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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016
L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia e consuma. Non conosciamo i nostri amici solo perché facciamo insieme feste e pranzi: non entriamo veramente negli altri se non li vediamo anche muoversi nella loro vita economica, che è uno dei luoghi primari degli esseri umani. Noi ci riveliamo a noi stessi e agli altri nell’amare, nel pregare, ma anche nel lavorare.
[fulltext] =>Ecco perché quando un giovane resta fuori dal mondo del lavoro, non solo perde occasioni preziose per imparare un’attività (che si impara solo lavorando, non a scuola né all’università) e per guadagnarsi da vivere. Lo priviamo anche della possibilità di conoscere i suoi talenti, di scoprire chi è, di essere stimato e di stimare gli altri, di far emergere i suoi limiti e le virtù nascoste anche a lui stesso.
Non capiamo l’economia se non prendiamo sul serio tutti i vizi e tutte le virtù degli uomini, delle imprese, delle istituzioni, della nostra società. I vizi delle imprese e delle istituzioni diventano particolarmente gravi quando sono considerati virtù. Pensiamo al tema, molto caro a questa rivista, dell’azzardo – che non è un “gioco”: l’azzardo non va messo vicino alla bellissima parola “gioco” –. Esso è un tipico caso di un enorme male istituzionale, che viene presentato come virtù. Che sia un male lo dicono i frutti che porta: centinaia di migliaia di famiglie rovinate da uno o più familiari entrati nel giro delle slot-machine, poker online, gratta-e-vinci, al punto che è raro che in Italia non ci sia una famiglia dove un parente, magari lontano, non sia coinvolto da questa autentica piovra. I centri storici delle nostre città e borghi stanno via via perdendo artigiani e negozi, che contenevano e raccontavano decenni, a volte secoli, di storia buona; al loro posto arrivano come funghi sale gioco, nere ed esteticamente molto brutte, quasi sempre senza che le istituzioni facciano adeguata resistenza alle concessioni di licenze. Continuo ad aspettare il giorno in cui le associazioni familiari, molto sensibili alla vita, inizieranno a fare scioperi della fame a turno nei luoghi dove stanno per nascere nuove sale gioco o bingo, quando si renderanno conto che i loro figli sono avvelenati dalle scommesse e dall’azzardo almeno quanto lo sono dalle sigarette e dalla pornografia. Per non parlare delle decine di migliaia di persone in cura presso le Asl per dipendenze da azzardo, il cui costo morale ed economico per la collettività è difficilmente quantificabile, ma sempre troppo alto.
Alla testa della macchina dell’azzardo c’è lo Stato, che anche qui fa cassa con i poveri e con la disperazione delle persone. Le entrate dall’azzardo sono in Italia circa 8 miliardi l’anno, e nonostante le mille proteste che arrivano al governo dalla società civile, non si riesce a ottenere praticamente nulla di serio, da questo e dai governi precedenti.
Confindustria gioco, che rappresenta anche le lobbies dell’azzardo, protegge molto questo settore della nostra economia, al punto da non riuscire a cambiare nulla, o solo aspetti irrilevanti, riguardo la pubblicità nelle tv e nei giornali dell’azzardo. Come non si riesce a rendere illegali le slot-machine nei bar, luoghi frequentati dai nostri ragazzi e bambini, e che sono in molti paesi luoghi di socialità di giovani e anziani (i primi clienti di questo mercato di morte).
Noi del movimento Slot-mob continuiamo a lavorare e a sperare che i cittadini e le istituzioni si sveglino, e un giorno riusciremo a chiamare il male per nome, a combatterlo seriamente e insieme, e a togliere i dadi dalle tante scene di passione dei nostri poveri.
Per questo diamo appuntamento a tutti il 7 e 8 maggio, quando in molte piazze d’Italia diremo insieme, a voce e testa alte, il nostro no all’azzardo e il nostro sì a un Paese più civile. Ogni cittadino può diventare promotore di uno di questi eventi nella propria città. Vi aspettiamo.
Slotmob FEST in oltre 30 città italiane 07-08/05/2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016
Il nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che nel loro “Il nuovo spirito del capitalismo” (Mimesis) sostengono che il moderno “spirito del capitalismo” consiste nella sua capacità di “riciclare” e incorporare le maggiori critiche che ha incontrato lungo la sua storia recente, per farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazione, vagoni del suo treno.
[fulltext] =>Le critiche “sociali” (socialiste, operaie, ambientaliste...) e quelle “estetiche” (degli intellettuali e degli artisti), che hanno rappresentato la principale reazione al capitalismo nella seconda metà del XX secolo, invece di provocare, come avrebbero potuto, il crollo del capitalismo, sono diventate le sue testate d’angolo, dando vita al nuovo capitalismo di oggi, dove i suoi maggiori attori sono imprese nate da giovani con culture e mentalità molto diverse da quelle dei capitalisti del secolo passato. Così nelle grandi imprese assistiamo sempre più allo sviluppo di bilanci sociali e ambientali, di “social business”, all’attenzione al benessere lavorativo, fino ai recenti concetti di “capitale simbolico” o persino “spirituale” dell’azienda. Parallelamente all’inclusione e trasformazione delle critiche sociali, questo capitalismo ha internalizzato anche le critiche “estetiche”, dando vita a una nuova stagione creativa. Il capitalismo, camaleonticamente, si trasforma, nutrendosi di tutto ciò che trova sulla strada. Come tutti gli imperi, che conquistavano popoli nemici e inglobavano la loro cultura, arte, religione.
Una principale novità di questo spirito sta nel suo aver adottato, più o meno consapevolmente, la metafora vegetale, abbandonando quella animale. Le piante, per la loro caratteristica fondamentale di ancoraggio al terreno, hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione meccanismi per poter sopravvivere agli attacchi degli animali e ai cambiamenti dell’ambiente. Così riescono a sopravvivere anche in seguito alla distruzione dell’80% del loro corpo.
Non hanno una organizzazione gerarchica, si sviluppano a colonie, senza un centro da cui dipende la vita del tutto. Gli organismi animali, invece, vivono sulla base di organi specializzati, e la morte di un organo vitale comporta la morte dell’organismo. Le imprese tradizionali, che si sviluppavano in altezza e davano vita a una forte divisione funzionale del lavoro, erano simili agli animali, e quindi molto vulnerabili quando il “centro” (imprenditore, ad esempio) veniva meno. L’organizzazione “vegetale” e a rete delle nuove imprese riesce ad adattarsi meglio all’ambiente mutabile, è più piatta e più resistente all’avvicendarsi di manager e imprenditori. Un paradigma molto attraente e virale.
Anche per questo motivo, la cultura dell’economia e dell’impresa sta diventando la cultura della nostra vita civile. Sono infatti sempre più i linguaggi che gli ambiti non economici stanno prendendo in prestito dal mercato. Vincenti e perdenti, meritocrazia, efficienza, velocità, sono sempre più le parole della scuola, della sanità, della cultura, della politica, e ormai sono alle soglie della Chiesa e delle famiglie.
Stiamo assistendo a una progressiva e silenziosa occupazione del civile da parte dell’economico, senza che vi sia opposta alcuna resistenza culturale; anche perché il lessico economico si presenta come tecnica, eticamente neutrale e quindi di applicazione universale. La nostra capacità di discernimento morale sul nostro tempo si è appannata, e anche i migliori intellettuali ormai si muovono all’interno della cultura dominante, talmente avvolti dal suo liquido amniotico da non essere capaci di guardarla e criticarla come un “tu”. E intanto i grandi flussi finanziari dominano il mondo.
C’è bisogno di una nuova stagione di critica del capitalismo, ma non di quello del XX secolo. Per questo occorre prima capirlo, studiarlo, penetrare nelle sue logiche, e magari cercare di orientare le sue grandi potenzialità alla soluzione dei grandi problemi. Troppi poveri continuano ad abitare nelle nostre città, e la diseguaglianza cresce. Non dobbiamo stare tranquilli.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016
L’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.
[fulltext] =>Dietro l’atto più semplice che svolgiamo nelle nostre città – accendere la luce della stanza, acquistare un gelato – c’è la cooperazione implicita di migliaia, a volte milioni di persone che lavorano per noi senza saperlo né volerlo.
Per mesi ho visto venditori offrire per strada lunghi utensili ai turisti, un giorno ho capito che erano prolunghe per scattare “selfie”. Il mercato soddisfa i nostri bisogni il secondo dopo che li avvertiamo – a volte un secondo prima.
Questo lato solare dell’economia di mercato è visibile a tutti. Ma ci sono anche lati oscuri o neri. Basti pensare al business delle armi nelle tante guerre, alimentate e indotte dagli interessi economici dei governi e delle industrie occidentali. Non dobbiamo dimenticarlo, mentre continuiamo a piangere per Parigi, Beirut, Siria, per i bambini degli altri uccisi da armi prodotte accanto alle nostre case, nel nostro silenzio.
Il mercato non riesce a correggere i suoi effetti collaterali peggiori. Sa ormai correggere i suoi piccoli danni, non quelli grandi. Se non avessimo gli Stati, le istituzioni e la società civile a costringere le imprese a ridurre le emissioni nocive per l’ambiente, a riconoscere diritti ai lavoratori, a non nascondere difetti (quasi) invisibili dei loro prodotti, le imprese implementerebbero soltanto quelle pratiche immediatamente traducibili in maggiori profitti perché facilmente riconoscibili dai clienti, e utili alla loro reputazione. Nel mercato ci sono evidentemente alcuni imprenditori e manager che attribuiscono un valore intrinseco alla correttezza e all’etica; ma in una economia globalizzata dove i proprietari delle imprese sono sempre più fondi di investimento e grandi banche, è sempre più difficile cercare e trovare un volto umano e una coscienza dietro le scelte e le decisioni.
Ecco perché le moderne democrazie hanno sempre assegnato e assegnano alle istituzioni il compito di controllare e regolamentare l’agire delle imprese. Il mercato vero non è mai stato solo mercato, ma un intreccio di molti attori, di controllori e di controllati.
Questa divisione dei compiti su cui abbiamo costruito le democrazie nei due secoli passati, oggi però è in profonda crisi. Non possiamo più accettare che le imprese agiscano rispondendo solo a proprietari e ai consumatori e che la legge le regoli e controlli. Le imprese e ancor più le istituzioni finanziarie sono diventate troppo grandi, ricche, globali e potenti per pensare di poterle controllarle dal di fuori e alla fine.
C’è bisogno di un radicale cambiamento interno: le istituzioni devono usare la forza che ancora hanno per chiedere alle grandi imprese e banche globali di cambiare il loro governo. Non devono più essere gestite da consigli di amministrazione scelti soltanto dai loro proprietari. Sono diventate troppo importanti per la vita di tutti, e i lavoratori, la società civile, rappresentanti indipendenti degli interessi dei più poveri devono essere inseriti nei loro CDA e poter contare nelle scelte ordinarie di governo.
In tutte le grandi imprese e banche ci deve essere un “comitato etico” indipendente con poteri effettivi. L’economia è diventata troppo importante per lasciarla solo a economisti, finanzieri, azionisti. Nemmeno i consumatori col loro “voto del portafoglio” sono sufficienti: ci sono troppe persone condizionate dalle scelte delle imprese che non “votano” perché poveri o troppo lontani.
E perché ci sono industrie (armi o azzardo) dove chi protesta non può votare perché non compra. L’economia di mercato e la democrazia non si salveranno senza una vera democrazia economica.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016
L’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015
Una nota che segna l’inizio di questo terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via via occupando politica, sanità, scuola e, tra poco, forse anche le chiese. I valori e le virtù dell’economia stanno così diventando i principali, se non gli unici, valori e virtù dell’intera vita sociale. Efficienza, merito, innovazione, la logica costi-benefici, sono ormai le uniche parole “serie” del nostro mondo.
[fulltext] =>Nel ’900 era stata la politica a offrire il paradigma di vita buona a tutti gli altri ambiti. I valori e le virtù della democrazia erano i fari di civiltà cui guardare per gestire le fabbriche e la società civile. L’economia era essenzialmente il luogo della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, che doveva essere umanizzata grazie alla partecipazione, ai sindacati, ai diritti.
Nel giro di un paio di decenni, l’economia e l’impresa da immagini della lotta di classe sono diventate luoghi dell’eccellenza umana. Chiunque oggi voglia dar vita a buone organizzazioni, partiti, ospedali, scuole, guarda e importa i principi che guidano le grandi imprese. La famiglia, forse, riesce ancora a salvarsi, ma iniziano già ad intravvedersi corsi di gestione familiare affidati alle società di consulenza globali, mentre è ormai da tempo che le università (cattoliche e pontificie) organizzano corsi di management per parroci e per suore, affidati alle multinazionali della consulenza.
Dietro questa emigrazione dei valori economici si nascondono sfide particolarmente delicate e pericolose. Pensiamo all’ideologia degli incentivi. Ci stanno convincendo, senza trovare in noi resistenze, che gli esseri umani sono capaci di dare tutto se adeguatamente pagati e controllati. Se l’ufficio del personale è abbastanza bravo e ha consulenti sufficientemente preparati, può disegnare contratti e incentivi perfetti in grado di ottenere dalle persone tutto ciò che serve all’impresa. Se ben pagati e ben controllati, gli uomini e ormai anche le donne sono perfettamente addomesticabili. Questa idea è antica (ha almeno un secolo), ma finché gli ideali sociali erano vivi e attivi, era stata fortemente combattuta ed era rimasta confinata nel business più duro e puro (l’alta finanza, le grandi multinazionali…).
In questa nostra età di crepuscolo degli dei e degli ideali, l’ideologia dell’incentivo trova invece le porte spalancate e sta riempiendo il nostro vuoto di pensiero. Il trucco che rende questa ideologia neo-manageriale particolarmente simpatica e amica della gente, è il suo presentarsi sotto mentite spoglie di libertà e di positività: l’incentivo è un contratto, che si firma liberamente, si dice. In realtà, se guardiamo bene, sotto questa ideologia c’è una visione di individuo molto pessimista, secondo la quale l’uomo è incapace di bene se non è guidato dall’esterno, dalla carota e dal bastone.
L’invasione della logica economica sta producendo dei grandi cambiamenti culturali, quasi tutti deleteri. Pensiamo all’utero in affitto o al mercato degli organi. Se la logica degli incentivi e la razionalità del mercato diventano i soli valori buoni della vita sociale, perché criticare chi vende (e chi compra) un rene, o chi compra (e chi vende) il proprio grembo per “produrre” un bambino “proprietà” di altri? È il mercato, bellezza. È libertà, consenso, vantaggio reciproco. Peccato che dentro il cavallo di Troia degli incentivi si nasconde un ritorno alla schiavitù. Anche nella Genesi troviamo Agar che genera un figlio (Ismaele) per conto di Sara e Abramo. Agar, però, era una schiava, non dimentichiamolo. L’umanità ha superato l’età delle schiavitù, ed è stata capace, con immenso dolore, di iniziare l’era delle donne e degli uomini liberi. Non barattiamola con il “piatto di lenticchie” degli incentivi. La dignità umana non è in vendita, non tutti i beni sono merci, non esiste un mercato per tutti i beni, restiamo umani finché i bambini nostri e degli altri non avranno un prezzo di mercato. Le felicità promesse da questi “contratti” sono false. Dobbiamo cercare un’altra felicità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015
Il mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.
[fulltext] =>Oggi molti di questi splendidi viaggi sono di fatto impossibili, perché troppi patrimoni dell’umanità sono diventati inaccessibili. Ci sono ormai intere generazioni di giovani che sono cresciute e continuano a crescere senza poter conoscere questi profondissimi pozzi di civiltà, che custodiscono un’acqua che non si trova in altri luoghi. E così crescono immensamente più poveri.
In questi ultimi decenni la dimensione economica della vita ha conosciuto un autentico trionfo. Si stima che nell’ultimo secolo la ricchezza economica mondiale sia cresciuta di oltre settanta volte. Anche se noi, giustamente, guardando questi ultimi anni possiamo avere l’impressione di una crisi o persino di un fallimento dell’economia, in realtà l’economia è la scienza e la prassi che hanno avuto un successo enorme, di fronte al quale tutte le altre discipline e pratiche impallidiscono. Questa iper-crescita economica, favorita da un’alleanza tra imprese, finanza e tecnica, è diventata via via l’obiettivo di tutti i governi, soprattutto di quelli delle vecchie e nuove grandi potenze, determinando naturalmente e progressivamente un’eclisse di altre dimensioni fondamentali della vita, soprattutto di quella dell’ambiente e della politica globali. L’ossessione per la crescita del PIL, del consumo, del comfort, ha prodotto, senza che ce ne accorgessimo, un oscuramento delle dimensioni collettive e pubbliche, che avevano caratterizzato la società europea ed occidentale fino agli anni settanta del secolo scorso. Il peso dell’economia in se stessa e dell’economia all’interno della vita sociale sono aumentati e stanno aumentando in modo esponenziale. Non solo siamo tutti concentrati sugli aumenti del PIL, ma il linguaggio e la logica dell’economia stanno emigrando dalle imprese e dalle banche verso nuovi ambiti della vita civile. I valori, il linguaggio e le virtù economiche (efficienza, meritocrazia, velocità …) stanno diventando i valori e le virtù di ogni ambito umano. I debiti, i crediti, la domanda e l’offerta sono entrati a scuola, nelle ferrovie i ‘signori passeggeri’ sono diventati ‘i clienti’, gli ospedali si sono trasformati in imprese, e nei santuari i “counselor” stanno ormai prendendo il posto dei confessori.
Per capire dove si trovi il ‘problema’ in questo fenomeno che per qualcuno non presenta nulla di problematico, occorre tener ben presente che puntare sulle dimensioni economiche della vita (soprattutto sul consumo e sulla finanza) produce inevitabilmente un spostamento dello sguardo dalle dimensioni collettive e pubbliche verso quelle individuali e private. E così l’ambiente, la pace, il progetto europeo, la sicurezza di tutti, restano sempre più sullo sfondo, per lasciare tutta la scena al giardino di casa, alla pace dei centri benessere, agli interessi dei singoli paesi, alla sicurezza blindata del mio appartamento e della mia crociera e non di quella dei barconi dei poveri (e quindi di tutti: quando i poveri sono più insicuri e fragili è tutta la società che diventa più fragile e insicura). Ma, come ci dice la migliore teoria economica, quando la nostra attenzione è concentrata sui nostri beni privati, succede che quelli pubblici e sociali escono dal nostro orizzonte visivo, e così vengono semplicemente distrutti, senza che nessuno individualmente avrebbe voluto farlo. I beni comuni – come l’ambiente, la scala del condominio, l’integrazione dei popoli, la pace globale … - se non sono accuditi intenzionalmente da ciascuno di noi, non durano. E poi, come dice sempre la teoria, una volta che i beni comuni vengono distrutti per distrazione e ‘deficit di accudimento’ non riusciamo più a ricostruirli.
Per la salvaguardia e la cura dei beni comuni globali, l’economia non può far nulla. Perché il mercato cresce con la pace, ma cresce anche con la guerra. La storia umana ha sempre alternato economie di pace ad economie di guerra, crescite economiche dovute agli incontri pacifici tra popoli e crescite del PIL dovute alle guerre e alle ricostruzioni dopo le macerie. Da questo punto di vista, il mercato è radicalmente ‘laico’. L’economia cresce quando andiamo in vacanza in Siria e scambiamo nella pace beni e servizi, quando andiamo con amici in pizzeria, ma cresce anche quando istalliamo l’allarme dentro casa, quando assumiamo vigilantes, quando costruiamo muri, e produciamo mine anti-uomo e anti-bambino. L’economia non è capace di produrre essa stessa gli anticorpi per proteggersi dai trafficanti di morte. Devono esserle iniettati da fuori.
Ridaremo ai nostri bambini la chance di poter visitare i patrimoni dell’umanità oggi inaccessibili, se saremo capaci di guardare meno ai nostri comfort e sicurezze individuali e di più al benessere e alla sicurezza di tutti, se ci distrarremo dai beni economici privati per guardare, di nuovo insieme, ai beni civili, ambientali, pubblici. Altrimenti arriverà presto il giorno in cui non potremo più goderci neanche la pace della piscina di casa, perché non c’è nessun muro, nessuna porta blindata, nessuna società di vigilanza privata che può veramente proteggerci. Se non ci prendiamo cura del bosco che circonda la nostra casa e lo facciamo diventare una discarica, presto infesterà la nostra cucina e la camera dei nostri figli. La sicurezza più grande è quella di tutti, il benessere più vero è quello condiviso.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015
Il mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n. 15-16/2015 (386 KB) , 10/08/2015
L’Unione Europa sta attraversando la più grande crisi dalla sua fondazione. Lo stress-test rappresentato dalla crisi greca non ha solo evidenziato quanto grave fosse e sia ancora la situazione dell’economia e del popolo greci, ma ha messo in luce anche, e soprattutto, la fragilità di una Europa costruita decenni fa sui registri relazionali, sociali e simbolici del patto che si sta progressivamente trasformando in un club di paesi tenuti assieme dal solo registro del contratto.
Il patto, categoria di origine biblica (l’Alleanza), include, tra l’altro, il perdono come sua categoria fondativa: nei patti ci si può perdonare, si può e ci deve ricominciare dopo i fallimenti, i debiti si possono, qualche volta, cancellare.
[fulltext] =>E se c’è il per-dono c’è anche, per natura, il dono, una parola che nessuno ha avuto il coraggio di invocare nei tavoli dove si prendevano nelle settimane passate le decisioni importanti. E non deve stupirci, solo rattristarci. Il nostro capitalismo ha infatti confinato il dono nella sfera strettamente privata, perché ha forse capito la natura sovversiva del dono vero, che, non a caso, ha come suo icona prima un uomo-Dio crocifisso. Il dono, quello vero, è una ferita, ma è anche la feritoia principale attraverso il quale passa la vita. La vita individuale e quella dei popoli.
E quando una comunità (una parola che proviene da munus, cioè dal dono e dall’obbligo, i due significati di munus) perde contatto con il dono, quando i suoi responsabili sono incapaci di evocare questa categoria anche nei momenti più drammatici, il patto è morto e resta solo il contratto con le sue sole regole. Restiamo dentro l’orizzonte dell’umano finché siamo capaci di lubrificare le nostre regole con l’olio del dono.
Questa co-essenzialità di regole e dono la vediamo nella grande storia dello sviluppo dell’Alleanza biblica, la vediamo ancora in quelle comunità fondate da patti come le famiglie, ma anche molte comunità e in qualche, residua, impresa (nell’imprese di comunione, cooperative, …). Il contratto, invece, non conosce la parola perdono: quando in un contratto si sbaglia occorre pagare, fino all’ultimo spicciolo. Tanto che nell’antichità per debiti si diventava schiavi, e a volte si perdeva anche la vita.
Nell’Alleanza tra YHWH e il popolo ebraico, la Legge del Sinai (la Torah) aveva anche introdotto, come unicum in tutta la storia umana, anche l’anno sabbatico, grazie al quale ogni sette anni gli schiavi per debiti venivano riscattati e liberati: “Egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto” (Esodo 21,2). Questi schiavi erano persone ‘acquistate’ (qnh, è un verbo usato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la libertà perché non riuscivano a restituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3-5). Il debitore diventava quindi proprietà del suo creditore: come una merce, una casa, un vestito. Ad un certo punto, la civiltà ha inventato l’istituto giuridico del fallimento, che – non dimentichiamolo – fu creato soprattutto a garanzia del debitore, per impedirgli, appunto, di diventare schiavo per i suoi debiti.
Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza avere nessuna colpa. Non tutti i debitori insolventi sono colpevoli, anche se in alcune lingue debito e colpa hanno la stessa radice etimologica. Il capitalismo, sebbene sia nato dentro l’umanesimo ebraico-cristiano, non conosce alcuna legge che libera i debitori dalla schiavitù alla scadenza del settimo anno. Eppure quella antica legge continua a ripeterci anche oggi che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle.
Quando, invece, noi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo nostra conquista e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia si eclissa. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica biblica né la legge vera della vita. L’Europa, poteva cogliere l’occasione data da questa grande crisi, generata prima dalla crisi finanziaria esplosa negli USA e poi dalla crisi del debito pubblico di alcuni Paesi e tra questi della Grecia, per rilanciare il patto fondativo che l’ha generata, immaginando e osando soluzioni più creative, coraggiose, rischiose, solidali. E invece per ora continuiamo a vedere il logoramento di un sogno europeo, che per essere mantenuto vivo avrebbe bisogno di simboli più ricchi di quelli della finanza, di atti umani più grandi dei contratti, di parole più ricche di quelle della colpa e del debito. Di perderci lungo la strada la Comunità, per accontentarci del club.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015
La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che però è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.
Questo vuoto sta attirando un quarto ‘offerente’ di cura, il mercato, che in molti paesi sta occupando questi spazi. Lo vediamo tutti i giorni.
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Questo mercato civile ha svolto bene il suo mestiere, ma oggi sta vivendo una crisi profonda, dovuta ai tagli delle pubbliche amministrazioni e ad un calo di capacità innovativa dei mondi vitali che avevano generato in passato questa economia diversa. C’è inoltre un incalzante avanzare di pensiero economico unico, che sta convincendo politica e anche parte della società civile che il mercato capitalistico può gestire scuole, asili, case di riposo come fa con tutte le altre merci, perché – dicono - la cura è un business come tutti gli altri. Anche la recente riforma del terzo settore è influenzata da questa ideologia mono-mercatista.
Sono invece convinto che serva una riflessione profonda sul tema della cura in rapporto al mercato e in rapporto al lavoro. Affidare la cura al solo mercato non funziona per diversi motivi. Il principale si chiama democrazia. I nostri avi hanno lottato per secoli per superare una società feudale nella quale i ricchi e i potenti possedevano servi e schiavi che svolgevano per loro servizi e attività che loro stessi non volevano fare. Camerieri, cuochi, sarti, servitù di vario genere che accudivano e curavano i loro padroni. La democrazia ha detto che gli esseri umani nascono e restano uguali, e che non devono esistere persone costrette a servire altri più potenti. Oggi, sotto un velo ideologico che impedisce di vedere con chiarezza i veri rapporti e valori in gioco, stiamo tornando ad un sorta di nuovo feudalesimo, dove chi possiede denaro compra non solo servizi ma persone che si prendono cura di loro, costrette dalla loro povertà e indigenza. Sono contratti, certo, non più stati giuridici di servitù o schiavitù; ma siamo sempre in presenza di persone ricche e potenti che dispongono di persone povere e deboli che pur di sopravvivere sono disposte a tutto: a lasciare i propri figli e genitori in patria per occuparsi dei nostri, ad affittare l’utero, a vendere un organo o magari bambini e figlie. Ieri si diventava schiavi per guerre o per debiti: oggi si continua a diventare di fatto schiavi per povertà.
Che fare allora? La filosofa canadese Jennifer Nedeslky ha una proposta radicale, ma estremamente affascinante: ridurre le ore di lavoro per aumentare quelle gratuite di cura. Secondo questa filosofa (e secondo me) la nostra civiltà dei consumi sta conoscendo un grave paradosso: da una parte abbiamo elite che lavorano troppo e che soffrono di ansia e burn-out per eccessivo lavoro e che non sono capaci, in genere, di cura; dall’altra una quantità crescente di disoccupati che vengono espulsi dal mondo del lavoro e che per sopravvivere devono occuparsi della propria cura (che non possono comprare sul mercato) e di quella dei ricchi. Ecco allora la sua proposta: ridurre la settimana lavorativa di tutti a trenta ore settimanali, e chiedere a ciascuna persona adulta di donare gratuitamente alla propria famiglia o comunità non meno di dodici ore di cura alla settimana. Una persona matura e eccellente deve avere nel pacchetto di ore che offre alla società una parte di ore di lavoro retribuito e una parte di ore di cura non retribuite.
Quali sarebbero i grandi vantaggi se una tale riforma si attuasse? Innanzitutto si opererebbe naturalmente una ridistribuzione del lavoro. Non è più sostenibile che ci siano persone che lavorano fino a settant’anni, in un’età della vita dove è bene occuparsi d’altro, e che giovani di 25 o 30 anni restino a casa ad assistere, tristi, al deterioramento del loro capitale umano e motivazionale. ‘Lavorare meno lavorare tutti’ non è un slogan da applicare soltanto alle singole imprese in tempo di crisi: deve diventare un progetto politico ed economico (e previdenziale) per la società tutta intera.
In secondo luogo di renderebbe più sostenibile e buona la vita delle donne. I dati dicono che oggi in tutto il mondo le donne continuano ad offrire molta più cura degli uomini. In Italia una donna lavoratrice, sommando il lavoro fuori con quello dentro casa, lavora in media quasi due ore di più degli uomini della sua stessa età – un divario che può arrivare fino a tre ore se questa donna ha bambini piccoli. Se, invece, queste donne (chiamate ‘generazione sandwich’) oltre ad avere bambini piccoli hanno anche genitori anziani (ancora abili) da curare, i dati dicono che sono avvantaggiate nel mercato del lavoro rispetto alle donne che hanno solo bambini senza genitori. Come a dire che i benefici di cura offerti dai nonni superano i costi che i figli sostengono per il loro accudimento – occuparsi di un genitore non è mai solo un costo.C’è bisogno di redistribuire il lavoro ma non è meno urgente redistribuire la cura. Se ciascun adulto, donna e uomo, indipendentemente dal proprio stipendio donasse 12 ore di cura la settimana alla propria famiglia e alla propria comunità, avremmo una significativa redistribuzione di reddito e applicheremmo in concreto quel principio di fraternità che la modernità volle porre a proprio fondamento, e che questo nostro capitalismo relega sempre più sullo sfondo del proprio paesaggio, dominato dai consumi e dalla finanza.
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di Luigino Bruni
pubblicato su pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015
La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che però è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.
Questo vuoto sta attirando un quarto ‘offerente’ di cura, il mercato, che in molti paesi sta occupando questi spazi. Lo vediamo tutti i giorni.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.8/2015 del 25/04/2015
La sussidiarietà potrebbe diventare una parola chiave dei prossimi anni, generando un miglioramento del benessere e della democrazia della nostra società se siamo capaci di applicarla veramente nella sfera politica (dove è molto evocata ma raramente praticata) ed estenderla a nuovi ambiti che ne avrebbero un estremo bisogno. La radice etica profonda di questo principio la si trova in una della grandi conquiste della modernità: la sovranità appartiene al popolo, non ai governanti né ai politici. Quindi qualsiasi decisione che un amministratore prende che ha effetti sulle persone coinvolte, deve essere giustificata da qualche ragione di bene comune.
[fulltext] =>Ma è il popolo sovrano dei cittadini che delega verso l’alto il potere, e non i governanti che la concedono ai cittadini. Ecco perché la sussidiarietà è fondamentale per ogni vera democrazia se vogliamo cittadini e non sudditi. Si capisce allora che la sussidiarietà sia principio fondamentale per le relazioni sociali che coinvolgono più persone caratterizzate da diverse distanze dai fatti e da diverse informazioni relative al problema da affrontare.
Il primo ambito che viene in mente quando si pensa alla sussidiarietà è quello politico, dove dovrebbe regolare l’organizzazione ‘verticale’ di una comunità. È un principio che è alla base della Comunità europea, che si è fondata sulla regola ‘non faccia il livello di potere politico più distante dal problema da risolvere quanto può fare il livello più vicino’. Quando e se il potere più distante (Stato) interviene deve farlo solo in aiuto (a sussidio) di quello più vicino (città).
La sussidiarietà, poi, è molto importante per ordinare i rapporti tra le istituzioni e le organizzazioni operanti negli stessi territori. Qui ci suggerisce un altro criterio: ‘non facciano lo Stato ed il mercato capitalistico ciò che può fare la società civile organizzata e le famiglie’, perché la scelta cade su quelle persone/istituzioni che sono quelle più ‘vicine’ alle persone al centro del problema da risolvere. Quindi se in un quartiere ci fossero tre possibilità e alternative per gestire un asilo nido (il comune, una impresa for profit e una cooperativa di genitori), il principio di sussidiarietà ci suggerisce di scegliere la cooperativa di genitori. Questa sussidiarietà è chiamata ‘orizzontale’, che ha un grande valore per la salvaguardia della libertà e della varietà delle forme di educazione, di assistenza, di sanità, d’arte, etc. E’ la prima garanzia di salvaguardia della biodiversità civile ed economica di una cultura, che invece si sta fortemente riducendo sotto l’invasione di un vero e proprio pensiero unico globale.
Il principio di sussidiarietà ci dice prima di tutto due cose fondamentali. La prima e più importante competenza da cui partire in ogni processo teso a risolvere problemi o a migliorare situazioni è quella delle persone coinvolte direttamente dal problema. Sono i poveri, ad esempio, i primi competenti per la propria condizione di povertà, non i politici nè gli amministratori che decidono sulla loro sorte, che sono molto distanti dal problema e dalle sue specifiche competenze. Una gestione sussidiaria del welfare e delle povertà di una città o di un Paese dovrebbe innanzitutto riconoscere le competenze specifiche di queste persone, valorizzarle come prima risorsa per la risoluzione dei problemi, tenendo conto della saggezza racchiusa nell’antico detto popolare: “solo tu puoi farcela ma non puoi farcela da solo”. E dovrebbe coerentemente inserire i poveri, i malati, gli anziani in ogni organo teso a risolvere i loro problemi – organi e tavoli, invece, sempre più affollati di tecnici e consulenti incompetenti (anche quando hanno lauree e master), in quanto non prossimi al problema e alle persone dentro quel problema. Una gestione veramente sussidiaria vedrebbe francescani e suore di Madre Teresa nel ministero del welfare, portatori di carismi per amare, vedere, capire le povertà, e trasformare le ferite in benedizioni. Ma c’è una seconda premessa antropologica ed etica dietro il valore della sussidiarietà: riconoscere l’importanza e le priorità degli incontri vicini e diretti fra le persone: i mediatori vanno introdotti solo se necessari e e sempre a sussidio degli incontri fra la gente, che sono essenziali per una vita buona e vera.
Ma ci sono altri ambiti nei quali la sussidiarietà è un principio fondamentale per il bene comune. Uno particolarmente delicato e rilevante è quello educativo. In ogni processo educativo virtuoso occorre partire dalla consapevolezza che la prima competenza è quella che possiede la persona che apprende, e quindi tutti gli altri interventi devono essere al servizio (a sussidio) di questa competenza primaria ed essenziale. Se invece gli interventi dell’educatore (genitore, insegnante…) si sostituiscono alla competenza, spesso latente ma reale, della persona che apprende (adulto, giovane, bambino…), il processo pedagogico si inceppa e ammala.
Un altro luogo dove la sussidiarietà sarebbe molto importante ma ancora quasi totalmente assente, è quello del management e della gestione delle organizzazioni e delle imprese. Si inizia infatti a parlare fra gli addetti di ‘sussidiarietà manageriale’, secondo la quale il manager deve intervenire nelle decisioni di un gruppo che coordina soltanto per quelle attività che risulterebbero peggiori senza il suo intervento di ‘sussidio’. Ma affinché la sussidiarietà sia concreta e non solo retorica ideologica, è indispensabile che i lavoratori e i gruppi di lavoro sperimentino fiducia genuina nei loro confronti, e quindi possano anche abusarne.
Sarebbe allora necessario che il management si fidi veramente del gruppo di lavoro, e non voglia controllare tutto il processo, magari perché considera la sua presenza sempre indispensabile per ogni scelta importante. Se, invece, chi riceve ‘la delega’ percepisce che in realtà quella ‘fiducia’ è solo strumentale, una tecnica per fare più profitti, la sussidiarietà smette di produrre i suoi effetti. Ecco perché la sussidiarietà nelle imprese avrebbe in realtà bisogno di assetti proprietari democratici, dove la delega non procede dall’alto (proprietà) verso i lavoratori, ma nella direzione opposta (come avviene in politica, dove il principio di sussidiarietà è nato). Quando, invece, la sussidiarietà discende dall’alto diventa un’altra cosa, che funziona solo quando e se i proprietari decidono che conviene loro, e che quindi è poco resiliente di fronte ai fallimenti della fiducia genuina. Il test della sussidiarietà genuina è allora la sua capacità di resistere dopo le crisi dovute a gravi abusi della fiducia.
Infine, un altro ambito dove l’applicazione del principio di sussidiarietà sarebbe molto importante è quello della comunicazione. Anche qui la prima competenza e quella più preziosa su un fatto la possiede chi è a contatto diretto col fatto, e qualsiasi intervento più distante che scavalchi questa competenza primordiale non fa altro che peggiorare la qualità della comunicazione. Tutto ciò non vale solo per la cronaca o per le storie raccontate nei media, ma ha una portata più generale, che potremmo così formulare: gli strumenti di comunicazione sono buoni se favoriscono gli incontri diretti fra le persone, riducono invece la qualità etica dei rapporti quando quelli stessi strumenti si sostituiscono e non sussidiano gli incontri personali. Quindi, per un esempio, se un social network facilita e sussidia l’incontro faccia a faccia fra le persone, qui siamo pienamente coerenti con la sussidiarietà; se invece i rapporti sulla rete spiazzano o sottraggono gli incontri tutti interi fra quelle stesse persone, la qualità umana e relazionale dei nostri rapporti si impoverisce. Ma qui si aprono infiniti scenari sui quali dovremo ritornare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.8/2015 del 25/04/2015
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.03/2015 del 10/02/2015
Dovremmo prendere molto sul serio l’ondata di malessere nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e mondiali (la Troika) che sale con sempre maggior forza dalla Grecia, dalla Spagna, dal Portogallo, ma anche dalla Francia e dall’Italia. Dall’Europa latina, comunitaria, ‘cattolica’ (e ortodossa). Sono evidentemente molte, e non tutte buone, le ragioni nascoste dietro le proteste nei confronti della politica Europea e dell’euro. Ma c’è anche qualcosa di profondo e di molto serio.
[fulltext] =>Le economie e i capitalismi nel mondo non sono mai stati tutti uguali. Fino agli anni settanta del secolo scorso, i sistemi economici nel mondo erano molti e diversi. C’era il capitalismo USA, ma anche quello tedesco, francese, l’economia mista e popolare italiana, ancora l’economia socialista, i diversi ‘capitalismi’ giapponesi, indiani, sudamericani … Questa varietà di vie al mercato e all’economia aveva dato vita anche ad una grande biodiversità nelle forme di impresa e di banca, nel mondo di lavorare, di produrre, di consumare. Di vivere: l’economia non è né più né meno della vita della gente. Con l’inizio della globalizzazione dei mercati, accompagnato da una stagione di pensiero della cosiddetta ideologia neo-liberista (che io chiamerei post- o ultra-liberista), ha preso il via un processo di convergenza dei vari ‘capitalismi’ verso il modello USA, con una forte riduzione delle differenze nazionali e del genius loci dei singoli popoli, un appiattimento culturale e una forte perdita di biodiversità. Si è così iniziato a pensare che ci fosse una sola buona cultura di impresa, una sola banca efficiente, un solo modo di fare finanza; e tutte le altre forme di economia, impresa, banche diverse e lontane da questa unica idea buona e vera, erano considerate attriti e residui di un passato feudale che doveva essere eliminato presto. Un ruolo fondamentale in questo avanzare incontrastato dell’ideologia dell’unica via al capitalismo lo hanno svolto, e lo svolgono, le scuole di impresa nel mondo, che stanno producendo e implementando una ideologia manageriale ‘universale’, insegnando in tutto il mondo. Nelle business school di Buea e di Chicago si seguono ormai gli stessi ‘protocolli’ (come in chirurgia) poiché l’impresa è una, ha le stesse regole in tutto il mondo. Poco conta se quelle imprese poi si troveranno ad operare negli slum di Nairobi o nella city di Londra. Stesso discorso per le banche e per la finanza.
In realtà le cose stanno molto diversamente. L’economia europea ha sempre avuto più anime economiche, più ‘spiriti del capitalismo’. In particolare la Riforma protestante ha dato vita ad una cultura d’impresa e di banca diversa da quella che è rimasta ed è continuata ad operare nei paesi a cultura cattolica (e ancor più ortodossa). La netta separazione tra dono e contratto, tra comunità e impresa che si è affermata nei paesi del nord Europa e negli USA (in seguito, anche, alla reazione di Lutero ad un intreccio troppo stretto e in buona parte sbagliato tra denaro e dono: il ‘mercato delle indulgenze’), non si è mai operata nei paesi mediterranei. Da noi l’economia è rimasta mescolata con la comunità, il dono con i contratti, il denaro con la gratuità, un intreccio che ha generato molte malattie tipiche di questi paesi (dalle mafie al familismo), ma ha prodotto anche alcune benedizioni. Tra quest’ultime le imprese famigliari (ancora oggi il cuore pulsante dell’economia italiana), il grande movimento cooperativo, le casse rurali e di risparmio, le BCC, le banche popolari, che hanno fatto ricca, equa e bella la nostra economia.
La creazione dell’Europa pose il ‘principio di sussidiarietà’ come sua pietra angolare (il primo potere ce l’hanno i soggetti vicini al problema da risolvere). Ma ci siamo limitati ad applicarlo alla sfera politico-amministrativa (nell’ordinare le competenze tra istituzioni europee, nazionali, regionali, locali), mentre a livello finanziario ed economico si sta sempre più applicando l’anti-sussidiarietà. Infatti, la finanza si è via via concentrata attorno a Francoforte, svuotando di potere le banche centrali nazionali, e le direttive europee sulle dimensioni ottime delle banche commerciali stanno producendo gruppi bancari sempre più grandi e lontani dai territori. Mentre l’Europa politica procede dall’alto verso il basso, l’Europa della finanza si muove nella direzione opposta, allontanando le decisioni dalle persone e dai territori. In questo contesto si capisce la gravità del decreto del Governo Renzi che ha di fatto trasformato le banche popolari (beni pubblici e antica eredità dell’umanesimo comunitario italiano) in società per azioni, in società anonime: beni comuni in beni privati di pochi.
L’Europa potrà realizzare il grande sogno dei suoi padri se allargherà il campo di azione del principio di sussidiarietà a tutti gli ambiti. Oggi non è solo urgente riavvicinare le istituzioni finanziarie ed economiche ai territori, ma è anche indispensabile ricordare che l’economia è penultima parola, mai l’ultima: non sono le ragioni della politica (Bene comune) che devono servire quelle dell’economia (beni privati), ma viceversa. Dietro il grido dei Paesi mediterranei in crisi dobbiamo allora sapere ascoltare anche la domanda di identità, di biodiversità, di storia.
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Reimpariamo ad ascoltare il grido dei poveri: in esso si nasconde sempre un portato di verità e di Bene comune di cui l’Europa non può e non deve fare a meno.Non esiste un solo modo di fare economia o impresa: il modello usa non è adatto al vecchio continente. Finanza e politica non sono la stessa cosa
di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.03/2015 del 10/02/2015
Dovremmo prendere molto sul serio l’ondata di malessere nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e mondiali (la Troika) che sale con sempre maggior forza dalla Grecia, dalla Spagna, dal Portogallo, ma anche dalla Francia e dall’Italia. Dall’Europa latina, comunitaria, ‘cattolica’ (e ortodossa). Sono evidentemente molte, e non tutte buone, le ragioni nascoste dietro le proteste nei confronti della politica Europea e dell’euro. Ma c’è anche qualcosa di profondo e di molto serio.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.21 del 10/11/2014
Mi trovavo a Londra a completare i miei studi di economia, quando la mattina dell’8 maggio del 1998 mi telefona a casa Chiara Lubich. Anche se facevo parte del suo movimento da quando avevo 15 anni – è la grande avventura della mia vita – non avevo mai parlato personalmente con lei. Ricordo ancora l’emozione e la sorpresa, ma soprattutto ricordo bene le sue parole: “Mi vuoi aiutare per dare dignità scientifica all’Economia di comunione?”. E poi aggiunse che tornando in Brasile dopo sette anni dal lancio dell’EdC aveva capito che se accanto agli imprenditori non si fosse sviluppato anche un pensiero economico, l’EdC non sarebbe decollata. Io risposi di sì, venni da Londra a Roma, e iniziai a collaborare con lei e tanti altri compagni-e per contribuire a dare un po’ di questa dignità scientifica alla vita che c’era e che c’è. E capii che la vita ha la priorità, ma anche il pensiero e la teoria sono vita, e quando mancano rendono la prassi povera e di corto respiro.
[fulltext] =>Nei dieci anni che abbiamo lavorato assieme, spesso Chiara mi ripeteva: “Studiate, scrivete, fate convegni. Bene. Ma ricordati, io ho fatto nascere l’EdC per i poveri”. Per i poveri, non tanto né primariamente per fare imprese più etiche, né nuove teorie economiche.
Questo mandato di Chiara è cresciuto con e dentro di me negli anni. E’ maturato, si è arricchito, si è articolato. Non si è mai spento, anzi è diventato sempre più luminoso. Sono state parole feconde e generative. E mi/ci hanno svelato molte cose, tutte splendide, tutte dolorose (il dolore ha una luce).
Ho capito che le povertà sono tante, e non tutte faccende disumane. C’è senz’altro quella delle ‘favelas’ che Chiara vide dall’aereo che stava atterrando a San Paolo; c’era ieri, c’è oggi, e dobbiamo non darci pace affinché non ci sia più domani. È questa la povertà-miseria delle periferie sociali della terra. Combattere queste forme di miseria resta una grande priorità dell’EdC: anche per questo a Maggio andremo da tutto il mondo in Africa, nonostante l’ebola, per dire no ad una ‘cultura dell’immunità’ che assiste passiva alla morte di milioni di persone ogni anno e alle guerre del mondo, ma isola interi paesi africani perché forse una decina di occidentali si sono contagiati (in Sierra Leone la gente oggi muore di fame perché isolati da tutti).
Accanto alla povertà delle favelas della terra ci sono anche antiche e nuove povertà, soprattutto antichi e nuovi poveri che l’EdC guarda diversamente, li guarda per amarli e lasciarsi da loro amare, nella reciprocità. Molte di queste povertà ‘altre’ sono in crescita attorno a noi. Il lavoro, soprattutto il lavoro dei giovani, è una povertà grande della nostra epoca che non può lasciarci tranquilli. Le depressioni, che stanno diventando la nuova peste del XXI secolo. L’azzardo.
La scoperta della gravità e dell’urgenza dell’azzardo è cresciuta in me un po’ alla volta. Ho sempre sofferto quando entravo in un bar, compravo un giornale o mi fermavo in un autogrill e vedevo l’offerta impressionante di slot machines e di gratta e vinci. Negli ultimi anni vedevo che crescevano sempre più dentro i bar, che le sale giochi, brutte e nere, invadevano le nostre città. Nel mio piccolo paese di origine (Roccafluvione) ho ritrovato le slot in tutti i bar, e ho visto nascere nell’ultimo anno una sala giochi e una sala scommesse.
Un momento di svolta è stato il giorno quando, due anni fa, mi rifiutai di fare una conferenza in un circolo ricreativo di una parrocchia perché in fondo c’erano le slot, luccicanti e affamate come gli idoli. Sentì che era arrivata l’ora di agire. Mi ricordai delle parole di Chiara. Decisi di iniziare lo ‘sciopero del caffè’ (non consumare nulla nei bar slottizzati, e dirlo al barista). Poi condividendo l’idea prima con un caro amico sardo (Vittorio), compagno di ideali e di mestiere, e poi parlandone con altri colleghi economisti (Alessandra, Leonardo) e con un gruppo di giovani romani appassionati di consumo critico e di mob etici (Gabriele e Francesco), nacque la campagna slotmob: decidemmo di dire di no all’azzardo dicendo sì a quei bar che per scelta etica le slot le hanno tolte, con una colazione collettiva e con un torneo di biliardino e giochi di gratuità.
“L’EdC l’ho fatta nascere per i poveri”. Anche per i poveri vittima dell’azzardo, che oggi sono mangiati da un impero dell’azzardo, da una vera e propria struttura di peccato, cresciuta viralmente in seguito a scelte politiche intenzionali e esplicite. Venti anni fa le slot stavano nei casinò, non nei bar. I gratta e vinci non esistevano. Qualcuno al governo pensò di iniziare a fare cassa alleandosi con imprese dell’azzardo, aumentando le concessioni, e inventando sistemi sempre più sofisticati e pensati per catturare i soggetti più fragili.
Chi entra in una sala nera (non voglio sporcare la splendida parola “giochi” accostandola all’azzardo), o quelle donne, molte anziane, che aspettano l’apertura dei bar per giocare, nel sottoscala, nella loro macchinetta preferita, sono persone che hanno bisogno di aiuto. Dietro quel tintinnio di soldi e gioco di colori si nasconde uno straziante grido di aiuto, se sappiamo ascolarlo. Soffrono tutti, moltissimi sono persone fragili, fragilissime. Molte e molti sono depressi, tanti hanno già problemi con alcol e droga. Non possono essere lasciati nelle mani di imprese for-profit disegnate per fare profitti sulla loro disperazione. Nei secoli passati i monti dei pegni erano stati inventati e poi gestiti da ordini religiosi: chi si mette in pegno la fede o l’abito da sposa, non deve trovare di fronte qualcuno che lucra sulla sua disperazione, ma uno sguardo di amici, pieno di pietas. Non qualcuno che più ti rovini più guadagna, più ti perdi più trova guadagni, come oggi accade quasi sempre nel mondo dei ‘compro-oro’, e come accade sempre con l’azzardo. Questo le civiltà sagge lo sanno molto, la nostra Italia lo ho dimenticato e rinnegato.
Un governo, un parlamento e istituzioni che non fanno nulla, o terribilmente troppo poco, per porre termine a questo scandalo è un governo che non sta dalla parte dei poveri. Come non stanno dalla parte dei poveri quelle organizzazioni del non-profit (il giorno che ho saputo quante erano non ho dormito), che accettano denari nati dalla nostra gente fragile per curare altre fragilità. Quale pazzia più grande?! E lo sono ancora meno quelle associazioni che firmano accordi con ‘confindustria gioco’ per sostenere l’azzardo legale e combattere l’azzardo illegale, accettando e sottoscrivendo l’idea che l’azzardo legale è buono. Spero sia solo ingenuità.
C’è tanto dolore nel mondo, lo sappiamo. Una parte di questo dolore è eliminabile, o almeno riducibile. Ma occorre fare di più, coll’azione e col pensiero. L’azzardo è una metastasi di una malattia profonda del nostro capitalismo, in particolare del capitalismo italiano (l’Italia è la prima nazione europea per l’azzardo, e in Germania e in Francia le slot nei bar non ci sono). Dietro le grandi imprese dell’azzardo (Lottomatica, Sisal, Snai …) ci sono aziende che una volta facevano atlanti geografici e libri per i nostri bambini (e purtroppo li fanno ancora), che persa la loro missione originaria hanno pensato di buttarsi in un mercato sicuro, dove i profitti non mancano, gravemente complici le istituzioni. In Italia non c’è solo il bel capitalismo della piccola e media impresa e dell’impresa (anche grande) famigliare, che guarda al lungo periodo, che ama la sua gente e i territori. C’è anche il capitalismo ‘modello Lottomatica’, che ha come unico scopo massimizzare profitti e rendite, che vorrebbe entrare nelle scuole per educare i nostri figli al ‘gioco responsabile’, e che magari ci riuscirà visti i precedenti. Questo capitalismo non è l’economia che Chiara sognava, non è economia civile ma incivile, che cresce e prospera consumando i poveri.
L’EdC continuerà la sua corsa verso un mondo più fraterno se continuerà ad ascoltare il ‘grido dei poveri’, dei poveri delle favelas e dei poveri mangiati da quella parte di capitalismo sbagliato del nostro Paese. Fu l’ascolto del grido dei poveri che mosse Chiara e le fece inventare l’EdC. È l’ascolto di altre grida di altri poveri (le grida dei poveri sono forse tutte uguali), che oggi muove le nostre azioni di contrasto all’azzardo, e che deve muovere altre azioni analoghe, perché non possiamo dormire tranquilli mentre le strutture di peccato divorano i nostri fratelli. “Ricordati che l’EdC è nata per i poveri”. Ricordiamocelo insieme.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.21 del 10/11/2014
Mi trovavo a Londra a completare i miei studi di economia, quando la mattina dell’8 maggio del 1998 mi telefona a casa Chiara Lubich. Anche se facevo parte del suo movimento da quando avevo 15 anni – è la grande avventura della mia vita – non avevo mai parlato personalmente con lei. Ricordo ancora l’emozione e la sorpresa, ma soprattutto ricordo bene le sue parole: “Mi vuoi aiutare per dare dignità scientifica all’Economia di comunione?”. E poi aggiunse che tornando in Brasile dopo sette anni dal lancio dell’EdC aveva capito che se accanto agli imprenditori non si fosse sviluppato anche un pensiero economico, l’EdC non sarebbe decollata. Io risposi di sì, venni da Londra a Roma, e iniziai a collaborare con lei e tanti altri compagni-e per contribuire a dare un po’ di questa dignità scientifica alla vita che c’era e che c’è. E capii che la vita ha la priorità, ma anche il pensiero e la teoria sono vita, e quando mancano rendono la prassi povera e di corto respiro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.17/2014 del 10/09/2014
Tornando da Parigi da una scuola estiva sull’Economia di Comunione, volando sui cieli d’Europa penso al nostro capitalismo. Forse perché in Francia è appena cambiato il ministro dell’economia, forse perché ho appena salutato cinquanta giovani affascinati da un’economia più fraterna e inclusiva, o perché il cuore va ai troppi aerei sbagliati che volano sulle tante terre martoriate dalle guerre, non posso comunque non pensare alla nostra economia di mercato, alle nostre crisi, ai tanti africani e magrebini che ho visto nelle metropolitane parigine e nelle sue periferie esistenziali, economiche e culturali.
[fulltext] =>E per prima cosa rifletto un po’ su che cosa sta accadendo in questo aereo tra me (gli altri passeggeri) e la compagnia area che mi porta a casa. Ho acquistato un ticket, e nel farlo mi sono mosso totalmente dentro la logica del nostro capitalismo. Ho fatto un contratto con una grande compagnia aerea, uno dei principali attori dell’economia globale (che acquista, come le altre grandi compagnie aeree, molti titoli finanziari altamente speculativi [hedge funds] per assicurarsi contro le oscillazioni dei prezzi del petrolio). Ho usato una carta di credito emessa da uno dei principali circuiti finanziari mondiali. Con me, questo contratto lo hanno fatto il top manager che viaggia in business class, la famiglia italiana (genitori e tre ragazzi) che ha trascorso qualche giorno di vacanza a Parigi, e il giovane attivista di una ONG che torna da un congresso dove hanno criticato il nostro sistema economico. La hostess mi sorride e mi tratta con grande gentilezza, senza che ci si conosca, perché il suo contratto lo prevede. Mentre scrivo comodo col mio pc, prodotto da una grande multinazionale.
E da questo aereo il pensiero va poi ad un mio predecessore dell’università di Roma che per recarsi a Parigi duecento anni fa impiegava forse una settimana, doveva attraversare valichi, rischiare di imbattersi in qualche agguato nelle montagne, spendeva un patrimonio, e arrivava fisicamente distrutto. E penso anche che le persone che avevano i mezzi per andare a Parigi o in altre città europee erano molto poche, un numero molto inferiore a quello di oggi.
Se allora ci fermassimo a questo punto del ragionamento non mi sentirei troppo a disagio su questo volo mentre ripenso con un po’ di nostalgia ai giovani di vari paesi del mondo che ho appena lasciato.
In realtà, sotto questo al mio ticket si nasconde però molto di più, un ‘molto’ che facciamo fatica a vedere, anche perché abbiamo smesso di farci domande profonde sul tipo di mondo che abbiamo costruito. Intanto è bene ricordare che sto viaggiando su una macchina che è uno dei principali fattori di inquinamento del nostro pianeta. È vero che tra i programmi che mi offre a bordo c’è anche la possibilità di fare una donazione per piantare alberi che riproducono esattamente quella Co2 che stiamo emettendo, chiedendo però a noi privati cittadini di farci carico di un costo sociale che questa impresa genera e non copre (se non in piccola parte). Ma poi penso a tutti quei cittadini che ho appena incrociato nella metro, che su questi aerei non saliranno mai, o troppo poco. Che ci salgono oggi meno di ieri, perché anche se i ticket costano relativamente meno oggi di dieci anni fa, le diseguaglianze sono aumentate, e oggi il 10% più povero in Europa ha peggiorato le sue condizioni di vita, e continua a peggiorarle. Per non dire dei miliardi di abitanti dell’Africa, dell’Asia, di molte regioni del sud America, che non solo non volano, ma vedono aggravarsi le condizioni dei loro ambienti a causa dei voli del 20% più ricco del pianeta. Eppure anche loro, soprattutto loro, avrebbero bisogno di volare, di conoscere il mondo, avrebbero più bisogno di noi, più di me, di volare e di sognare. Ma – e questo è un aspetto di cui non si parla – se solo il 50% di coloro che oggi sono esclusi e intrappolati nelle periferie esistenziali del mondo iniziasse a volare nei cieli, il pianeta non riuscirebbe a sostenerci, e dovremmo scendere tutti a terra. Il messaggio triste che ci cela sotto questo volo aereo è molto semplice e non dovrebbe lasciarci viaggiare in pace: l’esclusione da questo benessere di una metà di abitanti del pienata è la condizione perché noi possiamo volare. Ecco perché il vero rischio sistemico della nostra epoca è che i tanti costretti a restare a terra un giorno smettano di guardare pacificamente il cielo dove volano solo gli altri.
E così, mentre ormai stiamo atterrando, torno con cuore e con la mente all’Economia di Comunione, a quei giovani pieni di speranze, e mi riconvinco che se esiste un sistema economico-sociale post-capitalistico dove tutti possano sognare e volare, questo nuovo sistema dovrà avere a che fare con la parola comunione. Ma non lo realizzeremo mai se oggi, mentre voliamo e non voliamo, smettiamo di cercarla, di pensarla, di amarla, di crederci.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.17/2014 del 10/09/2014
Tornando da Parigi da una scuola estiva sull’Economia di Comunione, volando sui cieli d’Europa penso al nostro capitalismo. Forse perché in Francia è appena cambiato il ministro dell’economia, forse perché ho appena salutato cinquanta giovani affascinati da un’economia più fraterna e inclusiva, o perché il cuore va ai troppi aerei sbagliati che volano sulle tante terre martoriate dalle guerre, non posso comunque non pensare alla nostra economia di mercato, alle nostre crisi, ai tanti africani e magrebini che ho visto nelle metropolitane parigine e nelle sue periferie esistenziali, economiche e culturali.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.12/2014 del 25/06/2014
Il quadro del rapporto Istat non è felice, e ci vuole molta speranza civile (grande virtù di questi tempi difficili) per non scoraggiarsi e continuare la lotta.
Il primo messaggio di questi ‘numeri’ riguarda il lavoro e la disoccupazione. Siamo al livello più alto dal 1977, gli anni del terrorismo e delle brigate rosse. Il tasso medio nazionale è il 13.6, ma deve farci ancora più paura quando vediamo che per i giovani ha raggiunto il 46%, e al Sud al 60.9%. Non siamo più capaci di creare lavoro per i nostri giovani. Avremmo messaggi ancora più preoccupanti se guardassimo dentro i dati di chi il lavoro ce l’ha, e ci accorgeremmo che la crisi ha ridotto i diritti effettivi dei lavoratori, e che molti devono fare lavori che non amano.
[fulltext] =>Quando le crisi toccano i nostri livelli, aumenta molto quella forma di sofferenza che nasce dal dover fare lavori che non corrispondono alla nostra ‘vocazione’ (e ai nostri studi) pur di non ‘morire’ e non far morire i nostri figli – nel rapporto Istat non ci sono questi indicatori, ma noi lo sappiamo e lo vediamo ogni giorno.
Guardando meglio ci accorgiamo poi che il tasso di disoccupazione delle donne è in media maggiore di due punti e mezzo di quello degli uomini: a livello nazionale raggiunge il 20% e al Sud ha superato il 22%. Tutti questi dati sono peggiorati in questi ultimi cinque anni, il che ci dice che questa crisi ha colpito di più le donne. Molte di loro che avevano tentato di coniugare lavoro e famiglia sono dovute tornare a casa – altro dolore, non contabilizzato, ma realissimo. Parla molto al femminile anche il capitolo demografico del rapporto. In questi ultimi cinque anni le donne in Italia (e in Europa) fanno meno figli (1.42 per donna), li fanno sempre più tardi, e ne fanno meno al Sud dove lavorano meno – occorre sfatare una volta per tutte l’idea diffusa che le famiglie non mettono al mondo figli perché le donne lavorano: dove le donne non lavorano quando vorrebbero lavorare abbiamo meno figli, meno felicità, più depressione. Le famiglie con figli sono oggi 320.000 in meno rispetto a cinque anni fa (2002-2007), e soltanto il 38% del totale delle famiglie. Il Rapporto stima che nei prossimi trent’anni la quantità di anziani che 100 giovani dovranno sostenere sarà più del doppio dell’attuale (da 123 a 278). Sono dati troppo seri per non prenderli sul serio. Che fare allora? Dobbiamo, e possiamo, aumentare i servizi alle famiglie giovani (anche qui il divario tra Nord e Sud è molto, troppo, grande), ma senza una nuova primavera spirituale ed etica, che ridoni ai nostri giovani la voglia di futuro e di vita, sarà durissima invertire questa tendenza al vero declino.
Nel 2013 il 19.4% erano sotto la soglia di povertà (contro il 17% media europea a 28 paesi), e le famiglie in grave deprivazione sono passate dal 6.8% (del 2007) al 12.5, un’impennata impressionante. Colpisce anche notare che il 18.4% delle famiglie ha più di cinque componenti. Il sistema politico, però, ha ancora paura della famiglia: stiamo chiedendo e sperando che il Governo estenda alle famiglie monoreddito il bonus delle 80 euro, perché era troppo difficile, in Italia, capire che se lavora un solo coniuge e guadagna 2000 euro al mese e ha 3 figli piccoli, quella famiglia è in maggiore difficoltà di una coppia senza figli dove ciascuno guadagna 1500 euro (più bonus). Conti troppo difficili se continuiamo a non vedere la famiglia ma solo i singoli individui. La famiglia comunque soffre, ma non molla, e non ci fa affondare.
Buone notizie vengono dall’economia sociale e civile (da quello che chiamiamo ancora, sbagliando, settore ‘non profit’). Negli ultimi dieci anni è il settore più dinamico: 28% in più di imprese, e i lavoratori sono aumentati del 39.4%. Certo, questo aumento è una risposta ad un mondo con più solitudini e fragilità, ma è anche un segnale che ci dice che oggi e domani sarà la cura – nelle sue tante vecchie e nuove professioni - un grande luogo di creazione di nuovo lavoro.
Un’altra buona notizia viene dalla longevità. L’Italia è tra i paesi dove un bambino che nasce ha la più alta speranza di vita: 79.6 anni per gli uomini e 84.4 per le donne. Le donne, però, invecchiano più sole. L’11% delle persone sole (che sono 7.5 milioni) ha più di 85 anni, e il 62% delle donne anziane invecchia sola. Molte di queste donne, non dimentichiamolo, aveva speso gli anni migliori ad accudire e accompagnare padri, mamme, figli, zie e nonni.
Infine un dato che dovrebbe farci riflettere molto. 370.000 famiglie sono formate da due o più nuclei familiari, e negli ultimi cinque anni le persone che vivono in questi famiglie multi-nucleo sono aumentate di 438.000 unità. Si tratta di genitori che ri-accolgono figli dopo separazioni, divorzi, emancipazioni non riuscite, o parenti che, per ragioni economiche, si mettono a vivere insieme. Nelle nostre case aumentano celibi, nubili, separati, divorziati, soprattutto persone con meno di 34 anni, e soprattutto donne. Questi giovani che tornano a casa non sono ‘figlioli prodighi’ che hanno divorato i beni dei genitori; sono figlie e figli, spesso fragili, che non ce l’hanno fatta a metter su la famiglia che sognavano. Ma, anche oggi come nel Vangelo di Luca, le nostre famiglie forse non fanno sempre festa, ma sempre li accolgono, ri-arredano le camere, ritirano fuori i letti di qualche anno prima. E ricominciano a lottare e a sperare, insieme.
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Il rapporto ISTAT svela un’Italia in grave difficoltà. Bisogna ridarle speranza con una nuova primavera spirituale ed etica
di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.12/2014 del 25/06/2014
Il quadro del rapporto Istat non è felice, e ci vuole molta speranza civile (grande virtù di questi tempi difficili) per non scoraggiarsi e continuare la lotta.
Il primo messaggio di questi ‘numeri’ riguarda il lavoro e la disoccupazione. Siamo al livello più alto dal 1977, gli anni del terrorismo e delle brigate rosse. Il tasso medio nazionale è il 13.6, ma deve farci ancora più paura quando vediamo che per i giovani ha raggiunto il 46%, e al Sud al 60.9%. Non siamo più capaci di creare lavoro per i nostri giovani. Avremmo messaggi ancora più preoccupanti se guardassimo dentro i dati di chi il lavoro ce l’ha, e ci accorgeremmo che la crisi ha ridotto i diritti effettivi dei lavoratori, e che molti devono fare lavori che non amano.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.10/2014 del 25/05/2014
Stando a quanto dicono i media, il principale obiettivo della nostra politica economica è riportare il Pil in zona positiva. Rilanciare la crescita. Troppi pochi, purtroppo, formulano invece una semplice domanda: siamo sicuri che aumentare il Pil, o la crescita, sia sempre e in ogni caso qualcosa di positivo e auspicabile? Il tasso di crescita del Pil dice troppo poco sul benessere, sulla qualità della vita, sulla democrazia, sui diritti e la libertà di una nazione. È sempre stato così, e i grandi economisti lo sapevano, e lo sanno. Ma nella nostra società la capacità di “parlare” del Pil si è ulteriormente indebolita, sebbene i dibattiti pubblici non lo sappiano, o facciano finta di non saperlo.
[fulltext] =>Nella società del XIX e XX secolo, dove l’economia produceva soprattutto merci e dove la gran parte dell’umanità mancava di molte cose necessarie per una vita decente, aumentare la produzione industriale e in genere il reddito delle famiglie era direttamente cosa buona; i beni diventavano facilmente ben-essere.
Ma oggi, nelle nostre società dei consumi, che cosa dice, sul benessere delle persone, l’aumento della produzione e del consumo di telefonini e di divani? È diventato molto più complicato passare dall’aumento dei consumi di beni all’aumento del ben-essere. Ciò che il Pil indicava ieri, e oggi sempre meno, erano almeno i posti di lavoro: a oggi con la forte meccanizzazione e informatizzazione dell’economia, non ci sono più garanzie che l’aumento del Pil porti anche all’aumento dell’occupazione, perché se il Pil aumenta grazie a imprese molto robotizzate che vendono per l’export, la crescita economica può portare, e porta già, decrescita di lavoro.
Duecento anni fa, gli economisti scelsero per le merci la parola “beni”, prendendola in prestito dalla filosofi a morale: le merci dell’economia sono cose buone, cioè beni, perché possederli aumentava il bene personale e il bene comune. Oggi quel significato morale è andato totalmente perso, e chiamiamo ancora “bene” il pane, ma chiamiamo “beni” anche la pornografia, le mine anti-uomo i gratta e vinci e il gioco d’azzardo, purché passino per il mercato. Al punto che in Polonia si parla di voler conteggiare nel Pil anche “beni” che non passano neanche per il mercato, quali la prostituzione e le varie attività illegali.
L’industria dell’azzardo, molto fiorente in Italia (che è la terza economia al mondo in questo settore indecente), è in forte crescita, e quindi sta contribuendo a rilanciare il Pil, e in questo anche posti di lavoro. Possiamo allora essere contenti di questa crescita, e magari incentivarla con la pubblicità, come stiamo facendo sempre più? In realtà dobbiamo dire a voce alta che questo Pil non è cosa buona, anzi è cosa cattiva, molto cattiva. E dobbiamo dire che questi posti di lavoro non sono una cosa buona, e dobbiamo far di tutto per ridurli.
Ieri come oggi non tutti i posti di lavoro sono stati e sono cosa buona. Ci sono sempre stati lavori sbagliati, che la gente faceva, e fa, pur di non morire. Ma questo non deve impedire di distinguere il grano dalla zizzania, e poi far di tutto perché aumentino i lavori decenti e buoni e diminuiscano quelli sbagliati.
Non dobbiamo dimenticare che con l’abolizione della schiavitù in Europa e in America abbiamo perso migliaia di posti di lavoro, ma dopo pochi decenni abbiamo creato le rivoluzione industriali e tecniche proprio perché era venuta meno la schiavitù (lavoro a costo zero).
I nostri nonni e genitori hanno lavorato nel Nord Europa in miniere, e poi tanti sono morti di silicosi per non morire di fame qualche decennio prima. Ma siamo riusciti, con la forza delle idee e del movimento dei lavoratori, a chiudere quei lavori e ad inventarne di migliori. In Italia e in altri Paesi europei abbiamo però perso la capacità di produrre buoni nuovi lavori, e così stanno tornando i cattivi lavori che pensavamo di aver sconfitto per sempre.
Stanno aumentando i lavoratori nelle sale bingo, nelle video-lottery, nelle sale slot (oltre 150 mila contando solo quelli ufficiali), nella pornografia, nel mondo delle tante prostituzioni e abusi. Sta di nuovo aumentando, e di molto, il consumo di tabacco tra i giovani (anche perché abbiamo mollato la prevenzione nelle scuole), e di alcol, e il consumo di televisione, dopo un calo tra anni Novanta e inizio di millennio, da qualche anno è di nuovo aumentato tornando al livello altissimo degli anni Ottanta. Tutto Pil, tutta crescita, dicono in molti. Tutta tristezza, solitudine, e “disumanesimo”, dicono altri, ma ancora siamo in troppo pochi. La democrazia è stata per secoli una “distruzione creatrice” che ha fatto morire attività e lavori sbagliati per farne nascere di migliori al loro posto.
In questa cruciale fase di passaggio dell’Italia e dell’Europa, c’è un estremo bisogno di alzare il livello dei dibattiti pubblici e di riporre al centro la qualità morale del nostro sistema economico.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.10/2014 del 25/05/2014
Stando a quanto dicono i media, il principale obiettivo della nostra politica economica è riportare il Pil in zona positiva. Rilanciare la crescita. Troppi pochi, purtroppo, formulano invece una semplice domanda: siamo sicuri che aumentare il Pil, o la crescita, sia sempre e in ogni caso qualcosa di positivo e auspicabile? Il tasso di crescita del Pil dice troppo poco sul benessere, sulla qualità della vita, sulla democrazia, sui diritti e la libertà di una nazione. È sempre stato così, e i grandi economisti lo sapevano, e lo sanno. Ma nella nostra società la capacità di “parlare” del Pil si è ulteriormente indebolita, sebbene i dibattiti pubblici non lo sappiano, o facciano finta di non saperlo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.6/2014 del 25/03/2014
Accanto ad una profonda crisi economica l’era della globalizzazione sta rivelando sempre più una profonda crisi anche della politica. La politica, lo sappiamo, ha tra i suoi scopi principali quello di fare sintesi dopo l’analisi, arrivare all’uno dopo il molteplice.
Nel Novecento la democrazia aveva funzionato proprio su questa dinamica, che però era fondata su un mondo relativamente “semplice”: bastava che i politici conoscessero elementi fondamentali del diritto, dell’economia, della scuola ecc., per poi tentare la sintesi.
[fulltext] =>Qualche decennio fa un particolare della vita della società, l’economia e la finanza, si è complessificato ed è uscito fuori dal controllo degli ambiti e degli strumenti dello Stato. Una dimensione del “molteplice” non era più controllabile e gestibile in vista del bene comune.
Ecco allora che di fronte a questo vuoto che si è creato, la politica ha iniziato ad appaltare fette crescenti di scelte a chi controllava quel pezzo di vita in comune che diventava giorno dopo giorno più complesso e più importante a causa della globalizzazione dei mercati.
Quindi tecnici, economisti, analisti, esperti hanno via via occupato non i Parlamenti ma i luoghi delle vere decisioni che si allontanavano e si allontanano sempre più dai luoghi tradizionali della democrazia e dagli Stati nazionali.
Dovremmo allora capire che il potere che i nostri governanti hanno di mantenere le loro promesse è inevitabilmente molto scarso, anche se tutti noi, politici in primis, facciamo fatica a prenderne coscienza. Che fare allora? Anzitutto dovremmo allargare lo sguardo e sapere che i luoghi dove investire di più sono l’Europa e le istituzioni internazionali dando ora un grande peso alle elezioni europee. Poi studiare di più economia e finanza, da parte di giovani e adulti, dando vita a una stagione di alfabetizzazione economico-finanziaria seria (a questo proposito sarebbe da imitare la neonata “Scuola popolare” di Catania). Senza una maggiore comprensione delle nuove dinamiche economiche e finanziarie, perderemo quote crescenti di libertà e di democrazia.
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