stdClass Object ( [id] => 18973 [title] => Il volontariato non è il limoncello ma il come si sta a tavola [alias] => il-volontariato-non-e-il-limoncello-ma-il-come-si-sta-a-tavola [introtext] =>La trascrizione di un recente intervento di Luigino Bruni al Comitato editoriale di Vita.
di Luigino Bruni
Pubblicato su Vita il 28/07/2021
La crisi del Covid ha fatto capire meglio alcune cose sul volontariato. Ha fatto capire soprattutto che cosa è la cura, che cosa è questo bene maltrattato, malpagato, questo bene non stimato in quanto bene relazionale che è la cura. Anche se il volontariato non è solo cura ed è anche altre cose, però ciò che ha in comune la cura con il volontariato è questa insufficiente stima sociale perché tutto ciò che ha a che fare con le mani, con il prendersi cura degli altri, con la gratuità è stato per troppo tempo qualcosa non considerato, non guardato come qualcosa di serio per la vita economia, per la vita politica.
[fulltext] =>Il volontariato non è il limoncello ma il come si sta a tavola
A volte noi diciamo, usando una metafora che magari aiuta, che il volontariato è un po’ come il limoncello durante la cena, cioè dopo il primo il secondo, il contorno la frutta se c’è viene il limoncello, se non c’è si mangia lo stesso. Insomma, qualcosa di non essenziale, qualcosa per le anime belle, qualcosa che fanno le persone particolarmente motivate, però in fondo è un lusso che ti puoi permettere quando sei in pensione, quando hai tempo ma non è qualcosa di essenziale. Questo è un antico problema, la carità dà il di più, il di più che poi diventa non necessario e finisce con il diventare superfluo.
Quindi il volontariato oggi deve lavorare culturalmente – già lo fate ma bisogna insistere - non rivendicando, ma dicendo, mostrando, facendo vedere che non è il limoncello ma è il pranzo. È il come si sta a tavola. Chi mangia e chi non mangia, come si distribuisce il cibo, come devono essere i rapporti mentre si mangia. Ecco perché l’arte della gratuità non è l’arte delle cose gratis, è l’arte del vivere, è l’arte dell’eccedenza necessaria per poter vivere bene insieme.
Quindi, la disistima per la cura, considerata in passato faccenda di schiavi, di servi e poi di donne per tanti secoli costrette a occuparsi di cura ha accomunato, ha portato con sé anche una disistima per il volontariato che è una cosa che non si addice alle persone serie che hanno da fare. Quindi, se noi non lavoriamo lì, su questo punto, il volontariato come bene primario della vita in comune, come qualcosa che quando manca è come l’aria, finché c’è non te ne accorgi, ma quando ti ammali capisci cosa è. Il volontariato va rivisto e considerato molto dal punto di vista proprio culturale, antropologico, sociale.
Il Volontariato è un asset non un lusso
Secondo punto. Mi è piaciuta molto questa vostra proposta di chiamarlo patrimonio, capisco meno perché avete aggiunto immateriale perché non c’è nulla di più materiale di un gesto volontario. Mi piace molto perché innanzitutto il volontariato è un patrimonio. Patrimonio voi sapete viene da “patres munus” che vuol dire il “dono dei padri”. Il patrimonio tu lo ricevi, lo erediti, noi oggi stiamo consumando virtù civili delle generazioni precedenti essenzialmente. Il volontariato ha bisogno di un patrimonio di virtù civili che noi oggi stiamo consumando e non siamo capaci di generare a nostra volta. Oggi noi siamo in debito di virtù civili, ne stiamo consumando tante che sono state prodotte dalla generazione dei miei genitori, ma ne stiamo generando poche. Quindi è un dono dei padri essenzialmente, uno stock di una collettività che ci precede. È un patrimonio, un asset non è un lusso. È qualcosa che assomiglia molto a un edificio, assomiglia molto a un giacimento di diamanti, di petrolio, cioè ha a che fare con gli asset non ha a che fare con il flusso di reddito annuale, non è il Pil è molto più simile a un edificio, a una chiesa, a una cattedrale. Quindi sono faccende immobili, non nel senso che non si muovono, ma nel senso che sono più grandi dei flussi annuali del Pil e delle corse del nostro tempo. Ecco perché funziona l’analogia con il patrimonio, il patrimonio dell’umanità come un parco di una montagna, o una cattedrale. Come tutti i patrimoni ha radici localizzate in un posto preciso, quindi non è un bene generico, non è un qualcosa di vago. Ha identità precise, ha nomi e cognomi , spesso anche tradizioni culturali precise, questo non gli impedisce di essere un bene comune e universale. Le radici non gli impediscono di essere un bene di tutti, anzi a volte noi tendiamo a contrapporre ciò che ha radici col bene comune che sembra qualcosa che non deve essere legato troppo a un territorio a una storia. No, il volontariato è come una chiesa ben ferma nel territorio, con un’entità locale eppure non c’è niente di più universale. Come Notre Dame e lo abbiamo visto quando si è incendiata, o del Duomo di Milano. Quindi anche qui il volontariato ha radici ma è un bene comune.
Un patrimonio deve essere curato, accudito
Terzo passaggio, il bene comune come tutti noi sappiamo dalla teoria economica che è un bene che ha una sua storia, una sua identità e una sua radice che però produce quelle che in economia si chiamano esternalità. Cioè ha effetti di bene pubblico, cioè il suo beneficio va molto al di là dei suoi utilizzatori. Il primo bene comune che conosciamo tutti è un bambino che sicuramente è dei genitori ma far crescere un figlio va molto oltre come benefici dei benefici della famiglia dove cresce, così ogni bene comune è un bene privato cosiddetto con esternalità pubbliche. Cosa vuol dire? Che beneficiano di quel patrimonio molte più persone di quelle che lo creano e di quelle che lo alimentano. Ma, secondo elemento del bene comune è la ben nota tragedia dei beni comuni, cioè che i beni comuni non accuditi si distruggono. E questo ce lo ha raccontato in tanti modi la Ostrom, ce lo hanno raccontato tutti . Cioè il bene comune che non ha un sufficiente accadimento collettivo tende a distruggersi per incuria. Noi oggi dobbiamo saperlo: questo patrimonio, come tutti i patrimoni se lo lasci incustodito viene riassorbito dal bosco e viene mangiato dall’incuria. Oggi c’è un rischio di una tragedia dei beni comuni che il volontariato non visto, non stimato, non valorizzato, non accudito, può distruggersi come tutti i beni comuni. Tutti coloro che hanno a che fare con un bene, un immobile che è un bene comune, una chiesa, un parco sa benissimo che quel bene comune vive nella misura in cui una comunità lo accudisce e se ne prende cura. Senza questa cura i patrimoni non vivono da soli anzi si distruggono, si autodistruggono in un collasso.
Il volontariato è come una trota
Infine, il bene comune secondo me, assomiglia a una fiera, una fiera di quelle che si fanno ancora oggi nei vari settori, del mobile o altro, che si facevano già nel medioevo, che sono grandi eventi popolari, feste per tutti. Perché è una fiera? Perché tu vedi concentrato in un luogo prodotti, beni, merci che sono però presenti nel quotidiano anche quando finisce la fiera. Cosa voglio dire? Il volontariato non è qualcosa che ti dice qui c’è tutta la gratuità della città, l’abbiamo messa qui dentro per toglierla dalle piazze, dalle case e dalle imprese. No. Ciò che tu vedi oggi del volontariato in modo concentrato e forte è una risorsa che serve a tutti, a tutte le imprese non solo al volontariato in sé. Il volontariato non toglie la gratuità dalla normalità della vita per metterla tutta insieme in un luogo ma ti ricorda, ti fa vedere in modo forte ciò che ti serve tutti i giorni nella vita di tutti i giorni nelle imprese e nelle organizzazioni.
Il volontariato ha anche un’ulteriore funzione nella vita che è quella delle trote. Io sono un ex pescatore e le trote indicano che l’acqua è pulita, quando in un fiume ci sono le trote l’acqua è pulita, quando vanno via le trote l’acqua si è sporcata. Finché un’organizzazione, una società, un movimento ha volontari ti dice che l’acqua è pulita cioè che c’è gratuità, che la gente va lì perché sente pulizia di valori, vale la pena andarci, quando i volontari vanno via da un’organizzazione, da una comunità da una realtà è perché l’acqua si è sporcata, quindi l’assenza di volontariato è il primo indicatore che deve far riflettere una comunità che sta perdendo gratuità, che sta perdendo virtù civili e deve lavorare per riattrarli, deve purificare l’acqua perché possano tornare le trote.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 04/01/2021
Per tutta la notte tra il 3 e il 4 gennaio sono stato accompagnato da sogni su Chiara e Trento, dove le immagini del film e quelle della mia realtà si intrecciavano, al punto da non poterle distinguere. Ho conosciuto Chiara quando avevo 15 anni, e non è più uscita dalla mia vita, dandole un’impronta decisiva e indelebile.
[fulltext] =>Quando ormai mesi fa seppi che la Rai stava realizzando una fiction su Chiara Lubich, provai un sentimento misto. Da una parte mi faceva piacere che il grande pubblico in Italia conoscesse la figura di Chiara, ancora troppo ignorata dal Paese dove è nata e vissuta. Dall’altra avevo il timore che tra la Chiara della fiction e quella reale si venisse a creare un gap troppo ampio, che avrebbe finito per nuocere alla comprensione della fondatrice dei Focolari. Dopo aver visto il film ieri sera questo secondo sentimento è svanito, ed è rimasta solo una bella sensazione, accompagnata da una gratitudine per chi ha voluto e realizzato il film.
Non è facile raccontare la genesi di un carisma, tanto più se quel carisma è ancora abbastanza vicino a noi, se ha una forte dimensione spirituale, e se presenta tratti di innovazione che a distanza di quasi ottant’anni dall’inizio sono ancora in buona parte da esplorare. L’esperienza di Chiara e delle sue prime compagne è infatti una delle esperienze spirituali più innovative e ricche della storia della Chiesa, ma anche tra le più intime e difficili da raccontare. Nasce da e tra ragazze trentine degli anni quaranta e di quelle ragazze ha tutto il pudore, la modestia, la purezza, il riserbo, quella tipica bellezza.
Negli anni che ho lavorato a stretto contatto con Chiara (dal 1998 al 2008), quando Chiara rievocava quei "primi tempi" riaffioravano la stessa purezza e lo stesso pudore della ragazza trentina.
Il carisma di Chiara
Il suo carisma è profondamente e squisitamente spirituale. Ha come pilastri il centro della passione e morte del Cristo ("Gesù abbandonato") e il suo testamento spirituale: "che tutti siano una cosa sola’" (Giovanni 17,21). Faccende difficilissime da rendere in TV, anche se a girare il film ci fosse stato Federico Fellini o Luchino Visconti.
Il paradiso di Chiara si trovava racchiuso nella sua anima e nel rapporto con le sue compagne nel primo "focolare", e in quelle regioni la telecamera o non penetra o penetra in superficie.
Ecco allora che il film si è dovuto soffermare quasi esclusivamente sugli aspetti sociali di quei primi tempi a Trento, che pur erano presenti e importanti - la povertà, la comunione dei beni, l’esperienze di "date e vi sarà dato", o il conflitto con la Chiesa del tempo.
È più televisiva l’esperienza delle uova donate e ricevute moltiplicate che non i dialoghi segreti tra Chiara e il suo "sposo"; più semplice narrare le vicende di suo fratello Gino, partigiano e medico, che quelle delle altre compagne focolarine, che nel film non si stagliano abbastanza nelle loro diverse personalità; più semplice raccontare delle incomprensioni da parte di preti e cardinali che raccontare dell’amore immenso e incondizionate che Chiara aveva per la Chiesa.
Una Storia dentro tante storie
Qualche volta i carismi - a cominciare da quello infinito di Gesù - hanno un rapporto privilegiato e speciale con la narrazione. Sono innanzitutto una "buona novella", una storia da raccontare e raccontata mille volte. L’incontro con il carisma dei focolari iniziava quasi sempre con una storia, con una storia precisa e sempre quella: “erano i tempi di guerra e tutto crollava…".
Quel racconto, che un focolarino ha ascoltato mille volte e raccontata mille e una volta, aveva una forza carismatica, era già la prima puntata della vita che iniziava dall’incontro con Chiara e con la sua spiritualità. Il film di ieri ha saputo restituire la forza di quel "erano i tempi di guerra …", ed è già molto.
Tutte le volte che si incontra un carisma (quello di Francesco, di Teresa …) è sempre un incontro perfetto e mirabile tra l’interno e l’esterno: si ascolta una storia di qualcun altro e dentro si sente che quella che stiamo ascoltando era già la nostra storia, era la sua parte più profonda e migliore, e non lo sapevamo.
I movimenti carismatici vivono solo di questo, di racconti di storie che attraggono coloro che erano già dentro quella storia senza saperlo ancora. Il film è stato visto da oltre cinque milioni di persone. Forse anche ieri sera qualcuno avrà sentito nella storia di quelle ragazze anche la propria storia, e avrà iniziato a camminare inseguendo la parte migliore di sé.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 04/01/2021
Per tutta la notte tra il 3 e il 4 gennaio sono stato accompagnato da sogni su Chiara e Trento, dove le immagini del film e quelle della mia realtà si intrecciavano, al punto da non poterle distinguere. Ho conosciuto Chiara quando avevo 15 anni, e non è più uscita dalla mia vita, dandole un’impronta decisiva e indelebile.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 26/12/2019
Nell’economia sociale i posti di lavoro sono un effetto dell’acqua pulita. Quando ci sono gli ideali, quando ci sono le motivazioni giuste, i posti di lavoro arrivano, come arrivano le trote nell’acqua chiara dei fiumi. Per capire questo rapporto fra lavoro e vocazione (l’acqua pulita), nello specifico del nostro Paese, dobbiamo però smarcarci dalla contrapposizione - sorta, in un contesto anglosassone, dalla teoria dei due regni di Martin Lutero – che esista un mondo ”for” e un mondo “non” profit. Non è la storia italiana, che è una grande storia, fatta da piccole e medie imprese. La distinzione profit e non profit non coglie infatti il modello italiano d’impresa, un modello nato da un sistema molto più meticcio che viene dalla grande tradizione dell’economia civile. Il modello italiano è dunque un modello meticcio. Lo è tanto nel cosiddetto non profit, quanto in ciò che sembrerebbe unicamente for profit: per questo è facile accorgersi che c’è molta più vicinanza tra un’impresa artigiana (una Srl che ha dieci dipendenti) e una cooperativa, che non fra quell’impresa artigiana e una multinazionale. Il nostro “non profit” è fatto da soggetti di territorio, legati alla storia e tanto la cooperativa, quanto l’impresa artigiana lo sono. Nel sistema italiano anche le imprese che sulla carta sarebbero for profit hanno altri moventi oltre al profitto. Il lavoro e il senso del lavoro va cercato in questo modello meticcio, più che in sterili contrapposizioni.
[fulltext] =>Narrare il senso del fare
Il tema del senso e del ridar senso al lavoro nel terzo settore rientra in questo quadro. Ma per fare un passo avanti dobbiamo cercare di reimpostare la questione del senso anche in una dimensione narrativa nuova. Per quale motivo l’economia sociale italiana ha prodotto un vero e proprio miracolo fino a pochi anni or sono? Semplice: perché ha attratto vocazioni di grande qualità. Non ha soltanto offerto “posizioni” di lavoro, ha fatto spazio al senso. Il primo capitale dell’economia sociale italiana è stato dunque il capitale umano. Lo è stato in un momento di crisi della politica. Negli anni Ottanta, mentre la politica perdeva idealità, la meglio gioventù italiana veniva attratta dall’economia sociale italiana. I frutti sono sotto gli occhi di tutti.
Abbiamo dunque avuto una quantità enorme di eccellenze etiche e professionali che si sono buttate nel mondo del civile e col loro lavoro hanno fatto miracoli. La generazione che ha inventato la cooperazione sociale – diventata un paradigma in molti paesi del mondo – l’ha potuto fare perché ha attratto vocazioni che avevano idealità e talenti umani. Tantissime persone di qualità non si sono buttate in politica, ma si sono dedicate al civile. Il loro lavoro è stato senso e ha dato senso. Per cercare un’analogia dobbiamo tornare alla fase post-fascismo, quando una intera generazione di giovani con forti idealità si impegnò nella costruzione politica e civile. Negli anni Ottanta e Novanta è accaduto qualcosa di simile nell’ambito dell’economia civile e sociale.
Se oggi non riapriamo una stagione analoga, attraendo vocazioni vere con motivazioni e talenti veri (le due cose sono coessenziali) e ridando senso al lavoro, non andiamo da nessuna parte. Si dà senso al lavoro con motivazioni e competenze o, ed è la stessa cosa, con eccellenze professionali e umane. Il mondo dell’economia sociale è un mondo ad intensità di capitale umano e motivazionale. La questione del lavoro è tutta qui: non si innova e non si sviluppa economia sociale se non ci sono persone di qualità.
Tutta la fatica che oggi facciamo è questa: attrarre vocazioni. Ma non possiamo attrarre vocazioni con una narrativa – d’impresa e di lavoro – di matrice anglosassone e capitalistica. Nessuno è attratto dal classico racconto “non profit”. Ciò che attrae è il positivo, non il negativo. Il “non” non è generativo per natura, mentre questo settore è stato e dovrà essere generativo per essere. Dobbiamo allora raccontare diversamente, per risignificare anche il lavoro, che cos’è il privato sociale e che cos’è l’economia civile. Dobbiamo farlo perché nel raccontarlo diversamente ai giovani, c’è la speranza di poter riaprire una nuova grande stagione che leghi lavoro, impresa, vocazione e ideali. I giovani amano tante cose ma amano soprattutto le grandi storie, e spendono la vita per farne parte.
Un paradigma plurale
La seconda cosa che vorrei dire è che dobbiamo stare molto attenti anche a una delle anime della riforma del Terzo settore. Non dobbiamo imboccare la via dell’omogeneizzazione e dell’omologazione dell’economia sociale al paradigma economico dominante. Se l’economia sociale diventa un modo per rispondere con la stessa cultura d’impresa a bisogni diversi, la sfida è già persa. Il modello anglosassone che dice business is business non può passare. Ma quest’idea sta passando, anche in Italia: ecco il problema.
Dobbiamo invece ritrovare un’economia specifica, la stessa economia che ha fatto la ricchezza di molti territori nel XX secolo, con le sue peculiarità, le sue qualità, la sua capacità di unire ideale e lavoro. Se riusciamo a farlo, c’è speranza. Ma dobbiamo uscire dal paradigma dominante, che vorrebbe trasformare il non profit in un’impresa speciale, ossia un corpo speciale dello stesso esercito, e tornare al nostro vero paradigma che è plurale. L’idea che l’economia è una non è vera. L’economia sociale italiana ha mostrato che questa pluralità è ciò che dà senso e crea lavoro. Il lavoro nasce dalle passioni civili. Il lavoro nasce dalle idealità che, messe a reddito, hanno generato. Ciò che oggi manca non è dunque il lavoro, sono queste idealità applicate al lavoro. Ma se passa l’idea che il business è uno solo, che il modo di fare impresa è uno solo allora assisteremo alla morte del nostro mondo. Perché il lavoro diverrebbe tecnica, una tecnica applicata a un ambito specifico.
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Il mondo dell’economia sociale andrà avanti se saprà andare indietro, come nel gioco del rugby. Perché le radici non sono il passato, ma il presente e il futuro. Dal magazine Vita di novembre intitolato "Serve ancora il Terzo settore?"
di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 26/12/2019
Nell’economia sociale i posti di lavoro sono un effetto dell’acqua pulita. Quando ci sono gli ideali, quando ci sono le motivazioni giuste, i posti di lavoro arrivano, come arrivano le trote nell’acqua chiara dei fiumi. Per capire questo rapporto fra lavoro e vocazione (l’acqua pulita), nello specifico del nostro Paese, dobbiamo però smarcarci dalla contrapposizione - sorta, in un contesto anglosassone, dalla teoria dei due regni di Martin Lutero – che esista un mondo ”for” e un mondo “non” profit. Non è la storia italiana, che è una grande storia, fatta da piccole e medie imprese. La distinzione profit e non profit non coglie infatti il modello italiano d’impresa, un modello nato da un sistema molto più meticcio che viene dalla grande tradizione dell’economia civile. Il modello italiano è dunque un modello meticcio. Lo è tanto nel cosiddetto non profit, quanto in ciò che sembrerebbe unicamente for profit: per questo è facile accorgersi che c’è molta più vicinanza tra un’impresa artigiana (una Srl che ha dieci dipendenti) e una cooperativa, che non fra quell’impresa artigiana e una multinazionale. Il nostro “non profit” è fatto da soggetti di territorio, legati alla storia e tanto la cooperativa, quanto l’impresa artigiana lo sono. Nel sistema italiano anche le imprese che sulla carta sarebbero for profit hanno altri moventi oltre al profitto. Il lavoro e il senso del lavoro va cercato in questo modello meticcio, più che in sterili contrapposizioni.
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di Giuseppe Frangi
pubblicato su Vita il 2/10/2015
San Francesco come ispiratore dell’idea di banca. Sembra un’affermazione fuori luogo ma non lo è affatto. Perché proprio dall’ordine fondato dal Santo di Assisi prese avvio a inizio 1400 il primo sistema creditizio d’Europa. Ma cosa c’entra il santo che fece una radicale scelta di povertà con chi di professione maneggia denaro? «Non dobbiamo mai dimenticare che Francesco era figlio di mercanti e che per il primo periodo della sua vita aveva seguito le orme del padre. Quindi era uno che il know how degli scambi commerciali, con nessi e connessi, l’aveva acquisito», spiega Luigino Bruni, economista, docente alla Lumsa, tra i promotori delle esperienze di economia di comunione in Italia.
[fulltext] =>Come aveva detto uno dei più importanti storici del santo, Jacques Le Goff, «Francesco è l’esempio sorprendente di un uomo aperto verso la nuova società, con tutti i suoi mali e le sue contraddizioni. È un uomo che osserva con simpatia, con amore, senza livore gli uomini del suo tempo, pieni allo stesso tempo di peccati e di bellezza creaturale. È inevitabilmente un apostolo della nuova società». E per la nuova società, che in quel frangente del 1200 iniziava ad affermarsi come soggetto protagonista e trainante, il tema del denaro non era certo tema di secondaria importanza. Quella dei primi istituti di credito organizzati dai francescani è storia famigliare, in quanto il primo Monte di Pietà sorse proprio nella sua città natale, Ascoli Piceno nel 1458.
In realtà si trattava di Monte dei pegni. Perché il pegno?
I francescani erano gente che conosceva il mondo. E nel prestare denaro volevano un impegno da parte del destinatario a renderlo. Non si trattava di un’elemosina, ma di un contratto vero e proprio. Non veniva mai pensato come denaro a perdere come investimento sui progetti o i bisogni che le persone avevano. Per questo il pegno funzionava da copertura del prestito e simbolicamente impegnava il ricevente a fra cose buone con i denari ricevuti. È interessante anche ricordare che le armi non venivano accettate come pegno: non tutti i pegni sono “buoni”. Nel pensiero francescano un contratto era di aiuto assai più che un dono.
Come si concilia la scelta di povertà con questa legittimazione culturale dell’utilità del denaro?
Sul francescanesimo pesa un grande equivoco: quello di una povertà pensata in chiave un po’ ideologica e massimalista. Ma la povertà di Francesco, che è povertà scelta, ha come sua ragion d’essere anche il liberare dalla povertà chi la povertà se l’era trovata addosso senza averla scelta. È una povertà che libera dalla povertà.
Il monte dei pegni è associato all’idea di ultima spiaggia. Di luogo dove si lasciano le cose più care per recuperare risorse economiche necessarie a sopravvivere…
Quella è un accezione tardiva. Oggi il monte ha quella funzione, ma all’inizio era l’opposto. Innanzitutto erano motori di economia perché erano dei veri istituti di credito che permettevano a chi voleva iniziare un’attività di dotarsi delle risorse necessarie. In secondo luogo con il meccanismo dei pegni legavano i destinatari in un rapporto. È una manifestazione d’interesse da parte di chi ha il denaro rispetto all’opera di chi lo riceve. È un atto di fiducia. E la fiducia è il primo motore di ogni crescita economica.
Resta sempre la domanda di fondo. Perché proprio i francescani hanno dovuto svolgere questa funzione di fondo?
Perché il francescanesimo è il movimento che esce dai chiostri ed entra nelle città, queste nuove entità che stavano crescendo impetuosamente. I francescani vanno per le strade e vedono tutti i tipi di bisogno. Compresi quelli di chi non aveva risorse per avviare anche piccole attività. E vedendo si attrezzano. Certamente fu un non piccolo trauma anche rispetto al resto del clero. La vita monacale si era imborghesita: erano ormai comunità ricche anche se fatte da monaci di per sé poveri. Ma i monasteri spesso, con il cumulo di donazioni, erano diventati dei piccoli imperi. Le ricchezze però non erano dinamiche e messe in circolo, ma bloccate nei marmi. Erano acqua ferma. E si sa che l’acqua ferma alla fine puzza.
D’accordo, ma non c’erano soggetti laici che potevano svolgere questa funzione di banche?
C’erano, ma i francescani si muovono proprio per arginare il fenomeno dell’usura. Perché chi aveva denaro lo voleva far rendere al massimo, senza farsi troppi scrupoli. Se non si finiva nelle mani degli usurai, si cadeva in quelle dei banchieri ebrei che applicavano comunque interessi alti.
Quest’anno in occasione della festa di San Francesco cade anche la prima giornata del dono. Che valore può avere una giornata così?
Nei Fioretti di San Francesco viene raccomandato ai frati di non ricevere denaro quando si andava ad annunciare il vangelo, non per ragioni di sobrietà, ma perché se fosse dovuto chiedere un corrispettivo corrispondente al “bene” portato, non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo. Questo per dire che la gratuità intesa da san Francesco non è un meno ma un più, è un bene infinito. La giornata del dono deve essere l’occasione per riflettere su questo punto, sulla differenza che tra “regalo” e “dono”. Una differenza profonda, perché il “dono” è innanzitutto un rapporto, un dono di sé. E per questo è contagioso, come spiego sempre è “anti immunitario”, proprio come la fraternità.
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di Giuseppe Frangi
pubblicato su Vita il 2/10/2015
San Francesco come ispiratore dell’idea di banca. Sembra un’affermazione fuori luogo ma non lo è affatto. Perché proprio dall’ordine fondato dal Santo di Assisi prese avvio a inizio 1400 il primo sistema creditizio d’Europa. Ma cosa c’entra il santo che fece una radicale scelta di povertà con chi di professione maneggia denaro? «Non dobbiamo mai dimenticare che Francesco era figlio di mercanti e che per il primo periodo della sua vita aveva seguito le orme del padre. Quindi era uno che il know how degli scambi commerciali, con nessi e connessi, l’aveva acquisito», spiega Luigino Bruni, economista, docente alla Lumsa, tra i promotori delle esperienze di economia di comunione in Italia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 19/09/2013
C’era bisogno in Italia - dove esiste una significativa presenza di scuole dell’economia cooperativa e sociale, di centri di ricerca sul non-profit e terzo settore – della Sec?
Sì e no. Non è necessario per chi ritiene che le scuole d’impresa oggi nascono per dar lavoro ai docenti, e che per le imprese rappresentano una sorta di tassa da pagare o un prezzo per ottenere un bene posizionale; o per coloro che pensano che l’Italia oggi abbia bisogno di meno chiacchiere e più innovazione imprenditoriale; e per chi pensa che non ci sia nessun elemento specifico o culturale nel modo di fare impresa in Italia rispetto a quanto accade negli USA o in Inghilterra.
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Per questi ultimi il 19 maggio scorso è stata una buona e bella giornata, perché è stata fondata, a Loppiano (Firenze), da 15 soci (tra questi Acli nazionale, Federcasse, Banca Etica, La federazione trentina della cooperazione, l’Istituto Universitario Sophia e il Polo Lionello Bonfanti dell’EdC), la SEC s.r.l., una scuola che vuole diventare un centro di emanazione di pensiero nuovo e di azioni diverse, per l’economia sociale ma anche per l’impresa più tradizionale (con le forme giuridiche più diverse) che concepisce la propria attività come incivilimento – è anche questa una delle differenze tra l’economia sociale, non-profit, del terzo settore e l’economia civile.
L’Italia è stata una delle nazioni che nei suoi tempi migliori ha prodotto cultura e pensiero, e con questi ha invaso il mondo, facendolo, generalmente, migliore e più bello. Da qualche decennio il nostro Paese è confinato alla periferia culturale, e quindi economica, del mondo. L’Italia ritroverà un suo protagonismo economico se saprà attingere linfa vitale dalle sue antiche radici, che si chiamano Umanesimo civile, cooperazione, comunità, economia civile. Come nel rugby: andare indietro per andare avanti, e raggiungere la meta, oltre la crisi.
Info
La SEC, Scuola di Economia Civile non è l’ennesimo corso di aggiornamento o di riqualificazione professionale. Per questo, materie di “formazione” alla SEC saranno la centralità della persona e del bene comune, l’offerta di una proposta culturale a dirigenti e professionisti di vari settori, la creazione di valori di riferimento per «far comprendere che la sostenibilità economica può accompagnarsi ad una sostenibilità di tipo sociale» – come sostiene Silvia Vacca, imprenditrice e presidente del CdA.
Tra i promotori ci sono gli economisti Stefano Zamagni, Luigino Bruni e tanti altri studiosi che da anni approfondiscono i temi e le prassi legati all’Economia civile. Attorno a loro si sono raccolte importanti istituzioni, operanti nei più diversi settori dell’associazionismo economico e non solo. In particolare le Acli nazionali, Banca Popolare Etica, Federazione trentina della cooperazione, Federcasse, Economia di Comunione Spa, Istituto Universitario Sophia.
Sarà proprio la cornice di LoppianoLab 2013 ad ospitarne l’inaugurazione il 20 settembre presso il Polo Lionello Bonfanti (Incisa Valdarno – Firenze) dove la scuola ha sede.
La Scuola di Economia Civile si propone come un laboratorio di formazione permanente per imprenditori, dirigenti e quadri direttivi e per chi opera nelle imprese, nelle cooperative, nelle organizzazioni a movente ideale, per chi lavora nelle pubbliche amministrazioni e nelle libere professioni, per le scuole e chiunque desideri avvicinarsi al pensiero di un’economia che tenga conto delle persone e delle relazioni tra loro.
I corsi inizieranno in autunno in sede; tra i docenti ci sono economisti di rilievo, italiani e stranieri, tra cui citiamo Giuseppe Argiolas, Stefano Bartolini, Leonardo Becchetti, Luigino Bruni, Anouk Grèvin, Mauro Magatti, Elena Granata, Helen Alford, Vittorio Pelligra, Pier Luigi Porta, Renato Ruffini, Stefano Bartolini, Alessandra Smerilli, Stefano Zamagni, Vera Negri Zamagni.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita di Giugno 2013
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I corsi al via da settembre
Il manager cambia scuola
di Luigino Bruni
pubblicato su Vita di Giugno 2013
C'era bisogno in italia - dove esiste una significativa presenza di scuole dell’economia cooperativa e sociale, di centri di ricerca sul non profit e terzo settore - della Sec? Sì e no. Non è necessaria per chi ritiene che le scuole d’impresa oggi nascano per dar lavoro ai docenti, e che per le imprese rappresentino una sorta di tassa da pagare o un prezzo per ottenere un bene posizionale; o per coloro che pensano che l’Italia oggi abbia bisogno di meno chiacchiere e più innovazione imprenditoriale; e per chi pensa che non ci sia nessun elemento specifico o culturale nel modo di fare impresa in italia rispetto a quanto accade negli Usa o in Inghilterra.
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di Giuseppe Frangi
pubblicata sul mensile Vita, luglio 2012
C'è un'affermazione apodittica nel titolo del nuovo libro di Luigino Bruni che sulle prime può lasciare spiazzati. “Le nuove virtù del mercato nell’era dei beni comuni”: davvero quindi siamo in una stagione in cui i beni comuni hanno ritrovato un posizione centrale nel pensiero e nelle scelte della politica?
[fulltext] =>Che la questione stia tornando d’attualità nella coscienza delle persone é testimoniato dal fatto che quest’anno ha fatto persin breccia tra le tracce dei temi di maturità.
I tecnici del ministero hanno infatti messo i beni comuni al centro del tema storico politico con citazioni da San Tommaso, Rousseau, Luigi Einaudi e De Rita. Ma oggi non siamo in realtà nella stagione della “tragedia dei beni comuni”? L’espressione é mutuata da un celebre articolo di un biologo americano, Garret Hardin, uscito nel 1968 sulla rivista Science, e su cui Bruni si sofferma a lungo in uno dei capitoli centrali del libro.
Secondo Hardin oggi il mondo vive una tensione drammatica tra la libertà degli individui e le risorse comuni. I collassi di tante civiltà sono stati originati da simili dinamiche: gli individui massimizzano al massimo i benefici per loro e scaricano i costi sociali sulla collettività. Come aveva scritto il Nobel Elinor Ostrom, premio Nobel nel 2009, morta i1 12 giugno scorso, i beni comuni tendono a essere distrutti quando diventano “beni di nessuno".
E allora, in che senso Luigino Bruni sostiene che siamo nell' "era dei beni comuni”? Bruni non parte da un’opzione volontaristica che alla fine fa prevalere i buoni propositi su quelli distruttivi. Piuttosto aggancia il tema dei beni comuni a quell’altra entità oggi dominante che potrebbe essere imputata del saccheggio di quei beni. Cioé il mercato. Come spesso ha sostenuto Amartya Sen, uno degli autori di riferimento di Bruni, il problema del mondo di oggi é che "i Paesi industrializzati utilizzano una quota sproporzionatamente maggiore di ciò che definiscono “i beni collettivi globali". Il fenomeno avviene in ordine sparso, all’insegna di un individualismo che ha perso ogni dimensione di razionalità». Ed é su questo punto che Bruni coglie un varco di fragilità del sistema a cui contrappone, in una delle sezioni più affascinanti del libro, la “razionalità del noi”. E quella razionalità che sta alla base dello stesso mercato, inteso nella sua vera natura "grande e densa rete di rapporti di mutuo vantaggio». Il mercato oggi é "incagliato nell’ipernanziarizzazione dell'economia attuale» e per liberarsi e tomare a essere davvero prottevole ha bisogno di nuove virtù. Il momento é cruciale. Essere “nell’era dei beni comuni” signica che in questo crocevia si decide la partita.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 4/05/2012
Sono tutti positivi quei fenomeni che sottraggono spazi della vita civile alle logiche dell’economia del denaro. Il baratto, nelle forme in cui sembra affermarsi in questi periodi anche per via della crisi, può essere una di queste forme. Ma non lasciamoci cullare dai sogni. Vi siete mai chiesti perché non sono mai decollate le “banche del tempo”, un meccanismo che in realtà sarebbe perfetto per rispondere a tanti bisogni della vita collettiva? Non sono decollate perché l’offerta prescinde sempre dalla domanda. Si dà disponibilità del proprio tempo non tanto per rispondere a un bisogno quanto per avere una chance di fare una cosa che piace. E nelle banche del tempo l’offerta è sempre esorbitante rispetto alla domanda.
[fulltext] =>Poi non bisogna mai perdere di vista il principio che ogni scambio, anche non regolato da moneta, prevede una reciprocità. Cioè un mutuo vantaggio: non basta un altruismo interessato. Inoltre, ogni scambio richiede equità: quello che io do deve essere in qualche modo proporzionale a quello che ricevo. Il mercato ha connaturato uno strumento per fissare questa equivalenza, ed è quello del prezzo, che, in base alle proprie oscillazioni, stabilisce se un servizio o una merce scambiata serve oppure no. Anche laddove la conoscenza è frammentata, il prezzo fissa il parametro.
Il baratto dunque parte con molti handicap. In contesti normali l’incrocio tra domanda e offerta è affidato al caso e forse solo sfruttando le potenzialità del web si può fare qualche passo avanti. Altrimenti il baratto resterà sempre relegato a forma di scambio marginale e premoderno. Ma c’è un ambito in cui può proporsi come un modello assai più efficiente ed efficace del mercato: l’ambito della cura. Innanzitutto la cura, se pagata in moneta, non è a portata di tutti. In secondo luogo c’è una naturale ritrosia a mettere ciò che riguarda la vita sul piano di una mercanzia. E dato che la domanda di cura è una domanda in fortissima crescita, tutte quelle forme che riescono a regolare i rapporti evitando l’invasività di logiche solo economiche possono disporre di una grande chance. In questi ambiti mutualità e fiducia hanno un vantaggio di competitività rispetto al mercato. Ma per fare un passo come questo è necessario fare una sorta di upgrading, che renda più strutturati i meccanismi di scambio e che dia affidabilità alle valutazioni di equivalenza.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita del 30/12/2011
Si sta concludendo un annus terribilis della finanza e dell’economia mondiale (o meglio di una parte dell’Occidente opulento perché altri Paesi stanno ancora in ottima salute, fra cui il Brasile). Un modo per ripercorrere i dibattiti di questa lunga crisi è guardare alla Tobin Tax, un tema preso, ripreso, criticato, rilanciato nelle varie stagioni della bufera.
Mario Monti è stato allievo di James Tobin a Yale e quindi è da sperare che faccia tesoro dei suoi insegnamenti. Attorno alla Tobin Tax si concentrano infatti molte delle grandi sfide di questa crisi.
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Un primo messaggio che ci proviene da questi dieci anni è che se avessimo preso sul serio quella protesta dei giovani (i giovani vanno sempre ascoltati perché spesso pongono domande giuste anche quando le risposte non sono adeguate) forse questa crisi non sarebbe arrivata o sarebbe stata molto meno grave.
Ma per comprendere pienamente il significato di questa tassa associata al Nobel James Tobin, può essere utile ricordare quali sono le tre principali funzioni delle tasse (e delle imposte) nelle moderne democrazie.
La prima è quella più ovvia e meno controversa dal punto di vista ideologico: il finanziamento e la costruzione dei beni pubblici. Questa prima funzione delle tasse non richiede necessariamente altruismo né particolari virtù civiche, ma solo la fiducia e la speranza che la gran
maggioranza degli altri concittadini non siano evasori (una fiducia che oggi potremmo in Italia chiamare anche virtù).La seconda funzione è la redistribuzione del reddito: la tassazione diventa strumento di solidarietà e fraternità civile che dice con i fatti che un popolo è anche una comunità con un Bene comune da garantire e salvaguardare, e può poggiare anche su una forma di razionalità autointeressata (come ci ha spiegato il filosofo J. Rawls) quando pensiamo che le persone svantaggiate domani potremmo essere noi o i nostri figli. Ed è anche associata all’efficienza ed allo sviluppo economico perché un Paese con minor disuguaglianze cresce di più.
La terza funzione, quella meno nota e ricordata, è quella di incoraggiare i beni detti “meritori” (o di merito) e scoraggiare i beni “demeritori”: si tassano poco o meno beni considerati utili per il bene comune (cultura, educazione…) e si tassano di più quei beni che in realtà sono dei “mali” (tabacco, superalcolici…). In quest’ultimo caso le tasse svolgono la funzione di orientare i consumi della gente in settori eticamente sensibili dove sono in gioco valori di interesse collettivo.
Normalmente le tasse svolgono o l’una o l’altra di queste tre funzioni e sono molto rare quelle che le riuniscono tutte insieme: la Tobin Tax è proprio una di queste. Infatti contribuire a dare ordine e stabilità ai mercati finanziari significa dar vita oggi ad una sorta di bene pubblico di grande valore anche economico. L’effetto redistributivo è evidente, se si utilizzeranno, come sembra ovvio, le entrate per costruire infrastrutture, sanità e istruzione nei Paesi in via di sviluppo. Infine la speculazione finanziaria presenta aspetti di bene demeritorio, poiché i rischi eccessivi da una parte creano una forma di dipendenza all’adrenalina che generano simili operazioni, e dall’altra aumentano il rischio di sistema che ricade sull’intera popolazione (come stiamo vedendo in questi mesi).
La finanza è una buona pianta del giardino della polis, ma in questi ultimi decenni, non essendo stata potata, è cresciuta troppo invadendo l’intero giardino fino a quasi soffocare tutte le altre piante. La Tobin Tax sarebbe una forma per potare questa buona pianta e ricondurla alla sua giusta dimensione. La sfida cruciale consiste nell’adottare una simile tassa a livello più possibile globale, poiché l’ambito della finanza è il mondo.
Inoltre occorre associare all’applicazione della tassa una seria lotta allo scandalo dei paradisi fiscali. Ma anche se fosse solo l’Europa ad adottarla sono convinto che la Tobin Tax rappresenterebbe un grande segnale di civiltà. L’Europa è stata la patria dell’economia moderna e della finanza, è stata capace di inventare queste istituzioni e questi strumenti che l’hanno fatta grande e che hanno reso possibili sviluppo e democrazia per il mondo intero. L’Europa oggi uscirà da questa grave crisi politica ed economica solo se saprà rilanciare un grande progetto: dare un segnale forte con una Tobin Tax sarebbe una scelta coraggiosa ma capace di futuro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita del 30/12/2011
Si sta concludendo un annus terribilis della finanza e dell’economia mondiale (o meglio di una parte dell’Occidente opulento perché altri Paesi stanno ancora in ottima salute, fra cui il Brasile). Un modo per ripercorrere i dibattiti di questa lunga crisi è guardare alla Tobin Tax, un tema preso, ripreso, criticato, rilanciato nelle varie stagioni della bufera.
Mario Monti è stato allievo di James Tobin a Yale e quindi è da sperare che faccia tesoro dei suoi insegnamenti. Attorno alla Tobin Tax si concentrano infatti molte delle grandi sfide di questa crisi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 2/09/2011
Quali sono le vere origini di questa crisi?
Per capire quello che stiamo vivendo in queste settimane dobbiamo tenere presente questo dato: oggi il volume annuo dei titoli scambiati nei mercati finanziari supera di gran lunga (tra le 8 e le 10 volte) il Pil mondiale, un volume che negli ultimi 15 anni è aumentato di oltre 40 volte.
[fulltext] =>La domanda che dovremo porci, compresi gli addetti ai lavori, è come mai abbiamo assistito inerti a questa crescita ipertrofica ed elefantiaca della finanza speculativa, senza fermarci di tanto in tanto per valutare, a più livelli (economico, politico, civile, etico) se la strada imboccata negli anni Novanta ci stava portando su sentieri impraticabili e molto pericolosi. Questa ipertrofia della finanza si stringe in un abbraccio mortale con l’esorbitante debito, privato e pubblico, dell’economia mondiale economicamente avanzata. Non dobbiamo mai stancarci di ripetere che il problema di questa crisi è l’eccessivo indebitamento, privato (nel 2008) e pubblico (ora), dovuto a grandi salvataggi di banche e a finanziamenti di costosissime guerre.
In cosa questa crisi è diversa dalle altre che l’hanno preceduta?
La crisi di oggi ci dice che non è più possibile separare l’economia dalla geo-politica e dalle politiche dei singoli Stati. Tra i crolli dei mercati finanziari, i problemi politici di Obama, le vicende del governo italiano, la debolezza del sistema politico europeo, esiste un rapporto talmente stretto al punto di non poter individuare dove finisce il Mercato e inizia la Politica. Questa crisi ci sta dicendo che ancora non sappiamo né capire né governare il capitalismo globalizzato, perché mentre l’economia e la finanza sono radicalmente cambiate, la politica e i suoi strumenti sono ancora quelli del primo capitalismo, compresa la creazione senza controlli e garanzie di enormi debiti pubblici, espressione dell’antica idea di sovranità e signoraggio degli Stati-nazione. Riusciremo, allora, a venire fuori da questa crisi epocale solo se sapremo guardare assieme e in maniera sistemica finanza, economia e politica, in un’ottica globale ma molto attenta alle dimensioni regionali (vedi Grecia). La finanza è cresciuta come una buona pianta che, in mancanza di potature e di cura, sta invadendo l’intero giardino.
Quali sono le vere ragioni del debito pubblico degli stati ricchi?
Il maxi-salvataggio delle banche del 2009 ha essenzialmente spostato debito dal settore privato al settore pubblico, senza rimuovere le cause vere del problema, che si ritrovano in un ceto medio USA e mondiale che si sta progressivamente impoverendo e indebitando. Dietro il grande debito pubblico c’è un problema di diseguaglianza nella distribuzione del reddito che sta diventando ‘la’ questione cruciale nel nostro sistema economico capitalistico. Nell’autunno del 2008, quando la crisi stava per esplodere, la quota di PIL posseduta dall’1% più ricco della popolazione USA ha raggiunto il picco, esattamente come nel 1928, all’alba del grande crollo di Wall Street, come ci ha ricordato Robert Reich nel suo ultimo, utilissimo, libro (Aftershock, Fazi, 2011). Quando il ceto medio si impoverisce relativamente alla classe opulenta, tende ad indebitarsi troppo, anche perché oggi, a differenza del 1929, il sistema finanziario propone e promette ricette magiche per mantenere o aumentare, con il debito, i livelli di consumo.
Perché la speculazione affonda le borse?
Dietro la crisi che stiamo attraversando c’è soprattutto una grave crisi di fiducia: non si sa più dove trovare investimenti affidabili, e quindi si vendono titoli preferendo liquidità (o oro e beni rifugio). Oggi è chiaro come non mai quanto sia vero che credito deriva da "credere", dal fidarsi. Il grande economista inglese J. M. Keynes nel 1936 aveva ben descritto, nella sua sostanza, quanto sta accadendo ora, un fenomeno che dipende poco dai sofisticati strumenti finanziari e molto da semplici meccanismi psicologici: siamo caduti in una «trappola delle aspettative negative», una situazione nella quale per una grave crisi di fiducia (in questo caso nei debiti pubblici degli Stati "sovrani") gli operatori hanno una fortissima preferenza per la liquidità e una grande sfiducia nei titoli finanziari. L’economia finanziaria globalizzata ha bisogno di fiducia ma, come nel caso dell’energia, la consuma senza essere capace di ricrearla, perché i suoi strumenti creano reputazione (che è un normale bene di mercato) che tende a spiazzare la fiducia (che è invece un bene relazionale). Ciò che ad oggi è certo è che la vecchia politica basata sui governi nazionali, sugli equilibri partitici e sulla sovranità non funziona più. Che cosa uscirà da questo fallimento non lo sappiamo: possiamo solo prevedere alcuni anni di fragilità, di rischio sistemico, di incertezza, con sacrifici per tutti, speriamo con un po’ d’equità.
Crescere è la risposta giusta?
In questi giorni dove tutti parlano di crescita dobbiamo tener ben presente che l’economia capitalistica è cresciuta già troppo e male in questi ultimi venti anni (anche grazie alle innovazioni finanziarie), con gravi conseguenze ambientali e sociali: i tassi di crescita degli anni precedenti al 2008 non sono riproponibili, sia per ragioni economiche (manca domanda), ma anche e soprattutto per ragioni ambientali e etiche. Altrimenti faremmo l’errore di chi scopre di avere un diabete alimentare e per curarlo cerca di aumentare un po’ l’attività fisica, continuando però a mangiare dolci come prima della diagnosi: ci si cura seriamente cambiando globalmente stile di vita, e facendo sacrifici, una parola antica e impopolare, ma sempre cruciale quando la storia si fa seria.
La Tobin Tax è una risposta realistica?
Il grande nodo da affrontare oggi è quello fiscale: infatti anche per combattere seriamente l’evasione fiscale dovremmo almeno riconoscere che esiste una mega "questione fiscale" e di giustizia che si gioca sui mercati finanziari globali, dove si creano enormi profitti e rendite che di fatto sfuggono ai sistemi fiscali ancora troppo ancorati alla dimensione nazionale, che al più può ricorrere ex post al pericoloso e immorale trucco dei condoni. Per questo è giusto e opportuno riproporre oggi il tema della Tobin Tax. Un prelievo sulle transazioni finanziarie che, contribuendo a dare ordine e stabilità ai mercati finanziari, costituirebbe oggi una sorta di bene pubblico di grande valore anche economico. L’effetto redistributivo è evidente, se si utilizzeranno, come sembra ovvio, le entrate per costruire infrastrutture, sanità e istruzione nei Paesi in via di sviluppo. Infine la speculazione finanziaria presenta aspetti di bene demeritorio, poiché i rischi eccessivi che questi strumenti creano vengono scaricati dai soggetti privati sul sistema, creando le tipiche “tragedie dei beni collettivi”.
Nonostante tutto anche se stiamo attraversando la crisi più seria del capitalismo globalizzato, io voglio essere ottimista e sperare che se daremo vita ad un nuovo patto sociale ed ad una stagione di riconciliazione che dai rapporti quotidiani arrivi ai rapporti dentro e tra gli stati, potremo uscire da questa “malattia” addirittura migliori cambiando tutti i nostri stili di vita, individuali e collettivi.
vedi articolo: prima parte; seconda parte
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 2/09/2011
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 01/07/2011
“Le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie. Eppure gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni Paese del mondo.
[fulltext] =>Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi”. Questa frase della filosofa americana Martha Nussbuam è, credo, la tesi centrale del suo ultimo libro tradotto in italiano dal Mulino, che si intitola: Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica.
I diritti che non si vedono
La democrazia è un albero fragile, con radici sempre poco profonde nel terreno della storia, che richiede di essere coltivato, accudito, custodito, soprattutto nei momenti di crisi. Alla democrazia la Nussbuam durante tutto il suo percorso di studiosa ha dedicato molto lavoro e passione civile, mostrandoci, assieme ad Amartya Sen, l'economista indiano Premio Nobel per l'economia nel 1998, che lo sviluppo si misura sull’asse delle libertà e dei diritti, e poco - e spesso male - sull’asse di quel Pil cui siamo stati abituati a far riferimento. E senza intelligenza critica, pensiero libero e creativo, le libertà e i diritti non crescono nelle nostre civiltà, semplicemente perché le persone non riescono a vedere i diritti e le libertà come beni preziosi, non combattono per essi e li barattano volentieri con qualche merce in più.
La formazione umanistica non va intesa come un bene elitario, un bene di lusso accessibile ai pochi che ne hanno talenti e possibilità economiche. Come la Nussbaum ha ricordato nella sua bellissima lezione che ha tenuto all’Istituto universitario “Sophia” lo scorso 6 giugno a Loppiano, uno dei suoi modelli di educatore è Tagore, che con la sua poesia e i suoi programmi formativi nelle scuole è stato, come Gandhi, alla radici dell’indipendenza e della democrazia indiana. La bellezza, come la nonviolenza, sono anche virtù civili essenziali per il bene comune e per la qualità della democrazia.
La proposta della Nussbaum è per una scuola e per una università nelle quali arte, letteratura, filosofia siano considerate fondamentali per la formazione del carattere di ogni cittadino, poiché senza formazione dell’interiorità delle persone (compito nel quale l’arte, la musica e la letteratura non hanno sostituti) le nostre società non saranno in grado di gestire e di orientare al bene comune le straordinarie conquiste della tecnica e delle comunicazioni.
Nei periodi di crisi e di cambiamenti epocali, le persone e le comunità che avevano a cuore il bene comune hanno salvato e rilanciato la civiltà con istituzioni (sia politiche che economiche), ma anche fondando nuove scuole e promuovendo l’arte: il monachesimo, poi i francescani, i tanti carismi religiosi e laici delle modernità, il movimento socialista, hanno utilizzato anche la bellezza per “salvare il mondo”.
Come fece Olivier Messiaen che, nel campo di internamento di Goerlitz, compose ed eseguì in una baracca con alcuni musicisti deportati il . O come il violinista Karel Fröhlich, che nel 1944 a Theresienstadt fece un concerto a coloro che sarebbero partiti la mattina seguente per Auschwitz–Birkenau.
Non tagliate l’istruzione!
L’arte, la bellezza hanno sempre lottato e lottano contro la morte e la barbarie, e offrono strumenti per la liberazione e il progresso anche civile delle coscienze e dei popoli.
In tutto ciò la scuola e l’educazione hanno un ruolo fondamentale: «Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i Paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso ad un filo”
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di Luigino Bruni
pubblicato su Vita il 01/07/2011
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pubblicato su Vita il 24/06/2011
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Sono convinto che il giorno più importante nella “battaglia per l’acqua” è il giorno dopo il referendum. La vittoria del Sì è solo l’inizio di un processo. Infatti dobbiamo avere il coraggio di dire che la gestione pubblica (lasciare cioè le cose come stanno) non è la soluzione, ma è il problema da risolvere. Dobbiamo subito cercare insieme la soluzione al problema che non può essere conservare lo status quo, ma maggiore creatività e fantasia politica, economica, civile.Ciò che più mi stupisce in tutta la discussione a cui abbiamo assistito sull’acqua, è che tutto il dibattito continua a essere centrato interamente sul binomio e sulla contrapposizione Stato-mercato. Sulla gestione dell’acqua si sono formati due partiti: quello che vuole mantenere la gestione pubblica (cioè affidata alla pubblica amministrazione) e quello che vuole affidarla al mercato. Chi vuole il pubblico afferma che l’acqua non è una merce, e che non si possono fare profitti sui beni comuni che diventerebbe presto una tassa per i cittadini (verità sacrosanta, tra l’altro); chi vuole il mercato dice che pubblico significa spreco, corruzione e inefficienza.
Questa visione dicotomica è una malattia molto italiana (e latina), dove continuiamo a vedere il mondo sociale a due dimensioni, trascurando un terzo elemento (non terzo settore, attenzione) che si chiama società civile, che è invece sempre cruciale per la qualità della democrazia. Sono convinto che non si troverà una soluzione condivisa a questo tema cruciale finché non daremo centralità a questo “terzo escluso”, la società civile e alle sue espressioni anche economiche.
Perché, infatti, non immaginare e poi realizzare anche per la gestione dell’acqua una soluzione simile a quella che è emersa dalla società civile sui temi della cura, del disagio, della malattia mentale? In questi settori, che sono altre forme di beni comuni, trent’anni fa la loro gestione era totalmente in mano allo Stato (e alle famiglie); oggi gran parte di questi servizi sono in mano a migliaia di cooperative sociali che gestiscono questi servizi eticamente e relazionalmente sensibili in modo efficiente (mercato quindi), ma senza avere il profitto come movente. È la cosiddetta impresa sociale o civile, cioè un soggetto che è mosso da finalità sociali e solidaristiche, ma che non ha come scopo il profitto.
La società civile ha saputo esprimere quindi imprenditori sociali, che pur senza aspettarsi grandi remunerazioni del capitale investito, hanno voluto e saputo utilizzare il loro talento imprenditoriale per gestire beni comuni (gli imprenditori sono essenziali per gestire in modo efficiente risorse scarse). E tutto ciò è stato possibile (nei casi più virtuosi, non tutti ovviamente) grazie a una nuova alleanza o patto tra mercato, pubblico e società civile: il pubblico è ben presente, ma è un partner alla pari con imprenditori e comunità.
Per l’acqua credo che dovremo immaginare una soluzione simile: dar vita, con apposite leggi (come è avvenuto nel 1991 con la cooperazione sociale) a nuove imprese sociali per la gestione dell’acqua che siano frutto di un’alleanza tra pubblico, imprese e società civile. Così potremo dire che il Sì è stato davvero una vittoria.
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pubblicato su Vita il 24/06/2011
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Sono convinto che il giorno più importante nella “battaglia per l’acqua” è il giorno dopo il referendum. La vittoria del Sì è solo l’inizio di un processo. Infatti dobbiamo avere il coraggio di dire che la gestione pubblica (lasciare cioè le cose come stanno) non è la soluzione, ma è il problema da risolvere. Dobbiamo subito cercare insieme la soluzione al problema che non può essere conservare lo status quo, ma maggiore creatività e fantasia politica, economica, civile.
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Concorrenza.Vinco io e vinci tu. Basta economia killer
di Luigino Bruni
pubblicato sul settimanale Vita del 28 gennaio 2011
La concorrenza, se bene intesa, è una delle principali virtù del mercato. Ma, anche in questo caso, dobbiamo sgombrare il campo da visioni sbagliate o parziali della concorrenza. La concorrenza è una virtù quando è quel meccanismo sociale che gli economisti civili dell'Ottocento (come i milanesi Romagnosi o Cattaneo) chiamavano civil concorrenza. Di che cosa si tratta?
[fulltext] =>La visione oggi dominante tende infatti a considerare la concorrenza tra imprese come una gara tra l'impresa A e l'impresa B nella quale ciascuna vuol vincere battendo l'altra. Questa visione a volte viene anche alimentata da un uso scorretto e fuorviante della metafora sportiva (o addirittura da caricature del darwinismo), che ci rappresenta un mercato come un luogo dove tutti corriamo, e dove alla fine abbiamo vincitori e sconfitti. Una tale visione quindi legge la concorrenza come una faccenda che si svolge tra A e B, e che come effetto non intenzionale può produrre la riduzione dei prezzi di mercato e quindi il vantaggio dei clienti C.
E se guardiamo così il mercato, è ovvio che la concorrenza, diversamente da quanto ho sostenuto nella prima puntata di questa serie, non ha nulla a che fare con la cooperazione, anzi ne è proprio l'opposto, anche perché la cooperazione tra imprese "concorrenti" viene da questa prospettiva semplicemente chiamata cartello o trust, che vanno a scapito dei cittadini e dell'efficienza dei mercati.
Che cos'è invece la concorrenza di mercato vista dalla prospettiva dell'economia civile?
Il gioco di mercato ci appare ben diverso, e non più focalizzato sulla gara tra le imprese A e B, poiché la concorrenza di mercato diventa un processo centrato sugli assi A-C e B-C: cioè ogni impresa cerca di soddisfare i clienti (intesi in senso ampio) meglio dell'altra, e quella che ci riesce peggio esce dal mercato (o si ristruttura): l'uscita dal mercato delle "concorrenti" non è quindi lo scopo dell'impresa, ma è solo un effetto in un certo senso non intenzionale. Dalla nostra prospettiva allora lo scopo dell'impresa A diventa cooperare con i cittadini, clienti, fornitori C, all'interno di un rapporto di assistenza reciproca, di un team, e non "battere" la concorrente B; e viceversa.Ma fin dove possiamo spingerci su questa strada di civil concorrenza? Si aprono, infatti, molte questioni, e alcune delle quali molto rilevanti, che forse riprenderemo in seguito.
Pensiamo, per un esempio forse non irrilevante per l'economia sociale, che il mercato dell'economia sociale è ancora dominato dalla "gara" pubblica e dall'appalto, quindi da una visione della concorrenza come gioco a somma zero, fatto di vincitori (della gara) e di vinti. Questa visione, che in altri scritti ho chiamato "la sussidiarietà all'incontrario", ha come fulcro il pubblico che definisce i progetti e che chiama le cooperative a "gareggiare", spesso in una gara al ribasso molto pericolosa. Una visione da concorrenza civile cambierebbe radicalmente questa prospettiva: è l'impresa sociale che vive a contatto con i bisogni della gente che "vede" opportunità di mutuo vantaggio con i cittadini, e che poi si rivolge (non sempre magari) al pubblico per poter realizzare con trasparenza ed efficienza quel dato progetto, che non è più "guidato dall'offerta" ma dalla "domanda" della gente. C'è ancora molto da fare.
Ci sono poi altre domande difficili. Che ruolo gioca in una tale visione del mercato la divisione dei “guadagni dallo scambio"? come facciamo a definire le "fette" dei guadagni che ciascuno dei partecipanti avrà una volta generato valore aggiunto? A chi ponesse tali domande, legittime e doverose, quando deve dar vita ad una impresa o ad una cooperativa, insieme a grandi economisti come Genovesi, Mill o Sen, direi: “quando vedete un’opportunità di creazione di valore, non spendete troppe energie nel definire come dividere i guadagni futuri. Cercate la più ovvia e normale divisione, stabilitela in linea di massima, e concentrate il vostro impegno nella creazione del beneficio comune”. Un consiglio che però va dato ai partecipanti allo scambio presi assieme, poiché in questa visione del mercato c’è implicita una norma di reciprocità, che dice: “comportati così soltanto con persone che condividono questa tua stessa cultura di mercato”.
Ma, chiediamoci, una tale cultura o filosofia di mercato è anche un buon consiglio per il singolo imprenditore o operatore quando non ha garanzie che gli altri con cui interagisce condividano la stessa cultura di reciprocità o di fraternità? Credo di sì. Una persona che segue una tale massima finirà, qualche volta, con una quota minore di guadagni se confrontata con quella che otterrebbe con un atteggiamento più duro e attento alla ripartizione dei guadagni. Ma, in compenso, spenderà meno tempo ed energie, e avrà meno probabilità di aprire contenziosi e conflitti con gli altri, che spesso bloccano contratti, affari e imprese. Nel lungo periodo probabilmente vivrà la vita più serenamente, e forse anche non troppo male economicamente. Anche qui esiste, infine, un ruolo delle istituzioni: il loro disegno può incentivare la ricerca di mutui vantaggi, o l’opportunismo individuale.
Potremmo allora riassumere questa cultura di mercato civile con la seguente massima: “quando fate un affare insieme (soprattutto quando dura nel tempo) non preoccupatevi troppo di stabilire le “fette della torta” che creerete: preoccupatevi intanto della torta, e di crearne tante, perché poi nel tempo, se non siete opportunisti e sleali, convergete verso una norma equa di redistribuzione. Una volta guadagnerà più l'uno, una volta più l'altro, ma l'importante è crescere assieme”. Un tale consiglio, ad esempio, è molto efficace soprattutto quando si ha a che fare con dei giovani, perché riduce di molto i costi di transazione, rafforza i sentimenti di fiducia reciproca, e crea una lettura positiva ed ottimista della vita in comune. Anche perché non è mai un buon inizio di rapporto con socio, un fornitore o con un cliente insistere su garanzie o vincoli relativi ai (possibili) futuri guadagni: anzi è spesso la strada maestra per bloccare l'affare prima che inizi. La generosità e la larghezza d'animo sono in un certo senso anche delle virtù molto importanti nel successo di un imprenditore (e di tutti). Anche perché, lo abbiamo scritto qualche puntata fa, l’imprenditore è soprattutto un “creatore di torte”, grazie alla sua capacità innovativa, non un "tagliatore di fette".
Oggi sappiamo che uno dei primi fattori di arretratezza culturale ed economica è proprio costituito dallo schema mentale con cui leggiamo la concorrenza di mercato e la vita civile. Le comunità, i popoli e le persone crescono quando leggono i rapporti economici e civili come mutuamente vantaggiosi, restano bloccate in trappole di povertà quando ciascuno vede l’altro come qualcuno da fruttare o da cui difendersi.
Una economia civile vede il mercato come una grande e densa rete di rapporti di mutuo vantaggio, a tanti livelli. La civil concorrenza è l'energia che scorre in questo network di relazioni di cui è costituito il mercato, e chi ne fa parte avvantaggia sé stesso e gli altri. Creare una rete sempre più fitta di opportunità di scambio significa legare le persone in azioni congiunte, dove ciascuno cresce con e grazie agli altri, e tesse fili della rete che tiene assieme le città e le società. Questa è economia civile, questa è civil concorrenza.
vedi articolo
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Concorrenza.Vinco io e vinci tu. Basta economia killer
di Luigino Bruni
pubblicato sul settimanale Vita del 28 gennaio 2011
La concorrenza, se bene intesa, è una delle principali virtù del mercato. Ma, anche in questo caso, dobbiamo sgombrare il campo da visioni sbagliate o parziali della concorrenza. La concorrenza è una virtù quando è quel meccanismo sociale che gli economisti civili dell'Ottocento (come i milanesi Romagnosi o Cattaneo) chiamavano civil concorrenza. Di che cosa si tratta?
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Lavoro: Motivare le persone non è questione di incentivi
di Luigino Bruni
pubblicato sul settimanale Vita del 18 febbraio 2011
Il lavoro inteso come virtù è una conquista della modernità. Nel mondo antico (greco-romano, ma anche in oriente) lavoravano gli schiavi, l’uomo libero, il cittadino, grazie agli schiavi (che lavoravano per lui) poteva affrancarsi dal bisogno di lavorare, e dedicarsi ad attività più degne dell’uomo libero, come la filosofia, la politica o la ginnastica. Durante il medioevo cristiano il lavoro inizia ad affermarsi come virtù (quindi come attività buona in sé, via di felicità) grazie ai carismi monacali, che iniziano ad affermare che il monaco è anche un lavoratore (anche questo è uno dei significati del benedettino ora et lavora).
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L’economia di mercato ha comunque contribuito ad emancipare definitivamente il lavoro dal suo statuto di inferiorità, e renderlo, sempre più, il grande protagonista dell’uomo libero, fondandoci democrazia e Repubblica (art. 1).
Eppure oggi il lavoro è sottoposto a delle tensioni: lodato ed esaltato, da una parte, asservito al consumo e alla speculazione dall’altra. E in questa stagione di crisi economica e sociale, il lavoro è forse la questione più urgente, che ci chiama ad una riflessione più profonda, e in gran parte nuova rispetto ai dibattiti ideologici del secolo XX, su che cosa sia veramente lavorare, e su che cosa sia il lavoro all’interno della vita.
Partiamo, anche questa volta, da due situazioni quotidiane. Sono invitato a cena, porto un vassoio di pasticcini, e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato il prezzo, dico “grazie” al barista. Due grazie detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola: grazie. Perché? Che cosa accomuna questi due fatti apparentemente così distanti, almeno nella cultura delle nostre società di mercato? La prima cosa che li accomuna è il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Infatti non diremmo mai “grazie” alla macchina automatica del caffè, o sorridiamo quando ci scappa un “prego” in risposta alla voce meccanica che ci ringrazia dopo aver pagato con la carta di credito il pedaggio dell’autostrada. Sono convinto che quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere del supermercato, non sia solo buona educazione o abitudine, ma quel grazie esprime il riconoscere che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più del dovuto, che trasforma quello scambio in un atto veramente umano; anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre la lettera del contratto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone, pulire un bagno, o fare una lezione in aula. Si lavora veramente quando al Sig. Rossi si aggiunge Mario, quando Professor Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia, il lavoro diventa troppo simile a quello della macchina automatica del caffè, e quindi ci si ferma prima dell’uscio dell’oikos (casa) dell’umano.
E’ qui però che incontriamo un importante paradosso, che si pone a cuore delle attuali imprese e organizzazione. I lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno, se sono bravi e onesti, che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia, quando esprime un’eccedenza rispetto al contratto e al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo libro di N. Alter, Donner et prendre). Infatti, soprattutto nelle moderne organizzazioni complesse, se il lavoratore non dona liberamente le sue passioni, la sua intelligenza, le sue motivazioni intrinseche, nessun controllo incentivo o sanzione può riuscire ad ottenere da quel lavoratore la parte migliore di sé, che poi diventa anche fattore competitivo essenziale per il successo dell’impresa stessa.
Oggi è sempre più vero che il successo delle imprese nella concorrenza internazionale dipende soprattutto dal capitale umano, dalle persone e dalla loro intelligenza e creatività, che fanno crescere l’azienda e producono ricchezza quando mettono in gioco tutte se stesse nello svolgimento di una data professione o nell’eseguire un compito all’interno di una organizzazione. Chiunque lavora in una qualsiasi organizzazione sa che queste dimensioni del lavoro, motivazionali e, oserei dire, spirituali, non possono essere comprate o programmate, ma accolte dal lavoratore come espressione della sua reciprocità, del suo dono. Posso comprare con opportuni incentivi la prestazione, ma non posso comprare sul mercato del lavoro quanto veramente serve alla mia impresa per poter vivere e crescere. Posso, in altre parole, acquistare e controllare quando entri ed esci dall’ufficio, posso verificare che cosa fai nelle otto ore di lavoro, ma non posso né controllare né comprare come lavori, con quanta “anima”, passione e creatività vivi quelle otto ore di lavoro al giorno. Le clausole e le caratteristiche dei contratti di lavoro si fermano esattamente prima di entrare nelle cose che veramente contano in una relazione umana di lavoro, che dura per anni e che vive di tutte quelle dimensioni che nessun contratto può né prevedere né specificare. E’ come dire che con i normali contratti di lavoro e con gli incentivi si riesce a “comprare” soltanto la parte meno importante del lavoro e del lavoratore umano, quell’attività troppo simile a quella delle macchine, ma non si riesce ad ottenere quelle dimensioni più profonde e qualitative dell’attività lavorativa, dalle quali dipende – e qui sta il punto! - la gran parte del successo anche economico dell’impresa. E i vari sofisticati meccanismi incentivanti che posso trovare, essendo necessariamente strumenti esterni e estrinseci, non saranno che parziali e imperfetti; e, nel peggiore dei casi (tra l’altro sempre più frequenti, e molto studiati oggi dagli economisti), questi strumenti producono l’effetto opposto, poiché gli incentivi monetari entrano spesso in conflitto con le motivazioni intrinseche dei lavoratori.
E’ qui allora che emerge il paradosso, quando cioè ci si rende conto (e sempre di più) che le imprese, e in generale le organizzazioni, hanno in questi due secoli di capitalismo costruito un sistema di incentivi e di ricompense che non riesce a riconoscere il di più del dono presente nel lavoro umano. Se, infatti, per riconoscere il dono contenuto nel lavoro le imprese usano gli incentivi classici (denaro ad esempio), il “di più” del dono viene riassorbito all’interno del contratto e del doveroso, e quindi scompare; se però per evitare questa scomparsa del dono le imprese e i loro dirigenti non fanno nulla, con il passare del tempo l’eccedenza del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa. Credo che stia proprio in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di lavoro (dall’operaio al professore universitario), dopo i primi anni arriva quasi sempre una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato per anni il meglio di sé stessi a quella organizzazione, senza però sentirsi veramente conosciuto e riconosciuto in quello che si è veramente donato, che è sempre immensamente più grande del valore dello stipendio ricevuto. Ci si sente così valutati molto meno di quanto si vale, perché le organizzazioni non trovano il linguaggio per esprimere tutto ciò che si trova tra lo stipendio e il dono della propria vita. Sono convinto che si cambi spesso lavoro proprio perché si va in continua ricerca di questo riconoscimento che quasi mai arriva.
In questa fase di cambiamento epocale, anche nella cultura del lavoro e dell’impresa, l’arte più difficile che i dirigenti di imprese e organizzazioni debbono imparare e coltivare è proprio l’arte di trovare meccanismi che sappiamo riconoscere, almeno in parte, il dono presente nel lavoro, in ogni lavoro. Al tempo stesso, noi lavoratori non dobbiamo chiedere troppo al nostro lavoro, sapendo che il lavoro è importante ma non potrà mai esaurire il nostro bisogno di dare e di ricevere doni, la nostra vocazione alla reciprocità. Il lavoro ha le sue stagioni: conosce una data di inizio e una di fine, conosce i tempi della malattia e della fragilità, mentre il nostro bisogno di reciprocità ci accompagna e cresce durante l’intera vita, precede e sopravvive al lavoro. E senza saper segnare e riconosce il limite al lavoro nell’economia della nostra vita (e delle nostre comunità), il lavoro sarà o servo o padrone, mai “fratello lavoro”.
Allora si lavora veramente, e il lavoro è pienamente una virtù, quando si riconosce in se stessi e negli altri un “di più” del lavoro rispetto alla lettera del contratto; e si vive veramente quando si riconosce un di più della vita rispetto al lavoro.
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