Città Nuova

Economia Civile

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.22/2009

Quando andiamo a visitare un amico dopo un incidente, e gli chiediamo: «Come stai?», ci potrebbe rispondere: «La gamba sta guarendo, la costola fa ancora male, l’ematoma non è stato riassorbito, mentre il braccio è a posto». È questa la condizione dell’economia che sta cercando di uscire da un (grave) incidente. Le parti del “corpo” danneggiate dalla caduta del settembre 2008 sono state soprattutto tre: la struttura finanziaria, la produzione e l’occupazione. I dati sulla crisi e sulla ripresa sono contrastanti perché si parla oggi della gamba, ieri delle costole, domani dell’ematoma.

Fuor di metafora, la grave crisi del settore finanziario la possiamo dire superata: oggi non si rischia più un crollo di sistema (almeno per il futuro prossimo). La produzione reale sta ripartendo, e tra qualche mese è probabile che si torni a produrre con un segno del Pil positivo. Ciò che invece non guarisce è il mondo del lavoro: credo che, globalmente, non si tornerà più ai livelli occupazionali pre-crisi. Perché? Innanzitutto le crisi sono sempre momenti nei quali si distruggono assetti industriali in parte obsoleti e se ne creano di nuovi, sono momenti di “distruzione creatrice”. Inoltre con l’ingresso di nuovi grandi attori nel mercato i settori industrialmente maturi del Nord del mondo dovranno necessariamente ridimensionarsi.

Secondo alcune stime, nei prossimi anni l’economia tradizionale potrà occupare non più dei 2/3 dei lavoratori. Che fare? C’è una strada ancora poco sottolineata: potenziare e sviluppare la capacità e la vocazione produttiva della società civile, la cosiddetta economia civile. Occorre cioè che una quota maggiore di società civile e di famiglie non “cerchino” il lavoro presso le grandi imprese o lo Stato che lo ha “creato”, come diceva il modello tradizionale pre-2008. È necessario che la società civile sia sempre più capace di creare essa stessa lavoro, e non solo nei servizi di cura ma anche in settori ad alto valore aggiunto; e occorre che lo faccia in sinergia con le imprese tradizionali e con le istituzioni.

Bisogna poi superare l’idea di economia sociale, o non-profit, come di un settore finanziato in gran parte da contributi pubblici, perché questo modello non può essere sostenibile, se è vero che lo Stato ottiene ricchezza principalmente tassando la produzione delle imprese tradizionali (che saranno sempre di meno). È quindi urgente che l’economia civile attivi con capacità innovativa ricchezza privata e sia capace di produrre essa stessa valore aggiunto.

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Secondo alcune stime, nei prossimi anni l’economia tradizionale potrà occupare non più dei 2/3 dei lavoratori. Che fare? C’è una strada ancora poco sottolineata: potenziare e sviluppare la capacità e la vocazione produttiva della società civile, la cosiddetta economia civile. Occorre cioè che una quota maggiore di società civile e di famiglie non “cerchino” il lavoro presso le grandi imprese o lo Stato che lo ha “creato”, come diceva il modello tradizionale pre-2008. È necessario che la società civile sia sempre più capace di creare essa stessa lavoro, e non solo nei servizi di cura ma anche in settori ad alto valore aggiunto; e occorre che lo faccia in sinergia con le imprese tradizionali e con le istituzioni.

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Disoccupazione e creatività civile

Disoccupazione e creatività civile

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.22/2009 Quando andiamo a visitare un amico dopo un incidente, e gli chiediamo: «Come stai?», ci potrebbe rispondere: «La gamba sta guarendo, la costola fa ancora male, l’ematoma non è stato riassorbito, mentre il braccio è a posto». È questa la condiz...
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L'economia italiana nel contesto dell'incertezza internazionale. Istruzioni per non restare "ingolfati".

di Luigino Bruni

pubblicato l' 08/10/2009 su www.cittanuova.it

L’economia è una scienza sociale che fa largo uso di metafore e di immagini. La prima e ancora oggi tra le più famose è stata la “mano invisibile”, la metafora con cui l’economista Adam Smith spiegava nel Settecento il mercato come un meccanismo che trasforma gli interessi privati in bene comune. Ancora oggi l’economia prende in prestito dallo sport (la concorrenza come gara sportiva), dalla musica (il manager come direttore d’orchestra), e da molti altri ambiti immagini che consentono agli economisti di spiegare dimensioni della realtà che rimangono inaccessibili al linguaggio delle formule matematiche e dei bilanci d’esercizio. Non sempre, però, le metafore aiutano davvero, e a volte portano fuori strada, soprattutto quando l’immagine presa in prestito è usata con scopi ideologici, e con eccessive semplificazioni.

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Negli ultimi tempi, ad esempio, si incontra sempre più spesso l’accostamento tra mercato e traffico stradale. Quando una persona esce di casa e si immette nel traffico lo fa perché ha motivi e interessi personali che lo spingono a ciò (lavoro, amici, svago…), non per amore della sua città o degli altri automobilisti. Ma se il traffico è ben regolato da strumenti (semafori, rotonde e autovelox), istituzioni (polizia stradale e vigili), infrastrutture e buone leggi, ognuno riesce a raggiungere il proprio scopo. Perché la viabilità funzioni bene, poi, non bastano istituzioni, strumenti, controlli e leggi ma occorre anche una certa etica dell’automobilista e la manutenzione delle strade. E quando questo meccanismo si inceppa (negli ingorghi, ad esempio), non conviene intervenire sugli automobilisti per farli diventare più “buoni”, ma bisogna migliorare le strade o sostituire i semafori con le rotonde. Così nel mercato: buoni strumenti e istituzioni, regole e “vigili”, “strade” larghe e comode, rispetto delle leggi e ciascuno riesce a raggiungere i propri obiettivi, dando vita ad un “ordine spontaneo” che non richiede un piano regolatore che fissi i prezzi dall’alto, o regoli la domanda e l’offerta.

Ma c’è di più. Nel traffico non è opportuno, anzi è sconveniente, guardare negli occhi gli altri automobilisti quando li sorpassiamo o siamo fermi ad un semaforo. Né mentre si guida è richiesto l’altruismo, che è spesso pericoloso (perché imprevedibile), come quando un automobilista “altruista” che vedendo una persona anziana che vuole attraversare la strada in una zona senza strisce pedonali inchioda e viene così tamponato da chi lo segue. L’unica forma di sguardo negli occhi, di altruismo che sembra aver spazio nel traffico è quello necessario nei momenti di crisi (in una manovra sbagliata, un imprevisto), o il favore che si fa a chi vuole immettersi da una strada secondaria nel traffico urbano. Così nel mercato: l’anonimato e l’impersonalità funzionano meglio dei rapporti amicali o famigliari. Negli affari non si “guarda in faccia” a nessuno: rispettare le regole, più qualche piccola donazione, è il massimo che si può chiedere all’etica economica in tempi normali. Solo durante le crisi occorre fare qualche cosa in più.

Ma siamo sicuri che le cose stiano davvero in questi termini? Non credo. L’analogia mercato-traffico coglie alcuni aspetti, ma rischia di portarci fuori strada su altri molto importanti. Innanzitutto nel traffico l’etica la si vive in altri aspetti ben più rilevanti: dal tipo di auto che acquistiamo (ecologica o no), dallo stile di guida responsabile e prudente (che non riduce la velocità solo quando vede l’autovelox), o dalla temperanza con la quale reagiamo di fronte ad una manovra sbagliata di altri. E il ruolo delle istituzioni non si esaurisce nella manutenzione dei semafori e degli autovelox, ma nel favorire sistemi di trasporto più ecologici (il treno, ad esempio), i mezzi pubblici o la nuova modalità di noleggio dell’auto, il cosiddetto car-sharing, rispetto alla vettura di proprietà.

Così nel mercato: l’etica non sta principalmente nel sorriso che si fa al cliente o al collega, ma nell’essere aggiornati professionalmente, nel prepararsi prima di un incontro, nel non vendere la dignità per la carriera, nella sicurezza sul lavoro, nell’indignarsi di fronte alle ingiustizie.

«Io voglio bene ai miei pazienti studiando la loro cartella clinica prima della visita», mi diceva un anziano primario milanese. Oggi la sfida per chi ama l’etica e i valori è riscattarli dal ruolo marginale dove li stiamo confinando: il sorriso dal finestrino dell’auto, l’sms solidale o il 5 per mille. Tutte cose positive, ma la qualità etica della vita pubblica viene giocata sull’uso del 99,5 per cento del reddito, sulla solidarietà con le terre d’Abruzzo sei mesi dopo gli sms dell’emergenza, o sulla giustizia nei rapporti di lavoro.

Queste crisi che stiamo vivendo e le tante altre che vivremo ci dicono che la dimensione etica di imprese e banche non si misura con l’importo destinato a donazioni filantropiche, ma con la cultura della loro intera attività. Non rassegniamoci ad una cultura che sta trasformando i valori nel “limoncello” di un lauto pranzo, gradevole ma non essenziale per vivere.

L’etica non è il limoncello, ma neanche il primo piatto. È piuttosto il modo con cui il pranzo viene preparato, servito, curato. È la qualità delle relazioni durante il pasto, l’attenzione per chi non mangia con noi o che non mangia affatto, perché escluso dai nostri banchetti opulenti. Se dimentichiamo tutto questo, presto i valori diventeranno semplici merci, che ognuno potrà acquistare a buon prezzo e consumare secondo le proprie preferenze, in una sorta di “etica a punti”, con relative scuole di recupero.

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L'economia italiana nel contesto dell'incertezza internazionale. Istruzioni per non restare "ingolfati".

di Luigino Bruni

pubblicato l' 08/10/2009 su www.cittanuova.it

L’economia è una scienza sociale che fa largo uso di metafore e di immagini. La prima e ancora oggi tra le più famose è stata la “mano invisibile”, la metafora con cui l’economista Adam Smith spiegava nel Settecento il mercato come un meccanismo che trasforma gli interessi privati in bene comune. Ancora oggi l’economia prende in prestito dallo sport (la concorrenza come gara sportiva), dalla musica (il manager come direttore d’orchestra), e da molti altri ambiti immagini che consentono agli economisti di spiegare dimensioni della realtà che rimangono inaccessibili al linguaggio delle formule matematiche e dei bilanci d’esercizio. Non sempre, però, le metafore aiutano davvero, e a volte portano fuori strada, soprattutto quando l’immagine presa in prestito è usata con scopi ideologici, e con eccessive semplificazioni.

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Il mercato, il traffico e l' "etica a punti"

Il mercato, il traffico e l' "etica a punti"

L'economia italiana nel contesto dell'incertezza internazionale. Istruzioni per non restare "ingolfati". di Luigino Bruni pubblicato l' 08/10/2009 su www.cittanuova.it L’economia è una scienza sociale che fa largo uso di metafore e di immagini. La prima e ancora oggi tra le più famose è stata l...
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Finiamola con la lettura dell’Italia come una somma di un Nord e un Sud: siamo un paese complesso, che per essere capito e “curato” va letto a più dimensioni:

di Luigino Bruni

pubblicato il 12/08/2009 su www.cittanuova.it

SudIl dibattito politico italiano durante l’estate, forse per il clima, spesso assume caratteri originali, a volte paradossali. Un osservatore imparziale avrebbe, ad esempio, trovato quantomeno bizzarro il contrasto tra la reazione preoccupata e unanime della classe politica di fronte ai dati Istat sulla significativa povertà nel Meridione d’Italia, e la proposta, giunta pochi giorni dopo, sulle “gabbie salariali”, giustificata dal fatto che nel Sud la vita è meno cara. Come se tra la maggiore povertà del Sud e i prezzi più bassi non ci fosse un legame forte (non occorre essere professori di economia per capirlo: basterebbe girare un po’ per le strade delle nostre città, e incontrare davvero la gente).

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Debbo confessare che questi, ed altri non meno gravi fatti politici di questi mesi estivi, lasciano senza fiato, soprattutto chi, con onestà, cerca di capire i problemi reali del nostro Paese, e cerca di risolverli. La “questione meridionale” da almeno 150 anni torna puntualmente nel dibattito politico, e sempre come un “problema” che il Nord associa a qualche dimensione presente nel “Sud” del Paese. Le “soluzioni” che ogni volta si propongono sono sempre le stesse: il Paese, quindi il Nord, deve fare qualcosa di più e di diverso per il Sud, in particolare occorre generosamente donare denaro e risorse.

Finché continueremo a porre la questione Nord-Sud in questi termini, non troveremo mai la soluzione efficace a questo problema. Che fare, allora? Innanzitutto, finirla con la lettura dell’Italia come una somma di un Nord e un Sud: l’Italia è un paese complesso, che per essere capito e “curato” va letto a più dimensioni: Nord e Sud sono categorie troppo logore e generiche per essere ancora oggi di qualche aiuto. Ogni regione, a volte ogni città, del “Sud” è diversa all’altra: i problemi della Sicilia sono per certi versi simili a quelli della Puglia, ma per altri più a quelli della Sardegna, e per altri ancora a quelli del Lazio. Quando l’essere sopra o sotto Roma diventa il criterio principale per leggere i problemi della gente del Paese, siamo totalmente sulla strada sbagliata. Occorrono analisi più profonde e serie.

In secondo luogo, il “Sud” Italia non è un problema, ma una risorsa straordinaria di cultura, buona vita, relazioni e anche economia. Una risorsa che – qui sta il punto – non è valorizzata dall’Italia e dai suoi governi innanzitutto perché non è capita, e non è capita perché non è amata e stimata adeguatamente. Finché i politici che vogliono “aiutare” il Sud non avranno imparato a conoscere e stimare davvero il Sud, qualsiasi aiuto o manovra “per” il Sud sarà inefficace, come ben sa chi ha cercato davvero di aiutare una persona o una comunità: senza reciprocità e senza stima reciproca non c’è sviluppo integrale, ma si alimentano vecchie e nuove malattie sociali.

Solo stimando e capendo in profondità la vocazione delle regioni meridionali, che non sarà mai una vocazione industriale come lo è (o era) quella lombarda o piemontese, l’Italia troverà il suo posto nel nuovo equilibrio mondiale. Lo sviluppo economico e civile dell’Italia nel secolo XXI, dovrà necessariamente passare per i grandi beni custoditi nelle pieghe della cultura mediterranea, beni che si chiamano ambiente, ben vivere, cibo, rapporti, storia: beni che sono valori e risorse, non problemi. Solo quando saremo coscienti di tutto questo, potranno venire gli investimenti in infrastrutture al Sud, investimenti peraltro estremamente urgenti, ma solo dopo. Altrimenti continueremo a sbagliare e a dividere il nostro Paese.

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Finiamola con la lettura dell’Italia come una somma di un Nord e un Sud: siamo un paese complesso, che per essere capito e “curato” va letto a più dimensioni:

di Luigino Bruni

pubblicato il 12/08/2009 su www.cittanuova.it

SudIl dibattito politico italiano durante l’estate, forse per il clima, spesso assume caratteri originali, a volte paradossali. Un osservatore imparziale avrebbe, ad esempio, trovato quantomeno bizzarro il contrasto tra la reazione preoccupata e unanime della classe politica di fronte ai dati Istat sulla significativa povertà nel Meridione d’Italia, e la proposta, giunta pochi giorni dopo, sulle “gabbie salariali”, giustificata dal fatto che nel Sud la vita è meno cara. Come se tra la maggiore povertà del Sud e i prezzi più bassi non ci fosse un legame forte (non occorre essere professori di economia per capirlo: basterebbe girare un po’ per le strade delle nostre città, e incontrare davvero la gente).

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Il Sud d'Italia non è un problema

Il Sud d'Italia non è un problema

Finiamola con la lettura dell’Italia come una somma di un Nord e un Sud: siamo un paese complesso, che per essere capito e “curato” va letto a più dimensioni: di Luigino Bruni pubblicato il 12/08/2009 su www.cittanuova.it Il dibattito politico italiano durante l’estate, forse per il clima, spes...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.14/2009

Alcune encicliche dei Papi hanno segnato delle tappe epocali nella storia. La Rerum Novarum diede voce a tutto un movimento culturale e sociale che cercava una risposta alla crisi posta dalla questione sociale generata dal primo capitalismo industriale. La Quadragesimo Anno rappresentò, in un momento oscuro per l’Italia e per l’Europa un grido di libertà e di fraternità simboleggiate dal principio di sussidiarietà, che risuonò come un programma di liberazione civile in quell’età buia. La Populorum Progressio in una fase di contestazione sociale e culturale, che già denunciava i limiti del capitalismo di seconda generazione rappresentò per un’intera generazione che usciva dal Concilio, dentro e fuori la Chiesa, un manifesto per un impegno sociale, economico e politico.

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La Caritas in Veritate è un altro evento che scandisce la storia dell'oggi. L’ultima enciclica di Benedetto XVI deve essere salutata con gioia e speranza da chi opera nell’ambito civile, economico o politico. Essa rappresenta, allo stesso tempo, una continuità con l’insegnamento sociale della Chiesa, e una importante innovazione (sulla quale si dovrà riflettere molto nei prossimi anni).

Innanzitutto il papa invita già nelle prime righe della lettera a superare una delle contrapposizioni più radicali delle nostra società, quella cioè tra l’ambito o la logica del dono e della gratuità, e l’ambito o la logica del mercato. Questo bisogno di unità è il cuore del messaggio della Caritas in veritate e ne rappresenta un punto di straordinaria forza profetica. Niente come la gratuità è assente oggi dal dibattito economico, dai mercati e dalle imprese. Chi parla di gratuità in economia viene preso per ingenuo, mistificatore («che ci sarà sotto?»), e in ogni caso dannoso per il funzionamento dei mercati e delle imprese.

E, infatti, la gratuità, da una parte, viene confusa (snaturandola) con il “gratis” o con la filantropia. Dall’altra, il dono è scambiato con il regalo o con il gadget delle imprese. In realtà, come ci ricorda il papa, la gratuità rimanda a charis, grazia (altro che gratis: la gratuità è pesante!), all’agape, la parola greca che i latini hanno tradotto con caritas a sottolineare ancor di più lo stretto legame tra l’amore cristiano e la charis, la grazia.

La gratuità è infatti grazia, poiché è dono non solo per chi riceve atti di gratuità, ma anche per chi li compie, poiché la capacità di amare gratuitamente è sempre qualcosa che accade in noi e ci sorprende sempre come quando siamo capaci di ricominciare dopo un grosso fallimento o di perdonare davvero gravi errori degli altri. È questa gratuità che il mercato capitalistico non conosce, e che invece questa enciclica ci chiama a mettere al centro anche dei nostri rapporti economici, politici, sociali, dove sembra impossibile, ma dove già sono in tanti a viverla, nell’economia «civile e di comunione» (n. 46).

Si capisce quindi come il papa inviti fortemente a superare la distinzione tra non-profit e for-profit: non esistono ambiti o settori della gratuità, ma ogni impresa, al di là della sua forma, è chiamata alla gratuità, che è la cifra dell’umano: se un’impresa, sia essa for-profit o non-profit, non è aperta alla gratuità non è un’attività umana, e quindi non può portare frutti di umanità. E si comprende anche perché: Benedetto XVI ci ricorda che il profitto non può e non deve essere lo scopo dell’impresa, ma solo uno tra tanti elementi, non certo il più importante.

Rilanciando la gratuità nell’economia, l’enciclica richiama il mercato alla sua vocazione d’incontro tra persone libere e uguali ed è una critica radicale al capitalismo (proprio per questo il termine non è mai citato nel testo). Salveremo il mercato e il suo portato di civiltà solo superando questo capitalismo, verso un’economia civile e di comunione.

Dopo la prima enciclica sulla carità e la seconda sulla speranza, potevamo attenderci la terza sulla fede. Ed in effetti così è stato, poiché solo una visione dell’uomo, un’antropologia che crede la persona fatta a immagine di un Dio comunione, con impresso made in trinity nel suo essere, può raccogliere l’invito alla gratuità anche in questo mondo, in quest’economia. Su questa scommessa antropologica risiede anche la speranza che l’economia annunciata possa non essere un’utopia (un non luogo), ma un eutopia (un buon luogo), il luogo dell’umano.

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pubblicato su Città Nuova n.14/2009

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La novità: gratuità e mercato

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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N.08/2009

Le email stanno contribuendo, e non poco, al deterioramento delle relazioni interpersonali. Se, infatti, per tante cose poco importanti le email sono una splendida invenzione (aggiornamenti, comunicazione, invio di documenti, ecc.), per la gestione e la manutenzione dei rapporti più significativi, in particolare quelli di lavoro, le email si stanno rivelando uno strumento molto pericoloso, soprattutto quando ricorriamo all'email per gestire dei problemi.

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Personalmente non ricordo di aver mai risolto un problema con una email. Succede infatti che quando qualcuno ci scrive una email per segnalarci un problema o per esprimere una protesta, questa email viene interpretata quasi sempre in modo peggiorativo: a quella email fa seguito una (o più) email di risposta, che quasi sempre peggiora ancora di più la situazione.

 Perché? Per varie ragioni. Innanzitutto l'investimento (di tempo, ad esempio) che si fa per scrivere e spedire una mail è molto basso, se confrontato con la vecchia lettera cartacea; così si tende ad essere più veloci e spesso meno attenti ad aggettivi e avverbi dai quali dipende molto il tono affettivo di ogni comunicazione.

In secondo luogo, quando scriviamo una email per sfogarci diciamo delle cose che non diremmo mai in un rapporto faccia a faccia - tanto che poi quando incontriamo lungo il corridoio il destinatario di una di questa email spesso arrossiamo pentiti di averla inviata.
Inoltre le email le leggiamo da soli, davanti ad un Pc, in un contesto ambientale non sempre positivo.

Alcuni consigli pratici:

  1. quando si scrive una email di reazione ad un problema o per protestare, non inviarla mai senza averla riletta un paio di volte;
  2. non spedirla mai subito dopo averla scritta, ma far passare alcune ore: certamente l'astio e l'intemperanza saranno mitigati;
  3. sapendo che l'interpretazione di chi la legge tende ad essere peggiorativa, abbondiamo nelle attenzioni e nelle precauzioni;
  4. non usare la email quando c'è un problema con una persona: è sempre meglio bussare alla porta e incontrare l'altro, possibilmente fissando prima un appuntamento in modo da prepararsi reciprocamente. Certo, il costo iniziale e il rischio di un incontro personale è maggiore rispetto alla email, ma il risultato in termini relazionali è infinitamente maggiore;
  5. infine, se vogliamo scrivere qualcosa di importante a qualcuno, lasciamo da parte l'email, prendiamo la penna, compriamo un francobollo, andiamo alla posta, e scriviamo una bella lettera: quel costo sarà anche un investimento in un rapporto.
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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N.08/2009

Le email stanno contribuendo, e non poco, al deterioramento delle relazioni interpersonali. Se, infatti, per tante cose poco importanti le email sono una splendida invenzione (aggiornamenti, comunicazione, invio di documenti, ecc.), per la gestione e la manutenzione dei rapporti più significativi, in particolare quelli di lavoro, le email si stanno rivelando uno strumento molto pericoloso, soprattutto quando ricorriamo all'email per gestire dei problemi.

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Pericolosa posta elettronica

Pericolosa posta elettronica

Editoriale di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova N.08/2009 Le email stanno contribuendo, e non poco, al deterioramento delle relazioni interpersonali. Se, infatti, per tante cose poco importanti le email sono una splendida invenzione (aggiornamenti, comunicazione, invio di documenti, ecc.)...
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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N. 07/2009

È stato finalmente presentato il piano dell'amministrazione Usa per far uscire la finanza e l'economia americana dalla crisi. Pochi giorni prima avevamo tutti esultato di fronte all'annuncio di Obama di voler tassare al 90 per cento i favolosi bonus economici che i manager hanno ricevuto dai gruppi assicurativi dopo che questi (la Aig in particolare) erano stati salvati, con i soldi dei cittadini, dalle operazioni scellerate di quegli stessi manager.

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Ora, però, di fronte agli interventi in ambito finanziario appena decisi, non posso non esprimere profondi dubbi, sia sul piano dell'efficacia, sia su quello dell'equità. Il governo americano ha annunciato che lo Stato e la Federal Reserve (o Fed, la banca centrale Usa) rileveranno buona parte dei titoli tossici che in questo periodo riempiono le casse delle banche americane e di tutto il mondo. Rispetto alla proposta di Bush (bocciata dai mercati finanziari), in questa nuova operazione il pubblico (Stato e Fed) vuole salvare la finanza in collaborazione con il mercato: si creano dei nuovi fondi che verranno collocati in aste, e saranno i privati ad acquistare.

Fondi speciali, però, perché grazie all'intervento pubblico molto massiccio, chi li acquista ottiene grossi vantaggi sia in termini di rendimenti attesi sia in termini di rischio (che cade quasi interamente su governo e Fed).

Qual è l'intento di tale operazione? Curare la malattia con lo stesso morbo che l'ha procurata. Infatti, chi si avvantaggerà certamente da questa operazione (dall'esito totale molto incerto) sono gli stessi protagonisti della crisi (ecco spiegato l'entusiasmo di Wall Street). I primi, infatti, ad entrare in queste aste drogate saranno, con ogni probabilità, proprio coloro che hanno creato i titoli tossici, perché ne conoscono meglio il valore effettivo.

In secondo luogo, da questa operazione guadagneranno le agenzie di rating che, dovendo certificare questi nuovi titoli in emissione avranno entrate straordinarie: un ottimo premio a chi è tra i maggiori responsabili di questa crisi. Debbo confessare che questa manovra mi sorprende e mi preoccupa molto. Non si poteva attendere i primi di aprile e concordare un'azione mondiale anti-crisi durante il G20? L'America ha scatenato questa crisi, ma è certo che non può uscirne da sola.

Tante persone hanno riposto una grande speranza nel presidente Obama. I suoi consulenti economici, però, sembrano perfettamente allineati con il pensiero unico del capitalismo finanziario. Il primo grande nemico da cui Obama dovrà difendersi sarà proprio quel capitalismo speculativo e spregiudicato che è cresciuto durante l'ultimo ventennio di neoliberismo, e che non ha lasciato il posto dopo le elezioni politiche.

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N. 07/2009

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Obama e la finanza: un dubbio

Obama e la finanza: un dubbio

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La crisi e Pinocchio

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.4/2009

Per chi volesse spiegare ai propri figli la crisi attuale, e non avesse tempo o voglia di studiare i complicati meccanismi finanziari, esiste una strada semplice ed efficace: leggere insieme a loro il capitolo XIV del Pinocchio di Collodi: «Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino: "Vuoi raddoppiare le tue monete d'oro?". "Cioè?". "Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?". "Magari! E la maniera?". "La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi". "E dove mi volete condurre?". "Nel paese dei Barbagianni". »

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Pinocchio non crede dapprima a questa promessa e vuole tornare a casa, ma il Gatto e la Volpe insistono e lo convincono a seguirlo dicendogli: « "I tuoi cinque zecchini, dall'oggi al domani sarebbero diventati duemila". "Ma com'è mai possibile che diventino tanti?", domandò Pinocchio. E loro risposero: "Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d'oro. Poi ricopri la buca con un po' di terra: l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. (...) E che cosa trovi? Trovi un bell'albero carico di tanti zecchini d'oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno" ». La spiegazione di questa originale operazione è presto spiegata dal Gatto: «Non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri».

Molti protagonisti della crisi si sono comportati come nuovi Gatto e Volpe, e tante famiglie, banche centrali e politici come novelli Pinocchio hanno creduto alle loro promesse, e non hanno ascoltato il saggio Grillo parlante: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro».

In questa storia non ci sono titoli derivati o strutturati, non ci sono i brooker di Wall Street né i subprime (vedi l'articolo di Ferrucci sulla finanza innovativa, nel suo blog), ma gli elementi base e la logica di quanto abbiamo vissuto è tutta racchiusa in questo bel capitolo di Pinocchio: i miracoli nel campo finanziario non esistono, e la ricchezza che porta sviluppo e vita buona è quella che nasce dal lavoro umano.

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La crisi e Pinocchio

La crisi e Pinocchio

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 02/2009

Poco prima di Natale mi si erano sommati in una sola giornata due impegni, in due città separate dall'Appennino. Arrivo a Fiumicino e - in questi tempi di Cai - mi avvio al mio imbarco, e mi siedo tranquillo. Ecco l'imbarco e mi accorgo che stavo aspettando il volo sbagliato e che in realtà il mio volo era appena partito: non c'era ormai più possibilità di partire per Genova, e il primo volo del mattino partiva troppo tardi per arrivare in tempo. Che fare? Chiamo un'amica che aveva un amico all'aeroporto, e riesco a partire per Milano, e da lì, grazie ad altri due amici, riesco a raggiungere prima Sestri Levante, e poi Cremona nel pomeriggio.

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Prima di partire avevo organizzato tutto confidando sul mercato (aerei, taxi, treni), ma una disattenzione ha reso completamente vana la mia organizzazione. In quel sabato, se non avessi avuto amici, non avrei mai potuto onorare i miei impegni. Il mercato oggi si presenta come un grande meccanismo di sostituzione dell'amicizia: nella grande società, grazie al mercato, possiamo ottenere dagli altri le cose e i servizi di cui abbiamo bisogno, senza che gli altri ci siano amici, né che ci vogliano bene. Era questa la grande intuizione che ha ispirato l'opera dei primi economisti (soprattutto Adam Smith) e il loro entusiasmo per la società di mercato, che è una grande impresa cooperativa, che funziona (o sembra funzionare) anche senza amore scambievole.

In realtà, come la mia avventura aerea testimonia, il mercato è un sostituto dell'amicizia per cose tutto sommato molto semplici; ma se la vita si complica un poco, ci accorgiamo di colpo che una vita senza amici non solo non è felice, e questo lo sappiamo, ma neanche funziona nei momenti più importanti. Finché si è giovani, sani, benestanti, senza imprevisti, il mercato è uno strumento utile che ci fa sentire quasi onnipotenti.

Ma non appena ci si ammala seriamente, si invecchia, si cade in povertà o... si perde l'ultimo aereo, riscopriamo la verità della bella frase di Aristotele: Nessuno desidererebbe vivere senza amici.

Di questo e di molto altro si è parlato ad Aosta, in un convegno su Felicità e vita civile, dove, tra gli altri, la filosofa americana Martha Nussbaum ci ha ricordato una antica ma attualissima verità: la vita felice ha bisogno di beni relazionali, di amicizia. Questo bisogno, però, rende la vita felice anche fragile, perché non possiamo mai sapere se gli amici rispondono al nostro amore, se ci lasciano, ci tradiscono, ci feriscono.

Non c'è un rimedio a questa tensione vitale: l'esistenza fiorisce con pienezza solo convivendo con questa ambivalenza.

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 02/2009

Poco prima di Natale mi si erano sommati in una sola giornata due impegni, in due città separate dall'Appennino. Arrivo a Fiumicino e - in questi tempi di Cai - mi avvio al mio imbarco, e mi siedo tranquillo. Ecco l'imbarco e mi accorgo che stavo aspettando il volo sbagliato e che in realtà il mio volo era appena partito: non c'era ormai più possibilità di partire per Genova, e il primo volo del mattino partiva troppo tardi per arrivare in tempo. Che fare? Chiamo un'amica che aveva un amico all'aeroporto, e riesco a partire per Milano, e da lì, grazie ad altri due amici, riesco a raggiungere prima Sestri Levante, e poi Cremona nel pomeriggio.

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Amicizia e libero mercato

Amicizia e libero mercato

Editoriali di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 02/2009 Poco prima di Natale mi si erano sommati in una sola giornata due impegni, in due città separate dall'Appennino. Arrivo a Fiumicino e - in questi tempi di Cai - mi avvio al mio imbarco, e mi siedo tranquillo. Ecco l'imbarco e mi acc...
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Passare da quelli individuali a quelli collettivi. Meno merci e più beni di cittadinanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 01/2009

I dibattiti sulla crisi che continuano a susseguirsi sui media ci raccontano ancora uno scenario nel quale i due unici attori sono sempre e solo Mercati e Stato. Sia l’origine della crisi, sia le sue possibili via di uscita che vengono discusse, si muovono sempre tra questi due poli. Ciò che invece non si sottolinea abbastanza è che dietro, accanto e di fronte a questa crisi c’è soprattutto una crisi morale, civile, politica e antropologica, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita.

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Prendiamo, ad esempio, i ripetuti inviti a consumare di più che in questi giorni invadono le nostre case. Chi lancia questa ricetta per uscire dalla crisi continua a pensare a ciò che sta accadendo come ad una malattia tutta interna al sistema economico, e quindi la vuole risolvere restando interamente dentro la sola economia, magari riportando il baricentro sull’economia reale (consumi e produzione), da cui si è allontanato in questi decenni di sbornia finanziaria. In realtà le cose sono più complesse, e in buona parte diverse da come ci vengono raccontate. La potremmo così riassumere: i consumi non sono la cura, sono la malattia. Vediamo perché.

Uno dei fenomeni principali che hanno scatenato la crisi è stato il cosiddetto caso dei mutui subprime: le famiglie americane non riuscivano più a consumare abbastanza (l’auto, ad esempio, era già in crisi), e quindi occorreva rilanciare i consumi. L’acquisto della casa sembrò un buon strumento, ma occorreva abbassare i tassi, per rendere ciò possibile. Ma a quei tassi le banche non guadagnavano abbastanza, ed ecco esplodere i mercati dei titoli derivati, a tassi più alti non “naturali”, bensì artificiali e dopati. Oggi per uscire da questa crisi si sta immaginando qualcosa di simile, ed è davvero strano e grave che economisti e politici stiano zitti e non dicano nulla: gli USA sta arrivando a tassi vicini allo zero, l’Europa sembra seguirla. Per rilanciare, ancora, i consumi. Ma ogni tanto dovremmo ricordare che l’interesse non è solo un costo per imprese e famiglie indebitate, esso è anche un reddito per chi presta denaro a quelle aziende e famiglie. Ma soprattutto il tasso d’interesse, in un’economia sana, è anche un indicatore di fiducia e speranza per il futuro: oggi investo 100 e mi aspetto di avere domani dei frutti da questo investimento. Un tasso zero denota quindi proprio quella mancanza di fiducia e di speranza che si vorrebbero “rilanciare”. Inoltre: chi è disposto a prestare denaro a tasso zero? Le famiglie, lo stato? Ma se lo stato non riesce a far sottoscrivere i titoli che emette, la crisi diventa davvero insostenibile.
Che fare allora, di credibile e sostenibile?

Innanzitutto occorre rilanciare i consumi collettivi e comunitari, e ridurre quelli individualistici. La social card, ad esempio, è stata accolta con entusiasmo da molti, perché era anche uno strumento per rilanciare i consumi. Ma insieme ad essa sono diminuiti e dimuineranno i trasferimenti e le imposti alle amministrazioni locali, e quindi minori servizi e beni pubblici, dai trasporti alla sanità alla scuola (la crisi della scuola va letta anche da questa prospettiva). Il problema quindi non sono solo i consumi, ma il tipo di consumi: se diminuiscono o peggiorano i trasporti e la sanità, il lavoro diventa instabile e precario, il costo per le famiglie è ben maggiore delle poche centinaia di euro della social card. E’ sui bisogni e beni collettivi che si ci gioca oggi non solo il rilancio dell’economia, ma la democrazia e la cittadinanza.
Infine occorre più coraggio e coerenza nella politica economica. Innanzitutto occorre ricordare l’antica verità (oggi completamente dimenticata) che il primo e serio modo di rilanciare i consumi è rilanciare l’occupazione e il lavoro. Se si è disoccupati l’invito al consumo frustra e offende profondamente le persone.
Inoltre, non si può da una parte denunciare la questione ambientale ed energetica, e dall’altra continuare a sostenere il consumo dell’auto, e a rendere più costosi e scarsi i trasporti pubblici. Una seria politica economica dovrebbe oggi incentivare trasporti pubblici, renderli economici ed accessibili, chiudere centri storici, e scoraggiare l’auto individuale, soprattutto quelle di grossa cilindrata. Sono politiche economiche anti-popolari e costosi, che richiedono l’impegno di tutti, e per questo se realizzate possono essere sostenibili e serie.

Quindi non si tratta per il nuovo anno di consumare necessariamente meno (anche), ma soprattutto di consumare diversamente: meno merci e più beni di cittadinanza, meno consumi privati e più consumi collettivi e pubblici.

Un’ultima nota. E’ necessario che anche in materia di consumo si inizi a pensare più globalmente: la globalizzazione dovrebbe spingerci a pensare ai rilanci dei consumi “buoni” in termini globali, e non più legati solo alla nazionalità: senza una politica mondiale che pensi ai consumi collettivi e pubblici dei Paesi ancora esclusi, è difficile pensare ad una uscita vera dalla crisi. Oggi siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che non può essere affidato si soli consumi e risparmi privati, né ai solo governi nazionali o regionali, ma richiede un’alleanza globale e mondiale, che dopo aver globalizzato i costi dell’economia globale e le sue fragilità, inizia a globalizzare i diritti e le opportunità per tutti i cittadini del mondo. Utopia? Non credo, basta pensarlo, immaginarlo, volerlo, e poi incominciare da noi.

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Passare da quelli individuali a quelli collettivi. Meno merci e più beni di cittadinanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 01/2009

I dibattiti sulla crisi che continuano a susseguirsi sui media ci raccontano ancora uno scenario nel quale i due unici attori sono sempre e solo Mercati e Stato. Sia l’origine della crisi, sia le sue possibili via di uscita che vengono discusse, si muovono sempre tra questi due poli. Ciò che invece non si sottolinea abbastanza è che dietro, accanto e di fronte a questa crisi c’è soprattutto una crisi morale, civile, politica e antropologica, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita.

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Cambiamo consumi (e logica)

Cambiamo consumi (e logica)

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Dare fiducia nei rapporti civili, sociali ed economici può essere rischioso, ma produce il bene comune. Uno studio di Vittorio Pelligra.

Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 4/2008

La fiducia svolge un ruolo fondamentale anche nelle complesse strutture sociali globalizzate di oggi. È infatti sempre più documentato che le economie e le società che funzionano e crescono sono quelle dove le persone si guardano l'un l'altra come soggetti degni di fiducia, e considerano il tradimento della fiducia come un'eccezione alla regola.

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Laddove invece accade il contrario, dove cioè ognuno (Stato compreso) tratta gli altri come dei potenziali disonesti, non solo l'economia non cresce, ma la vita civile regredisce e aumentano i conflitti. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio è dunque un detto pericoloso, che però dice molto sulla cultura di un popolo e dei suoi rischi. La vita in comune si regge su patti impliciti di fiducia, senza i quali non potremmo non solo scambiare nei mercati, ma neanche affidare un bambino ad una scuola, o rivolgerci ad un farmacista. Più degli interessi è la fiducia il grande collante della società. Appena però vogliamo comprendere la morfologia della fiducia, e capire cioè qualcosa del come, quando, perché e a quali condizioni ci fidiamo degli altri, e gli altri di noi, ci accorgiamo subito che un concetto che sembra tanto semplice e primitivo diventa improvvisamente complesso, articolato e spesso contro-intuitivo.

Servono strumenti più sofisticati.

A questo scopo ci viene incontro il recente libro di Vittorio Pelligra, docente di economia all'università di Cagliari, I paradossi della fiducia (Il Mulino).
Pelligra è un economista, ma non solo. È soprattutto uno scienziato sociale che utilizza il linguaggio dell'economia (soprattutto la teoria dei giochi e la logica relazionale) per spiegare fenomeni sociali (non solo economici) complessi.

E infatti ne "I paradossi della fiducia" si incontrano asili nido, analisi del conflitto, donazioni di sangue, teoria delle costituzioni e dei sistemi legali, motivazioni intrinseche, gratuità, molta psicologia; e si fa conoscenza di  tante teorie sulla fiducia. È anche, vorrei dire soprattutto, un saggio che contiene una teoria originale sulla fiducia, che l'autore chiama rispondenza fiduciaria. Di che cosa si tratta? Per comprenderla in tutta la sua finesse è opportuno analizzare i risultati degli esperimenti che lo stesso Pelligra ha realizzato.

È inoltre possibile avere un'intuizione delle conseguenze del dare/ricevere fiducia pensando ai nostri rapporti interpersonali. Quando sappiamo che chi ci dà fiducia sta rischiando personalmente, nasce in noi il bisogno di esserne degni. In altre parole, ricevere fiducia genuina e disinteressata ci cambia, ci fa migliori e ci rende più capaci di non tradire chi ripone la fiducia in noi.

Sulla base di questa intuizione antropologica, prima che analitica - che Pelligra avrà maturato principalmente al di fuori dall'accademia (è la vita la sorgente di ogni intuizione, anche scientifica) -, i capitoli de I paradossi della fiducia ci guidano in un appassionante itinerario alla scoperta delle varie dimensioni della fiducia. E giunti alla fine, ci accorgiamo di quanto prezioso sia questo bene immateriale nelle nostre società. Prezioso e fragile.

La lettura di questo saggio è anche un corso - per studiosi, cittadini, ma anche per politici - per imparare come proteggere e custodire il sottile filo d'oro della vita in comune. Per rendersi conto che fidarsi è bene, anche quando costa ed è rischioso, perché è soprattutto questa fiducia che produce il bene comune e lo sviluppo civile.

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Dare fiducia nei rapporti civili, sociali ed economici può essere rischioso, ma produce il bene comune. Uno studio di Vittorio Pelligra.

Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 4/2008

La fiducia svolge un ruolo fondamentale anche nelle complesse strutture sociali globalizzate di oggi. È infatti sempre più documentato che le economie e le società che funzionano e crescono sono quelle dove le persone si guardano l'un l'altra come soggetti degni di fiducia, e considerano il tradimento della fiducia come un'eccezione alla regola.

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Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio

Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio

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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 18/2008

Ho trascorso alcuni giorni di vacanza in Sicilia.
Tornando verso casa ho chiesto informazioni su come raggiungere a piedi l'aeroporto ad un signore il quale, invece di rispondermi, ha preso la sua auto e mi ha portato all'aeroporto (che distava 15 chilometri!). 

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Ormai poco abituato a questi gesti, vivendo da diversi anni tra Roma e Milano, ho accettato tra lo stupito e il grato, riflettendo, tra me e me, sull'altruismo e la reciprocità. Quando ha capito che non ero di Trapani, ha deviato per il centro, con il solo scopo di mostrarmi i tesori della sua città: chiese, monumenti, l'organo più antico d'Europa, e ne parlava come fossero il patrimonio di famiglia.

Perché quel signore avrà speso mezz'ora del suo tempo per portarmi all'aeroporto e mostrarmi il centro storico? Ci potrebbero essere molte spiegazioni, ma quella che ad oggi mi sembra più vera sono i suoi cromosomi: quell'uomo porta iscritto nel suo Dna una cultura di accoglienza, di ospitalità, che lo ha spinto a vedere in me un individuo simile al mercante cartaginese o al marinaio arabo che i suoi avi hanno accolto, e magari ospitato nello loro casa. Questo si chiama cultura.

Sono convinto che il futuro prossimo, anche economico, dell'Italia del Sud, e dell'area mediterranea, passerà da un punto nodale: trasformare quel patrimonio culturale in risorsa anche per lo sviluppo.

Si parla tanto oggi di turismo relazionale, poiché il mercato si è accorto che la gente, quando riesce a trascorrere qualche giorno di vacanza o quando viaggia in cerca di arte e cultura, non chiede solo bei posti e ricchi musei; vuole anche costruire rapporti veri con la gente che incontra nel fare turismo. Non vuole, cioè, avere solo fredde prestazioni commerciali, ma vuole anche beni relazionali. Il problema, però, arriva quando ci si accorge che i rapporti veri sono come il coraggio: se non ce l'hai, non te lo puoi dare.

Nei corsi di formazione al turismo relazionale si può insegnare ad essere educati, gentili, attenti, a mettere la persona al primo posto; ma quel tocco umano genuino dell'albergatore o del titolare dell'agriturismo, fatto di simpatia e di spontaneità (frutto di millenni di cultura), non puoi impararlo in nessun corso della provincia o del comune. È su questo fronte culturale che la globalizzazione incontra (per fortuna) il suo limite: puoi globalizzare le tecniche, ma non l'essere nato e cresciuto sulle isole Egadi.
Sono ripartito felice, perché finché c'è qualcuno che spende il suo tempo per parlare dei suoi monumenti ad un forestiero, c'è ancora speranza per il Bel Paese.

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di Luigino Bruni
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Sud Italia quel valore aggiunto

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 19/2008

Ciò che la presente crisi finanziaria sta mostrando con grande forza è la fragilità e vulnerabilità del capitalismo. Nel sistema economico tradizionale, una crisi come quella attuale non era nemmeno immaginabile. In quelle economie si consumava quanto si produceva, e il reddito delle persone e dei Paesi era un indicatore di quanto una famiglia e un Paese potevano permettersi di spendere e di investire.

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Le grandi crisi economiche (come quella del '29) potevano verificarsi solo per una crisi dell'economia reale (fallimenti di imprese), che producevano disoccupazione e quindi riduzione del reddito delle famiglie.

Quel sistema economico tradizionale è entrato in crisi con il capitalismo finanziario, che ha cambiato la natura del sistema economico e della società. Non solo, infatti, la banca e la finanza hanno progressivamente mutato natura, trasformandosi sempre più in speculatori, il cui scopo principale è far profitti (e tanti!), smarrendo così giorno dopo giorno la funzione sociale che la banca e la finanza hanno da sempre svolto, e svolgono ancora. Questo cambiamento ha prodotto anche cose utili, ma ad un costo molto alto: ha reso il sistema economico tremendamente fragile. Il primo economista a preannunciare (eravamo nel 1936) la nuova natura finanziaria del capitalismo e la sua fragilità radicale è stato l'inglese Keynes, che dovremmo tornare a leggere e a meditare.

Le crisi come questa che stiamo vivendo sono quindi la normalità, non l'eccezione, nel nostro capitalismo, soprattutto oggi, poiché la globalizzazione amplifica gli effetti delle crisi. L'instabilità e la fragilità sono solo l'altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai 1000 dollari di reddito di diventare cinque, dieci, cinquantamila, senza alcun rapporto con l'economia reale e con il lavoro umano. Dovremmo abituarci presto alle crisi come questa e ancora più devastanti, e attrezzarci per limitare i danni, fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso, che speriamo sia più a misura di persona e di ambiente.

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Alle corde il capitalismo finanziario

Alle corde il capitalismo finanziario

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 13/2008

Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell'era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane.  Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell’era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane. Una delle grandi idee della modernità è l’affermazione della maturità, dell’autonomia dell’essere umano adulto, non più bisognoso di guide, di paternalismo, cioè di un’entità (Stato, Chiesa) che scelga per lui.

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L’anti-paternalismo è una parola-chiave della cultura moderna e, ancor più, post-moderna. Gli studi scientifici, invece, mostrano sempre più che questo individuo adulto, indipendente, autonomo e maturo è in realtà anche un bambino insicuro, immaturo, incapace di scegliere ciò che preferisce e ciò che contribuisce al suo benessere. Si vede, dati alla mano, che l’uomo moderno consuma troppi beni di comfort e sempre meno beni di creatività: le enormi potenzialità messe a disposizione dalla tecnologia (e sono molte di più di quelle che potessi pensare) vengono sfruttate dal mercato soprattutto proponendo ai consumatori di aumentare il loro comfort. Oggi le scienze ci dicono che staremmo utilizzando la tecnologia a servizio della nostra creatività, mentre invece i meccanismi di mercato ci inducono a preferire beni che aumentano il comfort. Sono meccanismi simili a quelli che si verificano tutte le volte che decidiamo al mattino, in modo autonomo e adulto, di fare una dieta ipocalorica, e poi la sera mangiamo di nascosto il gelato (è il cosiddetto fenomeno dello sconto iperbolico). L’attuale alleanza tra mercato e tecnologia aumenta pigrizia e noia, e di fatto non aumenta, o riduce, il benessere e la felicità dell’homo technologicus. Molti studi hanno infatti messo in luce che la vita buona nell’era tecnologica è assai simile a quella dell’era precedente: richiede relazioni umane profonde, gratuità. Quando la tecnologia si allea con le relazioni tra le persone, essa contribuisce fortemente alla vita buona, e oggi ci sono tante esperienze che vanno in questa direzione, dalla cura degli anziani al tempo libero. I problemi sorgono quando il mondo tecnologico (oggi sempre più virtuale) diventa un sostituto del mondo reale. Scoprendo che oggi circa 700 mila persone al mondo passano la maggior parte della loro giornata in ambienti virtuali tipo Second life, qualcuno potrebbe cominciare a preoccuparsi. La vera sfida è però un’altra: non cedere alla paura di fronte alle innovazioni, ma riempirle di umano, di gratuità, di senso, dando vita ad una nuova alleanza tra civile, economico, politico e tecnologico per una vita buona.

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pubblicato su Città Nuova n. 13/2008

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Beni di comfort e beni di creatività

Beni di comfort e beni di creatività

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 13/2008 Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell'era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane.  Ho partecipato ad un convegno in O...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 15/2008

L'attuale crisi del prezzo delle materie prime ci consente di fare alcune riflessioni sul nostro modello di sviluppo. Innanzitutto ci fa vedere su scala globale, e non solo per alcuni Paesi, come era avvenuto nel recente passato (dall'Argentina al Messico), la grande capacità che hanno le speculazioni finanziarie di influenzare la vita quotidiana delle famiglie, un'influenza che quasi sempre è negativa.

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Nessuno nega che la finanza oggi svolga un ruolo indispensabile nelle moderne economie di mercato. Molti dubbi sorgono invece sul ruolo civilizzante delle speculazioni finanziarie soprattutto quando queste si riversano (anche per la crisi dei mutui americani) sulle materie prime, che sono alla base di tutti i prezzi, dal pane alla benzina. Come agisce in questo caso la speculazione? Segue la stessa logica delle navi che rallentano la corsa, i petrolieri che estraggono più lentamente, le compagnie di raffineria che ritardano i lavori, semplicemente perché sanno che se vendono la loro merce una settimana più tardi il prezzo di vendita nel frattempo sarà aumentato.

 La speculazione finanziaria non fa altro che amplificare questa logica opportunistica con l'effetto che oggi paghiamo il petrolio almeno 50 dollari al barile in più rispetto al prezzo che risulterebbe dal normale gioco della domanda e offerta. Siamo in presenza, cioè, di una classica bolla speculativa, che nessuno sa quando esploderà (personalmente, credo presto!).

Che fare? Sono tante le ricette. Qui voglio solo proporre una riflessione. Alcuni pionieri (individui, istituzioni, imprese) tempo fa hanno fatto, per ragioni etiche, scelte economiche controcorrente: consumo etico e sobrio, investimenti in titoli eco-sostenibili, raccolta differenziata, energie alternative, stili di vita vegetariani, ecc. Fino a tempi recenti, tali scelte sembravano soltanto opzioni etiche, non convenienti dal punto di vista economico e da non incentivare su larga scala. L'attuale crisi e, soprattutto, quella che si prospetta stanno rendendo tali scelte etiche anche più convenienti: chi ieri ha fatto propri quegli stili di vita e di consumo etici oggi è avvantaggiato dal punto di vista economico. È accaduto molte volte nel corso dell'evoluzione che un cambiamento ambientale abbia fatto estinguere specie forti e numerose, facendone emergere altre. L'attuale crisi economica e climatica può dunque favorire l'affermarsi di stili di vita e modelli di sviluppo più rispettosi della persona e della natura.

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Speculazioni sobrietà e convenienza

Speculazioni sobrietà e convenienza

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