Città Nuova

Economia Civile

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Ma anche lo sviluppo dell’economia di mercato ha dato il suo contributo. L’idea che il mercato sia un mezzo ed una espressione di civiltà non è comune nel nostro tempo (e neanche in quelli passati). In genere prevale il pensiero opposto, e cioè che il mercato sia essenzialmente uno strumento di sfruttamento dei forti sui deboli, un luogo di oppressioni dei più poveri. In realtà, anche se nei mercati e attraverso le imprese e le banche, tutti i giorni accadono cose pessime, fino a vendere il ‘povero per un paio di sandali’ (profeta Amos), per capire il rapporto tra mercato e civiltà occorre cercare di guardarlo bene, o almeno meglio. Pensiamo ad una qualsiasi giornata nelle nostre città. Mentre sto scrivendo questo articolo con il mio computer, in una scrivania dell’università di Lovanio (Belgio), non penso in genere a quanta gente sta cooperando con me affinché io possa fare il mio lavoro, sebbene sia da solo nel mio studio. In realtà sono dentro una grande cooperazione. Con i custodi dell’edificio, con gli addetti alle pulizie, con chi sta lavorando perché arrivi l’energia elettrica e il collegamento internet grazie al quale potrò spedire tra poco il risultato del mio lavoro alla redazione. Quando poi tra poco uscirò per tornare a casa, la cooperazione si estende a chi fa manutenzione delle strade, ai vigili del traffico, ai ferrovieri. Se poi entro a prendere in caffè in un bar (senza slot-machines), dietro quella tazzina ci sono decine di migliaia di persone che hanno lavorato e lavorano perché quel caffè arrivasse da un paese lontano sul bancone del bar. Moltissime persone stanno, qui ed ora, cooperando con me, consentendomi di lavorare, di scrivere, di esprimere la mia personalità. Certo possiamo anche interpretare i comportamenti di tutti i lavoratori che in vari modi si intrecciano con la mia vita, come azioni motivate soltanto dall’interesse, dalla ricerca di guadagno o di profitti. È anche possibile leggere il nostro mondo come la somma di tanti egoismi. Ma non è meno vero, e per me lo è di più, leggere il mosaico di relazioni che si compone ogni giorno come la più grande cooperazione che la storia umana abbia inventato. Anche questo è il mercato. Soprattutto questo è il mercato. È il frutto di migliaia di anni nei quali gli esseri umani hanno imparato a scambiare prima con persone della stessa comunità, poi con sconosciuti ma della stessa fede religiosa, poi con sconosciuti e basta. Tutto questo convive con enormi ingiustizie e diseguaglianze alle quali il mercato potrebbe solo in parte rimediare. E un po’ lo ha fatto, quando nel Novecento sono nate milioni di imprese che hanno assunto milioni di lavoratori, trasformandoli da ex semi-servi a persone con sempre più diritti e dignità. Grazie anche ad un grande movimento sindacale, che ha consentito che il ‘mercato del lavoro’ fosse un mercato particolare, dove non c’erano soltanto contratti di lavoro ma anche patti di lavoro – che oggi stiamo dimenticando. E grazie ad una presenza forte dello Stato, che ha impedito che il mercato diventasse tutto.

Il mercato resta un fattore civilizzante finché la ‘loggia dei mercanti’ insiste sulla stessa piazza del ‘palazzo dei capitani del popolo’ e della Chiesa di San Francesco, come nella piazza medievale della mia città di origine. Quando, invece, i mercanti occupano l’intera piazza della città, comprano il palazzo della politica, e magari anche la chiesa di fronte per trasformarla in un museo (a pagamento), la città si imbruttisce e i mercanti perdono l’anima e presto anche i profitti. Il mercato è civile, riempie la città di colori e di profumi, quando occupa la piazza un solo giorno alla settimana, e negli altri la lascia, gratuitamente, a tutti.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016

Ascoli Piceno ridLa nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intelligenza e creatività hanno spinto avanti la frontiera della tecnica, dell’innovazione, delle tecnologie. Grazie agli artisti, ai poeti, e ai maestri spirituali, che ci hanno insegnato a vivere, ad amare, a sognare.

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Il mercato e la piazza

Il mercato e la piazza

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.08/2016 di agosto 2016 La nostra civiltà ha raggiunto traguardi straordinari, pur in mezzo alle contraddizioni che ogni epoca storica ha conosciuto e conosce. Grazie a tante donne e uomini di genio, che con la loro intellige...
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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

Giovani musicisti ridL’arte, la musica, la letteratura, le scienze umane sono molto importanti per la felicità delle persone, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di disturbi depressivi. Saper suonare uno strumento, gustare una sonata di Chopin, dipingere o farsi amare da un dipinto di Paul Klee, frequentare musei, scrivere e leggere poesia, aumentano il benessere, riducono le spese sanitarie, fanno vivere più a lungo. Sono questi i risultati di un convegno all’università del Wisconsin, al quale ho partecipato nel mese di maggio. 

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Perché, allora, un po’ tutti i governi  occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica, musicale e delle humanities in tutte le scuole di ordine e grado? Perché si continua a pensare che sia più importante l’informatica di saper suonare uno strumento, l’inglese più della letteratura? Poi, magari, veniamo a sapere che la Cina, che in passato aveva combattuto il confucianesimo come il primo male di un Paese feudale, ha da poco reintrodotto il confucianesimo nelle scuole; o che in Corea c’è una grande crescita di educazione musicale nei bambini e nei giovani. E la ragione è semplice: pragmaticamente, questi popoli asiatici stanno capendo che le persone senza una formazione etica e spirituale sono emotivamente molto fragili e non sono abbastanza creative.

La creatività, infatti. Se ne parla dappertutto. Insieme a “innovazione” è la parola d’ordine del nostro capitalismo. Ma si dimentica, drammaticamente, che la creatività di primo livello, diversamente da quella applicativa di secondo livello, non si impara a scuola, tanto meno nelle scuole per “creativi” o nelle business school. Fiorisce quando i bambini e i giovani crescono circondati dalla bellezza, dalla gratuità, dalla natura, immersi in valori alti non usati a “scopo di lucro”. La letteratura, l’arte e la poesia sono essenziali, poi, per formare nei giovani le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi. Impariamo a indignarci per il male e a volere il bene, quando ci raccontano le prime favole nella culla, e poi con la letteratura, la storia, le poesie più belle. È con il codice dell’anima che scriviamo la grammatica delle azioni sociali più importanti.

Un popolo i cui bambini sono cresciuti da tv e videogiochi, dove le emozioni più grandi Varsavia Sinagoga Ghetto Esterno ridsono quelle di mostri a 4 teste o delle storielle banalissime delle nuove telenovele per pre-adolescenti, diventa presto un popolo senza anima civile e democratica, e può svegliarsi un giorno dentro una tecnocrazia meritocratica che governa un mondo senza democrazia. Senza che nessuno l’abbia voluto né cercato, cresciuto nella nostra distrazione, mentre ci intrattenevamo a imparare l’inglese e l’informatica. Cose utilissime, purché non sostituiscano Beethoven e Leopardi.

Eschilo con la tragedia I persiani riusciva a far commuovere gli ateniesi per il pianto di donne che loro stessi avevano reso vedove uccidendo in guerra i mariti. Senza questa specifica educazione delle emozioni non sappiamo piangere più per le vittime nostre e degli altri. Un giorno passeremo per il ghetto di Varsavia ascoltando musica mentre rispondiamo a qualche messaggio con lo smartphone, perché non avremo più il repertorio emotivo per riuscire a vedere i luoghi e la storia. Per “rivedere” il ghetto e i suoi 450 mila ebrei deportati e uccisi, c’è bisogno di un’anima coltivata, di un’interiorità ancora capace di soffrire per un mondo sbagliato, di entrare nella sinagoga e piangere per la vergogna e per il dolore per azioni fatte da sconosciuti ad altri sconosciuti. Per sentire le ferite di tutta l’umanità. Ma per vergognarsi e piangere così, c’è bisogno dell’anima – niente di più, niente di meno.

Nel passato erano la natura, con la sua vita e le sue leggi eterne, la pietà popolare degli anziani e delle mamme, la guerra dei nonni e dei padri, a formare negli uomini le emozioni giuste, che ci fecero capaci di inventare la democrazia e i diritti. Oggi ci resta quasi soltanto l’arte e la poesia: non priviamo i nostri giovani di questo immenso patrimonio che può ancora salvarli.

Tutti i regimi hanno cercato di eliminare la formazione umanistica (o l’hanno ridotta a propaganda). Anche l’impero capitalista sta compiendo la stessa operazione, ma è abilissimo a non farcene accorgercene. Sta in questa distrazione di massa molta della sua forza e la sua capacità di manipolare la politica, l’educazione, le nostre coscienze.

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.07/2016 di luglio 2016

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La democrazia delle emozioni

La democrazia delle emozioni

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016

Favelas San Paolo 01Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-laureato in economia, e sentii che quanto stava accadendo a San Paolo riguardava anche me. Non sapevo ancora come, ma intuivo che ero parte di quella storia che stava iniziando. Oggi so che aver accompagnato lo sviluppo di quel “sogno” è stato un evento decisivo nella mia vita, che sarebbe stata molto diversa se non ci fosse stato quell'incontro profetico tra uno sguardo di donna e il popolo brasiliano.

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Eravamo all'indomani del crollo del muro di Berlino, e in quel mondo e in quel tempo la proposta lanciata da Chiara agli imprenditori di condividere talenti, ricchezza e profitti per occuparsi direttamente di povertà, risuonò come una grande innovazione, che fece dell'EdC una novità economico-sociale importante e sulla frontiera della responsabilità sociale d'impresa, che viveva ancora i suoi primi tempi. Non era soltanto, come fu detto da qualche economista (Serge Latouche, ad esempio) una riedizione del “patronato cattolico”; nel Dna di quel seme vi era anche una diversa idea della natura dei profitti e quindi dell'impresa, intesa come bene comune, in una prospettiva globale e mondiale (non comune in quegli anni). Gli  imprenditori furono cosi coinvolti nella soluzione di un problema sociale di diseguaglianza.

Chiara fu colpita dal contrasto tra favelas e grattacieli nella città di San Paolo, ma invece di lanciare un progetto sociale nelle periferie delle città o un fund raising, rivolse il suo invito agli imprenditori, che, lo sappiamo, non hanno come primo scopo la creazione di profitti da donare fuori dall'impresa, perché, quando le imprese sono oneste, di extra-profitti ce ne sono pochi, e vengono spesso reinvestiti  nell'impresa.  Dentro l'EdC c'è quindi l'intuizione che per ridurre la povertà e la diseguaglianza occorre riformare il capitalismo, e quindi la sua principale istituzione: l'impresa. Il linguaggio e la prima mediazione culturale ed economica dell'intuizione di Chiara furono quelli che erano a disposizione nella società, nella Chiesa, nel popolo brasiliano e nel Movimento dei Focolari.

A 25 anni di distanza, però, la grande sfida collettiva che si para di fronte all'EdC è cercare di esprimere le intuizioni-cuore del 1991 in parole e categorie capaci di parlare e farsi capire in un mondo culturale e socio-economico che in questi 25 anni è radicalmente cambiato. Anche la frontiera della responsabilità sociale delle imprese e la comprensione delle povertà si sono spostate molto in avanti con il passaggio di millennio. Il social business è diventato un movimento variegato, dinamico e in costante crescita. La cosiddetta sharing economy sta dando vita, in tutto il mondo, ad esperienze molto innovative.

La riflessione sulla povertà e le azioni per alleviarla si sono arricchite, grazie al pensiero e all'azione di  economisti come Amartya Sen o Muhammad Yunus.

Alla fine del secondo millennio, condividere gli utili delle imprese a favore di poveri e giovani rappresentava di per sé un'innovazione. Ma se nel 2016 continuiamo a incarnare la proposta EdC con quelle stesse forme, la proposta appare non abbastanza attraente e obsoleta, soprattutto per i giovani. ln un mondo sociale ed economico radicalmente cambiato, l'EdC è chiamata a rigenerarsi, come sta già facendo e come ha sempre fatto per essere arrivata viva alle sue “nozze d'argento”. E di nozze si tratta, perché ogni volta che un carisma riesce a incarnarsi, c'è un incontro sponsale tra cielo e terra, tra ideale e storia. Nozze come quelle di Cana, quando l'acqua divenne vino perché una donna vide che la gente non aveva più vino, ha creduto, chiesto e ottenuto il miracolo. L'Economia di Comunione continuerà a vivere e raggiungerà il 50° compleanno e oltre, se ci saranno donne e uomini con “occhi diversi”, capaci di accorgersi cosa manca alla gente del proprio tempo, di chiedere il miracolo dell'acqua diventata vino, dei profitti che diventano cibo del corpo e del cuore.  Auguri EdC!

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016

Favelas San Paolo 01Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-laureato in economia, e sentii che quanto stava accadendo a San Paolo riguardava anche me. Non sapevo ancora come, ma intuivo che ero parte di quella storia che stava iniziando. Oggi so che aver accompagnato lo sviluppo di quel “sogno” è stato un evento decisivo nella mia vita, che sarebbe stata molto diversa se non ci fosse stato quell'incontro profetico tra uno sguardo di donna e il popolo brasiliano.

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L'Economia di Comunione compie 25 anni

L'Economia di Comunione compie 25 anni

 Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su   pdf Città Nuova n.06/2016 (2.12 MB) di giugno 2016 Sono passati 25 anni da quando, nel maggio del 1991 Chiara Lubìch gettò in Brasile il seme dell' Economia di Comunione (EdC). In quel tempo ero un giovane neo-...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016

Asparagi selvatici LB 03 ridFin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e gustosi risotti.

La campagna della mia residenza attuale ne dona abbondanti e saporiti, alle pendici delle rovine di Tuscolo, dove la gioia della raccolta è amplificata dal paesaggio ricco di rovine romane, teatro, tombe e i resti della villa di Cicerone. Uno dei dilemmi pratici dei raccoglitori è individuare la misura minima che deve avere l’asparago giovane per essere colto.

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Non ci sono norme che lo stabiliscano, ma esiste una norma etica tacita di non cogliere gli asparagi appena spuntati dal suolo. Non esiste una quantificazione in centimetri, ma anche qui vale la regola dell’ “abbastanza”: per cogliere l’asparago cucciolo occorre che sia spuntato abbastanza dal suolo.

Quali sono le ragioni alla base di questa convenzione o norma etica, che dall’asparago possiamo estendere ai funghi, alla pesca, all’erba nei pascoli, e al consumo e uso dei beni comuni? Una prima giustificazione potrebbe trovarsi nel semplice interesse personale: se lascio crescere l’asparago, tra due giorni ripassando nello stesso luogo lo troverò cresciuto, e la mia raccolta sarà più ricca.

Ma nessuno mi può garantire che nel frattempo non passino altri (soprattutto nel Tuscolo, dove la popolazione dei raccoglitori eguaglia in numero quella degli asparagi) e si approprino di quanto io ho lasciato maturare. Quindi il solo egoismo non giustifica la non raccolta dei “boccioli”.

Per lasciare crescere i piccoli asparagi di oggi occorre introdurre qualche altra dimensione, più grande del solo interesse personale. La più naturale è la dimensione della comunità: se mi sento membro di una comunità alla quale attribuisco un valore, posso decidere di lasciar crescere i frutti perché l’altro che li raccoglierà e consumerà è qualcuno che mi interessa, perché rientra in un orizzonte di “noi” che include anche me. Se, ripassando di lì, mi accorgo che qualcun altro lo ha raccolto nel frattempo, non considero questo evento soltanto un danno o uno spreco, perché una parte del mio interesse dipende dal benessere dei membri della mia comunità.

Oggi saremo capaci di salvare il pianeta e tanti beni comuni che stiamo velocemente e decisamente deteriorando (dall’acqua potabile alla pesca degli oceani) se riscopriamo un interesse più grande di quello individuale, e ci sentiamo parte di un Bene comune più grande e concreto del solo bene privato. Proviamo poi ad allargare l’appartenenza alla comunità fino a farci rientrare ogni abitante presente e futuro del pianeta. Gli asparagi possono crescere finché restano vivi il bosco, il sottobosco, le preziose asparagine che li generano. La generatività di un bosco è una faccenda complessa e delicata, e richiede un atteggiamento custode e non predatorio da parte dell’uomo. Ci sono zone nelle quali da bambino andavo a cercare asparagi e funghi che oggi si sono inaridite a causa di incendi, avvelenamenti industriali, discariche a cielo aperto, incuria e saccheggiamenti.

Lo spuntare di un asparago è un’azione collettiva dell’intero bosco e dell’intera comunità che lo circonda, he lo cura o lo uccide. C’è bisogno di un accudimento non predatorio del bosco da parte di tutti che è la precondizione della possibilità della nascita e della raccolta individuale degli asparagi. Se non lasciamo crescere gli asparagi boccioli, un giorno non ce ne sarà più per nessuno. Il bosco non genererà più. Generare e generosità sono due parole gemelle: la vita ha bisogno di generosità, e quando il solo registro che ci muove resta quello del tornaconto personale, la generatività si spegne per carestia di generosità. Dobbiamo reimparare a lasciare crescere e maturare i boccioli, nei boschi e nelle città, educando il nostro istinto predatorio ad una logica di un interesse più alto, quello di tutti. E quando vediamo un bell’asparago maturo pronto ad essere raccolto, impariamo a vederlo come un bocciolo al quale qualcun altro ha dato la chance di poter crescere.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016

Asparagi selvatici LB 03 ridFin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e gustosi risotti.

La campagna della mia residenza attuale ne dona abbondanti e saporiti, alle pendici delle rovine di Tuscolo, dove la gioia della raccolta è amplificata dal paesaggio ricco di rovine romane, teatro, tombe e i resti della villa di Cicerone. Uno dei dilemmi pratici dei raccoglitori è individuare la misura minima che deve avere l’asparago giovane per essere colto.

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L’economia dell’asparago selvatico

L’economia dell’asparago selvatico

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su  Città Nuova n.05/2016 di maggio 2016 Fin dalla mia prima infanzia, la primavera è anche la stagione della raccolta degli asparagi selvatici. Una piccola passione ereditata da mio padre, che mia madre esaltava con ottime frittate e g...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016

Slotmob 07L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia e consuma. Non conosciamo i nostri amici solo perché facciamo insieme feste e pranzi: non entriamo veramente negli altri se non li vediamo anche muoversi nella loro vita economica, che è uno dei luoghi primari degli esseri umani. Noi ci riveliamo a noi stessi e agli altri nell’amare, nel pregare, ma anche nel lavorare.

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Ecco perché quando un giovane resta fuori dal mondo del lavoro, non solo perde occasioni preziose per imparare un’attività (che si impara solo lavorando, non a scuola né all’università) e per guadagnarsi da vivere. Lo priviamo anche della possibilità di conoscere i suoi talenti, di scoprire chi è, di essere stimato e di stimare gli altri, di far emergere i suoi limiti e le virtù nascoste anche a lui stesso.

Non capiamo l’economia se non prendiamo sul serio tutti i vizi e tutte le virtù degli uomini, delle imprese, delle istituzioni, della nostra società. I vizi delle imprese e delle istituzioni diventano particolarmente gravi quando sono considerati virtù. Pensiamo al tema, molto caro a questa rivista, dell’azzardo – che non è un “gioco”: l’azzardo non va messo vicino alla bellissima parola “gioco” –. Esso è un tipico caso di un enorme male istituzionale, che viene presentato come virtù. Che sia un male lo dicono i frutti che porta: centinaia di migliaia di famiglie rovinate da uno o più familiari entrati nel giro delle slot-machine, poker online, gratta-e-vinci, al punto che è raro che in Italia non ci sia una famiglia dove un parente, magari lontano, non sia coinvolto da questa autentica piovra. I centri storici delle nostre città e borghi stanno via via perdendo artigiani e negozi, che contenevano e raccontavano decenni, a volte secoli, di storia buona; al loro posto arrivano come funghi sale gioco, nere ed esteticamente molto brutte, quasi sempre senza che le istituzioni facciano adeguata resistenza alle concessioni di licenze. Continuo ad aspettare il giorno in cui le associazioni familiari, molto sensibili alla vita, inizieranno a fare scioperi della fame a turno nei luoghi dove stanno per nascere nuove sale gioco o bingo, quando si renderanno conto che i loro figli sono avvelenati dalle scommesse e dall’azzardo almeno quanto lo sono dalle sigarette e dalla pornografia. Per non parlare delle decine di migliaia di persone in cura presso le Asl per dipendenze da azzardo, il cui costo morale ed economico per la collettività è difficilmente quantificabile, ma sempre troppo alto.

Alla testa della macchina dell’azzardo c’è lo Stato, che anche qui fa cassa con i poveri e con la disperazione delle persone. Le entrate dall’azzardo sono in Italia circa 8 miliardi l’anno, e nonostante le mille proteste che arrivano al governo dalla società civile, non si riesce a ottenere praticamente nulla di serio, da questo e dai governi precedenti.

Confindustria gioco, che rappresenta anche le lobbies dell’azzardo, protegge molto questoSlotmob FEST rid settore della nostra economia, al punto da non riuscire a cambiare nulla, o solo aspetti irrilevanti, riguardo la pubblicità nelle tv e nei giornali dell’azzardo. Come non si riesce a rendere illegali le slot-machine nei bar, luoghi frequentati dai nostri ragazzi e bambini, e che sono in molti paesi luoghi di socialità di giovani e anziani (i primi clienti di questo mercato di morte).

Noi del movimento Slot-mob continuiamo a lavorare e a sperare che i cittadini e le istituzioni si sveglino, e un giorno riusciremo a chiamare il male per nome, a combatterlo seriamente e insieme, e a togliere i dadi dalle tante scene di passione dei nostri poveri.

Per questo diamo appuntamento a tutti il 7 e 8 maggio, quando in molte piazze d’Italia diremo insieme, a voce e testa alte, il nostro no all’azzardo e il nostro sì a un Paese più civile. Ogni cittadino può diventare promotore di uno di questi eventi nella propria città. Vi aspettiamo.

facebook nsl Slotmob FEST in oltre 30 città italiane 07-08/05/2016

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016

Slotmob 07L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia e consuma. Non conosciamo i nostri amici solo perché facciamo insieme feste e pranzi: non entriamo veramente negli altri se non li vediamo anche muoversi nella loro vita economica, che è uno dei luoghi primari degli esseri umani. Noi ci riveliamo a noi stessi e agli altri nell’amare, nel pregare, ma anche nel lavorare.

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Il 7 maggio in piazza con Slot mob

Il 7 maggio in piazza con Slot mob

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su  Città Nuova n.04/2016 di aprile 2016 L’economia è uno specchio delle virtù e dei vizi dei popoli, delle comunità, delle famiglie, delle persone. Per conoscere una persona veramente, occorre vederla mentre lavora, o mentre risparmia ...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016

Green Economy ridIl nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che nel loro “Il nuovo spirito del capitalismo” (Mimesis) sostengono che il moderno “spirito del capitalismo” consiste nella sua capacità di “riciclare” e incorporare le maggiori critiche che ha incontrato lungo la sua storia recente, per farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazione, vagoni del suo treno.

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Le critiche “sociali” (socialiste, operaie, ambientaliste...) e quelle “estetiche” (degli intellettuali e degli artisti), che hanno rappresentato la principale reazione al capitalismo nella seconda metà del XX secolo, invece di provocare, come avrebbero potuto, il crollo del capitalismo, sono diventate le sue testate d’angolo, dando vita al nuovo capitalismo di oggi, dove i suoi maggiori attori sono imprese nate da giovani con culture e mentalità molto diverse da quelle dei capitalisti del secolo passato. Così nelle grandi imprese assistiamo sempre più allo sviluppo di bilanci sociali e ambientali, di “social business”, all’attenzione al benessere lavorativo, fino ai recenti concetti di “capitale simbolico” o persino “spirituale” dell’azienda. Parallelamente all’inclusione e trasformazione delle critiche sociali, questo capitalismo ha internalizzato anche le critiche “estetiche”, dando vita a una nuova stagione creativa. Il capitalismo, camaleonticamente, si trasforma, nutrendosi di tutto ciò che trova sulla strada. Come tutti gli imperi, che conquistavano popoli nemici e inglobavano la loro cultura, arte, religione.

Una principale novità di questo spirito sta nel suo aver adottato, più o meno consapevolmente, la metafora vegetale, abbandonando quella animale. Le piante, per la loro caratteristica fondamentale di ancoraggio al terreno, hanno sviluppato nel corso dell’evoluzione meccanismi per poter sopravvivere agli attacchi degli animali e ai cambiamenti dell’ambiente. Così riescono a sopravvivere anche in seguito alla distruzione dell’80% del loro corpo.

Non hanno una organizzazione gerarchica, si sviluppano a colonie, senza un centro da cui dipende la vita del tutto. Gli organismi animali, invece, vivono sulla base di organi specializzati, e la morte di un organo vitale comporta la morte dell’organismo. Le imprese tradizionali, che si sviluppavano in altezza e davano vita a una forte divisione funzionale del lavoro, erano simili agli animali, e quindi molto vulnerabili quando il “centro” (imprenditore, ad esempio) veniva meno. L’organizzazione “vegetale” e a rete delle nuove imprese riesce ad adattarsi meglio all’ambiente mutabile, è più piatta e più resistente all’avvicendarsi di manager e imprenditori. Un paradigma molto attraente e virale.

Anche per questo motivo, la cultura dell’economia e dell’impresa sta diventando la cultura della nostra vita civile. Sono infatti sempre più i linguaggi che gli ambiti non economici stanno prendendo in prestito dal mercato. Vincenti e perdenti, meritocrazia, efficienza, velocità, sono sempre più le parole della scuola, della sanità, della cultura, della politica, e ormai sono alle soglie della Chiesa e delle famiglie.

Stiamo assistendo a una progressiva e silenziosa occupazione del civile da parte dell’economico, senza che vi sia opposta alcuna resistenza culturale; anche perché il lessico economico si presenta come tecnica, eticamente neutrale e quindi di applicazione universale. La nostra capacità di discernimento morale sul nostro tempo si è appannata, e anche i migliori intellettuali ormai si muovono all’interno della cultura dominante, talmente avvolti dal suo liquido amniotico da non essere capaci di guardarla e criticarla come un “tu”. E intanto i grandi flussi finanziari dominano il mondo.

C’è bisogno di una nuova stagione di critica del capitalismo, ma non di quello del XX secolo. Per questo occorre prima capirlo, studiarlo, penetrare nelle sue logiche, e magari cercare di orientare le sue grandi potenzialità alla soluzione dei grandi problemi. Troppi poveri continuano ad abitare nelle nostre città, e la diseguaglianza cresce. Non dobbiamo stare tranquilli.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n.03/2016 (59 KB) di marzo 2016

Green Economy ridIl nostro capitalismo sta prendendo in prestito dalla società civile molte parole generative e le sta riciclando a scopo di lucro. Un fenomeno messo in luce da Luc Boltanski ed Eve Chiapello, che nel loro “Il nuovo spirito del capitalismo” (Mimesis) sostengono che il moderno “spirito del capitalismo” consiste nella sua capacità di “riciclare” e incorporare le maggiori critiche che ha incontrato lungo la sua storia recente, per farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazione, vagoni del suo treno.

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Il nuovo spirito del capitalismo

Il nuovo spirito del capitalismo

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016

Democrazia economica ridL’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.

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Dietro l’atto più semplice che svolgiamo nelle nostre città – accendere la luce della stanza, acquistare un gelato – c’è la cooperazione implicita di migliaia, a volte milioni di persone che lavorano per noi senza saperlo né volerlo.

Per mesi ho visto venditori offrire per strada lunghi utensili ai turisti, un giorno ho capito che erano prolunghe per scattare “selfie”. Il mercato soddisfa i nostri bisogni il secondo dopo che li avvertiamo – a volte un secondo prima.

Questo lato solare dell’economia di mercato è visibile a tutti. Ma ci sono anche lati oscuri o neri. Basti pensare al business delle armi nelle tante guerre, alimentate e indotte dagli interessi economici dei governi e delle industrie occidentali. Non dobbiamo dimenticarlo, mentre continuiamo a piangere per Parigi, Beirut, Siria, per i bambini degli altri uccisi da armi prodotte accanto alle nostre case, nel nostro silenzio.

Il mercato non riesce a correggere i suoi effetti collaterali peggiori. Sa ormai correggere i suoi piccoli danni, non quelli grandi. Se non avessimo gli Stati, le istituzioni e la società civile a costringere le imprese a ridurre le emissioni nocive per l’ambiente, a riconoscere diritti ai lavoratori, a non nascondere difetti (quasi) invisibili dei loro prodotti, le imprese implementerebbero soltanto quelle pratiche immediatamente traducibili in maggiori profitti perché facilmente riconoscibili dai clienti, e utili alla loro reputazione. Nel mercato ci sono evidentemente alcuni imprenditori e manager che attribuiscono un valore intrinseco alla correttezza e all’etica; ma in una economia globalizzata dove i proprietari delle imprese sono sempre più fondi di investimento e grandi banche, è sempre più difficile cercare e trovare un volto umano e una coscienza dietro le scelte e le decisioni.

Ecco perché le moderne democrazie hanno sempre assegnato e assegnano alle istituzioni il compito di controllare e regolamentare l’agire delle imprese. Il mercato vero non è mai stato solo mercato, ma un intreccio di molti attori, di controllori e di controllati.

Questa divisione dei compiti su cui abbiamo costruito le democrazie nei due secoli passati, oggi però è in profonda crisi. Non possiamo più accettare che le imprese agiscano rispondendo solo a proprietari e ai consumatori e che la legge le regoli e controlli. Le imprese e ancor più le istituzioni finanziarie sono diventate troppo grandi, ricche, globali e potenti per pensare di poterle controllarle dal di fuori e alla fine.

C’è bisogno di un radicale cambiamento interno: le istituzioni devono usare la forza che ancora hanno per chiedere alle grandi imprese e banche globali di cambiare il loro governo. Non devono più essere gestite da consigli di amministrazione scelti soltanto dai loro proprietari. Sono diventate troppo importanti per la vita di tutti, e i lavoratori, la società civile, rappresentanti indipendenti degli interessi dei più poveri devono essere inseriti nei loro CDA e poter contare nelle scelte ordinarie di governo.

In tutte le grandi imprese e banche ci deve essere un “comitato etico” indipendente con poteri effettivi. L’economia è diventata troppo importante per lasciarla solo a economisti, finanzieri, azionisti. Nemmeno i consumatori col loro “voto del portafoglio” sono sufficienti: ci sono troppe persone condizionate dalle scelte delle imprese che non “votano” perché poveri o troppo lontani.

E perché ci sono industrie (armi o azzardo) dove chi protesta non può votare perché non compra. L’economia di mercato e la democrazia non si salveranno senza una vera democrazia economica.

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 Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016

Democrazia economica ridL’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “parlarci” scambiando le nostre merci. Ha riempito il mondo di colori, di una infinità di beni. Ha amplificato la biodiversità culturale del pianeta. Potenziando al massimo la libertà e la creatività degli individui, ha moltiplicato la ricchezza dando vita alla più grande cooperazione della storia umana.

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Cambiamo il governo delle imprese e delle banche

Cambiamo il governo delle imprese e delle banche

 Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.01/2016 del 10/01/2016 L’economia di mercato ha generato autentici miracoli, ma oggi deve cambiare se vuole salvarsi. Ha permesso a persone sconosciute di incontrarsi in modi pacifici e costruttivi, di conoscerci e “pa...
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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015

Incentivi ridUna nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via via occupando politica, sanità, scuola e, tra poco, forse anche le chiese. I valori e le virtù dell’economia stanno così diventando i principali, se non gli unici, valori e virtù dell’intera vita sociale. Efficienza, merito, innovazione, la logica costi-benefici, sono ormai le uniche parole “serie” del nostro mondo.

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Nel ’900 era stata la politica a offrire il paradigma di vita buona a tutti gli altri ambiti. I valori e le virtù della democrazia erano i fari di civiltà cui guardare per gestire le fabbriche e la società civile. L’economia era essenzialmente il luogo della fatica e dello sfruttamento dei lavoratori, che doveva essere umanizzata grazie alla partecipazione, ai sindacati, ai diritti.

Nel giro di un paio di decenni, l’economia e l’impresa da immagini della lotta di classe sono diventate luoghi dell’eccellenza umana. Chiunque oggi voglia dar vita a buone organizzazioni, partiti, ospedali, scuole, guarda e importa i principi che guidano le grandi imprese. La famiglia, forse, riesce ancora a salvarsi, ma iniziano già ad intravvedersi corsi di gestione familiare affidati alle società di consulenza globali, mentre è ormai da tempo che le università (cattoliche e pontificie) organizzano corsi di management per parroci e per suore, affidati alle multinazionali della consulenza.

Dietro questa emigrazione dei valori economici si nascondono sfide particolarmente delicate e pericolose. Pensiamo all’ideologia degli incentivi. Ci stanno convincendo, senza trovare in noi resistenze, che gli esseri umani sono capaci di dare tutto se adeguatamente pagati e controllati. Se l’ufficio del personale è abbastanza bravo e ha consulenti sufficientemente preparati, può disegnare contratti e incentivi perfetti in grado di ottenere dalle persone tutto ciò che serve all’impresa. Se ben pagati e ben controllati, gli uomini e ormai anche le donne sono perfettamente addomesticabili. Questa idea è antica (ha almeno un secolo), ma finché gli ideali sociali erano vivi e attivi, era stata fortemente combattuta ed era rimasta confinata nel business più duro e puro (l’alta finanza, le grandi multinazionali…).

In questa nostra età di crepuscolo degli dei e degli ideali, l’ideologia dell’incentivo trova invece le porte spalancate e sta riempiendo il nostro vuoto di pensiero. Il trucco che rende questa ideologia neo-manageriale particolarmente simpatica e amica della gente, è il suo presentarsi sotto mentite spoglie di libertà e di positività: l’incentivo è un contratto, che si firma liberamente, si dice. In realtà, se guardiamo bene, sotto questa ideologia c’è una visione di individuo molto pessimista, secondo la quale l’uomo è incapace di bene se non è guidato dall’esterno, dalla carota e dal bastone.

L’invasione della logica economica sta producendo dei grandi cambiamenti culturali, quasi tutti deleteri. Pensiamo all’utero in affitto o al mercato degli organi. Se la logica degli incentivi e la razionalità del mercato diventano i soli valori buoni della vita sociale, perché criticare chi vende (e chi compra) un rene, o chi compra (e chi vende) il proprio grembo per “produrre” un bambino “proprietà” di altri? È il mercato, bellezza. È libertà, consenso, vantaggio reciproco. Peccato che dentro il cavallo di Troia degli incentivi si nasconde un ritorno alla schiavitù. Anche nella Genesi troviamo Agar che genera un figlio (Ismaele) per conto di Sara e Abramo. Agar, però, era una schiava, non dimentichiamolo. L’umanità ha superato l’età delle schiavitù, ed è stata capace, con immenso dolore, di iniziare l’era delle donne e degli uomini liberi. Non barattiamola con il “piatto di lenticchie” degli incentivi. La dignità umana non è in vendita, non tutti i beni sono merci, non esiste un mercato per tutti i beni, restiamo umani finché i bambini nostri e degli altri non avranno un prezzo di mercato. Le felicità promesse da questi “contratti” sono false. Dobbiamo cercare un’altra felicità.

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Rubriche - Oltre il mercato

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015

Incentivi ridUna nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via via occupando politica, sanità, scuola e, tra poco, forse anche le chiese. I valori e le virtù dell’economia stanno così diventando i principali, se non gli unici, valori e virtù dell’intera vita sociale. Efficienza, merito, innovazione, la logica costi-benefici, sono ormai le uniche parole “serie” del nostro mondo.

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L'ideologia degli incentivi

L'ideologia degli incentivi

Rubriche - Oltre il mercato di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova (63 KB) n. 23/24 del 10-25/12/2015 Una nota che segna l’inizio di questo  terzo millennio è l’allargamento, veloce e deciso, della sfera economica. Da un settore accanto agli altri, l’economia sta via v...
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L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015

Migrazioni BambiniIl mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.

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Oggi molti di questi splendidi viaggi sono di fatto impossibili, perché troppi patrimoni dell’umanità sono diventati inaccessibili. Ci sono ormai intere generazioni di giovani che sono cresciute e continuano a crescere senza poter conoscere questi profondissimi pozzi di civiltà, che custodiscono un’acqua che non si trova in altri luoghi. E così crescono immensamente più poveri.

In questi ultimi decenni la dimensione economica della vita ha conosciuto un autentico trionfo. Si stima che nell’ultimo secolo la ricchezza economica mondiale sia cresciuta di oltre settanta volte. Anche se noi, giustamente, guardando questi ultimi anni possiamo avere l’impressione di una crisi o persino di un fallimento dell’economia, in realtà l’economia è la scienza e la prassi che hanno avuto un successo enorme, di fronte al quale tutte le altre discipline e pratiche impallidiscono. Questa iper-crescita economica, favorita da un’alleanza tra imprese, finanza e tecnica, è diventata via via l’obiettivo di tutti i governi, soprattutto di quelli delle vecchie e nuove grandi potenze, determinando naturalmente e progressivamente un’eclisse di altre dimensioni fondamentali della vita, soprattutto di quella dell’ambiente e della politica globali. L’ossessione per la crescita del PIL, del consumo, del comfort, ha prodotto, senza che ce ne accorgessimo, un oscuramento delle dimensioni collettive e pubbliche, che avevano caratterizzato la società europea ed occidentale fino agli anni settanta del secolo scorso. Il peso dell’economia in se stessa e dell’economia all’interno della vita sociale sono aumentati e stanno aumentando in modo esponenziale. Non solo siamo tutti concentrati sugli aumenti del PIL, ma il linguaggio e la logica dell’economia stanno emigrando dalle imprese e dalle banche verso nuovi ambiti della vita civile. I valori, il linguaggio e le virtù economiche (efficienza, meritocrazia, velocità …) stanno diventando i valori e le virtù di ogni ambito umano. I debiti, i crediti, la domanda e l’offerta sono entrati a scuola, nelle ferrovie i ‘signori passeggeri’ sono diventati ‘i clienti’, gli ospedali si sono trasformati in imprese, e nei santuari i “counselor” stanno ormai prendendo il posto dei confessori.

Per capire dove si trovi il ‘problema’ in questo fenomeno che per qualcuno non presenta nulla di problematico, occorre tener ben presente che puntare sulle dimensioni economiche della vita (soprattutto sul consumo e sulla finanza) produce inevitabilmente un spostamento dello sguardo dalle dimensioni collettive e pubbliche verso quelle individuali e private. E così l’ambiente, la pace, il progetto europeo, la sicurezza di tutti, restano sempre più sullo sfondo, per lasciare tutta la scena al giardino di casa, alla pace dei centri benessere, agli interessi dei singoli paesi, alla sicurezza blindata del mio appartamento e della mia crociera e non di quella dei barconi dei poveri (e quindi di tutti: quando i poveri sono più insicuri e fragili è tutta la società che diventa più fragile e insicura). Ma, come ci dice la migliore teoria economica, quando la nostra attenzione è concentrata sui nostri beni privati, succede che quelli pubblici e sociali escono dal nostro orizzonte visivo, e così vengono semplicemente distrutti, senza che nessuno individualmente avrebbe voluto farlo. I beni comuni – come l’ambiente, la scala del condominio, l’integrazione dei popoli, la pace globale … - se non sono accuditi intenzionalmente da ciascuno di noi, non durano. E poi, come dice sempre la teoria, una volta che i beni comuni vengono distrutti per distrazione e ‘deficit di accudimento’ non riusciamo più a ricostruirli.

Per la salvaguardia e la cura dei beni comuni globali, l’economia non può far nulla. Perché il mercato cresce con la pace, ma cresce anche con la guerra. La storia umana ha sempre alternato economie di pace ad economie di guerra, crescite economiche dovute agli incontri pacifici tra popoli e crescite del PIL dovute alle guerre e alle ricostruzioni dopo le macerie.  Da questo punto di vista, il mercato è radicalmente ‘laico’. L’economia cresce quando andiamo in vacanza in Siria e scambiamo nella pace beni e servizi, quando andiamo con amici in pizzeria, ma cresce anche quando istalliamo l’allarme dentro casa, quando assumiamo vigilantes, quando costruiamo muri, e produciamo mine anti-uomo e anti-bambino. L’economia non è capace di produrre essa stessa gli anticorpi per proteggersi dai trafficanti di morte. Devono esserle iniettati da fuori.

Ridaremo ai nostri bambini la chance di poter visitare i patrimoni dell’umanità oggi inaccessibili, se saremo capaci di guardare meno ai nostri comfort e sicurezze individuali e di più al benessere e alla sicurezza di tutti, se ci distrarremo dai beni economici privati per guardare, di nuovo insieme, ai beni civili, ambientali, pubblici. Altrimenti arriverà presto il giorno in cui non potremo più goderci neanche la pace della piscina di casa, perché non c’è nessun muro, nessuna porta blindata, nessuna società di vigilanza privata che può veramente proteggerci. Se non ci prendiamo cura del bosco che circonda la nostra casa e lo facciamo diventare una discarica, presto infesterà la nostra cucina e la camera dei nostri figli. La sicurezza più grande è quella di tutti, il benessere più vero è quello condiviso.

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L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015

Migrazioni BambiniIl mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le frontiere politiche e ideologiche erano ancora molto alte e robuste, e per viaggiare ‘all’estero’ erano necessari viste e molte carte. Ma una volta arrivati nel paese straniero si percepiva una sicurezza che oggi non conosciamo più. Ci si poteva recare in Medioriente, sul Sinai, visitare Damasco e Palmira, percorrere l’intera via della seta, e poi andare a Bagdad e rivivere nell’antica Persia l’incanto e il fascino dell’origine della nostra civiltà, posare i piedi nella terra di Abramo e da lì scendere verso il Giordano.

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Non è un mondo per bambini

Non è un mondo per bambini

L’Economia e il mercato non bastano da soli a salvaguardare i beni comuni globali di Luigino Bruni pubblicato su pdf Città Nuova n. 17/2015 (413 KB) , 10/09/2015 Il mondo sta diventando un luogo poco sicuro nel quale vivere e far crescere i bambini e le bambine. Trent’anni fa le fro...
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Attualità - Crisi greca. La tempesta che ha colpito Atene fa pensare al patto europeo ridotto a contratto

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 15-16/2015 (386 KB) , 10/08/2015

L’Unione Europa sta attraversando la più grande crisi dalla sua fondazione. Lo stress-test Tsipras Merkelrappresentato dalla crisi greca non ha solo evidenziato quanto grave fosse e sia ancora la situazione dell’economia e del popolo greci, ma ha messo in luce anche, e soprattutto, la fragilità di una Europa costruita decenni fa sui registri relazionali, sociali e simbolici del patto che si sta progressivamente trasformando in un club di paesi tenuti assieme dal solo registro del contratto.

Il patto, categoria di origine biblica (l’Alleanza), include, tra l’altro, il perdono come sua categoria fondativa: nei patti ci si può perdonare, si può e ci deve ricominciare dopo i fallimenti, i debiti si possono, qualche volta, cancellare.

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E se c’è il per-dono c’è anche, per natura, il dono, una parola che nessuno ha avuto il coraggio di invocare nei tavoli dove si prendevano nelle settimane passate le decisioni importanti. E non deve stupirci, solo rattristarci. Il nostro capitalismo ha infatti confinato il dono nella sfera strettamente privata, perché ha forse capito la natura sovversiva del dono vero, che, non a caso, ha come suo icona prima un uomo-Dio crocifisso. Il dono, quello vero, è una ferita, ma è anche la feritoia principale attraverso il quale passa la vita. La vita individuale e quella dei popoli.

E quando una comunità (una parola che proviene da munus, cioè dal dono e dall’obbligo, i due significati di munus) perde contatto con il dono, quando i suoi responsabili sono incapaci di evocare questa categoria anche nei momenti più drammatici, il patto è morto e resta solo il contratto con le sue sole regole. Restiamo dentro l’orizzonte dell’umano finché siamo capaci di lubrificare le nostre regole con l’olio del dono.

Questa co-essenzialità di regole e dono la vediamo nella grande storia dello sviluppo dell’Alleanza biblica, la vediamo ancora in quelle comunità fondate da patti come le famiglie, ma anche molte comunità e in qualche, residua, impresa (nell’imprese di comunione, cooperative, …). Il contratto, invece, non conosce la parola perdono: quando in un contratto si sbaglia occorre pagare, fino all’ultimo spicciolo. Tanto che nell’antichità per debiti si diventava schiavi, e a volte si perdeva anche la vita.

Nell’Alleanza tra YHWH e il popolo ebraico, la Legge del Sinai (la Torah) aveva anche introdotto, come unicum in tutta la storia umana, anche l’anno sabbatico, grazie al quale ogni sette anni gli schiavi per debiti venivano riscattati e liberati: “Egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto” (Esodo 21,2). Questi schiavi erano persone ‘acquistate’ (qnh, è un verbo usato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la libertà perché non riuscivano a restituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3-5). Il debitore diventava quindi proprietà del suo creditore: come una merce, una casa, un vestito. Ad un certo punto, la civiltà ha inventato l’istituto giuridico del fallimento, che – Comunità Clubnon dimentichiamolo – fu creato soprattutto a garanzia del debitore, per impedirgli, appunto, di diventare schiavo per i suoi debiti.

Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, dove imprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riescono a ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche la vita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; ma ci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ci ricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza avere nessuna colpa. Non tutti i debitori insolventi sono colpevoli, anche se in alcune lingue debito e colpa hanno la stessa radice etimologica. Il capitalismo, sebbene sia nato dentro l’umanesimo ebraico-cristiano, non conosce alcuna legge che libera i debitori dalla schiavitù alla scadenza del settimo anno. Eppure quella antica legge continua a ripeterci anche oggi che nessuna schiavitù deve essere per sempre, perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi, veramente, fratelli e sorelle.

Quando, invece, noi pensiamo che la nostra ricchezza sia solo nostra conquista e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavi non vengono liberati mai, la giustizia si eclissa. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose è invenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica biblica né la legge vera della vita. L’Europa, poteva cogliere l’occasione data da questa grande crisi, generata prima dalla crisi finanziaria esplosa negli USA e poi dalla crisi del debito pubblico di alcuni Paesi e tra questi della Grecia, per rilanciare il patto fondativo che l’ha generata, immaginando e osando soluzioni più creative, coraggiose, rischiose, solidali. E invece per ora continuiamo a vedere il logoramento di un sogno europeo, che per essere mantenuto vivo avrebbe bisogno di simboli più ricchi di quelli della finanza, di atti umani più grandi dei contratti, di parole più ricche di quelle della colpa e del debito. Di perderci lungo la strada la Comunità, per accontentarci del club.

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Attualità - Crisi greca. La tempesta che ha colpito Atene fa pensare al patto europeo ridotto a contratto

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Città Nuova n. 15-16/2015 (386 KB) , 10/08/2015

L’Unione Europa sta attraversando la più grande crisi dalla sua fondazione. Lo stress-test Tsipras Merkelrappresentato dalla crisi greca non ha solo evidenziato quanto grave fosse e sia ancora la situazione dell’economia e del popolo greci, ma ha messo in luce anche, e soprattutto, la fragilità di una Europa costruita decenni fa sui registri relazionali, sociali e simbolici del patto che si sta progressivamente trasformando in un club di paesi tenuti assieme dal solo registro del contratto.

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La comunità e il club

La comunità e il club

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Una proposta provocatoria ma stimolante: dare 12 ore alla settimana per la cura di chi ha bisogno d'aiuto

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015

La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che Curaperò è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento  che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.

Questo vuoto sta attirando un quarto ‘offerente’ di cura, il mercato, che in molti paesi sta occupando questi spazi. Lo vediamo tutti i giorni.

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Quando però il mercato entra nei mondi della cura, tende inevitabilmente a trasformare la cura, che per sua natura è un bene relazionale (e che quindi richiede gratuità), in merci, soggette alle regole dell’economia di mercato. Nei decenni passati l’Italia aveva tentato una sua via alla cura, intrecciando comunità e mercato, tramite la cosiddetta cooperazione sociale. Sono così fiorite migliaia di cooperative che, in sinergia con la pubblica amministrazione e con le famiglie, hanno dato vita ad un’alleanza molto felice, nella quale si utilizzavano alcuni criteri e strumenti del mercato (efficienza, talenti imprenditoriali) al servizio delle comunità e delle famiglie.

Questo mercato civile ha svolto bene il suo mestiere, ma oggi sta vivendo una crisi profonda, dovuta ai tagli delle pubbliche amministrazioni e ad un calo di capacità innovativa dei mondi vitali che avevano generato in passato questa economia diversa. C’è inoltre un incalzante avanzare di pensiero economico unico, che sta convincendo politica e anche parte della società civile che il mercato capitalistico può gestire scuole, asili, case di riposo come fa con tutte le altre merci, perché – dicono - la cura è un business come tutti gli altri. Anche la recente riforma del terzo settore è influenzata da questa ideologia mono-mercatista.

Sono invece convinto che serva una riflessione profonda sul tema della cura in rapporto al mercato e in rapporto al lavoro. Affidare la cura al solo mercato non funziona per diversi motivi. Il principale si chiama democrazia. I nostri avi hanno lottato per secoli per superare una società feudale nella quale i ricchi e i potenti possedevano servi e schiavi che svolgevano per loro servizi e attività che loro stessi non volevano fare. Camerieri, cuochi, sarti, servitù di vario genere che accudivano e curavano i loro padroni. La democrazia ha detto che gli esseri umani nascono e restano uguali, e che non devono esistere persone costrette a servire altri più potenti. Oggi, sotto un velo ideologico che impedisce di vedere con chiarezza i veri rapporti e valori in gioco, stiamo tornando ad un sorta di nuovo feudalesimo, dove chi possiede denaro compra non solo servizi ma persone che si prendono cura di loro, costrette dalla loro povertà e indigenza. Sono contratti, certo, non più stati giuridici di servitù o schiavitù; ma siamo sempre in presenza di persone ricche e potenti che dispongono di persone povere e deboli che pur di sopravvivere sono disposte a tutto: a lasciare i propri figli e genitori in patria per occuparsi dei nostri, ad affittare l’utero, a vendere un organo o magari bambini e figlie. Ieri si diventava schiavi per guerre o per debiti: oggi si continua a diventare di fatto schiavi per povertà.

Che fare allora? La filosofa canadese Jennifer Nedeslky ha una proposta radicale, ma estremamente affascinante: ridurre le ore di lavoro per aumentare quelle gratuite di cura. Secondo questa filosofa (e secondo me) la nostra civiltà dei consumi sta conoscendo un grave paradosso: da una parte abbiamo elite che lavorano troppo e che soffrono di ansia e burn-out per eccessivo lavoro e che non sono capaci, in genere, di cura; dall’altra una quantità crescente di disoccupati che vengono espulsi dal mondo del lavoro e che per sopravvivere devono occuparsi della propria cura (che non possono comprare sul mercato) e di quella dei ricchi. Ecco allora la sua proposta: ridurre la settimana lavorativa di tutti a trenta ore settimanali, e chiedere a ciascuna persona adulta di donare gratuitamente alla propria famiglia o comunità non meno di dodici ore di cura alla settimana.  Una persona matura e eccellente deve avere nel pacchetto di ore che offre alla società una parte di ore di lavoro retribuito e una parte di ore di cura non retribuite.

Quali sarebbero i grandi vantaggi se una tale riforma si attuasse? Innanzitutto si opererebbe naturalmente una ridistribuzione del lavoro. Non è più sostenibile che ci siano persone che lavorano fino a settant’anni, in un’età della vita dove è bene occuparsi d’altro, e che giovani di 25 o 30 anni restino a casa ad assistere, tristi, al deterioramento del loro capitale umano e motivazionale. ‘Lavorare meno lavorare tutti’ non è un slogan da applicare soltanto alle singole imprese in tempo di crisi: deve diventare un progetto politico ed economico (e previdenziale) per la società tutta intera.
In secondo luogo di renderebbe più sostenibile e buona la vita delle donne. I dati dicono che oggi in tutto il mondo le donne continuano ad offrire molta più cura degli uomini. In Italia una donna lavoratrice, sommando il lavoro fuori con quello dentro casa, lavora in media quasi due ore di più degli uomini della sua stessa età – un divario che può arrivare fino a tre ore se questa donna ha bambini piccoli. Se, invece, queste donne (chiamate ‘generazione sandwich’) oltre ad avere bambini piccoli hanno anche genitori anziani (ancora abili) da curare, i dati dicono che sono avvantaggiate nel mercato del lavoro rispetto alle donne che hanno solo bambini senza genitori. Come a dire che i benefici di cura offerti dai nonni superano i costi che i figli sostengono per il loro accudimento – occuparsi di un genitore non è mai solo un costo.

C’è bisogno di redistribuire il lavoro ma non è meno urgente redistribuire la cura. Se ciascun adulto, donna e uomo, indipendentemente dal proprio stipendio donasse 12 ore di cura la settimana alla propria famiglia e alla propria comunità, avremmo una significativa redistribuzione di reddito e applicheremmo in concreto quel principio di fraternità che la modernità volle porre a proprio fondamento, e che questo nostro capitalismo relega sempre più sullo sfondo del proprio paesaggio, dominato dai consumi e dalla finanza.

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Una proposta provocatoria ma stimolante: dare 12 ore alla settimana per la cura di chi ha bisogno d'aiuto

di Luigino Bruni

pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015

La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che Curaperò è troppo trascurato dal dibattito pubblico, culturale e politico. Esiste una crescente domanda di cura e di accudimento  che non può essere più soddisfatta dalle ‘agenzie’ che l’hanno fatto nelle generazioni passate (famiglie, chiese, stato). Persone più sole che vivono molto più a lungo, bambini con famiglie sempre più fragili e frammentate, chiedono molta più cura di qualche decennio fa ma non trovano risposte adeguate.

Questo vuoto sta attirando un quarto ‘offerente’ di cura, il mercato, che in molti paesi sta occupando questi spazi. Lo vediamo tutti i giorni.

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Lavorare meno, lavorare tutti

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Una proposta provocatoria ma stimolante: dare 12 ore alla settimana per la cura di chi ha bisogno d'aiuto di Luigino Bruni pubblicato su  pdf Città Nuova n.10/2015 (391 KB) del 25/05/2015 La cura dei bambini e degli anziani è uno dei temi decisivi delle nostre democrazie, che ...
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Una parola chiave per il futuro: sussidiarietà. Un principio che vale dall'educazione al welfare, alla cultura. Ma anche al management.

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.8/2015 del 25/04/2015

ScuolaLa sussidiarietà potrebbe diventare una parola chiave dei prossimi anni, generando un miglioramento del benessere e della democrazia della nostra società se siamo capaci di applicarla veramente nella sfera politica (dove è molto evocata ma raramente praticata) ed estenderla a nuovi ambiti che ne avrebbero un estremo bisogno. La radice etica profonda di questo principio la si trova in una della grandi conquiste della modernità: la sovranità appartiene al popolo, non ai governanti né ai politici. Quindi qualsiasi decisione che un amministratore prende che ha effetti sulle persone coinvolte, deve essere giustificata da qualche ragione di bene comune.

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Ma è il popolo sovrano dei cittadini che delega verso l’alto il potere, e non i governanti che la concedono ai cittadini. Ecco perché la sussidiarietà è fondamentale per ogni vera democrazia se vogliamo cittadini e non sudditi. Si capisce allora che la sussidiarietà sia principio fondamentale per le relazioni sociali che coinvolgono più persone caratterizzate da diverse distanze dai fatti e da diverse informazioni relative al problema da affrontare.

Il primo ambito che viene in mente quando si pensa alla sussidiarietà è quello politico, dove dovrebbe regolare l’organizzazione ‘verticale’ di una comunità. È un principio che è alla base della Comunità europea, che si è fondata sulla regola ‘non faccia il livello di potere politico più distante dal problema da risolvere quanto può fare il livello più vicino’. Quando e se il potere più distante (Stato) interviene deve farlo solo in aiuto (a sussidio) di quello più vicino (città).

La sussidiarietà, poi, è molto importante per ordinare i rapporti tra le istituzioni e le organizzazioni operanti negli stessi territori. Qui ci suggerisce un altro criterio: ‘non facciano lo Stato ed il mercato capitalistico ciò che può fare la società civile organizzata e le famiglie’, perché la scelta cade su quelle persone/istituzioni che sono quelle più ‘vicine’ alle persone al centro del problema da risolvere. Quindi se in un quartiere ci fossero tre possibilità e alternative per gestire un asilo nido (il comune, una impresa for profit e una cooperativa di genitori), il principio di sussidiarietà ci suggerisce di scegliere la cooperativa di genitori. Questa sussidiarietà è chiamata ‘orizzontale’, che ha un grande valore per la salvaguardia della libertà e della varietà delle forme di educazione, di assistenza, di sanità, d’arte, etc. E’ la prima garanzia di salvaguardia della biodiversità civile ed economica di una cultura, che invece si sta fortemente riducendo sotto l’invasione di un vero e proprio pensiero unico globale.   

Il principio di sussidiarietà ci dice prima di tutto due cose fondamentali. La prima e più importante competenza da cui partire in ogni processo teso a risolvere problemi o a migliorare situazioni è quella delle persone coinvolte direttamente dal problema. Sono i poveri, ad esempio, i primi competenti per la propria condizione di povertà, non i politici nè gli amministratori che decidono sulla loro sorte, che sono molto distanti dal problema e dalle sue specifiche competenze. Una gestione sussidiaria del welfare e delle povertà di una città o di un Paese dovrebbe innanzitutto riconoscere le competenze specifiche di queste persone, valorizzarle come prima risorsa per la risoluzione dei problemi, tenendo conto della saggezza racchiusa  nell’antico detto popolare: “solo tu puoi farcela ma non puoi farcela da solo”. E dovrebbe coerentemente inserire i poveri, i malati, gli anziani in ogni organo teso a risolvere i loro problemi – organi e tavoli, invece, sempre più affollati di tecnici e consulenti incompetenti (anche quando hanno lauree e master), in quanto non prossimi al problema e alle persone dentro quel problema. Una gestione veramente sussidiaria vedrebbe francescani e suore di Madre Teresa nel ministero del welfare, portatori di carismi per amare, vedere, capire le povertà, e trasformare le ferite in benedizioni. Ma c’è una seconda premessa antropologica ed etica dietro il valore della sussidiarietà: riconoscere l’importanza e le priorità degli incontri vicini e diretti fra le persone: i mediatori vanno introdotti solo se necessari e e sempre a sussidio degli incontri fra la gente, che sono essenziali per una vita buona e vera.

Ma ci sono altri ambiti nei quali la sussidiarietà è un principio fondamentale per il bene comune. Uno particolarmente delicato e rilevante è quello educativo. In ogni processo educativo virtuoso occorre partire dalla consapevolezza che la prima competenza è quella che possiede la persona che apprende, e quindi tutti gli altri interventi devono essere al servizio (a sussidio) di questa competenza primaria ed essenziale. Se invece gli interventi dell’educatore (genitore, insegnante…) si sostituiscono alla competenza, spesso latente ma reale, della persona che apprende (adulto, giovane, bambino…), il processo pedagogico si inceppa e ammala.

Un altro luogo dove la sussidiarietà sarebbe molto importante ma ancora quasi totalmente assente, è quello del management e della gestione delle organizzazioni e delle imprese. Si inizia infatti a parlare fra gli addetti di ‘sussidiarietà manageriale’, secondo la quale il manager deve intervenire nelle decisioni di un gruppo che coordina soltanto per quelle attività che risulterebbero peggiori senza il suo intervento di ‘sussidio’. Ma affinché la sussidiarietà sia concreta e non solo retorica ideologica, è indispensabile che i lavoratori e i gruppi di lavoro sperimentino fiducia genuina nei loro confronti, e quindi possano anche abusarne.

Sarebbe allora necessario che il management si fidi veramente del gruppo di lavoro, e non voglia controllare tutto il processo, magari perché considera la sua presenza sempre indispensabile per ogni scelta importante. Se, invece, chi riceve ‘la delega’ percepisce che in realtà quella ‘fiducia’ è solo strumentale, una tecnica per fare più profitti, la sussidiarietà smette di produrre i suoi effetti. Ecco perché la sussidiarietà nelle imprese avrebbe in realtà bisogno di assetti proprietari democratici, dove la delega non procede dall’alto (proprietà) verso i lavoratori, ma nella direzione opposta (come avviene in politica, dove il principio di sussidiarietà è nato). Quando, invece, la sussidiarietà discende dall’alto diventa un’altra cosa, che funziona solo quando e se i proprietari decidono che conviene loro, e che quindi è poco resiliente di fronte ai fallimenti della fiducia genuina. Il test della sussidiarietà genuina è allora la sua capacità di resistere dopo le crisi dovute a gravi abusi della fiducia.

Infine, un altro ambito dove l’applicazione del principio di sussidiarietà sarebbe molto importante è quello della comunicazione. Anche qui la prima competenza e quella più preziosa su un fatto la possiede chi è a contatto diretto col fatto, e qualsiasi intervento più distante che scavalchi questa competenza primordiale non fa altro che peggiorare la qualità della comunicazione. Tutto ciò non vale solo per la cronaca o per le storie raccontate nei media, ma ha una portata più generale, che potremmo così formulare: gli strumenti di comunicazione sono buoni se favoriscono gli incontri diretti fra le persone, riducono invece la qualità etica dei rapporti quando quelli stessi strumenti si sostituiscono e non sussidiano gli incontri personali. Quindi, per un esempio, se un social network facilita e sussidia l’incontro faccia a faccia fra le persone, qui siamo pienamente coerenti con la sussidiarietà; se invece i rapporti sulla rete spiazzano o sottraggono gli incontri tutti interi fra quelle stesse persone, la qualità umana e relazionale dei nostri rapporti si impoverisce. Ma qui si aprono infiniti scenari sui quali dovremo ritornare.

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di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.8/2015 del 25/04/2015

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Il valore della prossimità

Il valore della prossimità

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Non esiste un solo modo di fare economia o impresa:  il modello usa non è adatto al  vecchio continente.  Finanza e politica non sono la stessa cosa

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.03/2015 del 10/02/2015

TroikaDovremmo prendere molto sul serio l’ondata di malessere nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e mondiali (la Troika) che sale con sempre maggior forza dalla Grecia, dalla Spagna, dal Portogallo, ma anche dalla Francia e dall’Italia. Dall’Europa latina, comunitaria, ‘cattolica’ (e ortodossa). Sono evidentemente molte, e non tutte buone, le ragioni nascoste dietro le proteste nei confronti della politica Europea e dell’euro. Ma c’è anche qualcosa di profondo e di molto serio.

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Le economie e i capitalismi nel mondo non sono mai stati tutti uguali. Fino agli anni settanta del secolo scorso, i sistemi economici nel mondo erano molti e diversi. C’era il capitalismo USA, ma anche quello tedesco, francese, l’economia mista e popolare italiana, ancora l’economia socialista, i diversi ‘capitalismi’ giapponesi, indiani, sudamericani … Questa varietà di vie al mercato e all’economia aveva dato vita anche ad una grande biodiversità nelle forme di impresa e di banca, nel mondo di lavorare, di produrre, di consumare. Di vivere: l’economia non è né più né meno della vita della gente. Con l’inizio della globalizzazione dei mercati, accompagnato da una stagione di pensiero della cosiddetta ideologia neo-liberista (che io chiamerei post- o ultra-liberista), ha preso il via un processo di convergenza dei vari ‘capitalismi’ verso il modello USA, con una forte riduzione delle differenze nazionali e del genius loci dei singoli popoli, un appiattimento culturale e una forte perdita di biodiversità. Si è così iniziato a pensare che ci fosse una sola buona cultura di impresa, una sola banca efficiente, un solo modo di fare finanza; e tutte le altre forme di economia, impresa, banche diverse e lontane da questa unica idea buona e vera, erano considerate attriti e residui di un passato feudale che doveva essere eliminato presto. Un ruolo fondamentale in questo avanzare incontrastato dell’ideologia dell’unica via al capitalismo lo hanno svolto, e lo svolgono, le scuole di impresa nel mondo, che stanno producendo e implementando una ideologia manageriale ‘universale’, insegnando in tutto il mondo. Nelle business school di Buea e di Chicago si seguono ormai gli stessi ‘protocolli’ (come in chirurgia) poiché l’impresa è una, ha le stesse regole in tutto il mondo. Poco conta se quelle imprese poi si troveranno ad operare negli slum di Nairobi o nella city di Londra. Stesso discorso per le banche e per la finanza.

In realtà le cose stanno molto diversamente. L’economia europea ha sempre avuto più anime economiche, più ‘spiriti del capitalismo’. In particolare la Riforma protestante ha dato vita ad una cultura d’impresa e di banca diversa da quella che è rimasta ed è continuata ad operare nei paesi a cultura cattolica (e ancor più ortodossa). La netta separazione tra dono e contratto, tra comunità e impresa che si è affermata nei paesi del nord Europa e negli USA (in seguito, anche, alla reazione di Lutero ad un intreccio troppo stretto e in buona parte sbagliato tra denaro e dono: il ‘mercato delle indulgenze’), non si è mai operata nei paesi mediterranei. Da noi l’economia è rimasta mescolata con la comunità, il dono con i contratti, il denaro con la gratuità, un intreccio che ha generato molte malattie tipiche di questi paesi (dalle mafie al familismo), ma ha prodotto anche alcune benedizioni. Tra quest’ultime le imprese famigliari (ancora oggi il cuore pulsante dell’economia italiana), il grande movimento cooperativo, le casse rurali e di risparmio, le BCC, le banche popolari, che hanno fatto ricca, equa e bella la nostra economia.

La creazione dell’Europa pose il ‘principio di sussidiarietà’  come sua pietra angolare (il primo potere ce l’hanno i soggetti vicini al problema da risolvere). Ma ci siamo limitati ad applicarlo alla sfera politico-amministrativa (nell’ordinare le competenze tra istituzioni europee, nazionali, regionali, locali), mentre a livello finanziario ed economico si sta sempre più applicando l’anti-sussidiarietà. Infatti, la finanza si è via via concentrata attorno a Francoforte, svuotando di potere le banche centrali nazionali, e le direttive europee sulle dimensioni ottime delle banche commerciali stanno producendo gruppi bancari sempre più grandi e lontani dai territori. Mentre l’Europa politica procede dall’alto verso il basso, l’Europa della finanza si muove nella direzione opposta, allontanando le decisioni dalle persone e dai territori. In questo contesto si capisce la gravità del decreto del Governo Renzi che ha di fatto trasformato le banche popolari (beni pubblici e antica eredità dell’umanesimo comunitario italiano) in società per azioni, in società anonime: beni comuni in beni privati di pochi.

L’Europa potrà realizzare il grande sogno dei suoi padri se allargherà il campo di azione del principio di sussidiarietà a tutti gli ambiti. Oggi non è solo urgente riavvicinare le istituzioni finanziarie ed economiche ai territori, ma è anche indispensabile ricordare che l’economia è penultima parola, mai l’ultima: non sono le ragioni della politica (Bene comune) che devono servire quelle dell’economia (beni privati), ma viceversa. Dietro il grido dei Paesi mediterranei in crisi dobbiamo allora sapere ascoltare anche la domanda di identità, di biodiversità, di storia.
Reimpariamo ad ascoltare il grido dei poveri: in esso si nasconde sempre un portato di verità e di Bene comune di cui l’Europa non può e non deve fare a meno. 

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Non esiste un solo modo di fare economia o impresa:  il modello usa non è adatto al  vecchio continente.  Finanza e politica non sono la stessa cosa

di Luigino Bruni

pubblicato su  Città Nuova n.03/2015 del 10/02/2015

TroikaDovremmo prendere molto sul serio l’ondata di malessere nei confronti delle istituzioni finanziarie europee e mondiali (la Troika) che sale con sempre maggior forza dalla Grecia, dalla Spagna, dal Portogallo, ma anche dalla Francia e dall’Italia. Dall’Europa latina, comunitaria, ‘cattolica’ (e ortodossa). Sono evidentemente molte, e non tutte buone, le ragioni nascoste dietro le proteste nei confronti della politica Europea e dell’euro. Ma c’è anche qualcosa di profondo e di molto serio.

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I limiti della Troika

I limiti della Troika

Non esiste un solo modo di fare economia o impresa:  il modello usa non è adatto al  vecchio continente.  Finanza e politica non sono la stessa cosa di Luigino Bruni pubblicato su  Città Nuova n.03/2015 del 10/02/2015 Dovremmo prendere molto sul serio l’ondata di malessere nei confronti delle ist...
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Non si può scendere a compromessi sulla pelle dei poveri. Non si può aiutarli coi soldi “estorti” alla loro debolezza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.21 del 10/11/2014

Slotmob 01Mi trovavo a Londra a completare i miei studi di economia, quando la mattina dell’8 maggio del 1998 mi telefona a casa Chiara Lubich. Anche se facevo parte del suo movimento da quando avevo 15 anni – è la grande avventura della mia vita – non avevo mai parlato personalmente con lei. Ricordo ancora l’emozione e la sorpresa, ma soprattutto ricordo bene le sue parole: “Mi vuoi aiutare per dare dignità scientifica all’Economia di comunione?”. E poi aggiunse che tornando in Brasile dopo sette anni dal lancio dell’EdC aveva capito che se accanto agli imprenditori non si fosse sviluppato anche un pensiero economico, l’EdC non sarebbe decollata. Io risposi di sì, venni da Londra a Roma, e iniziai a collaborare con lei e tanti altri compagni-e per contribuire a dare un po’ di questa dignità scientifica alla vita che c’era e che c’è. E capii che la vita ha la priorità, ma anche il pensiero e la teoria sono vita, e quando mancano rendono la prassi povera e di corto respiro.

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Nei dieci anni che abbiamo lavorato assieme, spesso Chiara mi ripeteva: “Studiate, scrivete, fate convegni. Bene. Ma ricordati, io ho fatto nascere l’EdC per i poveri”. Per i poveri, non tanto né primariamente per fare imprese più etiche, né nuove teorie economiche.

Questo mandato di Chiara è cresciuto con e dentro di me negli anni. E’ maturato, si è arricchito, si è articolato. Non si è mai spento, anzi è diventato sempre più luminoso. Sono state parole feconde e generative. E mi/ci hanno svelato molte cose, tutte splendide, tutte dolorose (il dolore ha una luce).

Ho capito che le povertà sono tante, e non tutte faccende disumane. C’è senz’altro quella delle ‘favelas’ che Chiara vide dall’aereo che stava atterrando a San Paolo; c’era ieri, c’è oggi, e dobbiamo non darci pace affinché non ci sia più domani. È questa la povertà-miseria delle periferie sociali della terra. Combattere queste forme di miseria resta una grande priorità dell’EdC: anche per questo a Maggio andremo da tutto il mondo in Africa, nonostante l’ebola, per dire no ad una ‘cultura dell’immunità’ che assiste passiva alla morte di milioni di persone ogni anno e alle guerre del mondo, ma isola interi paesi africani perché forse una decina di occidentali si sono contagiati (in Sierra Leone la gente oggi muore di fame perché isolati da tutti).

Accanto alla povertà delle favelas della terra ci sono anche antiche e nuove povertà, soprattutto antichi e nuovi poveri che l’EdC guarda diversamente, li guarda per amarli e lasciarsi da loro amare, nella reciprocità. Molte di queste povertà ‘altre’ sono in crescita attorno a noi. Il lavoro, soprattutto il lavoro dei giovani, è una povertà grande della nostra epoca che non può lasciarci tranquilli. Le depressioni, che stanno diventando la nuova peste del XXI secolo. L’azzardo.

La scoperta della gravità e dell’urgenza dell’azzardo è cresciuta in me un po’ alla volta. Ho sempre sofferto quando entravo in un bar, compravo un giornale o mi fermavo in un autogrill e vedevo l’offerta impressionante di slot machines e di gratta e vinci. Negli ultimi anni vedevo che crescevano sempre più dentro i bar, che le sale giochi, brutte e nere, invadevano le nostre città. Nel mio piccolo paese di origine (Roccafluvione) ho ritrovato le slot in tutti i bar, e ho visto nascere nell’ultimo anno una sala giochi e una sala scommesse.

Un momento di svolta è stato il giorno quando, due anni fa, mi rifiutai di fare una conferenza in un circolo ricreativo di una parrocchia perché in fondo c’erano le slot, luccicanti e affamate come gli idoli. Sentì che era arrivata l’ora di agire. Mi ricordai delle parole di Chiara. Decisi di iniziare lo ‘sciopero del caffè’ (non consumare nulla nei bar slottizzati, e dirlo al barista). Poi condividendo l’idea prima con un caro amico sardo (Vittorio), compagno di ideali e di mestiere, e poi parlandone con altri colleghi economisti (Alessandra, Leonardo) e con un gruppo di giovani romani appassionati di consumo critico e di mob etici (Gabriele e Francesco), nacque la campagna slotmob: decidemmo di dire di no all’azzardo dicendo sì a quei bar che per scelta etica le slot le hanno tolte, con una colazione collettiva e con un torneo di biliardino e giochi di gratuità.

L’EdC l’ho fatta nascere per i poveri”. Anche per i poveri vittima dell’azzardo, che oggi sono mangiati da un impero dell’azzardo, da una vera e propria struttura di peccato, cresciuta viralmente in seguito a scelte politiche intenzionali e esplicite. Venti anni fa le slot stavano nei casinò, non nei bar. I gratta e vinci non esistevano. Qualcuno al governo pensò di iniziare a fare cassa alleandosi con imprese dell’azzardo, aumentando le concessioni, e inventando sistemi sempre più sofisticati e pensati per catturare i soggetti più fragili.

Chi entra in una sala nera (non voglio sporcare la splendida parola “giochi” accostandola all’azzardo), o quelle donne, molte anziane, che aspettano l’apertura dei bar per giocare, nel sottoscala, nella loro macchinetta preferita, sono persone che hanno bisogno di aiuto. Dietro quel tintinnio di soldi e gioco di colori si nasconde uno straziante grido di aiuto, se sappiamo ascolarlo. Soffrono tutti, moltissimi sono persone fragili, fragilissime. Molte e molti sono depressi, tanti hanno già problemi con alcol e droga. Non possono essere lasciati nelle mani di imprese for-profit disegnate per fare profitti sulla loro disperazione. Nei secoli passati i monti dei pegni erano stati inventati e poi gestiti da ordini religiosi: chi si mette in pegno la fede o l’abito da sposa, non deve trovare di fronte qualcuno che lucra sulla sua disperazione, ma uno sguardo di amici, pieno di pietas. Non qualcuno che più ti rovini più guadagna, più ti perdi più trova guadagni, come oggi accade quasi sempre nel mondo dei ‘compro-oro’, e come accade sempre con l’azzardo. Questo le civiltà sagge lo sanno molto, la nostra Italia lo ho dimenticato e rinnegato.

Un governo, un parlamento e istituzioni che non fanno nulla, o terribilmente troppo poco, per porre termine a questo scandalo è un governo che non sta dalla parte dei poveri. Come non stanno dalla parte dei poveri quelle organizzazioni del non-profit (il giorno che ho saputo quante erano non ho dormito), che accettano denari nati dalla nostra gente fragile per curare altre fragilità. Quale pazzia più grande?! E lo sono ancora meno quelle associazioni che firmano accordi con ‘confindustria gioco’ per sostenere l’azzardo legale e combattere l’azzardo illegale, accettando e sottoscrivendo l’idea che l’azzardo legale è buono. Spero sia solo ingenuità.

C’è tanto dolore nel mondo, lo sappiamo. Una parte di questo dolore è eliminabile, o almeno riducibile. Ma occorre fare di più, coll’azione e col pensiero. L’azzardo è una metastasi di una malattia profonda del nostro capitalismo, in particolare del capitalismo italiano (l’Italia è la prima nazione europea per l’azzardo, e in Germania e in Francia le slot nei bar non ci sono). Dietro le grandi imprese dell’azzardo (Lottomatica, Sisal, Snai …) ci sono aziende che una volta facevano atlanti geografici e libri per i nostri bambini (e purtroppo li fanno ancora), che persa la loro missione originaria hanno pensato di buttarsi in un mercato sicuro, dove i profitti non mancano, gravemente complici le istituzioni. In Italia non c’è solo il bel capitalismo della piccola e media impresa e dell’impresa (anche grande) famigliare, che guarda al lungo periodo, che ama la sua gente e i territori. C’è anche il capitalismo ‘modello Lottomatica’, che ha come unico scopo massimizzare profitti e rendite, che vorrebbe entrare nelle scuole per educare i nostri figli al ‘gioco responsabile’, e che magari ci riuscirà visti i precedenti. Questo capitalismo non è l’economia che Chiara sognava, non è economia civile ma incivile, che cresce e prospera consumando i poveri.

L’EdC continuerà la sua corsa verso un mondo più fraterno se continuerà ad ascoltare il ‘grido dei poveri’, dei poveri delle favelas e dei poveri mangiati da quella parte di capitalismo sbagliato del nostro Paese. Fu l’ascolto del grido dei poveri che mosse Chiara e le fece inventare l’EdC. È l’ascolto di altre grida di altri poveri (le grida dei poveri sono forse tutte uguali), che oggi muove le nostre azioni di contrasto all’azzardo, e che deve muovere altre azioni analoghe, perché non possiamo dormire tranquilli mentre le strutture di peccato divorano i nostri fratelli. “Ricordati che l’EdC è nata per i poveri”. Ricordiamocelo insieme.

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Non si può scendere a compromessi sulla pelle dei poveri. Non si può aiutarli coi soldi “estorti” alla loro debolezza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.21 del 10/11/2014

Slotmob 01Mi trovavo a Londra a completare i miei studi di economia, quando la mattina dell’8 maggio del 1998 mi telefona a casa Chiara Lubich. Anche se facevo parte del suo movimento da quando avevo 15 anni – è la grande avventura della mia vita – non avevo mai parlato personalmente con lei. Ricordo ancora l’emozione e la sorpresa, ma soprattutto ricordo bene le sue parole: “Mi vuoi aiutare per dare dignità scientifica all’Economia di comunione?”. E poi aggiunse che tornando in Brasile dopo sette anni dal lancio dell’EdC aveva capito che se accanto agli imprenditori non si fosse sviluppato anche un pensiero economico, l’EdC non sarebbe decollata. Io risposi di sì, venni da Londra a Roma, e iniziai a collaborare con lei e tanti altri compagni-e per contribuire a dare un po’ di questa dignità scientifica alla vita che c’era e che c’è. E capii che la vita ha la priorità, ma anche il pensiero e la teoria sono vita, e quando mancano rendono la prassi povera e di corto respiro.

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L’economia  incivile  dell’azzardo

L’economia incivile dell’azzardo

Non si può scendere a compromessi sulla pelle dei poveri. Non si può aiutarli coi soldi “estorti” alla loro debolezza di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.21 del 10/11/2014 Mi trovavo a Londra a completare i miei studi di economia, quando la mattina dell’8 maggio del 1998 mi telefona a ca...