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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 11/11/2024
Le parabole evangeliche sono piene di ispirazioni anche per la vita economica e civile. Pensiamo alla bellissima parabola del Figliol prodigo (o del Padre misericordioso). Luca ci presenta un padre e due figli, un maggiore e un minore. Un uomo benestante, un’azienda famigliare, forse agricola. Il figlio più giovane non vuole continuare il progetto paterno. Lascia, e chiede al padre la sua «parte di eredità». Il padre poteva non dargliela, perché la tradizione ebraica non consentiva a un figlio di chiedere l’eredità con il padre ancora in vita, e perché in quelle culture antiche il padre era il padrone di tutto. E invece lo lascia andar via, con parte del patrimonio di casa. Fa diventare i beni di famiglia patrimonio, cioè il dono (munus) del padre.
[fulltext] =>Questo primo atto è decisivo, è questa libertà donata al figlio il suo primo gesto misericordioso. Perché i figli non devono sentirsi condannati a continuare «l’impero» dei genitori o nonni. Possono farlo, ma non devono. E invece i ricatti impliciti, le aspettative sono spesso dei lacci che bloccano figli e figlie, e impediscono loro di spiccare un volo libero. Il destino dei figli non deve essere determinato da quello dei padri. E, se accade, siamo dentro una forma di incesto, dove i genitori si mangiano il futuro libero dei figli. Quel padre genera il figlio più giovane alla vita adulta e quindi alla libertà.
Il figliol, nella parabola, fa un uso sbagliato dei beni ereditati. Anche questo fa parte del rischio della paternità. Non c’è paternità senza la possibilità che i figli si perdano inseguendo la loro vita e la loro libertà. Perché se non diamo loro la possibilità di diventare peggiori di noi, non saranno mai nemmeno migliori di noi, perché mancherebbe quella libertà vera, essenziale per diventare persone autentiche e belle. Il fallimento possibile è l’altra faccia della libertà. E invece troppe volte le imprese famigliari falliscono perché i genitori mettono sulle spalle dei figli pesi troppo pesanti, e un giorno il progetto esplode sotto quel peso che cresce sempre più; se, invece, avessero venduto l’azienda, questa sarebbe cresciuta in altri terreni e avrebbe portato nuovi frutti. La castità dei fondatori è essenziale per far sopravvivere ogni impresa.
Infine, nella parabola di Luca non si parla della madre. Non viene menzionata, e con lei è assente nella storia qualsiasi sguardo femminile. Se ci fosse stata una madre, la storia sarebbe stata certamente diversa. Intanto avremmo visto che mentre il padre dialogava col figlio più piccolo sull’eredità, la madre gli stava già preparando una borsa con dentro una tunica, una coperta, dei sandali e certamente del cibo – le madri non lasciano mai partire un figlio giovane senza un po’ di cibo buono –. E poi avrà fatto di tutto per sapere dove era finito e come stava, e non avendo notizie lo avrebbe atteso ogni giorno, come e diversamente da suo marito. E il giorno del ritorno non avrebbe partecipato al banchetto col vitello grasso (perché le donne non erano invitate), ma avrebbe dedicato tutto il tempo a preparare il figlio maggiore ad accogliere e a non giudicare il fratello, e poi sarebbe andata nel tempio o in un altare a ringraziare Dio per quel ritorno tanto desiderato. E dopo aver abbracciato il figlio, dopo averlo rimproverato per tutto quel silenzio (le madri sanno rimproverare diversamente i figli), avrebbe pianto molto. E poi lo avrebbe amato ancora di più, perché sapeva che quel figlio più fragile poteva ripartire in ogni momento per altri porcili, perché le donne sanno che non basta un banchetto per curare ferite profonde. E avrebbe continuato a pregare, ad amare, a sperare per tutto il resto della vita.
Credit Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 02/10/2024
La felicità è la grande promessa della nuova economia di mercato. Ieri ci prometteva il benessere, oggi la felicità. Ce la promette in molti modi, per ultimo con l’intelligenza artificiale che, finalmente, facendo meglio di noi tutto ciò che non ci piace e nuove cose che non facciamo ancora, ci donerà la perfetta felicità. Una felicità che ha a che fare con l’avere, con il comfort, con la libertà di scelta, con la crescita, con il «di più», e spesso confina con il divertimento e con il piacere. Alcune di queste felicità commerciali sono anche buone, ci piacciono e magari ci fanno anche un po’ bene.
[fulltext] =>Ma dopo queste felicità e questi piaceri, c’è qualcos’altro, di diverso e di molto più importante. È la gioia di vivere. L’ho riscoperta questa estate, quando ho accompagnato mia madre e mia zia per pochi giorni al mare. Le colazioni lente in loro compagnia, le brevi passeggiate, i pochi momenti in spiaggia, lo stupore di fronte a una rosa fiorita fuori stagione, soprattutto le loro parole, mi hanno fatto riscoprire la gioia di vivere. Tutti la conosciamo, o almeno la conoscevamo, la conoscevano le generazioni passate, ed era la vera consolazione dei poveri nelle grandi angustie della vita.
Non è legata al «di più» ma al «di meno», più al piccolo che al grande, non ha nulla a che fare col comfort, ancor meno con la ricchezza. È quella letizia che si accende improvvisamente, senza averla né cercata né attesa. Arriva, accade, semplicemente. Mentre guardi il mare, un bambino, un gabbiano che si allinea perfettamente con gli altri sulla linea dell’orizzonte dopo gli scogli e mia madre dice: «Come faranno? Eppure non sanno misurare le distanze!».
Si accende mentre durante la cena nel piccolo hotel di pensionati di settembre arriva un suonatore di organetto, intona canzoni antiche, e tutti si mettono insieme a cantare, a battere le mani, e qualcuno accenna un passo di danza. Una gioia di vivere che nasce solo dalla vita, che attinge soltanto dall’essere vivi, che non ha bisogno di null’altro che della vita. E poi si va a dormire felici di essere al mondo, con la gioia di chi sa, spera, di alzarsi domani solo per continuare la vita. Quella gioia che entra nelle case di anziani rimasti soli ma che sanno apparecchiare la tavola con la stessa cura di quando i pranzi erano pieni di gente e di vita; e mentre consumano, da soli, quel pasto curato, affiora nel cuore una dolcezza diversa, che ha qualcosa della nostalgia buona di ieri eppure è tutta presente e futuro.
La Provvidenza ha messo questa risorsa tra quelle essenziali per vivere. L’ha nascosta però nelle cose piccole, piccolissime, quasi invisibili se corriamo troppo. E forse per questa ragione i poveri e i puri di cuore riescono a coglierla, forse soltanto loro. È parte del paesaggio di quel Regno dei cieli dove abitano tutti i poveri e i puri di cuore, a volte senza saperlo. Qualche volta arriva dopo grandi dolori, depressioni, lutti, e il suo arrivo è la sentinella che ci annuncia che l’aurora sta giungendo. Come nell’ultima scena della Cabiria di Fellini, dove quel sorriso finale è la fine delle sue notti disperate. È grazia, solo grazia, tutto dono. Possiamo comprare alcune felicità: la gioia di vivere no, è gratuità pura, ed è la più bella. Qualche altra volta arriva durante una preghiera diversa, e fiorisce da lacrime di dolore che si trasformano in lacrime di gioia. Arriva spesso, quasi ogni giorno. Siamo noi che dobbiamo imparare a riconoscerla, a farle spazio, a farla entrare nella cella vinaria del cuore. E lì far festa, battere le mani e, se ci riusciamo, accennare anche un passo di danza.
Credit Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/09/2024
La felicità è troppo poco. Sembra una frase, questa, totalmente stonata in un tempo come il nostro, che ha fatto della felicità l’ideale più grande, a volte unico, della vita. Cercare la propria felicità, o la propria realizzazione, è diventato un imperativo etico, e chi prova, come faccio anche io da anni, a metterlo in discussione, appare bizzarro o magari depresso. «Cerca di essere finalmente felice…» è diventata così una delle frasi più sentite e che sembrano pure convincenti. Ma, in realtà, le cose sono più complicate. Innanzitutto, non è vero che la felicità è una realtà nuova. I greci, pensiamo ad Aristotele, l’avevano messa al centro del loro umanesimo, perché per quei filosofi antichi non c’era nulla di più degno e nobile della felicità (eudaimonia), definito il fine ultimo, il bene perfetto oltre il quale non vi era nulla che valesse.
[fulltext] =>Il cristianesimo ha complicato parecchio il discorso, e prima ancora lo aveva fatto la Bibbia. Tanto che felicità, nel senso greco, non è parola biblica: nella Bibbia troviamo molti sinonimi, da letizia a gioia a beatitudine, parole simili ma anche molto diverse. Nell’Antico Testamento l’obiettivo ultimo della vita, ciò che era più nobile e degno, infatti, non era essere felici quanto piuttosto essere giusti e buoni. Ciò che davvero conta è condurre una vita giusta. Noè è definito un «giusto», così anche i Patriarchi e, nel Nuovo Testamento, anche Giuseppe, lo sposo di Maria, è chiamato «uomo giusto». Una vita che funziona è poi, sempre secondo la Bibbia, una vita che genera, che genera figli e nipoti. La terra promessa da raggiungere è quella dove abiteranno molti figli e molti figli e figlie dei figli. La civiltà romana non la pensava poi molto diversamente. Quando scelsero la «pubblica felicità» come motto della repubblica, quegli antichi nostri avi la rappresentarono, nelle monete ad esempio, attraverso bambini con in mano frutta e uva, come a dire che la felicità è portare vita e frutti. E la stessa parola felicitas aveva la medesima radice (fe) di fe-tus, fe-cundus, fe-mina, perché quella felicità era profondamente legata alla generatività.
Fino a poco tempo fa, se avessi chiesto a mio nonno o a mio padre: «Sei felice?», non avrebbero capito neanche la domanda, perché per loro era molto più importante la felicità dei figli e dei nipoti che la loro, e la qualità della loro vita si misurava su indicatori diversi da quelli della felicità. Non deve allora stupirci che nella felicità del nostro tempo i bambini sono usciti di scena. Mi ha colpito una pubblicità di una catena di appartamenti per vacanze, centrata sul messaggio che non è bene andare in vacanza in hotel dove ci sono molti bambini, perché averli attorno riduce la nostra felicità. Concetto bizzarro, che si è formato nel giro di una sola generazione (stolta).
È vero che la versione cattolica del cristianesimo nell’età moderna ha sottolineato troppo una religione del dolore, delle penitenze e della «valle di lacrime», dando vita a una cultura dove ci si doveva vergognare della felicità, per non parlare dei piaceri del corpo e dei sensi. E così, come contro-reazione, a un certo punto abbiamo scoperto la felicità, ce ne siamo inebriati, dimenticandone gli inganni. Tra questi, il principale è tanto importante quanto semplice: la felicità arriva quando non ci pensi troppo, perché chi fa della felicità lo scopo della vita trova solo tristezze e frustrazione. Quindi pensiamo, ogni tanto, alla felicità, ma soprattutto pensiamo alla verità, alla bontà e alla giustizia della vita, nostra e di quella degli altri. Siamo più grandi della nostra felicità.
Credit Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 12/07/2024
Il primo a usare la metafora economica nel Nuovo Testamento fu san Paolo che, nella Prima lettera ai Corinzi, utilizza addirittura la parola prezzo: «Siete stati comprati a caro prezzo» (7,23). Poiché Paolo è un gigante della teologia cristiana, molti teologi da allora in poi pensarono che non si potesse parlare di teologia senza usare la metafora del «prezzo della salvezza». San Paolo, però, nelle sue lettere usa anche altre metafore, tra cui quella sportiva (cfr. 1Cor 9,24-26). Eppure nessun teologo del passato e del presente ha mai pensato che tale metafora fosse necessaria per spiegare la teologia cristiana. Invece, dalla metafora economica è discesa una vera e propria «economia della salvezza», che giustificherebbe l’esistenza di una specie di contratto con prezzi da pagare e da riscuotere, e vedrebbe Gesù come un «divin mercante». Dimenticando che le metafore bibliche sono sempre aurora di discorso, punti di partenza. L’altra metà del ragionamento deve restare non detta: solo le metafore parziali lasciano uno spazio libero tra il mistero di Dio e le nostre idee teologiche su di lui.
[fulltext] =>Sono convinto che l’uso del linguaggio economico da parte della teologia abbia fatto male alla teologia e all’economia. Non ha aiutato a capire che cosa sia l’economia e nemmeno a capire il cuore del mistero cristiano, costruito tutto sulla gratuità-charis. L’uso del linguaggio economico per spiegare la fede cristiana ha, infatti, portato alla teologia della prosperità (e quindi alla legittimazione teologica della meritocrazia che sta generando la colpevolizzazione del povero). E ha pure creato una esaltazione del sacrificio, che si è molto radicata nella cultura cattolica. Come reazione a Lutero, che fece una battaglia campale contro l’idea della Messa come sacrificio («La Messa è il contrario di un sacrificio»: Lutero, Opere Complete), il sacrificio divenne, infatti, una colonna della teologia cattolica, della sua liturgia e della pietà. La croce di Cristo divenne una lode e una sacralizzazione delle nostri croci: «Le croci vengono da Dio. Le croci sono necessarie perché Dio ha stabilito così. I veri penitenti sono sempre crocifissi». (D. Gaspero Olmi, Quaresimale per le monache, 1885). L’offerta dei nostri dolori a Dio divenne così, nell’era della Controriforma, l’economia più fiorente nei Paesi latini – mentre al Nord si sviluppavano commerci e imprese – alimentata da una proliferazione delle penitenze, soprattutto nei monasteri femminili, dove le sofferenze cercate come forma di amore a Cristo divennero moneta di un nuovo commercio tra terra e Purgatorio.
Ma se leggiamo serenamente il Vangelo, ci sorge subito una domanda: come siamo stati capaci di credere che il Dio-amore di Gesù fosse un «consumatore di dolori umani», che le primizie che più gradiva fossero le nostre sofferenze? Anche perché la Bibbia ci aveva insegnato bene che le divinità che amano il sangue dei figli si chiamano idoli. Il Dio biblico, il Dio di Gesù, non è un idolo, perché non vuole aumentare il dolore dei suoi figli e figlie, ma ridurlo: «Misericordia voglio, non sacrificio», ci ripetono Osea e Gesù. Il Dio biblico non ama i sacrifici, perché ci ama e fa di tutto per toglierci dalle croci. Sacrificio è parola ambivalente anche nei rapporti umani – è pericoloso leggere l’amore come disponibilità a sacrificarsi per l’altro – ed è ancora più pericoloso quando viene utilizzata per intendere il rapporto tra noi e Dio. Se vogliamo riavvicinare lo spirito moderno al messaggio di vita di Gesù, dobbiamo operare una purificazione del linguaggio teologico, iniziando da quello economico e commerciale.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 12/07/2024
Il primo a usare la metafora economica nel Nuovo Testamento fu san Paolo che, nella Prima lettera ai Corinzi, utilizza addirittura la parola prezzo: «Siete stati comprati a caro prezzo» (7,23). Poiché Paolo è un gigante della teologia cristiana, molti teologi da allora in poi pensarono che non si potesse parlare di teologia senza usare la metafora del «prezzo della salvezza». San Paolo, però, nelle sue lettere usa anche altre metafore, tra cui quella sportiva (cfr. 1Cor 9,24-26). Eppure nessun teologo del passato e del presente ha mai pensato che tale metafora fosse necessaria per spiegare la teologia cristiana. Invece, dalla metafora economica è discesa una vera e propria «economia della salvezza», che giustificherebbe l’esistenza di una specie di contratto con prezzi da pagare e da riscuotere, e vedrebbe Gesù come un «divin mercante». Dimenticando che le metafore bibliche sono sempre aurora di discorso, punti di partenza. L’altra metà del ragionamento deve restare non detta: solo le metafore parziali lasciano uno spazio libero tra il mistero di Dio e le nostre idee teologiche su di lui.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 10/06/2024
«In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito». Questa è una celebre frase dell’Introduzione di Fontamara di Ignazio Silone, uno dei romanzi più belli e importanti del Novecento italiano. «Cafone» è una parola che Silone usava in un significato diverso da quello comune. Era il nome dei contadini della piana del Fucino e, in generale, un nome con cui lo scrittore indicava gli oppressi e i dimenticati della terra. Una parola di dolore, certo, ma mai usata da Silone in senso dispregiativo, in modo da suscitare vergogna. E invece il dolore è ancora oggi causa di vergogna, soprattutto nei poveri. La mia famiglia ha conosciuto la povertà. L’hanno conosciuta i miei nonni, e la sua eco viva è giunta fino a me. Da questa eco nascono le mie parole sulla povertà, sull’economia, sulla teologia.
[fulltext] =>La teologia cattolica dei secoli passati (quella della Controriforma) non ha aiutato i poveri. Il Vangelo li ha aiutati, qualche volta anche la Chiesa. Ma chi davvero ha aiutato i poveri è stata la pietà popolare: quelle statue della Madonna e dei santi, che per i poveri, per le donne soprattutto, erano le uniche compagne di sventura (santi martiri, madonne addolorate …) alle quali potevano rivolgersi nella certezza di essere capiti veramente. Ma la teologia non li ha aiutati, ha solo reso la loro vita peggiore. L’idea non evangelica di un Dio che gradiva la sofferenza umana in vista del paradiso, di un Dio-Padre che aveva addirittura voluto la crocifissione del figlio per salvare noi (salvarci da cosa?). I poveri facevano invece di tutto per schiodare i loro figli dalle croci, e hanno così partorito nel loro cuore un altro Dio, quello della pietà. La pietà popolare è stata un immenso esercizio collettivo di sovversione, soprattutto di donne. Fu, a modo suo, un meraviglioso inno alla vita, la risposta popolare alle idee teologiche sbagliate. La pietà popolare – quella dei pellegrinaggi, delle processioni, delle preghiere latine reinventate… – fu la Contro-Controriforma popolare; fu la risposta, rivoluzionaria e mite, delle donne alla religione dei teologi e del loro dio immaginato.
La povera gente i libri di preghiere non li sapeva leggere, né aveva i soldi per comprarli. E così, per uno scacco matto della Provvidenza, che sta sempre dalla parte dei poveri, la gente del popolo, le donne soprattutto, furono protette dal loro analfabetismo. La pietà popolare fu un grande luogo di libertà femminile, in un mondo che restava per loro un’esperienza di servitù. In Chiesa facevano finta di rispondere alle giaculatorie latine dei preti, ma dalla loro bocca uscivano, sussurrate, parole diverse. E, soprattutto, piangevano. Pregavano con le lacrime e con i baci e con le mani: preghiere mute meravigliose, mani nodose e consumate che però sapevano fare carezze stupende e baciare le statue dei santi, della Madonna, degli angeli e dei bambinelli. Carezze e baci che a casa quelle donne non ricevevano mai da nessuno, in chiesa li donavano all’infinito a Cristo e ai santi, e ci hanno salvati veramente. La fede cattolica è ancora viva, anche se molto malata, grazie a queste donne che l’hanno umanizzata con la loro pietà, che l’hanno salvata con la loro trasgressione: «Nella vita cristiana la pietà coincide non tanto con l’ascetica né con la mistica, neanche con la devozione o con le devozioni: coincide con la “Carità”, che è l’Archivio dell’amore di Dio» (don Giuseppe de Luca).
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 10/06/2024
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 04/05/2024
Leadership è diventata parola sacra della nuova religione del capitalismo. La si invoca ovunque. Anche gli ambienti ecclesiali – dove si incontrano corsi sulla leadership di Gesù, di san Benedetto e persino di san Francesco – ne sono ammaliati. Nonostante il fondatore del Cristianesimo abbia detto: «Non vi fate chiamare guide (cioè leader), perché una sola è la vostra guida» (Mt 23,10), e poi costruito tutto l’umanesimo cristiano attorno al concetto di sequela, che è l’esatto opposto della leadership. E invece, pur moltiplicandosi gli aggettivi (inclusiva, gentile, comunitaria …), il sostantivo, leadership, non viene mai messo in discussione.
[fulltext] =>Le ragioni dell’affermarsi di questo nuovo dogma sono molte, ma alla radice c’è una nuova grande fragilità relazionale ed emotiva di lavoratori e dirigenti, in un mondo che ha disimparato come si lavora insieme. E così, da una parte, critichiamo il patriarcato e tutto l’umanesimo di quel mondo gerarchico, e poi, dall’altra, edifichiamo una cultura della leadership che, sotto molti aspetti, è più patriarcale del patriarcato (è impressionante come il movimento femminista non si sia ancora accorto di quanto maschilismo sia incorporato nell’idea di leadership).
Un preoccupante fenomeno recente, poi, che dice la direzione che questo nuovo umanesimo del business sta prendendo, ha a che fare con il mondo della scuola. Mi hanno colpito i racconti di due colleghe riguardo ai colloqui avuti con gli insegnanti dei loro figli e figlie. Quei docenti hanno ripetuto, con parole simili, uno stesso concetto: «Sua figlia, suo figlio, ha tutte le caratteristiche per diventare una leader della classe, ma non siamo sicuri che ce la faccia, perché ce ne sono altre e altri con cui compete: dovete aiutarla a casa a rafforzare le sue doti di leader».
Questi ragionamenti pensavo si limitassero all’ambiente universitario e invece i colloqui riportati si riferiscono alla scuola secondaria, dove la mentalità aziendale sta entrando pesantemente (forse tra poco arriverà anche nelle scuole primarie). Il cambiamento, infelice, del nome del ministero dell’Istruzione (divenuto pure «del merito») aveva già segnalato un cambiamento di cultura educativa nel Paese, perché la meritocrazia e la leadership sono due facce della stessa medaglia: il leader è diverso dal vecchio «dirigente» o «capoufficio», anche perché si merita la sequela dei suoi «dipendenti», diventati «followers» (attenti al linguaggio dei social su questo ).
Ma se la scuola inizia a distinguere e a dividere gli studenti in leader e follower, mina alle sue fondamenta uno dei pilastri dell’educazione dei bambini e dei giovani: la riduzione in classe delle diseguaglianze naturali e sociali per creare quella comune cittadinanza essenziale a ogni patto sociale. A scuola i giovani dovrebbero imparare a essere compagne e compagni di tutti, perché la fraternità civile inizia nelle aule scolastiche. Esistono già meccanismi per differenziare «i meriti» scolastici, che si chiamano giudizi e voti, e tutti in classe sanno chi sono i compagni più bravi e quelli che lo sono meno o che sono più bravi in altre discipline. Se invece a queste diseguaglianze inevitabili di talenti e di opportunità iniziamo ad aggiungere le doti di leadership che avrebbero solo alcuni, le diseguaglianze cresceranno sempre di più fino a distruggere la convivenza civile.
L’aspetto più deleterio di questa ideologia-religione del business è il suo presentarsi come innocua, e quindi accettata senza colpo ferire da insegnanti e famiglie. C’è bisogno di una nuova attenzione da parte di tutti su che cosa sta accadendo nel mondo della scuola.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 04/05/2024
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/04/2024
L’economia antica pensava che la ricchezza fosse legata al possesso di capitali. Palazzi, miniere, e soprattutto oro, erano considerati la vera ricchezza di famiglie, città o Stati. Quindi, la politica economica aveva un’unica indicazione: aumentare l’oro nei forzieri, e fare di tutto per farne uscire il meno possibile. A metà Settecento, poi, la scuola francese della «Fisiocrazia» operò un cambiamento radicale, dicendoci che la ricchezza più importante era invece un’altra: il flusso annuale di reddito che i capitali generano. E nacque il concetto del Pil, il prodotto interno lordo, che poi diventerà operativo solo con l’inizio del XX secolo e con lo sviluppo delle tecniche di contabilità nazionale.
[fulltext] =>Con la nascita dell’economia moderna iniziammo così a misurare i flussi, non più gli stock o i capitali. Si sapeva che i flussi, che il reddito, nascevano da capitali di varia natura – finanziari, umani, sociali… – ma restavano sullo sfondo della teoria economica e quindi delle misurazioni. E così, giorno dopo giorno, i capitali non più visti dalla teoria economica e dalla politica iniziarono a deteriorarsi. Li abbiamo consumati, anche perché all’inizio dello sviluppo economico capitalistico erano molto abbondanti (soprattutto quelli ambientali e quelli comunitari), e quindi il loro stock sembrava essere quasi infinito. Solo alla fine del II millennio abbiamo iniziato a prendere coscienza che quei capitali stavano davvero finendo.
Il primo capitale del quale (quasi) tutti vediamo il grave deterioramento è quello ambientale. La terra, usata come risorsa da estrarre senza reciprocità, sta levando il suo grido, raccolto da una ragazza (Greta) e da un vecchio (Francesco), ma molto meno dal mondo dell’economia e dalla politica. Il mercato, fondato sul mutuo vantaggio, non ha incluso in questa mutualità di vantaggi anche il vantaggio della terra, degli animali e delle altre specie dentro i calcoli dei costi e benefici, e la reciprocità intra-umana è cresciuta a spese della vita non umana, una scelta non etica e pure miope e stupida da più punti di vista.
Quello naturale non è però il solo capitale in via di estinzione. Un altro «stock» che il capitalismo sta consumando è quello civile e spirituale, fatto di virtù civili e di capacità di stare al mondo. Sono state le imprese a rendersene conto per prime, in base alla loro vocazione a speculare – da specula, il luogo dove ci si pone per vedere più lontano –. I giovani lavoratori arrivano nelle imprese sempre meno equipaggiati con quel capitale etico fatto di resilienza emotiva, di capacità di gestire conflitti, di cooperare, perché tutte queste abilità erano state gestite dentro codici etici e narrativi che nel Novecento si sono quasi esauriti. Ecco allora, da una parte, il disagio dei giovani lavoratori a inserirsi dentro le nostre organizzazioni produttive – di cui è segno il fenomeno, serio, delle «grandi dimissioni» di milioni di lavoratori dopo il covid –; e, dall’altra, la preoccupante proliferazione di una foresta di consulenti (coach, counselor, psicologi del lavoro, manager del benessere, e così via) che dovrebbero creare in house quelle virtù e capacità dei lavoratori che non arrivano più dall’esterno (famiglia, chiese, comunità…).
Che cosa fare? Intanto parlarne di più. Poi iniziare a misurare i capitali, non solo il Pil, che aumenta con le guerre, con l’azzardo e con il malessere della gente. Lanciare una stagione di nuovi misuratori «in conto capitale» che monitorino lo stato di salute di quel che resta del clima e delle virtù civili, dell’etica pubblica, del patrimonio morale e spirituale che hanno generato i miracoli economici e civili del Novecento.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/04/2024
L’economia antica pensava che la ricchezza fosse legata al possesso di capitali. Palazzi, miniere, e soprattutto oro, erano considerati la vera ricchezza di famiglie, città o Stati. Quindi, la politica economica aveva un’unica indicazione: aumentare l’oro nei forzieri, e fare di tutto per farne uscire il meno possibile. A metà Settecento, poi, la scuola francese della «Fisiocrazia» operò un cambiamento radicale, dicendoci che la ricchezza più importante era invece un’altra: il flusso annuale di reddito che i capitali generano. E nacque il concetto del Pil, il prodotto interno lordo, che poi diventerà operativo solo con l’inizio del XX secolo e con lo sviluppo delle tecniche di contabilità nazionale.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/03/2024
Le proteste degli agricoltori con i loro trattori ci possono dire molte cose, non tutte sempre sottolineate dal dibattito pubblico. Abbiamo sottovalutato la dimensione conflittuale della transizione ecologica. Anche nei confronti del pianeta e della terra, i molti danni che abbiamo fatto nell’ultimo secolo non scompaiono da soli. Richiedono molto lavoro, serietà, impegno, costi e qualche volta generano nuovi conflitti. Si stanno intravvedendo nuove «lotte di classe», diverse da quelle di ieri, ma non meno importanti e preoccupanti. La terra è sempre stata sottovalutata dall’economia e dalla politica. Da quando l’economia moderna tra il Seicento e il Settecento iniziò a pensarsi come scienza, non ha mai pensato che il mondo vegetale, né quello biologico, potessero offrirle strumenti e categorie per pensare le interazioni economiche. Poi, a fine Ottocento, la terra uscì completamente di scena generando, appunto, una eclisse della terra nella scienza economica che è durata fino a pochi anni fa, quando l’esplosione della crisi ambientale globale l’ha fatta terminare traumaticamente. Così abbiamo dato vita a una teoria e una prassi economiche incapaci di vedere la terra e le sue esigenze, e l’abbiamo deteriorata.
La distrazione generale dell’economia e della politica nei confronti della terra ha dunque radici antiche e profonde. La Chiesa cattolica, invece, aveva mostrato nei secoli passati una grande attenzione alla terra e agli agricoltori. Benedetto XIII, Vincenzo Maria Orsini (1649-1730), di Gravina di Puglia, era chiamato «l’agricoltore di Dio» per la sua instancabile opera di promozione dei cosiddetti «monti frumentari», delle vere e proprie banche del grano dove la «moneta» era il frumento: si prendevano prestiti in grano, che poi si restituivano in grano. Nel 1861 nel solo Sud Italia e nelle Isole esistevano più di mille monti frumentari (in Sardegna oltre trecento), nati prima dai frati cappuccini e poi da molti vescovi. Un vero patrimonio civile ed economico, disperso anche dalle scelte sbagliate del nuovo governo unitario. In quei difficili secoli di Controriforma, la Chiesa seppe capire dove si trovavano i bisogni veri della gente delle campagne, e fece opere innovative.
Colpisce che oggi questo ultimo conflitto dei coltivatori sia emerso tra le esigenze di una terra ferita e coloro che vivono dei frutti della stessa terra. Un rapporto predatorio con la terra l’ha deteriorata e impoverita. Questo impoverimento ha reso la vita più dura ai contadini e agli agricoltori che avevano contribuito solo in piccola parte ai danni, dovuti soprattutto all’industria e al consumo di massa. Ma oggi sono proprio i contadini che coltivano questa terra malata a essere chiamati a cambiare (a loro spese) le tecniche di produzione per non continuare a impoverire la terra sfinita. Ed ecco un paradossale conflitto tra vittime di ieri e potenziali carnefici di domani, i custodi della terra che si sentono trattati come i suoi assassini. E non ci stanno. E noi li capiamo. Dobbiamo ritrovare tutti insieme un nuovo rapporto con la terra. L’abbiamo usata per estrarre le nostre risorse, senza capire che aveva bisogno della nostra reciprocità. Non siamo stati custodi, siamo stati predatori. Ascoltiamo il grido dei coltivatori, e cambiamo tutti e presto i nostri stili di vita.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/03/2024
Le proteste degli agricoltori con i loro trattori ci possono dire molte cose, non tutte sempre sottolineate dal dibattito pubblico. Abbiamo sottovalutato la dimensione conflittuale della transizione ecologica. Anche nei confronti del pianeta e della terra, i molti danni che abbiamo fatto nell’ultimo secolo non scompaiono da soli. Richiedono molto lavoro, serietà, impegno, costi e qualche volta generano nuovi conflitti. Si stanno intravvedendo nuove «lotte di classe», diverse da quelle di ieri, ma non meno importanti e preoccupanti. La terra è sempre stata sottovalutata dall’economia e dalla politica. Da quando l’economia moderna tra il Seicento e il Settecento iniziò a pensarsi come scienza, non ha mai pensato che il mondo vegetale, né quello biologico, potessero offrirle strumenti e categorie per pensare le interazioni economiche. Poi, a fine Ottocento, la terra uscì completamente di scena generando, appunto, una eclisse della terra nella scienza economica che è durata fino a pochi anni fa, quando l’esplosione della crisi ambientale globale l’ha fatta terminare traumaticamente. Così abbiamo dato vita a una teoria e una prassi economiche incapaci di vedere la terra e le sue esigenze, e l’abbiamo deteriorata.
La distrazione generale dell’economia e della politica nei confronti della terra ha dunque radici antiche e profonde. La Chiesa cattolica, invece, aveva mostrato nei secoli passati una grande attenzione alla terra e agli agricoltori. Benedetto XIII, Vincenzo Maria Orsini (1649-1730), di Gravina di Puglia, era chiamato «l’agricoltore di Dio» per la sua instancabile opera di promozione dei cosiddetti «monti frumentari», delle vere e proprie banche del grano dove la «moneta» era il frumento: si prendevano prestiti in grano, che poi si restituivano in grano. Nel 1861 nel solo Sud Italia e nelle Isole esistevano più di mille monti frumentari (in Sardegna oltre trecento), nati prima dai frati cappuccini e poi da molti vescovi. Un vero patrimonio civile ed economico, disperso anche dalle scelte sbagliate del nuovo governo unitario. In quei difficili secoli di Controriforma, la Chiesa seppe capire dove si trovavano i bisogni veri della gente delle campagne, e fece opere innovative.
Colpisce che oggi questo ultimo conflitto dei coltivatori sia emerso tra le esigenze di una terra ferita e coloro che vivono dei frutti della stessa terra. Un rapporto predatorio con la terra l’ha deteriorata e impoverita. Questo impoverimento ha reso la vita più dura ai contadini e agli agricoltori che avevano contribuito solo in piccola parte ai danni, dovuti soprattutto all’industria e al consumo di massa. Ma oggi sono proprio i contadini che coltivano questa terra malata a essere chiamati a cambiare (a loro spese) le tecniche di produzione per non continuare a impoverire la terra sfinita. Ed ecco un paradossale conflitto tra vittime di ieri e potenziali carnefici di domani, i custodi della terra che si sentono trattati come i suoi assassini. E non ci stanno. E noi li capiamo. Dobbiamo ritrovare tutti insieme un nuovo rapporto con la terra. L’abbiamo usata per estrarre le nostre risorse, senza capire che aveva bisogno della nostra reciprocità. Non siamo stati custodi, siamo stati predatori. Ascoltiamo il grido dei coltivatori, e cambiamo tutti e presto i nostri stili di vita.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato il 04/02/2024 su Il Messaggero di Sant'Antonio
La paghetta dei ragazzi e delle ragazze è un tema controverso, e sotto vari aspetti. Spesso è un’espressione che accomuna fenomeni molto diversi tra di loro. In senso stretto, la paghetta è una somma di denaro – settimanale o mensile – che i genitori consegnano a un figlio/a che non ha un reddito proprio, perché lo usi per le sue spese ordinarie. In genere, la paghetta si riferisce a ragazzi/e adolescenti o pre-adolescenti, non a bambini e non a studenti universitari. Una seconda confusione riguarda poi l’accomunare la paghetta e l’incentivo monetario nei vari «lavoretti» dei figli. Perché dare un tot di euro alla settimana come paghetta è diverso dalla creazione di una sorta di mercato familiare dove i vari servizi domestici sono associati a un prezzo: 3 euro per sparecchiare, 4 per lavare i piatti, ecc... I due strumenti – paghetta e incentivo – possono coesistere in famiglia, ma l’uno può sussistere anche senza l’altra, e viceversa.
[fulltext] =>In questa nostra cultura dominata e ossessionata dal business, la cultura della paghetta e/o degli incentivi raccoglie sempre nuovi consensi, è il nuovo catechismo dei bambini della nuova religione capitalistica. Psicologi, esperti di dinamiche familiari, economisti, giornalisti e tuttologi inventano ogni giorno nuove ragioni per estendere l’uso della logica economica dentro casa. Perché, dicono, aumenta la responsabilità dei ragazzi, imparano a gestire il denaro, ne capiscono il valore, e iniziano in tempo a muoversi nel mercato che li attende quando saranno adulti.
Come si sarà già intuito, io sono molto contrario agli incentivi monetari con i ragazzi (per non parlare dei bambini) e sono contrario anche alla paghetta. Perché entrambi gli strumenti creano una mentalità economica fuori tempo e fuori contesto, e perché la famiglia è il luogo dove bisogna apprendere altri valori non monetari anche per gestire bene domani il denaro, il mercato e il lavoro. L’incentivo – cioè associare a ogni singolo servizio un contratto monetario – crea nei ragazzi l’idea che la motivazione o la ragione per fare un lavoro sia il denaro e non il lavoro in se stesso. Se sono pagato per rifare il letto, inizio a pensare che riassettarlo non abbia una ragione in sé ma che la ragione sia il denaro.
E così dimentico che il letto va fatto bene e basta, perché il suo essere risistemato prima di andare a scuola ha un valore in se stesso, che non ha nulla a che fare con il denaro. Cosa diversa è usare premi – che non sono incentivi –, molto meglio se non monetari (ma qui ci possono essere eccezioni). I premi non sono sistematici (non ci sono sempre), arrivano ogni tanto a rafforzare le motivazioni intrinseche, a dire «bravo», ma non sono la ragione per essere bravi. Inoltre, una volta introdotto il denaro nei rapporti familiari, è molto difficile, se non impossibile, toglierlo per ottenere gli stessi risultati; inoltre l’incentivo tende a contaminare i settori confinanti (dal letto si passa ai piatti, al cane e ai compiti…).
Se non si impara a casa, e nei primi anni di vita, il valore della gratuità, cioè il valore infinito del lavoro ben fatto, da adulti saremo mossi solo dal denaro e non saremo buoni lavoratori. Ed è davvero un programma di vita troppo triste, perché mancherà la dimensione più importante del vivere: la libertà, inclusa la libertà dagli incentivi, per poter fare quelle scelte che sono giuste e buone. È la gratuità libera che fonda anche il valore del denaro, ma domani. A casa ci sono molte cose più importanti da fare e da imparare. Lasciamo gli incentivi e le paghe agli adulti, e proteggiamo i nostri piccoli dall’impero del denaro.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato il 04/02/2024 su Il Messaggero di Sant'Antonio
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di Luigino Bruni
pubblicato il 04/01/2024 su Il Messaggero di Sant'Antonio
Da sempre l’economia è il risultato di una tensione, o di un conflitto, tra profitti e rendite, cioè tra chi per guadagnare deve produrre nuovo reddito nel tempo presente, e chi guadagna oggi per ricchezze accumulate ieri e dalla passate generazioni. Gli imprenditori vivono di profitti, gli speculatori di rendite. La critica radicale nei confronti dell’usura che troviamo nella Bibbia e nel Vangelo (di Luca) ha la sua radice in una profonda avversione verso la rendita. L’usura, in un mondo sostanzialmente statico come era quello antico, è infatti una forma di rendita, cioè un reddito che nasce dal solo fatto di detenere il potere su un mezzo fondamentale (la moneta). Non c’è lavoro dietro alle usure, solo la forza e i privilegi. La critica all’usura ha attraversato tutto il Medioevo e la Controriforma, perché si riallacciava alla critica della Chiesa nei confronti delle rendite, sebbene gli stessi ecclesiastici fossero parte della classe redditiera; una delle tante contraddizioni della storia, e anche delle ragioni della poca efficacia della lotta della Chiesa nei confronti dell’usura, una lotta che conviveva con privilegi, anche politici, accordati ai banchieri-usurai dei Papi.
[fulltext] =>La tensione redditi-profitti è un asse fondamentale per capire anche la nostra società. La critica marxista ha spostato la critica sociale sul conflitto capitalisti-lavoratori, e ha spiegato molto della società industriale. Ma con l’economia post-industriale, e con la diminuzione della rilevanza della grande fabbrica, siamo tornati all’antico fondamentale conflitto tra rendite e profitti, cioè tra gli imprenditori e i redditieri. Chi oggi continua a pensare che il conflitto fondamentale del nostro capitalismo sia quello tra imprenditori e lavoratori sbaglia target, perché si dimentica che il vero e grande conflitto è quello tra le rendite e tutte le altre forme di reddito (inclusi i salari dei lavoratori). La crescita della rendita sta schiacciando verso il basso sia i profitti degli imprenditori sia i salari dei lavoratori: «Viene poi un’altra suddistinzione delle classi sociali, plasmata sulla distinzione del capitale in produttivo e improduttivo: quella dei capitalisti produttori, esclusivamente dediti all’industria, e quella degli improduttivi, dei banchieri che non aumentano la ricchezza sociale, ma speculano sui valori, formando il loro reddito con prelevazione sui redditi altrui» (A. Loria, La sintesi economica, 1910, p. 211).
Ma dove si esprime oggi il conflitto rendite-profitti? In molti luoghi. Il primo che ci viene in mente è la grande finanza speculativa, i grandi fondi di investimento che stanno subentrando agli imprenditori nella proprietà e nel controllo delle loro imprese, vendute, negli anni difficili che abbiamo vissuto, per le irresistibili offerte dei fondi anonimi, senza volti e spesso senz’anima. La tassazione rafforza la dittatura delle rendite, perché la politica fissa imposte sulle rendite troppo inferiori a quelle sul lavoro. Oggi una nuova e sottovalutata forma di rendita è la consulenza. La consulenza delle grandi società globali si presenta infatti come un tassa per gli imprenditori, poiché la dipendenza (addiction) creata ad arte negli ultimi anni (ormai l’autonomia delle imprese è diventata pressoché nulla), fa sì che buona parte dei profitti finisca nelle varie forme di consulenza che si presentano come essenziali e necessarie. E come in tutte le forme di dipendenza, richiedono che ogni giorno se ne aumenti la dose. L’imprenditore, onesto e civile, oggi soffre perché viene scambiato con lo speculatore, perché troppi imprenditori si sono trasformati, a volte senza volerlo, in speculatori, divorati dalla sindrome della rendita. È ora di iniziare a vederlo, e a dirlo.
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È ora di iniziare a vederlo, e a dirlo.
di Luigino Bruni
pubblicato il 04/01/2024 su Il Messaggero di Sant'Antonio
Da sempre l’economia è il risultato di una tensione, o di un conflitto, tra profitti e rendite, cioè tra chi per guadagnare deve produrre nuovo reddito nel tempo presente, e chi guadagna oggi per ricchezze accumulate ieri e dalla passate generazioni. Gli imprenditori vivono di profitti, gli speculatori di rendite. La critica radicale nei confronti dell’usura che troviamo nella Bibbia e nel Vangelo (di Luca) ha la sua radice in una profonda avversione verso la rendita. L’usura, in un mondo sostanzialmente statico come era quello antico, è infatti una forma di rendita, cioè un reddito che nasce dal solo fatto di detenere il potere su un mezzo fondamentale (la moneta). Non c’è lavoro dietro alle usure, solo la forza e i privilegi. La critica all’usura ha attraversato tutto il Medioevo e la Controriforma, perché si riallacciava alla critica della Chiesa nei confronti delle rendite, sebbene gli stessi ecclesiastici fossero parte della classe redditiera; una delle tante contraddizioni della storia, e anche delle ragioni della poca efficacia della lotta della Chiesa nei confronti dell’usura, una lotta che conviveva con privilegi, anche politici, accordati ai banchieri-usurai dei Papi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 03/12/2023
Quale sia l’etica economica specifica del cristianesimo è questione annosa, poiché è dentro gli stessi vangeli che troviamo il primo pluralismo. Non è mai stato facile, infatti, mettere insieme il «guai ai ricchi» di Luca con la presenza di persone ricche nella comunità di Gesù (Levi, Giuseppe d’Arimatea…), o trovare una coerenza tra la «parabola dei talenti» e quella dell’«operaio dell’ultima ora» del vangelo di Matteo. Ciò che comunque è certo è la differenza, importante, tra l’etica del Vangelo, che è essenzialmente un’etica dell’agape, e l’etica delle virtù di origine greca e romana. Anche se nel corso del Medioevo l’etica cristiana ha incorporato l’etica delle virtù (o viceversa), fondando sulle virtù cardinali l’impianto civile e religioso della cristianità, è pur vero che l’umanesimo alla base del mondo greco e romano non è né quello biblico né quello evangelico, sebbene ci siano punti di contatto. L’antica etica delle virtù si basava sull’idea di eccellenza (areté) in un determinato ambito della vita (politica, sport…), un’eccellenza che può raggiungere chi pratica con impegno le virtù e che genera come suo premio massimo la felicità (eudaimonia), scopo ultimo della vita, come insegnava Aristotele.
[fulltext] =>Il Vangelo ha un’altra idea di eccellenza, e la sua felicità (se vogliamo chiamarla così) oltre a essere molto diversa da quella greca, non è certo lo scopo ultimo del cristiano. L’eccellenza cristiana è eccellere nell’amore-agape, non nelle virtù. Infatti il contrasto tra le virtù e l’agape sta proprio nel ruolo che hanno gli altri (esseri umani e creazione) in funzione a se stessi. Il limite dell’etica greca sta nel suo essere centrata sull’individuo che cerca di migliorare il proprio carattere tendendo a una perfezione morale. Il Vangelo cambia prospettiva e dice: «Non pensare a te stesso, pensa agli altri, decentrati, e ti troverai migliore senza averci pensato». Non propone un processo etico di formazione del carattere del singolo; è un’etica di comunione, della reciprocità, dove il «comandamento nuovo» è rivolto ai cristiani alla seconda persona plurale: «amatevi gli uni gli altri…». Se poi guardiamo ai primi apostoli, incluso Paolo, troviamo peccatori, traditori, impulsivi, paurosi, fragili, duri di cervice, cercatori di potere, non certo virtuosi. Ciò che li fece diventare maestri e testimoni della fede fu la loro capacità di amore-agape, di pentimento, di ricominciare sempre, e di credere di più all’amore di Dio che alle loro proprie virtù. Per non parlare dell’Antico Testamento, dove i padri della fede sono assassini (Mosè e Davide), bugiardi (Giacobbe), e così via.
Tutto ciò dovrebbe portarci a ripensare anche alla stessa idea cristiana e cattolica di santità o beatificazione, e ai relativi processi. Per individuare i testimoni della fede, dovremmo guardare non alle virtù eroiche ma alle «beatitudini eroiche» che esprimono valori molto, troppo diversi. Per non parlare dei miracoli come prova di santità, requisiti introdotti in età moderna e di Controriforma, e che hanno poco a che fare con l’umanesimo del Vangelo. Ho avuto i migliori maestri della fede in persone con molte imperfezioni, difetti, vizi, peccati, che però erano capaci di amare, che non hanno mai smesso di camminare alla sequela di una Voce, zoppicando come Giacobbe. La loro imperfezione è stato il pertugio spirituale nel quale è potuto penetrare un soffio dello Spirito che mi ha cambiato la vita, non rendendola perfetta ma solo più amata, mettendomi dentro il desiderio di provare a cambiare l’economia degli altri e dei più poveri. La nostra personale felicità, per il Vangelo, è troppo poco.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 09/11/2023
Il Sinodo in corso è una delle più belle novità del pontificato di Francesco, frutto della sua capacità di cogliere i segni dei tempi. Per come è stato preparato, e per come si sta svolgendo, è evidentemente una benedizione per la Chiesa (e non solo cattolica). C’è motivo per esultare, e da molti punti di vista. Non ultimo, per la presenza nuova di laici e di donne, che fanno di questa assemblea ecclesiale qualcosa di davvero storico. Mi permetto solo di fare due piccole note a questa bella pagina che si sta scrivendo. Riguardano la natura e le competenze dei delegati. Se infatti si scorre l’elenco dei partecipanti, insieme alla soddisfazione per la ricca composizione e la biodiversità carismatica, colpisce anche l’assenza di alcune componenti. È sempre facile il mestiere di chi guarda una realtà in cerca di che cosa manca, perché non esiste nessuna realtà umana nella quale non mancherà sempre qualcosa. Quindi questo mio esercizio va preso come tale, con tutti i suoi limiti.
[fulltext] =>La Chiesa, non solo quella cattolica, è dentro un grande processo di cambiamento, tra i più grandi e radicali della sua storia, che può essere paragonato a quello che seguì il crollo dell’Impero romano (V secolo), cioè la Chiesa dei tempi di Agostino e Benedetto, quando un mondo secolare crollava senza che ne fosse già nato un altro. Oggi un mondo – la Christianitas – sta tramontando, e un altro mondo per le chiese non si intravede. Siamo dentro un lungo sabato santo. Il Concilio Vaticano II fu un evento straordinario, ma, come diceva Dossetti, un problema di quella provvidenziale assemblea fu concepirsi ancora dentro la stagione della Christianitas, cioè di non capire collettivamente che una storia stava finendo, anche se le chiese erano ancora piene. Quelle chiese piene furono una «maledizione dell’abbondanza», perché quella ricchezza impedì ai Padri conciliari di cogliere il vuoto che covava sotto la cenere.
Con il XXI secolo non possiamo più pensare la Chiesa, la fede e la religione come la pensavamo nel XX secolo. La Chiesa, in alcuni Paesi, ha ancora una sua vitalità e le chiese non sono del tutto vuote; dobbiamo però stare molto attenti che questo «mezzo vuoto» (e non vuoto totale) non svolga la funzione che svolsero le chiese piene negli anni del Concilio. E per capire i segni dei tempi in un mondo con templi quasi svuotati non bastano teologi, vescovi, suore, sacerdoti, consacrati, che sono la maggioranza dei delegati. C’è bisogno di imprenditori, operai, insegnanti, assistenti sociali, scienziati, artisti, poeti, che sono coloro che stanno vivendo questa grande notte oscura della vita cristiana da una prospettiva «esterna» alla Chiesa istituzionale. Sono queste figure le principali sentinelle dell’aurora che potrebbe arrivare. E c’è bisogno soprattutto di giovani veri, under 30, che sono, mi pare, gli altri grandi assenti del Sinodo. Perché in ogni grande attesa c’è nascosta l’attesa di un bambino, dell’abitante del mondo che sta nascendo. I profeti biblici erano tutti giovani quando hanno iniziato la loro vocazione, da Samuele a Geremia.
Questo che si sta svolgendo è il «Sinodo del già», l’assemblea che fotografa la Chiesa oggi; non è il «Sinodo del non-ancora», un non-ancora che nella vita dello spirito è essenziale sempre, ma soprattutto quando un mondo sta finendo e non ne vediamo ancora un altro. Quando c’è bisogno degli occhi della sentinella, di chi sta sulle mura di cinta e parla di ciò che è fuori a chi è dentro, e di ciò che è dentro a chi è fuori. Donne e uomini della soglia. È sulla soglia, sui luoghi liminari, dove sta avvenendo già una risurrezione.
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 09/11/2023
Il Sinodo in corso è una delle più belle novità del pontificato di Francesco, frutto della sua capacità di cogliere i segni dei tempi. Per come è stato preparato, e per come si sta svolgendo, è evidentemente una benedizione per la Chiesa (e non solo cattolica). C’è motivo per esultare, e da molti punti di vista. Non ultimo, per la presenza nuova di laici e di donne, che fanno di questa assemblea ecclesiale qualcosa di davvero storico. Mi permetto solo di fare due piccole note a questa bella pagina che si sta scrivendo. Riguardano la natura e le competenze dei delegati. Se infatti si scorre l’elenco dei partecipanti, insieme alla soddisfazione per la ricca composizione e la biodiversità carismatica, colpisce anche l’assenza di alcune componenti. È sempre facile il mestiere di chi guarda una realtà in cerca di che cosa manca, perché non esiste nessuna realtà umana nella quale non mancherà sempre qualcosa. Quindi questo mio esercizio va preso come tale, con tutti i suoi limiti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/10/2023
C’è un aspetto della nostra società capitalistica che non è ancora sufficientemente discusso dagli economisti e dai filosofi. Mi riferisco all’assolutizzazione della categoria di consumatore. Una delle grandi novità introdotte nel Novecento dal capitalismo di matrice Usa è stata la sovranità del consumatore. All’inizio, soprattutto nel primo dopoguerra, l’arrivo di questo nuovo protagonista della vita civile fu accolto come una buona novità, e in parte lo era. Il consumo nei mercati, il consumare, fu visto come una forma della libertà dei moderni, che creava nuove opportunità e nuove uguaglianze: anche se sono un operaio, se non ho studiato, anche se non sono di buona famiglia, anche se non faccio parte dell’élite, quando entro in un negozio con il denaro posso acquistare la stessa automobile dei signori. Nel momento dell’acquisto mi sento uguale ai capi e ai ricchi, non mi sento secondo a nessuno. Questa prima stagione del consumo di massa è stato un passaggio importante della democrazia, prima in Occidente e poi in tutto il mondo (oggi questi fenomeni sono importanti soprattutto in Africa e in Asia). Il denaro non odora neanche di classe sociale: non saprò parlare in modo elegante e forbito, sono figlio di contadini, ma quando vengo nel tuo negozio mi devi trattare con la stessa dignità con cui tratti i signori.
[fulltext] =>Oggi il consumo sta cambiando natura, perché sta cambiando (è cambiato) il mercato. La globalizzazione, prima, e i social, dopo (con le multinazionali for-profit che li gestiscono, non dimentichiamolo), hanno fatto del paradigma del consumo il nuovo paradigma della democrazia. Il consumo di mercato ha infatti poche regole chiare e semplici: 1. il consumatore è il solo che può decidere sulle proprie preferenze e gusti; 2. se un bene o un servizio mi piace, lo compro, se non mi piace, non lo compro; 3. nel mondo delle cose, una volta che siamo dentro (con potere d’acquisto o con debiti) siamo tutti uguali, non ci sono gerarchie, di nessun tipo; 4. non mi puoi imporre, nel mercato, nulla senza il mio consenso. Il «mi piace» dei social è stato preso direttamente dal mondo dei consumi, dove vale solo ciò che piace e non piace al singolo individuo. Quindi, nessuno mi può imporre, da fuori o dall’alto, scelte e beni che non mi piacciono, che io non abbia deciso, liberamente, di comprare o di non comprare. Tanto che un assioma della teoria economica liberale (la cosiddetta Public Choice), dice che il mercato non agisce a maggioranza (come la politica) ma all’unanimità, poiché è basato sul contratto, la cui logica richiede il consenso di tutti i partecipanti allo scambio (Buchanan e Tallock).
Dove può spingere questo ragionamento? Se il consumatore diventa il nuovo cittadino globale, la domanda diventa: questi consumatori-cittadini potranno accettare di fare cose che non piacciono loro? Potranno accettare, ad esempio, leggi che non amano, subirne le conseguenze anche quando non piacciono? Accetteranno la coercizione dell’autorità, oppure stiamo formando nuovi cittadini che vorranno pagare solo le multe che vogliono loro, che andranno in carcere solo se saranno d’accordo? Fino a oggi (o a ieri), le leggi e le sanzioni venivano decise democraticamente, quindi dalla maggioranza dei cittadini e con garanzie delle minoranze, ma le leggi in vigore non richiedono il «mi piace» di ogni singolo cittadino, né tantomeno di chi deve rispettarle. La domanda seria allora diventa: sopravviverà la democrazia al post-capitalismo consumista del XXI secolo?
Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 07/09/2023
Un giorno, cercando pigramente qualcosa di interessante tra i canali tv, mi sono imbattuto in un programma sui grandi hotel italiani. Un gruppo di persone si faceva ospitare in questi hotel di lusso, per fare poi una valutazione dei vari servizi offerti. Ciò che mi ha colpito è la totale assenza in questa trasmissione della dimensione del cosiddetto «vincolo di bilancio»: questi signori-valutatori ordinavano cene, servizi vari, senza mai preoccuparsi del loro prezzo, come se vivessero in un mondo nel quale il costo di un servizio e di una merce non fosse un elemento importante per la scelta. Le famiglie normali guardano questi programmi, poi si imbattono nella pubblicità di prestiti facili, che ha (purtroppo) per protagonista un simpatico volto delle nostre fiction, e così non è difficile mettere insieme i pezzi. Pensare cioè che quella vita fatta di vacanze in hotel stellari in un mondo senza vincoli di bilancio familiare diventa possibile e facile grazie a prestiti facilissimi di persone e istituti finanziari simpatici che sono lì solo per la nostra felicità.
[fulltext] =>Peccato che la realtà e i dati sul nostro Paese siano molto diversi. Insieme al boom delle vacanze di lusso del ceto medio-basso cresce anche il ricorso all’usura, il gioco d’azzardo, e quindi crescono le povertà associate a questi sogni irresponsabili spinti dal sistema dei media, fuori controllo. La prima regola di ogni economia (che significa, non dimentichiamolo, «governo della casa») è l’equilibrio tra entrate e uscite. Una buona economia parte dalle entrate e su queste regola le uscite. L’umanesimo consumista del nostro tempo, sempre più simile a una religione, inverte questo ordine. Parte dai desideri delle merci e delle attività, quindi dalle uscite, e poi ci indica i mezzi per procurarci le entrate, senza dirci, irresponsabilmente, che le entrate a debito sono soltanto altre uscite rinviate nel tempo. Quindi si coprono uscite con altre uscite, in meccanismi ingenui che portano a crisi economiche non di rado di famiglie intere.
Tutto il nostro mondo post-capitalistico si basa su una gestione sbagliata dei desideri. Un’adolescenza perpetua e senza limite, costruita sul principio del piacere (Sigmund Freud), senza mai arrivare al principio di realtà, una realtà che ci svelerebbe qualcosa di estremamente importante, forse decisivo per il futuro del nostro tempo. Dalla psicologia (Jacques Lacan) e, soprattutto, dalla vita, noi sappiamo che la soddisfazione dei desideri non è l’operazione decisiva per le gioie più importanti e profonde della vita. Perché il nostro più alto desiderio è desiderare un desiderio che ci desidera, è un incontro di reciprocità di desideri, che si attua solo quando il nostro desiderio investe le persone, che possono a loro volta desiderare e desiderarci.
Ecco perché il desiderio religioso è la madre di tutti i desideri: desiderare un Dio che ci desidera. E quando si desidera qualcuno che ci desidera, la felicità non consiste nell’appagamento ma nel restare in un perenne inappagamento che aumenta la reciprocità dei desideri – una persona che appagasse questo desiderio sarebbe una merce, lo sappiamo –. Le persone che amiamo cambiano i nostri desideri, noi i loro, e la vita diventa un processo continuo di scoperta. Sono i beni relazionali, non le merci, la nostra terra promessa. Il capitalismo lo sa, non sa vendere beni relazionali e allora fa di tutto per simularli, vendendoci merci che assomigliano alle relazioni. Finché saremo coscienti di questo bluff saremo ancora liberi: «Ti imploro Dio, mio sognatore, non smettere di sognarmi» (Jorge Luis Borges).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 07/09/2023
Un giorno, cercando pigramente qualcosa di interessante tra i canali tv, mi sono imbattuto in un programma sui grandi hotel italiani. Un gruppo di persone si faceva ospitare in questi hotel di lusso, per fare poi una valutazione dei vari servizi offerti. Ciò che mi ha colpito è la totale assenza in questa trasmissione della dimensione del cosiddetto «vincolo di bilancio»: questi signori-valutatori ordinavano cene, servizi vari, senza mai preoccuparsi del loro prezzo, come se vivessero in un mondo nel quale il costo di un servizio e di una merce non fosse un elemento importante per la scelta. Le famiglie normali guardano questi programmi, poi si imbattono nella pubblicità di prestiti facili, che ha (purtroppo) per protagonista un simpatico volto delle nostre fiction, e così non è difficile mettere insieme i pezzi. Pensare cioè che quella vita fatta di vacanze in hotel stellari in un mondo senza vincoli di bilancio familiare diventa possibile e facile grazie a prestiti facilissimi di persone e istituti finanziari simpatici che sono lì solo per la nostra felicità.
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