, ma anche il grande umanesimo laico, sono stati soprattutto una liberazione dagli idoli. Hanno svuotato i tempi e non li hanno riempiti. Se fossimo entrati in una antica città mediorientale, ma anche greca o romana, la prima cosa che ci avrebbe impressionato sarebbe stata il paesaggio popolato di segni sacri, di altari, e soprattutto di totem e infinite divinità. Forte fu la sorpresa di Gneo Pompeo quando, entrando nel tempio di Gerusalemme, lo trovò vuoto. Le fedi vere hanno svuotato lo spazio sacro, per crearci le precondizioni di libertà per vedere soprattutto gli altri, noi stessi, e magari, sulla linea dell’orizzonte dell’anima, anche Dio.

Il paradosso del nostro tempo sta soprattutto in questo: ci siamo voluti liberare di un Dio liberatore per imprigionarci in un culto idolatrico di massa delle merci feticcio.

Gli idoli del capitalismo continuano ogni giorno indefessi il loro lavoro di fidelizzazioni dei consumatori e dei lavoratori; ma, diversamente dai tempi dei profeti biblici, oggi mancano le voci diverse che combattono gli idoli, e quelle poche che ci sono non sono ascoltate, o perché parlano in luoghi non adatti e vuoti (i templi, ad es.), o perché usano linguaggi religiosi diventati ormai incomprensibili alla donna e all’uomo di oggi. Ci sono parole molto preziose che non raggiungono i destinatari solo perché pronunciate in lingue morte.

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Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di aprile 2017

Denaro 300 ridIl nostro rapporto con la gratuità presenta un elemento paradossale. Siamo circondati dalla gratuità, siamo inondati da essa. La natura, il cielo, il sole, la pioggia, la neve, la primavera, i boschi, l’aria, l’arte, la bellezza delle città, dei palazzi e delle chiese che abitiamo senza averle costruite, l’irrompere dell’amore, la nostra stessa esistenza, un grembo materno, Dio. Ma in un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi più di ieri, molto di più, perché diversamente dal capitalismo del Novecento, che ancora presentava tratti dell’etica cristiana e biblica del lavoro e dell’impresa, il capitalismo finanziario e consumista del nostro tempo ha cancellato oltre due millenni di cultura per tornare ai riti e ai culti pagani e idolatrici dei popoli del Medio Oriente o del bacino del Mediterraneo. Lo vediamo nei nuovi templi del dio-consumo, lo vediamo nel culto meritocratico delle imprese, che non è altro che una riedizione degli antichi sacrifici pagani.

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Il paradosso della gratuità

Il paradosso della gratuità

Rubriche - Oltre il mercato - In un mondo stracolmo di gratuità, gli esseri umani non riescono a resistere alla tendenza- tentazione di costruire sistemi idolatrici e quindi senza gratuità, dove ogni cosa ha il suo prezzo di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (90 KB) di apr...
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Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017

Disuguaglianza Lego ridLa diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri umani (e di molti animali), perché i talenti che ciascuno riceve arrivando sulla terra sono diversi da quelli degli altri. Il grande economista italiano Vilfredo Pareto, alla fine dell’800 dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a leggi distributive simili in tutte le società perché legate alle intelligenze diseguali, e, in quanto naturali, dovevamo semplicemente accettarle come un dato di natura.

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Il cristianesimo, invece, per il messaggio di radicale fraternità universale che lo anima, ha cercato di lottare contro questo dato di natura, provando a scardinare le diseguaglianze alla base delle strutture sacrali-gerarchiche delle società antiche. Le stagioni dell’uguaglianza sono però sempre state brevi e limitate a piccole comunità, mentre la grande storia dell’Europa cristiana ha continuato ad essere una storia di diseguaglianze e di caste, con poche, luminose eccezioni. La legge di movimento della storia dell’Occidente ha generato qualche isola di uguaglianza e fraternità in oceani di diseguaglianza. La modernità e gli illuminismi, al culmine di un lungo e (forse troppo) lento processo di maturazione culturale e religiosa, hanno lanciato una lotta campale alla diseguaglianza, dando vita a un’epoca di conquiste scientifiche, filosofiche, spirituali, civili, economiche impensate, straordinarie, immense.

Questi miracoli operati dall’Occidente moderno furono i frutti della battaglia alle diseguaglianze naturali, che non furono considerati un dato immodificabile ma soprattutto una costruzione sociale. Senza società più ugualitarie (non soltanto più democratiche: non tutte le democrazie sono ugualitarie) non avremmo incluso nella politica e nell’economia centinaia di milioni di uomini e donne che hanno poi innovato, inventato, cambiato il mondo. E i momenti civilmente, spiritualmente, economicamente più luminosi dell’Europa medioevale sono associati a fasi più ugualitarie nelle città e nei conventi.

Il XX secolo, poi, ha accelerato questa lotta. Ha prodotto i suoi mostri, ma la sua anima più profonda ha dato vita allo Stato sociale, ha consentito alle donne di poter studiare e di poter lavorare, ai bambini di non lavorare più per andare tutti a scuola, agli anziani di poter smettere di lavorare e avere una pensione per vivere con dignità l’ultima stagione della vita. Ha voluto investire una grande quota della propria ricchezza per creare questi meravigliosi beni comuni e così ridurre le diseguaglianze. La seconda metà del ’900 è stata per molti Paesi europei un’età dell’oro di una economia e di una società dove l’inclusione, l’uguaglianza, i diritti, la qualità del lavoro, le libertà crescevano, e si riducevano i servi, i poveri, le caste, i privilegi.

Ma mentre molti, quasi tutti, godevamo i frutti di questa felice congiuntura storica, nei retrobottega dell’economia, della finanza e della politica iniziava una contro-rivoluzione anti-egualitaria, voluta e pianificata dalle grandi imprese multinazionali e dalle scuole internazionali di business. Fin qui nulla di radicalmente nuovo, perché spiegabile dai corsi e ricorsi delle idee, delle reazioni e contro-reazioni. C’è però una novità radicale e assolutamente sottovalutata: il capitalismo per potersi affermare come culto universale, e poter quindi ottenere tutto dai suoi fedeli e così alimentare un treno lanciato a folle velocità, ha un bisogno assoluto di una legittimazione morale, possibilmente spirituale, degli assiomi sui quali si fonda. E ha compiuto il miracolo: la naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico, che le civiltà avevano mitigato artificialmente con la politica e le Chiese perché considerata moralmente e socialmente non desiderabile, ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia. È stato sufficiente cambiarle nome, per trasformare la diseguaglianza da un male in un bene, da vizio in virtù. La meritocrazia non è poi solo un nome più attraente per la vecchia lode della diseguaglianza, ma è un meccanismo perfetto che l’amplifica e la esaspera, perché le dà un contenuto di giustizia, considerando i talenti naturali non come dono ma come merito. Grazie alla meritocrazia le diseguaglianze naturali non vengono più contrastate ma lodate e premiate. Forse è giunta l’ora che iniziamo a prenderne almeno coscienza.

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Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017

Disuguaglianza Lego ridLa diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri umani (e di molti animali), perché i talenti che ciascuno riceve arrivando sulla terra sono diversi da quelli degli altri. Il grande economista italiano Vilfredo Pareto, alla fine dell’800 dimostrò che le diseguaglianze nei redditi rispondono a leggi distributive simili in tutte le società perché legate alle intelligenze diseguali, e, in quanto naturali, dovevamo semplicemente accettarle come un dato di natura.

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Diseguaglianza e meritocrazia

Diseguaglianza e meritocrazia

Rubriche - Oltre il mercato - La naturale diseguaglianza tipica del mercato capitalistico ad un certo punto è diventata una proprietà morale: la meritocrazia di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (80 KB) di marzo 2017 La diseguaglianza è la condizione naturale degli esseri...
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Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017

Preghiera ridSulla nostra terra ci sono capitali che stanno crescendo e ce ne sono altri che si stanno gravemente e seriamente deteriorando. Il consumo dei capitali ambientali è sempre più evidente e, sebbene con grande ritardo, stiamo iniziando a prenderne coscienza collettivamente. Non abbiamo, però, ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà. I nostri figli stanno crescendo più ricchi di inglese, di internet, di informazioni, ma si stanno drammaticamente impoverendo di vita interiore, di capitale spirituale. C’è un ‘effetto serra dell’anima’ che ci sta asfissiando, e l’aspetto più grave è la mancanza di consapevolezza pubblica. Ci stiamo progressivamente abituando a vivere dentro la serra, inserrati nell’anima, a confondere i teloni di plastica azzurra con il cielo.

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In un recente convegno in Corea, il rappresentante del governo dello stato del Buthan, ha presentato il loro progetto di puntare sulla ‘felicità pubblica’ invece che sul Pil. Al di là del progetto in sé (che presenta anche ombre), ciò che mi ha colpito è che tra le dodici dimensioni del benessere individuate da quel programma ci sia anche la meditazione. Per aumentare il benessere della gente, soprattutto dei giovani, quel popolo ha capito l’importanza della coltivazione della vita interiore.

Questo lo sapevamo molto bene anche noi occidentali, ma lo abbiamo dimenticato e cancellato nel giro di una generazione. Nel far di un mattino abbiamo fatto evaporare un immenso patrimonio etico e spirituale che avevano creato la pietà cristiana, i valori socialisti, quelli del risorgimento, eredi dell’umanesimo greco, romano, biblico. Ubriacati dal consumismo e dal benessere, non ci siamo accorti che mentre mandavamo un patrimonio spirituale costruito nei millenni e nel sangue, e il suo posto restava semplicemente vacante. E così i nostri adolescenti e giovani oggi si ritrovano con più scolarizzazione, con una infinita quantità di comunicazione e informazione, ma con una profondissima carestia di vita interiore, di capacità di affrontare le crisi, di resilienza al dolore proprio e a quello degli altri.

Pensiamo a quel capitale fondamentale per le persone e i popoli che si chiama gratitudine. Le generazioni precedenti avevano più possibilità di gratitudine. Ci si ringraziava di più nelle relazioni quotidiane, anche in quelle commerciali, quando, in un mercato ancora fatto di persone sapevano vedere nel lavoro degli altri qualcosa di più degli incentivi, e quindi ringraziare. Certo, c’erano anche le gratitudini obbligate e sbagliate verso i padroni, ma di più erano le gratitudini vere verso la natura, i campi, gli animali, i genitori, gli anziani – che venivano ringraziati dai figli soprattutto occupandosi di loro quando non erano più autosufficienti: ‘onora il padre e la madre’. Gratitudine verso Dio, che dava aria alla loro vita, donava una nuova dimensione al loro spazio, aumentava la larghezza e la profondità dell’orizzonte del loro cielo.

Questa carestia di capitale spirituale la vediamo tutti: dentro le famiglie, a scuola, nelle imprese. La nostra generazione di adulti è ancora capace di misurare questa povertà perché, pur essendo anche noi consumatori e produttori di questa nuova forma di miseria, siamo ancora capaci di confrontare la qualità della nostra vita interiore con quella dei nostri genitori e nonni. Forse siamo l’ultima generazione capace di fare questo confronto e ancora capire lo scarto. Ci ricordiamo che parlavano in dialetto, che non sapevano l’inglese, che spesso erano capaci di scrivere poche parole o nessuna, ma ci ricordiamo che avevano una grande capacità di gestire la sofferenza, di vivere i lutti, di coltivare e curare le amicizie. E soprattutto sapevano pregare, sapevano credere al paradiso e agli angeli, sapevano morire. E poi pensiamo alle nostre sofferenze, ai nostri lutti, ai nostri amici, alle nostre preghiere, al nostro paradiso svuotato - e ci sentiamo tremendamente impoveriti.

I patrimoni sono il ‘dono dei padri’ (patres munus). Stiamo sperperando molti capitali ricevuti in dono dai padri, come il figliol prodigo, mangiamo ghiande da anni, ma non ce ne siamo accorti. Il XX secolo è stato il secolo di Edipo, il figlio che (senza colpa) uccide il padre. Potrà il XXI secolo essere quello di Telemaco, il figlio che attende il ritorno di un padre che non c’è più, e lo va a cercare per il mare?

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Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017

Preghiera ridSulla nostra terra ci sono capitali che stanno crescendo e ce ne sono altri che si stanno gravemente e seriamente deteriorando. Il consumo dei capitali ambientali è sempre più evidente e, sebbene con grande ritardo, stiamo iniziando a prenderne coscienza collettivamente. Non abbiamo, però, ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà. I nostri figli stanno crescendo più ricchi di inglese, di internet, di informazioni, ma si stanno drammaticamente impoverendo di vita interiore, di capitale spirituale. C’è un ‘effetto serra dell’anima’ che ci sta asfissiando, e l’aspetto più grave è la mancanza di consapevolezza pubblica. Ci stiamo progressivamente abituando a vivere dentro la serra, inserrati nell’anima, a confondere i teloni di plastica azzurra con il cielo.

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Edipo e Telemaco

Edipo e Telemaco

Rubriche - Oltre il mercato - Non abbiamo ancora preso sul serio la distruzione di massa del capitale spirituale della nostra civiltà di Luigino Bruni pubblicato su   pdf Città Nuova n. 02/2017 (63 KB) (60 KB) di febbraio 2017 Sulla nostra terra ci sono capitali che stanno...
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Rubriche - Oltre il mercato - Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. I carismi, però continuano a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici, continuano a indicare una terra promessa, una città più bella

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 01/2017 (60 KB) di gennaio 2017

Utopia Carismi CN ridIl 2016 è stato il 500° anniversario de L’Utopia di Thomas More. Un libro scritto in un momento di grande crisi politica e spirituale dell’Europa, quando la scoperta del nuovo mondo iniziava a mandare in crisi il vecchio, che nel mezzo dello splendore del Rinascimento mostrava già i primi segni di decadenza – come sempre, la decadenza inizia nel momento del massimo successo. Non è raro che siano i tempi di crisi a produrre grandi speranze, i desideri più grandi (de-sidera, cioè mancanza delle stelle, e brama di tornare a rivederle al termine della notte).

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C’è un legame profondo tra utopia e profezia. Sono diverse, ma sono sorelle. L’utopia critica un presente che non ama indicando un luogo lontano e irraggiungibile, la cui descrizione è comunque sempre un progetto e un programma politico per il presente. I grandi utopisti hanno migliorato il mondo perché hanno spinto in avanti i “paletti” del possibile mentre indicavano l’impossibile.

I profeti, certamente quelli biblici (ma non solo quelli), quando parlano del futuro che attende il popolo (esilio, liberazione, terra promessa…), non ne parlano come di un non-luogo ma come il destino che, al tempo opportuno, si compirà. Il futuro profetico non è meno reale del presente storico, è semplicemente diverso.

Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. E ne avremmo un grande bisogno, proprio perché siamo in un momento di crisi e di passaggio, di cambiamento di paradigma e di “mondo”.

I carismi, però, continuano oggi a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici. E quindi continuano a indicare una terra promessa, la liberazione di schiavi, l’alba di una società della gratuità possibile. Ma il discorso dei carismi è, nella nostra epoca, troppo confinato dentro i confini del “religioso” o dello “spirituale”, e così si dimentica che il primo dono dei carismi è stato ed è un dono civile, è un contributo essenziale per fare più bella la città di tutti. Il primo posto dei carismi sono le piazze, le fabbriche, i parlamenti, i ministeri, luoghi che invece lasciamo ai tecnici, che spesso non hanno mai incontrato né i poveri né le povertà vere. Ma troppo spesso sono gli stessi carismi che si auto-confinano nel sacro e nell’ecclesiale, diventano professionisti del culto, dimenticando la loro laicità, accettando la loro emarginazione economica e politica. E un mondo senza carismi civili non conosce la profezia né l’utopia buona, non indica più nessun “non ancora”, vive solo dentro tristi “già”.

Oggi molti carismi nati attorno al concilio Vaticano II stanno vivendo una fase delicata e cruciale, legata profondamente alla morte dei loro fondatori. I movimenti spirituali e carismatici, in un certo senso, “muoiono” con la morte del loro fondatore. Il loro corpo sociale è talmente legato alla persona del fondatore, che quel primo corpo muore insieme alla persona che ha incarnato il carisma. Molti movimenti entrano in crisi irreversibili perché non riescono a comprendere questa morte.

Oggi i movimenti spirituali del XX secolo stanno seguendo due strade diverse: una di declino, l’altra di futuro. La prima è quella imboccata da chi continua a vivere il tempo del dopo-fondatore come se non fosse avvenuta nessuna morte.

Il loro sguardo è tutto proiettato verso il passato, si crede di mantenere la fedeltà al carisma “congelando” o “imbalsamando” il suo corpo, perché si conservi più a lungo possibile. Non aggiornano radicalmente linguaggio e codici simbolici, fanno solo piccoli aggiustamenti al margine. Ma ci sono anche quelle comunità e movimenti che hanno imboccato una seconda via.

Capiscono che il solo modo per “ritrovare” il carisma morto col fondatore è accettare la sua morte e attendere una resurrezione. I Vangeli ci dicono che il corpo risorto non è la rianimazione del cadavere del venerdì santo. Il corpo è diverso, i discepoli e le donne lo riconoscono dalla voce e dalle ferite. I carismi dopo i fondatori risorgono se li riconosciamo nelle ferite del mondo. Solo da lì riescono di nuovo a parlarci e a richiamarci per nome.

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Rubriche - Oltre il mercato - Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. I carismi, però continuano a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici, continuano a indicare una terra promessa, una città più bella

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 01/2017 (60 KB) di gennaio 2017

Utopia Carismi CN ridIl 2016 è stato il 500° anniversario de L’Utopia di Thomas More. Un libro scritto in un momento di grande crisi politica e spirituale dell’Europa, quando la scoperta del nuovo mondo iniziava a mandare in crisi il vecchio, che nel mezzo dello splendore del Rinascimento mostrava già i primi segni di decadenza – come sempre, la decadenza inizia nel momento del massimo successo. Non è raro che siano i tempi di crisi a produrre grandi speranze, i desideri più grandi (de-sidera, cioè mancanza delle stelle, e brama di tornare a rivederle al termine della notte).

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L’utopia e i carismi

L’utopia e i carismi

Rubriche - Oltre il mercato - Il nostro tempo soffre per mancanza di utopia. I carismi, però continuano a svolgere la stessa funzione dei profeti biblici, continuano a indicare una terra promessa, una città più bella di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n. 01/2017 (60 KB) ...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.12/2016 (104 KB) di dicembre 2016

Sharing Economy ridNon è facile capire che cosa sta avvenendo veramente nel crescente fenomeno della cosiddetta sharing economy, economia della condivisione. Anche perché sotto questa l’espressione si raccolgono esperienze molto varie, a volte troppo varie.

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Innanzitutto una premessa. Per chi guarda il processo di sviluppo dell’economia di mercato da una prospettiva di lungo periodo, la sharing economy di oggi è una tappa coerente con l’evoluzione del rapporto tra mercato e società. Fin dall’inizio il mercato è cresciuto in sinergia con il sociale. Un migliaio di anni fa, in Italia, sono iniziati i prodromi dell’economia di mercato con due operazioni: abbiamo preso pezzi di vita in comune fino ad allora retti da norme e strumenti comunitari e li abbiamo messi sotto il controllo della moneta, e poi abbiamo inventato nuove relazioni che nascevano grazie ai nuovi strumenti economici e monetari. Così, invece di continuare a filare i vestiti nella famiglia o nel clan per l’auto-consumo, abbiamo iniziati a venderli e ad acquistarli nella piazza. E abbiamo incontrato persone e popoli finora sconosciuti, o nemici, grazie ai commerci di seta e spezie. La via della seta è stata una grande via di condivisione, per molti secoli, che ha collegato mercanti e civiltà lontane. L’economia di mercato è sempre vissuta di questo intreccio tra socialità e contratti, di beni economici e beni relazionali, di moneta e gratuità. Negli ultimi due secoli gli spazi sociali intrecciati con i mercati sono cresciuti molto, e oggi sono davvero pochi quei luoghi non raggiunti dallo scambio monetario. Sempre più il mercato cresce dando un prezzo ad attività che fino ad allora facevamo gratuitamente, e inventando così sempre nuovi rapporti di mutuo vantaggio per rispondere ai nostri bisogni e desideri.

È dentro questo lungo cammino dell’Occidente, e dell’Europa in particolare, che va letto quanto oggi sta accadendo all’interno del pianeta sharing economy. Se vogliamo tentare di dare una definizione sostanziale della sharing economy, potremmo chiamare con questo nome quelle attività dove si ritrovano, in dosi diverse, queste tre caratteristiche: a) il mercato convive con una qualche dimensione di gratuità (di tempo, di energie, di denaro); b) i contratti si intrecciano con i beni relazionali; c) lo scambio nasce da un mutuo vantaggio esplicito e intenzionale. La novità sta nel tenere queste tre dimensioni assieme, perché esperienze con una o due delle caratteristiche elencate sono sempre esistite. Se guardiamo le esperienze concrete, è la prima dimensione (a) quella più difficile da ritrovare nelle prassi, perché quando il mercato si affianca alla gratuità tende a spiazzarla, ma non sempre, e non necessariamente.

Nel suo insieme, dobbiamo comunque essere molto contenti dello sviluppo della sharing economy, che sta aumentando le occasioni di incontro e di reciprocità nel nostro tempo, facendo crescere la biodiversità delle forme economiche e civili della società.

Ci sono, però, degli effetti collaterali poco visibili prodotti dallo sviluppo della crescita della sharing economy. Pensiamo, per un altro esempio, ai cosiddetti ‘home restaurant’, quelle famiglie che invitano persone sconosciute a cena a prezzi più bassi di quelli dei ristoranti. Se questo fenomeno cresce si potrà arrivare al giorno in cui nessuno ti inviterà a cena se non gli lasci almeno un’offerta. E chi non ha le possibilità economiche, sarà sempre più costretto a stare a casa propria. Ovviamente questi fenomeni diventano socialmente rivelanti quando superano ‘un punto critico’. Ma, purtroppo, i punti critici si superano quasi sempre senza esserne coscienti, e una volta superati rimangono dietro le spalle e non li vediamo più. E potremo presto ritrovarci in un mondo dove un amico ci chiederà 20 euro per ascoltarci un’ora, facendoci lo sconto del 50% rispetto al prezzo nel neo-nato mercato degli ascolti a pagamento. E avremo dimenticato l’antica verità che ascoltare un amico ha un valore infinito proprio perché non ha prezzo, perché è impagabile.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.12/2016 (104 KB) di dicembre 2016

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Economia e condivisione

Economia e condivisione

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016

Emozioni a Firenze ridNelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto che stiamo dentro una profonda trasformazione antropologica, e cercano, come possono, di trovare le soluzioni. Il capitalismo, per la sua capacità di anticipare i bisogni e i desideri, sta comprendendo che nel nostro tempo c’è un oceano di solitudini, di carestie di attenzione e di tenerezza, di mancanza di stima e di riconoscimento, di bisogno di essere visti e amati, dalle dimensioni inedite e immense.  E si sta attrezzando per soddisfare anche questa ‘domanda’ dei nuovi mercati.

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Dall’altra parte, i protagonisti della nostra economia sanno che la fragilità emotiva dei lavoratori è un suo vulnus sempre più grande. Una fragilità dovuta alla scomparsa quasi improvvisa di tutto un patrimonio millenario di coltivazione e di educazione delle emozioni. Le generazioni passate avevano imparato a vivere insieme sofferenze, gioie, crisi, ad elaborare i lutti. La letteratura, la pietà popolare, le poesie, ci avevano insegnato come soffrire per il dolore degli altri, anche di chi non vedremo e non abbracceremo mai. Il lutto era un evento totale, che nel suo tempo limitato assorbiva tutto (a casa mia quando moriva un vicino non si accendeva la TV). Quella gestione delle emozioni ci aveva così insegnato a soffrire per gli sconosciuti; ma senza religioni, letteratura, arte si piange solo per la natura (parenti e amici intimi), non si piange per la cultura: per gli sconosciuti, che non sono mai così sconosciuti da non sentirli fratelli. Noi questa gestione delle emozioni l’abbiamo dimenticata, e ci troviamo in una specie di ‘sabato santo delle emozioni’, in attesa di una resurrezione.

Un segnale di questa emergenza emotiva del nostro capitalismo è la presenza sempre più massiccia nelle imprese di coach, counselor, psicologi aziendali, la crescita dell’offerta di nuovi master in “Gestione delle risorse emotive”, “Sviluppo dell’intelligenza emotiva”. Tutto ciò dice che la crisi emozionale grande, e che da essa originano tanti nuovi conflitti relazionali e il malessere dell’anima - a lavoro e a casa.

I risultati sono per ora nell’insieme piuttosto deludenti, e non potrebbe essere altrimenti, poiché nelle imprese si stanno sempre più concentrando le grandi contraddizioni del nostro tempo. La fabbrica non è più la ‘morfologia del capitalismo’. Non può allora essere l’impresa a curare la povertà emotiva dei suoi lavoratori, perché la malattia è molto più vasta di quella che si manifesta all’interno dei suoi confini.

Pensiamo, ad esempio, all’enorme cambiamento anche lavorativo che sta generando l’evoluzione di internet. Molte relazioni sociali vengono ormai vissute e gestite negli ambienti dei social media. Interazioni senza corpi, dove ci scambiamo milioni di parole diverse da quelle che ci diciamo o ci diremmo guardandoci in faccia e stringendo la mano dell’altro. Non vediamo il rossore delle guance, gli occhi inumiditi, il tremore della voce; e così con parole e simboli (emoticon) diciamo cose nuove e diverse, quasi sempre meno responsabili e vere.

Data l’importanza che questi nuovi ‘luoghi’ hanno per ragazzi e giovani (e ormai bambini), dovremmo investire molto di più nell’educazione alle emozioni nell’era di internet – e dovremmo riflettere di più sul fatto che questo ambiente è gestito da enormi multinazionali a scopo di lucro. Parlare di più, e approfondire la banalizzazione delle parole e dei segni. Il ‘cuore’ e i ‘baci’ sono cose serie, che vanno gestite con cura e parsimonia, per non farli diventare cuori e baci vuoti che poi non ci sono più quando un giorno dovremmo donarli davvero a qualcuno in carne e ossa, e a quello/a soltanto.

Anche nell’uso di questi strumenti, che sono anche una grande benedizione, dovrebbe valere il principio di sussidiarietà: una parola inviata sui social è buona solo se aiuta (sussidia) le parole buone che ci diremo quando ci incontreremo fuori dalla rete. Reimpareremo a lavorare se reimpareremo a stare insieme, coll’anima e col corpo.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016

Emozioni a Firenze ridNelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto che stiamo dentro una profonda trasformazione antropologica, e cercano, come possono, di trovare le soluzioni. Il capitalismo, per la sua capacità di anticipare i bisogni e i desideri, sta comprendendo che nel nostro tempo c’è un oceano di solitudini, di carestie di attenzione e di tenerezza, di mancanza di stima e di riconoscimento, di bisogno di essere visti e amati, dalle dimensioni inedite e immense.  E si sta attrezzando per soddisfare anche questa ‘domanda’ dei nuovi mercati.

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La sussidiarietà delle emozioni

La sussidiarietà delle emozioni

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n.11/2016 (116 KB) di novembre 2016 Nelle grandi imprese del nostro tempo sta crescendo velocemente l’attenzione alla gestione delle emozioni. Le organizzazioni economiche iniziano ad avvertire d’istinto ch...
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Un contributo sul tempo della Terra e il senso della vita da Luigino Bruni che si trova sui luoghi, per lui familiari, del terremoto di stanotte in Centro Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova il 24/08/2016

Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto questa notte. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei loro famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.

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Anch’io lo ricorderò per sempre, perché questo urlo della terra ha raggiunto anche la casa dei miei genitori di Roccafluvione, a una ventina di km da Arquata del Tronto, dove mi trovavo per visitarli. Una lunga notte di paura, di dolore, di pensieri per Amatrice, Arquata, Accumuli, paesi della mia infanzia, vicino ai paesi dei miei nonni, borghi dove nelle estati accompagnavo mio padre che lì lavorava come venditore ambulante di polli. E poi ancora pensieri, pensieri che non facciamo mai, perché si possono fare solo nelle notti tremende.

Pensavo che quel tempo misurato fino alle 3.36 dall’orologio del campanile, che era lì bloccato, morto, era solo una dimensione del tempo, quella che i greci chiamavano kronos, ma che era solo la superficie, il suolo del tempo.

Nel mondo c’è il nostro tempo gestito, addomesticato, costruito, usato per vivere.
Ma al di sotto c’è un altro tempo: è il tempo della terra. Questo tempo non-umano, a volte dis-umano, comanda il tempo degli uomini, delle mamme, dei bambini.
E pensavo che non siamo noi i padroni di questo tempo altro, più profondo, abissale, primitivo, che non segue il nostro passo, a volte è contro i passi di chi gli cammina sopra.
E quando queste notti tremende avvertiamo quel tempo diverso sul quale noi camminiamo e costruiamo la nostra casa, nasce tutta nuova la certezza di essere “erba del campo”, bagnata e nutrita dal cielo, ma anche inghiottita dalla terra. La terra, quella vera e non quella romantica e ingenua delle ideologie, è assieme madre e matrigna.
L’humus genera l’homo ma lo fa anche tornare polvere, a volte bene e nel momento propizio, ma altre volte male, troppo presto, con troppo dolore.

L’umanesimo biblico lo sa molto bene, e per questo ha lottato molto contro i culti pagani dei popoli vicini che volevano fare della terra e della natura una divinità: la forza della terra ha sempre affascinato gli uomini che hanno cercato di comprarla con magia e sacrifici.

E così, mentre cercavo, invano, di riprendere sonno, pensavo ai libri tremendi di Giobbe e di Qohelet, che si capiscono forse durante queste notti. Quei libri ci dicono che nessun Dio, nemmeno quello vero, può controllare la terra, perché anche Lui, una volta che entra nella storia umana, è vittima della misteriosa libertà della sua creazione.

Neanche Dio può spiegarci perché i bambini muoiono schiacciati dalle antiche pietre dei nostri paesi, e non può spiegarcelo perché non lo sa, perché se lo sapesse sarebbe un idolo mostruoso.

Dio, che oggi guarda la terra delle tre A (Arquata, Accumuli, Amatrice), può solo farsi le stesse nostre domande: può gridare, tacere, piangere insieme a noi.

E magari ricordarci con le parole della Bibbia che tutto è vanità delle vanità: tutto è vapore, soffio, vento, nebbia, spreco, nulla, effimero. Vanitàin ebraico si scrive hebel, la stessa parola di Abele, il fratello ucciso da Caino. Tutto è vanità, tutto è un infinito Abele: il mondo è pieno di vittime. Questo lo possiamo sapere. Lo sappiamo, lo dimentichiamo troppo spesso. Queste notti e questi giorni tremendi ce lo fanno ricordare.

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Un contributo sul tempo della Terra e il senso della vita da Luigino Bruni che si trova sui luoghi, per lui familiari, del terremoto di stanotte in Centro Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su: Città Nuova il 24/08/2016

Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto questa notte. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei loro famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra.

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"Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto” (1 Re, 19)

"Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto” (1 Re, 19)

Un contributo sul tempo della Terra e il senso della vita da Luigino Bruni che si trova sui luoghi, per lui familiari, del terremoto di stanotte in Centro Italia di Luigino Bruni pubblicato su: Città Nuova il 24/08/2016 Quel campanile della chiesa di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine fort...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Ma anche lo sviluppo dell’economia di mercato ha dato il suo contributo. L’idea che il mercato sia un mezzo ed una espressione di civiltà non è comune nel nostro tempo (e neanche in quelli passati). In genere prevale il pensiero opposto, e cioè che il mercato sia essenzialmente uno strumento di sfruttamento dei forti sui deboli, un luogo di oppressioni dei più poveri. In realtà, anche se nei mercati e attraverso le imprese e le banche, tutti i giorni accadono cose pessime, fino a vendere il ‘povero per un paio di sandali’ (profeta Amos), per capire il rapporto tra mercato e civiltà occorre cercare di guardarlo bene, o almeno meglio. Pensiamo ad una qualsiasi giornata nelle nostre città. Mentre sto scrivendo questo articolo con il mio computer, in una scrivania dell’università di Lovanio (Belgio), non penso in genere a quanta gente sta cooperando con me affinché io possa fare il mio lavoro, sebbene sia da solo nel mio studio. In realtà sono dentro una grande cooperazione. Con i custodi dell’edificio, con gli addetti alle pulizie, con chi sta lavorando perché arrivi l’energia elettrica e il collegamento internet grazie al quale potrò spedire tra poco il risultato del mio lavoro alla redazione. Quando poi tra poco uscirò per tornare a casa, la cooperazione si estende a chi fa manutenzione delle strade, ai vigili del traffico, ai ferrovieri. Se poi entro a prendere in caffè in un bar (senza slot-machines), dietro quella tazzina ci sono decine di migliaia di persone che hanno lavorato e lavorano perché quel caffè arrivasse da un paese lontano sul bancone del bar. Moltissime persone stanno, qui ed ora, cooperando con me, consentendomi di lavorare, di scrivere, di esprimere la mia personalità. Certo possiamo anche interpretare i comportamenti di tutti i lavoratori che in vari modi si intrecciano con la mia vita, come azioni motivate soltanto dall’interesse, dalla ricerca di guadagno o di profitti. È anche possibile leggere il nostro mondo come la somma di tanti egoismi. Ma non è meno vero, e per me lo è di più, leggere il mosaico di relazioni che si compone ogni giorno come la più grande cooperazione che la storia umana abbia inventato. Anche questo è il mercato. Soprattutto questo è il mercato. È il frutto di migliaia di anni nei quali gli esseri umani hanno imparato a scambiare prima con persone della stessa comunità, poi con sconosciuti ma della stessa fede religiosa, poi con sconosciuti e basta. Tutto questo convive con enormi ingiustizie e diseguaglianze alle quali il mercato potrebbe solo in parte rimediare. E un po’ lo ha fatto, quando nel Novecento sono nate milioni di imprese che hanno assunto milioni di lavoratori, trasformandoli da ex semi-servi a persone con sempre più diritti e dignità. Grazie anche ad un grande movimento sindacale, che ha consentito che il ‘mercato del lavoro’ fosse un mercato particolare, dove non c’erano soltanto contratti di lavoro ma anche patti di lavoro – che oggi stiamo dimenticando. E grazie ad una presenza forte dello Stato, che ha impedito che il mercato diventasse tutto.

Il mercato resta un fattore civilizzante finché la ‘loggia dei mercanti’ insiste sulla stessa piazza del ‘palazzo dei capitani del popolo’ e della Chiesa di San Francesco, come nella piazza medievale della mia città di origine. Quando, invece, i mercanti occupano l’intera piazza della città, comprano il palazzo della politica, e magari anche la chiesa di fronte per trasformarla in un museo (a pagamento), la città si imbruttisce e i mercanti perdono l’anima e presto anche i profitti. Il mercato è civile, riempie la città di colori e di profumi, quando occupa la piazza un solo giorno alla settimana, e negli altri la lascia, gratuitamente, a tutti.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Il mercato e la piazza

Il mercato e la piazza

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016 La nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intellige...
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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

Giovani musicisti ridL’arte, la musica, la letteratura, le scienze umane sono molto importanti per la felicità delle persone, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di disturbi depressivi. Saper suonare uno strumento, gustare una sonata di Chopin, dipingere o farsi amare da un dipinto di Paul Klee, frequentare musei, scrivere e leggere poesia, aumentano il benessere, riducono le spese sanitarie, fanno vivere più a lungo. Sono questi i risultati di un convegno all’università del Wisconsin, al quale ho partecipato nel mese di maggio. 

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Perché, allora, un po’ tutti i governi  occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica, musicale e delle humanities in tutte le scuole di ordine e grado? Perché si continua a pensare che sia più importante l’informatica di saper suonare uno strumento, l’inglese più della letteratura? Poi, magari, veniamo a sapere che la Cina, che in passato aveva combattuto il confucianesimo come il primo male di un Paese feudale, ha da poco reintrodotto il confucianesimo nelle scuole; o che in Corea c’è una grande crescita di educazione musicale nei bambini e nei giovani. E la ragione è semplice: pragmaticamente, questi popoli asiatici stanno capendo che le persone senza una formazione etica e spirituale sono emotivamente molto fragili e non sono abbastanza creative.

La creatività, infatti. Se ne parla dappertutto. Insieme a “innovazione” è la parola d’ordine del nostro capitalismo. Ma si dimentica, drammaticamente, che la creatività di primo livello, diversamente da quella applicativa di secondo livello, non si impara a scuola, tanto meno nelle scuole per “creativi” o nelle business school. Fiorisce quando i bambini e i giovani crescono circondati dalla bellezza, dalla gratuità, dalla natura, immersi in valori alti non usati a “scopo di lucro”. La letteratura, l’arte e la poesia sono essenziali, poi, per formare nei giovani le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi. Impariamo a indignarci per il male e a volere il bene, quando ci raccontano le prime favole nella culla, e poi con la letteratura, la storia, le poesie più belle. È con il codice dell’anima che scriviamo la grammatica delle azioni sociali più importanti.

Un popolo i cui bambini sono cresciuti da tv e videogiochi, dove le emozioni più grandi Varsavia Sinagoga Ghetto Esterno ridsono quelle di mostri a 4 teste o delle storielle banalissime delle nuove telenovele per pre-adolescenti, diventa presto un popolo senza anima civile e democratica, e può svegliarsi un giorno dentro una tecnocrazia meritocratica che governa un mondo senza democrazia. Senza che nessuno l’abbia voluto né cercato, cresciuto nella nostra distrazione, mentre ci intrattenevamo a imparare l’inglese e l’informatica. Cose utilissime, purché non sostituiscano Beethoven e Leopardi.

Eschilo con la tragedia I persiani riusciva a far commuovere gli ateniesi per il pianto di donne che loro stessi avevano reso vedove uccidendo in guerra i mariti. Senza questa specifica educazione delle emozioni non sappiamo piangere più per le vittime nostre e degli altri. Un giorno passeremo per il ghetto di Varsavia ascoltando musica mentre rispondiamo a qualche messaggio con lo smartphone, perché non avremo più il repertorio emotivo per riuscire a vedere i luoghi e la storia. Per “rivedere” il ghetto e i suoi 450 mila ebrei deportati e uccisi, c’è bisogno di un’anima coltivata, di un’interiorità ancora capace di soffrire per un mondo sbagliato, di entrare nella sinagoga e piangere per la vergogna e per il dolore per azioni fatte da sconosciuti ad altri sconosciuti. Per sentire le ferite di tutta l’umanità. Ma per vergognarsi e piangere così, c’è bisogno dell’anima – niente di più, niente di meno.

Nel passato erano la natura, con la sua vita e le sue leggi eterne, la pietà popolare degli anziani e delle mamme, la guerra dei nonni e dei padri, a formare negli uomini le emozioni giuste, che ci fecero capaci di inventare la democrazia e i diritti. Oggi ci resta quasi soltanto l’arte e la poesia: non priviamo i nostri giovani di questo immenso patrimonio che può ancora salvarli.

Tutti i regimi hanno cercato di eliminare la formazione umanistica (o l’hanno ridotta a propaganda). Anche l’impero capitalista sta compiendo la stessa operazione, ma è abilissimo a non farcene accorgercene. Sta in questa distrazione di massa molta della sua forza e la sua capacità di manipolare la politica, l’educazione, le nostre coscienze.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

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La democrazia delle emozioni

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