Città Nuova

Economia Civile

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.14/2009

Alcune encicliche dei Papi hanno segnato delle tappe epocali nella storia. La Rerum Novarum diede voce a tutto un movimento culturale e sociale che cercava una risposta alla crisi posta dalla questione sociale generata dal primo capitalismo industriale. La Quadragesimo Anno rappresentò, in un momento oscuro per l’Italia e per l’Europa un grido di libertà e di fraternità simboleggiate dal principio di sussidiarietà, che risuonò come un programma di liberazione civile in quell’età buia. La Populorum Progressio in una fase di contestazione sociale e culturale, che già denunciava i limiti del capitalismo di seconda generazione rappresentò per un’intera generazione che usciva dal Concilio, dentro e fuori la Chiesa, un manifesto per un impegno sociale, economico e politico.

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La Caritas in Veritate è un altro evento che scandisce la storia dell'oggi. L’ultima enciclica di Benedetto XVI deve essere salutata con gioia e speranza da chi opera nell’ambito civile, economico o politico. Essa rappresenta, allo stesso tempo, una continuità con l’insegnamento sociale della Chiesa, e una importante innovazione (sulla quale si dovrà riflettere molto nei prossimi anni).

Innanzitutto il papa invita già nelle prime righe della lettera a superare una delle contrapposizioni più radicali delle nostra società, quella cioè tra l’ambito o la logica del dono e della gratuità, e l’ambito o la logica del mercato. Questo bisogno di unità è il cuore del messaggio della Caritas in veritate e ne rappresenta un punto di straordinaria forza profetica. Niente come la gratuità è assente oggi dal dibattito economico, dai mercati e dalle imprese. Chi parla di gratuità in economia viene preso per ingenuo, mistificatore («che ci sarà sotto?»), e in ogni caso dannoso per il funzionamento dei mercati e delle imprese.

E, infatti, la gratuità, da una parte, viene confusa (snaturandola) con il “gratis” o con la filantropia. Dall’altra, il dono è scambiato con il regalo o con il gadget delle imprese. In realtà, come ci ricorda il papa, la gratuità rimanda a charis, grazia (altro che gratis: la gratuità è pesante!), all’agape, la parola greca che i latini hanno tradotto con caritas a sottolineare ancor di più lo stretto legame tra l’amore cristiano e la charis, la grazia.

La gratuità è infatti grazia, poiché è dono non solo per chi riceve atti di gratuità, ma anche per chi li compie, poiché la capacità di amare gratuitamente è sempre qualcosa che accade in noi e ci sorprende sempre come quando siamo capaci di ricominciare dopo un grosso fallimento o di perdonare davvero gravi errori degli altri. È questa gratuità che il mercato capitalistico non conosce, e che invece questa enciclica ci chiama a mettere al centro anche dei nostri rapporti economici, politici, sociali, dove sembra impossibile, ma dove già sono in tanti a viverla, nell’economia «civile e di comunione» (n. 46).

Si capisce quindi come il papa inviti fortemente a superare la distinzione tra non-profit e for-profit: non esistono ambiti o settori della gratuità, ma ogni impresa, al di là della sua forma, è chiamata alla gratuità, che è la cifra dell’umano: se un’impresa, sia essa for-profit o non-profit, non è aperta alla gratuità non è un’attività umana, e quindi non può portare frutti di umanità. E si comprende anche perché: Benedetto XVI ci ricorda che il profitto non può e non deve essere lo scopo dell’impresa, ma solo uno tra tanti elementi, non certo il più importante.

Rilanciando la gratuità nell’economia, l’enciclica richiama il mercato alla sua vocazione d’incontro tra persone libere e uguali ed è una critica radicale al capitalismo (proprio per questo il termine non è mai citato nel testo). Salveremo il mercato e il suo portato di civiltà solo superando questo capitalismo, verso un’economia civile e di comunione.

Dopo la prima enciclica sulla carità e la seconda sulla speranza, potevamo attenderci la terza sulla fede. Ed in effetti così è stato, poiché solo una visione dell’uomo, un’antropologia che crede la persona fatta a immagine di un Dio comunione, con impresso made in trinity nel suo essere, può raccogliere l’invito alla gratuità anche in questo mondo, in quest’economia. Su questa scommessa antropologica risiede anche la speranza che l’economia annunciata possa non essere un’utopia (un non luogo), ma un eutopia (un buon luogo), il luogo dell’umano.

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di Luigino Bruni

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La novità: gratuità e mercato

La novità: gratuità e mercato

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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N.08/2009

Le email stanno contribuendo, e non poco, al deterioramento delle relazioni interpersonali. Se, infatti, per tante cose poco importanti le email sono una splendida invenzione (aggiornamenti, comunicazione, invio di documenti, ecc.), per la gestione e la manutenzione dei rapporti più significativi, in particolare quelli di lavoro, le email si stanno rivelando uno strumento molto pericoloso, soprattutto quando ricorriamo all'email per gestire dei problemi.

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Personalmente non ricordo di aver mai risolto un problema con una email. Succede infatti che quando qualcuno ci scrive una email per segnalarci un problema o per esprimere una protesta, questa email viene interpretata quasi sempre in modo peggiorativo: a quella email fa seguito una (o più) email di risposta, che quasi sempre peggiora ancora di più la situazione.

 Perché? Per varie ragioni. Innanzitutto l'investimento (di tempo, ad esempio) che si fa per scrivere e spedire una mail è molto basso, se confrontato con la vecchia lettera cartacea; così si tende ad essere più veloci e spesso meno attenti ad aggettivi e avverbi dai quali dipende molto il tono affettivo di ogni comunicazione.

In secondo luogo, quando scriviamo una email per sfogarci diciamo delle cose che non diremmo mai in un rapporto faccia a faccia - tanto che poi quando incontriamo lungo il corridoio il destinatario di una di questa email spesso arrossiamo pentiti di averla inviata.
Inoltre le email le leggiamo da soli, davanti ad un Pc, in un contesto ambientale non sempre positivo.

Alcuni consigli pratici:

  1. quando si scrive una email di reazione ad un problema o per protestare, non inviarla mai senza averla riletta un paio di volte;
  2. non spedirla mai subito dopo averla scritta, ma far passare alcune ore: certamente l'astio e l'intemperanza saranno mitigati;
  3. sapendo che l'interpretazione di chi la legge tende ad essere peggiorativa, abbondiamo nelle attenzioni e nelle precauzioni;
  4. non usare la email quando c'è un problema con una persona: è sempre meglio bussare alla porta e incontrare l'altro, possibilmente fissando prima un appuntamento in modo da prepararsi reciprocamente. Certo, il costo iniziale e il rischio di un incontro personale è maggiore rispetto alla email, ma il risultato in termini relazionali è infinitamente maggiore;
  5. infine, se vogliamo scrivere qualcosa di importante a qualcuno, lasciamo da parte l'email, prendiamo la penna, compriamo un francobollo, andiamo alla posta, e scriviamo una bella lettera: quel costo sarà anche un investimento in un rapporto.
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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N.08/2009

Le email stanno contribuendo, e non poco, al deterioramento delle relazioni interpersonali. Se, infatti, per tante cose poco importanti le email sono una splendida invenzione (aggiornamenti, comunicazione, invio di documenti, ecc.), per la gestione e la manutenzione dei rapporti più significativi, in particolare quelli di lavoro, le email si stanno rivelando uno strumento molto pericoloso, soprattutto quando ricorriamo all'email per gestire dei problemi.

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Pericolosa posta elettronica

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N. 07/2009

È stato finalmente presentato il piano dell'amministrazione Usa per far uscire la finanza e l'economia americana dalla crisi. Pochi giorni prima avevamo tutti esultato di fronte all'annuncio di Obama di voler tassare al 90 per cento i favolosi bonus economici che i manager hanno ricevuto dai gruppi assicurativi dopo che questi (la Aig in particolare) erano stati salvati, con i soldi dei cittadini, dalle operazioni scellerate di quegli stessi manager.

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Ora, però, di fronte agli interventi in ambito finanziario appena decisi, non posso non esprimere profondi dubbi, sia sul piano dell'efficacia, sia su quello dell'equità. Il governo americano ha annunciato che lo Stato e la Federal Reserve (o Fed, la banca centrale Usa) rileveranno buona parte dei titoli tossici che in questo periodo riempiono le casse delle banche americane e di tutto il mondo. Rispetto alla proposta di Bush (bocciata dai mercati finanziari), in questa nuova operazione il pubblico (Stato e Fed) vuole salvare la finanza in collaborazione con il mercato: si creano dei nuovi fondi che verranno collocati in aste, e saranno i privati ad acquistare.

Fondi speciali, però, perché grazie all'intervento pubblico molto massiccio, chi li acquista ottiene grossi vantaggi sia in termini di rendimenti attesi sia in termini di rischio (che cade quasi interamente su governo e Fed).

Qual è l'intento di tale operazione? Curare la malattia con lo stesso morbo che l'ha procurata. Infatti, chi si avvantaggerà certamente da questa operazione (dall'esito totale molto incerto) sono gli stessi protagonisti della crisi (ecco spiegato l'entusiasmo di Wall Street). I primi, infatti, ad entrare in queste aste drogate saranno, con ogni probabilità, proprio coloro che hanno creato i titoli tossici, perché ne conoscono meglio il valore effettivo.

In secondo luogo, da questa operazione guadagneranno le agenzie di rating che, dovendo certificare questi nuovi titoli in emissione avranno entrate straordinarie: un ottimo premio a chi è tra i maggiori responsabili di questa crisi. Debbo confessare che questa manovra mi sorprende e mi preoccupa molto. Non si poteva attendere i primi di aprile e concordare un'azione mondiale anti-crisi durante il G20? L'America ha scatenato questa crisi, ma è certo che non può uscirne da sola.

Tante persone hanno riposto una grande speranza nel presidente Obama. I suoi consulenti economici, però, sembrano perfettamente allineati con il pensiero unico del capitalismo finanziario. Il primo grande nemico da cui Obama dovrà difendersi sarà proprio quel capitalismo speculativo e spregiudicato che è cresciuto durante l'ultimo ventennio di neoliberismo, e che non ha lasciato il posto dopo le elezioni politiche.

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova N. 07/2009

È stato finalmente presentato il piano dell'amministrazione Usa per far uscire la finanza e l'economia americana dalla crisi. Pochi giorni prima avevamo tutti esultato di fronte all'annuncio di Obama di voler tassare al 90 per cento i favolosi bonus economici che i manager hanno ricevuto dai gruppi assicurativi dopo che questi (la Aig in particolare) erano stati salvati, con i soldi dei cittadini, dalle operazioni scellerate di quegli stessi manager.

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Obama e la finanza: un dubbio

Obama e la finanza: un dubbio

Editoriali di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova N. 07/2009 È stato finalmente presentato il piano dell'amministrazione Usa per far uscire la finanza e l'economia americana dalla crisi. Pochi giorni prima avevamo tutti esultato di fronte all'annuncio di Obama di voler tassare al 90 per cent...
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La crisi e Pinocchio

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.4/2009

Per chi volesse spiegare ai propri figli la crisi attuale, e non avesse tempo o voglia di studiare i complicati meccanismi finanziari, esiste una strada semplice ed efficace: leggere insieme a loro il capitolo XIV del Pinocchio di Collodi: «Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino: "Vuoi raddoppiare le tue monete d'oro?". "Cioè?". "Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?". "Magari! E la maniera?". "La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi". "E dove mi volete condurre?". "Nel paese dei Barbagianni". »

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Pinocchio non crede dapprima a questa promessa e vuole tornare a casa, ma il Gatto e la Volpe insistono e lo convincono a seguirlo dicendogli: « "I tuoi cinque zecchini, dall'oggi al domani sarebbero diventati duemila". "Ma com'è mai possibile che diventino tanti?", domandò Pinocchio. E loro risposero: "Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d'oro. Poi ricopri la buca con un po' di terra: l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. (...) E che cosa trovi? Trovi un bell'albero carico di tanti zecchini d'oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno" ». La spiegazione di questa originale operazione è presto spiegata dal Gatto: «Non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri».

Molti protagonisti della crisi si sono comportati come nuovi Gatto e Volpe, e tante famiglie, banche centrali e politici come novelli Pinocchio hanno creduto alle loro promesse, e non hanno ascoltato il saggio Grillo parlante: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro».

In questa storia non ci sono titoli derivati o strutturati, non ci sono i brooker di Wall Street né i subprime (vedi l'articolo di Ferrucci sulla finanza innovativa, nel suo blog), ma gli elementi base e la logica di quanto abbiamo vissuto è tutta racchiusa in questo bel capitolo di Pinocchio: i miracoli nel campo finanziario non esistono, e la ricchezza che porta sviluppo e vita buona è quella che nasce dal lavoro umano.

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La crisi e Pinocchio

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 02/2009

Poco prima di Natale mi si erano sommati in una sola giornata due impegni, in due città separate dall'Appennino. Arrivo a Fiumicino e - in questi tempi di Cai - mi avvio al mio imbarco, e mi siedo tranquillo. Ecco l'imbarco e mi accorgo che stavo aspettando il volo sbagliato e che in realtà il mio volo era appena partito: non c'era ormai più possibilità di partire per Genova, e il primo volo del mattino partiva troppo tardi per arrivare in tempo. Che fare? Chiamo un'amica che aveva un amico all'aeroporto, e riesco a partire per Milano, e da lì, grazie ad altri due amici, riesco a raggiungere prima Sestri Levante, e poi Cremona nel pomeriggio.

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Prima di partire avevo organizzato tutto confidando sul mercato (aerei, taxi, treni), ma una disattenzione ha reso completamente vana la mia organizzazione. In quel sabato, se non avessi avuto amici, non avrei mai potuto onorare i miei impegni. Il mercato oggi si presenta come un grande meccanismo di sostituzione dell'amicizia: nella grande società, grazie al mercato, possiamo ottenere dagli altri le cose e i servizi di cui abbiamo bisogno, senza che gli altri ci siano amici, né che ci vogliano bene. Era questa la grande intuizione che ha ispirato l'opera dei primi economisti (soprattutto Adam Smith) e il loro entusiasmo per la società di mercato, che è una grande impresa cooperativa, che funziona (o sembra funzionare) anche senza amore scambievole.

In realtà, come la mia avventura aerea testimonia, il mercato è un sostituto dell'amicizia per cose tutto sommato molto semplici; ma se la vita si complica un poco, ci accorgiamo di colpo che una vita senza amici non solo non è felice, e questo lo sappiamo, ma neanche funziona nei momenti più importanti. Finché si è giovani, sani, benestanti, senza imprevisti, il mercato è uno strumento utile che ci fa sentire quasi onnipotenti.

Ma non appena ci si ammala seriamente, si invecchia, si cade in povertà o... si perde l'ultimo aereo, riscopriamo la verità della bella frase di Aristotele: Nessuno desidererebbe vivere senza amici.

Di questo e di molto altro si è parlato ad Aosta, in un convegno su Felicità e vita civile, dove, tra gli altri, la filosofa americana Martha Nussbaum ci ha ricordato una antica ma attualissima verità: la vita felice ha bisogno di beni relazionali, di amicizia. Questo bisogno, però, rende la vita felice anche fragile, perché non possiamo mai sapere se gli amici rispondono al nostro amore, se ci lasciano, ci tradiscono, ci feriscono.

Non c'è un rimedio a questa tensione vitale: l'esistenza fiorisce con pienezza solo convivendo con questa ambivalenza.

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Amicizia e libero mercato

Amicizia e libero mercato

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Passare da quelli individuali a quelli collettivi. Meno merci e più beni di cittadinanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 01/2009

I dibattiti sulla crisi che continuano a susseguirsi sui media ci raccontano ancora uno scenario nel quale i due unici attori sono sempre e solo Mercati e Stato. Sia l’origine della crisi, sia le sue possibili via di uscita che vengono discusse, si muovono sempre tra questi due poli. Ciò che invece non si sottolinea abbastanza è che dietro, accanto e di fronte a questa crisi c’è soprattutto una crisi morale, civile, politica e antropologica, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita.

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Prendiamo, ad esempio, i ripetuti inviti a consumare di più che in questi giorni invadono le nostre case. Chi lancia questa ricetta per uscire dalla crisi continua a pensare a ciò che sta accadendo come ad una malattia tutta interna al sistema economico, e quindi la vuole risolvere restando interamente dentro la sola economia, magari riportando il baricentro sull’economia reale (consumi e produzione), da cui si è allontanato in questi decenni di sbornia finanziaria. In realtà le cose sono più complesse, e in buona parte diverse da come ci vengono raccontate. La potremmo così riassumere: i consumi non sono la cura, sono la malattia. Vediamo perché.

Uno dei fenomeni principali che hanno scatenato la crisi è stato il cosiddetto caso dei mutui subprime: le famiglie americane non riuscivano più a consumare abbastanza (l’auto, ad esempio, era già in crisi), e quindi occorreva rilanciare i consumi. L’acquisto della casa sembrò un buon strumento, ma occorreva abbassare i tassi, per rendere ciò possibile. Ma a quei tassi le banche non guadagnavano abbastanza, ed ecco esplodere i mercati dei titoli derivati, a tassi più alti non “naturali”, bensì artificiali e dopati. Oggi per uscire da questa crisi si sta immaginando qualcosa di simile, ed è davvero strano e grave che economisti e politici stiano zitti e non dicano nulla: gli USA sta arrivando a tassi vicini allo zero, l’Europa sembra seguirla. Per rilanciare, ancora, i consumi. Ma ogni tanto dovremmo ricordare che l’interesse non è solo un costo per imprese e famiglie indebitate, esso è anche un reddito per chi presta denaro a quelle aziende e famiglie. Ma soprattutto il tasso d’interesse, in un’economia sana, è anche un indicatore di fiducia e speranza per il futuro: oggi investo 100 e mi aspetto di avere domani dei frutti da questo investimento. Un tasso zero denota quindi proprio quella mancanza di fiducia e di speranza che si vorrebbero “rilanciare”. Inoltre: chi è disposto a prestare denaro a tasso zero? Le famiglie, lo stato? Ma se lo stato non riesce a far sottoscrivere i titoli che emette, la crisi diventa davvero insostenibile.
Che fare allora, di credibile e sostenibile?

Innanzitutto occorre rilanciare i consumi collettivi e comunitari, e ridurre quelli individualistici. La social card, ad esempio, è stata accolta con entusiasmo da molti, perché era anche uno strumento per rilanciare i consumi. Ma insieme ad essa sono diminuiti e dimuineranno i trasferimenti e le imposti alle amministrazioni locali, e quindi minori servizi e beni pubblici, dai trasporti alla sanità alla scuola (la crisi della scuola va letta anche da questa prospettiva). Il problema quindi non sono solo i consumi, ma il tipo di consumi: se diminuiscono o peggiorano i trasporti e la sanità, il lavoro diventa instabile e precario, il costo per le famiglie è ben maggiore delle poche centinaia di euro della social card. E’ sui bisogni e beni collettivi che si ci gioca oggi non solo il rilancio dell’economia, ma la democrazia e la cittadinanza.
Infine occorre più coraggio e coerenza nella politica economica. Innanzitutto occorre ricordare l’antica verità (oggi completamente dimenticata) che il primo e serio modo di rilanciare i consumi è rilanciare l’occupazione e il lavoro. Se si è disoccupati l’invito al consumo frustra e offende profondamente le persone.
Inoltre, non si può da una parte denunciare la questione ambientale ed energetica, e dall’altra continuare a sostenere il consumo dell’auto, e a rendere più costosi e scarsi i trasporti pubblici. Una seria politica economica dovrebbe oggi incentivare trasporti pubblici, renderli economici ed accessibili, chiudere centri storici, e scoraggiare l’auto individuale, soprattutto quelle di grossa cilindrata. Sono politiche economiche anti-popolari e costosi, che richiedono l’impegno di tutti, e per questo se realizzate possono essere sostenibili e serie.

Quindi non si tratta per il nuovo anno di consumare necessariamente meno (anche), ma soprattutto di consumare diversamente: meno merci e più beni di cittadinanza, meno consumi privati e più consumi collettivi e pubblici.

Un’ultima nota. E’ necessario che anche in materia di consumo si inizi a pensare più globalmente: la globalizzazione dovrebbe spingerci a pensare ai rilanci dei consumi “buoni” in termini globali, e non più legati solo alla nazionalità: senza una politica mondiale che pensi ai consumi collettivi e pubblici dei Paesi ancora esclusi, è difficile pensare ad una uscita vera dalla crisi. Oggi siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che non può essere affidato si soli consumi e risparmi privati, né ai solo governi nazionali o regionali, ma richiede un’alleanza globale e mondiale, che dopo aver globalizzato i costi dell’economia globale e le sue fragilità, inizia a globalizzare i diritti e le opportunità per tutti i cittadini del mondo. Utopia? Non credo, basta pensarlo, immaginarlo, volerlo, e poi incominciare da noi.

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Passare da quelli individuali a quelli collettivi. Meno merci e più beni di cittadinanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 01/2009

I dibattiti sulla crisi che continuano a susseguirsi sui media ci raccontano ancora uno scenario nel quale i due unici attori sono sempre e solo Mercati e Stato. Sia l’origine della crisi, sia le sue possibili via di uscita che vengono discusse, si muovono sempre tra questi due poli. Ciò che invece non si sottolinea abbastanza è che dietro, accanto e di fronte a questa crisi c’è soprattutto una crisi morale, civile, politica e antropologica, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita.

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Cambiamo consumi (e logica)

Cambiamo consumi (e logica)

Passare da quelli individuali a quelli collettivi. Meno merci e più beni di cittadinanza di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 01/2009 I dibattiti sulla crisi che continuano a susseguirsi sui media ci raccontano ancora uno scenario nel quale i due unici attori sono sempre e solo Mercati ...
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Dare fiducia nei rapporti civili, sociali ed economici può essere rischioso, ma produce il bene comune. Uno studio di Vittorio Pelligra.

Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 4/2008

La fiducia svolge un ruolo fondamentale anche nelle complesse strutture sociali globalizzate di oggi. È infatti sempre più documentato che le economie e le società che funzionano e crescono sono quelle dove le persone si guardano l'un l'altra come soggetti degni di fiducia, e considerano il tradimento della fiducia come un'eccezione alla regola.

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Laddove invece accade il contrario, dove cioè ognuno (Stato compreso) tratta gli altri come dei potenziali disonesti, non solo l'economia non cresce, ma la vita civile regredisce e aumentano i conflitti. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio è dunque un detto pericoloso, che però dice molto sulla cultura di un popolo e dei suoi rischi. La vita in comune si regge su patti impliciti di fiducia, senza i quali non potremmo non solo scambiare nei mercati, ma neanche affidare un bambino ad una scuola, o rivolgerci ad un farmacista. Più degli interessi è la fiducia il grande collante della società. Appena però vogliamo comprendere la morfologia della fiducia, e capire cioè qualcosa del come, quando, perché e a quali condizioni ci fidiamo degli altri, e gli altri di noi, ci accorgiamo subito che un concetto che sembra tanto semplice e primitivo diventa improvvisamente complesso, articolato e spesso contro-intuitivo.

Servono strumenti più sofisticati.

A questo scopo ci viene incontro il recente libro di Vittorio Pelligra, docente di economia all'università di Cagliari, I paradossi della fiducia (Il Mulino).
Pelligra è un economista, ma non solo. È soprattutto uno scienziato sociale che utilizza il linguaggio dell'economia (soprattutto la teoria dei giochi e la logica relazionale) per spiegare fenomeni sociali (non solo economici) complessi.

E infatti ne "I paradossi della fiducia" si incontrano asili nido, analisi del conflitto, donazioni di sangue, teoria delle costituzioni e dei sistemi legali, motivazioni intrinseche, gratuità, molta psicologia; e si fa conoscenza di  tante teorie sulla fiducia. È anche, vorrei dire soprattutto, un saggio che contiene una teoria originale sulla fiducia, che l'autore chiama rispondenza fiduciaria. Di che cosa si tratta? Per comprenderla in tutta la sua finesse è opportuno analizzare i risultati degli esperimenti che lo stesso Pelligra ha realizzato.

È inoltre possibile avere un'intuizione delle conseguenze del dare/ricevere fiducia pensando ai nostri rapporti interpersonali. Quando sappiamo che chi ci dà fiducia sta rischiando personalmente, nasce in noi il bisogno di esserne degni. In altre parole, ricevere fiducia genuina e disinteressata ci cambia, ci fa migliori e ci rende più capaci di non tradire chi ripone la fiducia in noi.

Sulla base di questa intuizione antropologica, prima che analitica - che Pelligra avrà maturato principalmente al di fuori dall'accademia (è la vita la sorgente di ogni intuizione, anche scientifica) -, i capitoli de I paradossi della fiducia ci guidano in un appassionante itinerario alla scoperta delle varie dimensioni della fiducia. E giunti alla fine, ci accorgiamo di quanto prezioso sia questo bene immateriale nelle nostre società. Prezioso e fragile.

La lettura di questo saggio è anche un corso - per studiosi, cittadini, ma anche per politici - per imparare come proteggere e custodire il sottile filo d'oro della vita in comune. Per rendersi conto che fidarsi è bene, anche quando costa ed è rischioso, perché è soprattutto questa fiducia che produce il bene comune e lo sviluppo civile.

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Dare fiducia nei rapporti civili, sociali ed economici può essere rischioso, ma produce il bene comune. Uno studio di Vittorio Pelligra.

Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 4/2008

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Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio

Fidarsi è bene, non fidarsi è peggio

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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 18/2008

Ho trascorso alcuni giorni di vacanza in Sicilia.
Tornando verso casa ho chiesto informazioni su come raggiungere a piedi l'aeroporto ad un signore il quale, invece di rispondermi, ha preso la sua auto e mi ha portato all'aeroporto (che distava 15 chilometri!). 

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Ormai poco abituato a questi gesti, vivendo da diversi anni tra Roma e Milano, ho accettato tra lo stupito e il grato, riflettendo, tra me e me, sull'altruismo e la reciprocità. Quando ha capito che non ero di Trapani, ha deviato per il centro, con il solo scopo di mostrarmi i tesori della sua città: chiese, monumenti, l'organo più antico d'Europa, e ne parlava come fossero il patrimonio di famiglia.

Perché quel signore avrà speso mezz'ora del suo tempo per portarmi all'aeroporto e mostrarmi il centro storico? Ci potrebbero essere molte spiegazioni, ma quella che ad oggi mi sembra più vera sono i suoi cromosomi: quell'uomo porta iscritto nel suo Dna una cultura di accoglienza, di ospitalità, che lo ha spinto a vedere in me un individuo simile al mercante cartaginese o al marinaio arabo che i suoi avi hanno accolto, e magari ospitato nello loro casa. Questo si chiama cultura.

Sono convinto che il futuro prossimo, anche economico, dell'Italia del Sud, e dell'area mediterranea, passerà da un punto nodale: trasformare quel patrimonio culturale in risorsa anche per lo sviluppo.

Si parla tanto oggi di turismo relazionale, poiché il mercato si è accorto che la gente, quando riesce a trascorrere qualche giorno di vacanza o quando viaggia in cerca di arte e cultura, non chiede solo bei posti e ricchi musei; vuole anche costruire rapporti veri con la gente che incontra nel fare turismo. Non vuole, cioè, avere solo fredde prestazioni commerciali, ma vuole anche beni relazionali. Il problema, però, arriva quando ci si accorge che i rapporti veri sono come il coraggio: se non ce l'hai, non te lo puoi dare.

Nei corsi di formazione al turismo relazionale si può insegnare ad essere educati, gentili, attenti, a mettere la persona al primo posto; ma quel tocco umano genuino dell'albergatore o del titolare dell'agriturismo, fatto di simpatia e di spontaneità (frutto di millenni di cultura), non puoi impararlo in nessun corso della provincia o del comune. È su questo fronte culturale che la globalizzazione incontra (per fortuna) il suo limite: puoi globalizzare le tecniche, ma non l'essere nato e cresciuto sulle isole Egadi.
Sono ripartito felice, perché finché c'è qualcuno che spende il suo tempo per parlare dei suoi monumenti ad un forestiero, c'è ancora speranza per il Bel Paese.

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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 18/2008

Ho trascorso alcuni giorni di vacanza in Sicilia.
Tornando verso casa ho chiesto informazioni su come raggiungere a piedi l'aeroporto ad un signore il quale, invece di rispondermi, ha preso la sua auto e mi ha portato all'aeroporto (che distava 15 chilometri!). 

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Sud Italia quel valore aggiunto

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di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 18/2008 Ho trascorso alcuni giorni di vacanza in Sicilia. Tornando verso casa ho chiesto informazioni su come raggiungere a piedi l'aeroporto ad un signore il quale, invece di rispondermi, ha preso la sua auto e mi ha portato all'aeroporto (che dista...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 19/2008

Ciò che la presente crisi finanziaria sta mostrando con grande forza è la fragilità e vulnerabilità del capitalismo. Nel sistema economico tradizionale, una crisi come quella attuale non era nemmeno immaginabile. In quelle economie si consumava quanto si produceva, e il reddito delle persone e dei Paesi era un indicatore di quanto una famiglia e un Paese potevano permettersi di spendere e di investire.

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Le grandi crisi economiche (come quella del '29) potevano verificarsi solo per una crisi dell'economia reale (fallimenti di imprese), che producevano disoccupazione e quindi riduzione del reddito delle famiglie.

Quel sistema economico tradizionale è entrato in crisi con il capitalismo finanziario, che ha cambiato la natura del sistema economico e della società. Non solo, infatti, la banca e la finanza hanno progressivamente mutato natura, trasformandosi sempre più in speculatori, il cui scopo principale è far profitti (e tanti!), smarrendo così giorno dopo giorno la funzione sociale che la banca e la finanza hanno da sempre svolto, e svolgono ancora. Questo cambiamento ha prodotto anche cose utili, ma ad un costo molto alto: ha reso il sistema economico tremendamente fragile. Il primo economista a preannunciare (eravamo nel 1936) la nuova natura finanziaria del capitalismo e la sua fragilità radicale è stato l'inglese Keynes, che dovremmo tornare a leggere e a meditare.

Le crisi come questa che stiamo vivendo sono quindi la normalità, non l'eccezione, nel nostro capitalismo, soprattutto oggi, poiché la globalizzazione amplifica gli effetti delle crisi. L'instabilità e la fragilità sono solo l'altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai 1000 dollari di reddito di diventare cinque, dieci, cinquantamila, senza alcun rapporto con l'economia reale e con il lavoro umano. Dovremmo abituarci presto alle crisi come questa e ancora più devastanti, e attrezzarci per limitare i danni, fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso, che speriamo sia più a misura di persona e di ambiente.

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pubblicato su Città Nuova n. 19/2008

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Alle corde il capitalismo finanziario

Alle corde il capitalismo finanziario

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 13/2008

Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell'era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane.  Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell’era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane. Una delle grandi idee della modernità è l’affermazione della maturità, dell’autonomia dell’essere umano adulto, non più bisognoso di guide, di paternalismo, cioè di un’entità (Stato, Chiesa) che scelga per lui.

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L’anti-paternalismo è una parola-chiave della cultura moderna e, ancor più, post-moderna. Gli studi scientifici, invece, mostrano sempre più che questo individuo adulto, indipendente, autonomo e maturo è in realtà anche un bambino insicuro, immaturo, incapace di scegliere ciò che preferisce e ciò che contribuisce al suo benessere. Si vede, dati alla mano, che l’uomo moderno consuma troppi beni di comfort e sempre meno beni di creatività: le enormi potenzialità messe a disposizione dalla tecnologia (e sono molte di più di quelle che potessi pensare) vengono sfruttate dal mercato soprattutto proponendo ai consumatori di aumentare il loro comfort. Oggi le scienze ci dicono che staremmo utilizzando la tecnologia a servizio della nostra creatività, mentre invece i meccanismi di mercato ci inducono a preferire beni che aumentano il comfort. Sono meccanismi simili a quelli che si verificano tutte le volte che decidiamo al mattino, in modo autonomo e adulto, di fare una dieta ipocalorica, e poi la sera mangiamo di nascosto il gelato (è il cosiddetto fenomeno dello sconto iperbolico). L’attuale alleanza tra mercato e tecnologia aumenta pigrizia e noia, e di fatto non aumenta, o riduce, il benessere e la felicità dell’homo technologicus. Molti studi hanno infatti messo in luce che la vita buona nell’era tecnologica è assai simile a quella dell’era precedente: richiede relazioni umane profonde, gratuità. Quando la tecnologia si allea con le relazioni tra le persone, essa contribuisce fortemente alla vita buona, e oggi ci sono tante esperienze che vanno in questa direzione, dalla cura degli anziani al tempo libero. I problemi sorgono quando il mondo tecnologico (oggi sempre più virtuale) diventa un sostituto del mondo reale. Scoprendo che oggi circa 700 mila persone al mondo passano la maggior parte della loro giornata in ambienti virtuali tipo Second life, qualcuno potrebbe cominciare a preoccuparsi. La vera sfida è però un’altra: non cedere alla paura di fronte alle innovazioni, ma riempirle di umano, di gratuità, di senso, dando vita ad una nuova alleanza tra civile, economico, politico e tecnologico per una vita buona.

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pubblicato su Città Nuova n. 13/2008

Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell'era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane.  Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell’era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane. Una delle grandi idee della modernità è l’affermazione della maturità, dell’autonomia dell’essere umano adulto, non più bisognoso di guide, di paternalismo, cioè di un’entità (Stato, Chiesa) che scelga per lui.

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Beni di comfort e beni di creatività

Beni di comfort e beni di creatività

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 13/2008 Ho partecipato ad un convegno in Olanda sul tema La vita buona nell'era tecnologica. Uno degli argomenti più ricorrenti era la razionalità o irrazionalità degli esseri umani nelle loro scelte quotidiane.  Ho partecipato ad un convegno in O...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 15/2008

L'attuale crisi del prezzo delle materie prime ci consente di fare alcune riflessioni sul nostro modello di sviluppo. Innanzitutto ci fa vedere su scala globale, e non solo per alcuni Paesi, come era avvenuto nel recente passato (dall'Argentina al Messico), la grande capacità che hanno le speculazioni finanziarie di influenzare la vita quotidiana delle famiglie, un'influenza che quasi sempre è negativa.

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Nessuno nega che la finanza oggi svolga un ruolo indispensabile nelle moderne economie di mercato. Molti dubbi sorgono invece sul ruolo civilizzante delle speculazioni finanziarie soprattutto quando queste si riversano (anche per la crisi dei mutui americani) sulle materie prime, che sono alla base di tutti i prezzi, dal pane alla benzina. Come agisce in questo caso la speculazione? Segue la stessa logica delle navi che rallentano la corsa, i petrolieri che estraggono più lentamente, le compagnie di raffineria che ritardano i lavori, semplicemente perché sanno che se vendono la loro merce una settimana più tardi il prezzo di vendita nel frattempo sarà aumentato.

 La speculazione finanziaria non fa altro che amplificare questa logica opportunistica con l'effetto che oggi paghiamo il petrolio almeno 50 dollari al barile in più rispetto al prezzo che risulterebbe dal normale gioco della domanda e offerta. Siamo in presenza, cioè, di una classica bolla speculativa, che nessuno sa quando esploderà (personalmente, credo presto!).

Che fare? Sono tante le ricette. Qui voglio solo proporre una riflessione. Alcuni pionieri (individui, istituzioni, imprese) tempo fa hanno fatto, per ragioni etiche, scelte economiche controcorrente: consumo etico e sobrio, investimenti in titoli eco-sostenibili, raccolta differenziata, energie alternative, stili di vita vegetariani, ecc. Fino a tempi recenti, tali scelte sembravano soltanto opzioni etiche, non convenienti dal punto di vista economico e da non incentivare su larga scala. L'attuale crisi e, soprattutto, quella che si prospetta stanno rendendo tali scelte etiche anche più convenienti: chi ieri ha fatto propri quegli stili di vita e di consumo etici oggi è avvantaggiato dal punto di vista economico. È accaduto molte volte nel corso dell'evoluzione che un cambiamento ambientale abbia fatto estinguere specie forti e numerose, facendone emergere altre. L'attuale crisi economica e climatica può dunque favorire l'affermarsi di stili di vita e modelli di sviluppo più rispettosi della persona e della natura.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 15/2008

L'attuale crisi del prezzo delle materie prime ci consente di fare alcune riflessioni sul nostro modello di sviluppo. Innanzitutto ci fa vedere su scala globale, e non solo per alcuni Paesi, come era avvenuto nel recente passato (dall'Argentina al Messico), la grande capacità che hanno le speculazioni finanziarie di influenzare la vita quotidiana delle famiglie, un'influenza che quasi sempre è negativa.

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Speculazioni sobrietà e convenienza

Speculazioni sobrietà e convenienza

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 15/2008 L'attuale crisi del prezzo delle materie prime ci consente di fare alcune riflessioni sul nostro modello di sviluppo. Innanzitutto ci fa vedere su scala globale, e non solo per alcuni Paesi, come era avvenuto nel recente passato (dall'Argentina...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 12/2008

Troppo poco si parla del fatto, evidente, che la fame di una parte dell'umanità è un rapporto malato, non una variabile indipendente. Tra la fame dei più poveri e l'iperconsumo del Nord c'è una chiara e forte correlazione. Se vogliamo seriamente cambiare lo scenario attuale caratterizzato da una minoranza opulenta e una maggioranza indigente (non solo di cibo, ma anche di diritti e di libertà), dobbiamo spostare l'attenzione dal piano economico e politico (che pur restano co-essenziali) a quello culturale.

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Chiara Lubich è stata profetica anni fa quando, lanciando l'Economia di Comunione, diceva: Senza una cultura nuova non si fa una economia nuova. Non è un caso se parte degli utili delle imprese EdC vengono utilizzati per la formazione culturale non solo di chi riceve gli aiuti, ma anche, e forse soprattutto, di coloro che donano gli utili. È il cambiamento degli stili di vita la condizione necessaria per una svolta nel problema della fame nel mondo. Un cambiamento anche da parte dei Paesi meno sviluppati economicamente ma, soprattutto, un cambiamento in coloro che vorrebbero aiutare. La prima azione da fare per sconfiggere la fame nel mondo è quindi impostare la vita personale, famigliare, comunitaria, politica, istituzionale in modo sobrio e comunionale, consumare meno e diversamente, premiando esperienze come quelle di commercio equo, imprese davvero responsabili, finanza etica, e non i prodotti ad alto impatto ambientale e civile.

Miseria, fame e crisi ambientale sono troppo legate tra di loro per poterle affrontare distintamente. Nel Libro della Genesi, il grande codice antropologico, non solo religioso, della nostra civiltà, troviamo una indicazione forte a riguardo. Quando Dio affida il giardino ad Adamo ed Eva chiede loro di custodirlo. Quando Caino uccide Abele, davanti alla domanda di Dio: Dov'è tuo fratello?, egli risponde: Sono forse io il custode di mio fratello?. Chi non è capace di custodire il proprio fratello, non è capace di prendersi cura neanche della terra. Ma se non si è custodi si è assassini, non c'è una terza via neutrale. Solo una grande svolta culturale che passi dalla mutua indifferenza del mercato al prendersi cura può avviare a soluzione la grave crisi ambientale, etica e sociale del nostro tempo.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 12/2008

Troppo poco si parla del fatto, evidente, che la fame di una parte dell'umanità è un rapporto malato, non una variabile indipendente. Tra la fame dei più poveri e l'iperconsumo del Nord c'è una chiara e forte correlazione. Se vogliamo seriamente cambiare lo scenario attuale caratterizzato da una minoranza opulenta e una maggioranza indigente (non solo di cibo, ma anche di diritti e di libertà), dobbiamo spostare l'attenzione dal piano economico e politico (che pur restano co-essenziali) a quello culturale.

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Prendersi cura

Prendersi cura

di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n. 12/2008 Troppo poco si parla del fatto, evidente, che la fame di una parte dell'umanità è un rapporto malato, non una variabile indipendente. Tra la fame dei più poveri e l'iperconsumo del Nord c'è una chiara e forte correlazione. Se vogliamo seriament...
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In dialogo

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.3/2008 del 10/02/2008

È sempre più normale incontrare sui voli aerei gatti e cani, nelle apposite gabbie. L’altro giorno ho viaggiato con tre cuccioli di pastore tedesco sistemati nel sedile affianco. Un episodio apparentemente insignificante, che invece rivela due fenomeni importanti della nostra società.

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In una società dove i rapporti famigliari e di vicinato sono sempre più deboli, quando si parte da casa per qualche giorno non sappiamo a chi lasciare il cane, o il pesce rosso. Il mercato si sta attrezzando con una interessante fioritura di hotel per animali, ma non economicamente accessibili a tutti. Anche qui il mercato sostituisce l’amicizia, ma è una sostituzione né perfetta né equa (i più poveri anche qui sono discriminati). Inoltre per affidare animali o per annaffiare piante, la vicinanza fisica è importante. Nel quartiere-comunità di qualche tempo fa, o nei paesi, ai vicini si potevano non solo affidare animali, ma persino i nostri bambini. Nelle nuove amicizie delle moderne città, l’amicizia non è più legata al territorio, e così diventa improbabile chiedere ad un amico che abita a Roma, all’Eur di portare a passeggio un cane sulla Tuscolana. In queste cose la prossimità anche spaziale è essenziale. Il cane ingabbiato sull’aereo è dunque un segnale di una società di persone sempre più sole e lontane. C’è poi un secondo aspetto, legato al primo. In un mondo dove facciamo fatica a coltivare rapporti profondi con gli altri esseri umani, abbiamo bisogno di trovare dei sostituti. Gli animali allora ci offrono compagnia e attenzione, e sono molto più docili e obbedienti delle persone. Mentre scrivo questa nota in treno ho di fronte due signore che si stanno raccontando come nutrono i rispettivi cani, e non riesco a nascondere un certo malessere nel sentire che il cibo principale di questi cani post-moderni è carne in scatola o macinata di prima qualità (non per cani ma per umani). Un dato colpisce. Oggi la spesa annua mondiale stimata solo per il cibo di cani e gatti è di circa un miliardo e mezzo di euro, una cifra maggiore di quella che secondo l’Aifo sarebbe necessaria per arrestare il contagio della lebbra in tutta l’Africa. Sono cresciuto in campagna in una famiglia popolata di animali e da molti cani, ma i miei genitori mi hanno bene insegnato la differenza che c’è tra un cane e un uomo. Gli animali sono abitanti meravigliosi ed essenziali della nostra stessa terra, ma non sono amici, perché l’amicizia richiede uguaglianza e reciprocità, dimensioni che solo un altro essere umano può darci. Esseri umani che saranno più problematici di cani e gatti, ma senza questa amicizia la vita si intristisce e si impoverisce molto.

 

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di Luigino Bruni

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I cagnolini e la lebbra

I cagnolini e la lebbra

In dialogo di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.3/2008 del 10/02/2008 È sempre più normale incontrare sui voli aerei gatti e cani, nelle apposite gabbie. L’altro giorno ho viaggiato con tre cuccioli di pastore tedesco sistemati nel sedile affianco. Un episodio apparentemente insignificant...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, N.19/2006

Il polo è una componente essenziale dell’Economia di Comunione: senza i poli, non è sé stessa. Quando Chiara Lubich ha immaginato e lanciato l’Economia di Comunione, l’ha vista, in quella fine di maggio 1991, localizzata in poli produttivi nei pressi delle cittadelle del Movimento dei focolari. La normalità dell’Economia di Comunione è quindi il suo prender forma e svilupparsi nei poli che completano la cittadella. Quindi il polo è nel Dna stesso di questo progetto. Finché in una nazione non nasce un relativo polo, il movimento dell’Economia di Comunione non ha ancora raggiunto la sua normalità. Ma perché il polo è così importante nell’economia dell’Economia di Comunione?

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Innanzitutto ci dice che la nuova economia che sta nascendo dal carisma dell’unità va vista dentro una città nuova. L’economia di comunione non è né contro né fuori la dinamica civile, ma ne è parte integrante. Come l’Economia di Comunione non è completa senza i poli, così le cittadelle non sono complete senza il polo, perché dire vita civile è anche dire da subito vita economica. Ecco perché il polo, sebbene sia distinto dalla cittadella, non è una zona industriale da tenere lontana per timore che le relazioni economiche contaminino la convivenza civile. Il polo è invece un pezzo di città, è amico della città. In secondo luogo, il polo è essenziale perché esprime una economia popolare e fraterna. Il proprietario del polo è una comunità (in Italia oltre seimila), che crede e sente suo questo nuovo modo di fare economia. Non abbiamo il grande filantropo o imprenditore umanitario che dà vita ad una economia sociale, ma un popolo composto da lavoratori, studenti, casalinghe, pensionati… che esprime la propria visione della vita anche rischiando i propri risparmi e il proprio tempo per una economia più giusta e solidale: uno slogan con cui Chiara accompagnò il lancio dell’Economia di Comunione fu in effetti così formulato: Siamo poveri ma tanti. Infine il polo, una volta nato, diventa il cuore pulsante dell’intero movimento dell’Economia di Comunione: le imprese ad esso collegate, gli studiosi, i tanti cittadini che credono in questo nuovo stile di agire economico, insieme a tutti coloro che si impegnano per una economia più civile e umana, una economia che mostri un modello di società senza bisognosi. Per questa ragione sentiamo che l’espressione polo industriale o polo imprenditoriale non dice tutto dell’Economia di Comunione: i suoi attori non sono solo gli industriali o gli imprenditori, ma è una comunità aperta che intraprende una sfida che va ben al di là della sola dimensione d’impresa. Per queste ragioni, quando in una nazione nasce il polo, la realtà dell’Economia di Comunione fa un salto, giunge a maturità, va a regime, e possiamo davvero iniziare a intravedere una speranza concreta per la nostra economia e la nostra società.

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Il bisogno di poli

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