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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 07/10/2024
«Non so se gli undici libri, fino a oggi, di cui qui si parla possano aspirare, come Opera senza nome, alla primavoltità. Ma non ho ancora trovato un precedente. Continuerò a cercarlo. La primavoltità è solo la sobria constatazione che qualcosa non c’era prima. Sta al lettore decidere che farne». Con queste parole Roberto Calasso chiude il suo libro Opera senza nome (Adelphi), il dodicesimo di una Opera della quale questo volume è molto più di un indice ragionato o di una mappa. È probabile che l’aspirazione a quella forma di originalità che Calasso chiama “primavoltità” - riprendendo un neologismo di Roberto (“Bobi”) Bazlen, il co-fondatore di Adelphi di cui Calasso raccolse giovanissimo il testimone ideale e professionale - non sia rimasta soltanto una aspirazione. Perché Calasso è uno scrittore originale, forse eccezionale, creatore di un stile personalissimo i cui i materiali, lavorati con prosa mirabile coloratissima eppur sobria, sono la mitologia greca in dialogo con la letteratura contemporanea (da Baudelaire a Kafka), la Bibbia intera e molti testi sacri orientali; e anche perché ogni opera che sia frutto di creatività autentica e sorgiva è per sua natura primavoltità, anche se lo è in modi e gradi diversi, se è vero che la creatività è tale se introduce l’inedito, che è una sua originale prima volta. Il grado innovativo di Calasso è comunque davvero notevole. La sua opera somiglia (ed è diversissima) allo Zarathustra di Nietzsche, ad alcuni racconti di Borges, a qualche pagina del suo amatissimo Kafka, o a Le Città invisibili di Calvino, il quale recensendo La rovina di Kasch, la prima opera dell’Opera di Calasso, aveva genialmente scritto: «La rovina di Kasch parla di due argomenti: il primo è Talleyrand, il secondo è tutto il resto».
[fulltext] =>Questo libro Calasso lo ha scritto alla fine della sua vita, avendoci lasciato il 28 luglio del 2021, poco tempo dopo il primo e unico colloquio che ebbi con lui nel suo storico studio nella sede dell’Adelphi a Milano, un dialogo su Bibbia e cultura che resta stella luminosa nel mio lavoro. Opera senza nome è comunque uno di quei “libri unici” di cui Calasso parlava, quelli che coincidono «perfettamente con qualcosa che è accaduto, un’unica volta, all’autore… e quel qualcosa ha finito per depositarsi in uno scritto» (Libri unici). Un’opera che voglia spiegare e commentare undici libri pubblicati in un arco di quasi quarant’anni è per sua natura complessa, anche se i libri fossero quelli di un economista o di un professore di teologia morale. Una complessità che diventa estrema se gli undici libri sono di Roberto Calasso, che ha inventato nuovi generi letterari e ha ridisegnato la forma del romanzo e del saggio; al punto che Amazon «aveva categorizzato Le nozze di Cadmo e Armonia come “accessori decorativi per la casa” e l’Innominabile attuale come “decorazioni per unghie”». Non è necessario aver letto tutta l’opera di Calasso per gustare Opera senza nome - sarebbe stato un pessimo libro, e questo Calasso lo sapeva troppo bene. Ci sono, infatti, molti temi e pagine che possono essere compresi e gustati anche da chi si avvicina solo ora all’autore, sebbene leggerlo con sulla scrivania alcune delle sue opere precedenti può aiutare molto in certi passaggi arditi - molto utili sono La Rovina di Kasch, l’Innominabile attuale e Il libro di tutti i libri.
L’immagine è uno dei temi ricorrenti, intrecciato con la “questione dei serpenti” presente in molte sue opere, in Ka (1996), Rosa Tiepolo (2006) e poi più ampiamente nel Libro di tutti i Libri (2019). Già nei primi capitoli del libro della Genesi troviamo il verbo “guardare”. Il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male era per Eva “piacevole da guardare”, un versetto che Calasso considera «un passo fondatore e protettore della pittura». E aggiunge: «ovunque dove si tratti di immagini, si incontra il serpente. O il ricordo del serpente». E qui Calasso utilizza serpente e immagine come spago per legare la Genesi con Mosè e l’esodo: «Il gesto di Mosé, quando brandì un serpente di bronzo e intimò agli Ebrei mormoranti di guardarlo - il gesto di Mosé fu la scoperta che il male può essere guarito dalla sua immagine. Anzi, che il male può essere guarito soltanto dalla contemplazione della sua immagine». Il riferimento biblico è all’invasione di serpenti velenosi nell’accampamento del popolo fuggito dall’Egitto, che Mosè sconfisse utilizzando il serpente di bronzo: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita... Quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita» (Numeri 21,6-9). Un uso omeopatico dell’immagine - il simile si cura col simile -, non raro nell’Antico Testamento, da Davide a Ezechiele. «Era la scoperta dell’immagine», commenta Calasso, e «fa parte dei supremi paradossi ebraici che quella scoperta fosse dovuta a colui che sarebbe stato ricordato e celebrato come il nemico delle immagini».
Infatti, la lotta iconoclasta di Mosè, dei profeti e della Bibbia è profondamente legata al rifiuto della seduzione-promessa che il serpente fa alla donna di poter “diventare come Dio”. L’Adam non è Dio, non può diventarci perché il suo non-essere come Dio è il suo dato creaturale essenziale. Non è Dio ma è “immagine di Dio”, e non deve farsi immagini di Dio per ricordarsi che l’immagine di Elohim sulla terra si trova nell’uomo e nella donna (Genesi 1,27), e lì la sua dignità infinita (Salmo 8). E anche se Calasso qui non ce lo dice, è la stessa Bibbia a sciogliere questo “supremo paradosso” dell’immagine. Secoli dopo da quell’episodio nel deserto, Ezechia, re giusto, decise di distruggere quel serpente creato da Mosè, perché «fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustàn» (2 Re 18,4). Quel serpente di bronzo era dunque diventato un idolo, e la lotta all’idolatria è l’altra faccia della custodia dell’immagine. La Bibbia aveva creato un giorno il serpente di Mose, la stessa Bibbia in un altro giorno lo eliminò. Auto-sovversione è nota costante dell’umanesimo biblico, che l’ha tenuto vivo.
Molto belle, poi, sono le pagine sul sacrificio. Calasso attraverso la sua opera ha sviluppato una suateoria del sacrificio, una delle più profonde ed elaborate del ‘900 sebbene non sistematica e sparsa in tutta la sua opera: «Il sacrificio non vale ad espiare una colpa, come leggiamo nei manuali. Il sacrificio è la colpa, l’unica colpa» (p. 46). E più oltre specifica: «Il sacrificio è una ferita - e il tentativo di guarire una ferita. È una colpa - e il tentativo di sanarla… Nello stesso istante si ebbero il desiderio e la ferita. Che non si sarebbe più rimarginata, anche se si doveva tentare di medicarla. A questo servono i riti». Particolarmente suggestiva è la sua semantica del sacrificio: «Il fondamento del sacrificio è in questo: che ciascuno è due, e non uno … L’inganno sacrificale - che sacrificante e vittima siano due persone e non una - è l’abbagliante, l’invalicabile rivelazione su noi stessi, sul nostro doppio occhio. La storia si compendia anche in questo: che per un lungo periodo gli uomini uccisero altri esseri dedicandoli a un invisibile, e da un certo punto in poi uccisero senza dedicare il gesto a nessuno: dimenticarono?». Quindi continua: «Aristotele definiva l’uomo come animale sociale. I veggenti vedici come l’unico animale che sacrifica. Definizioni incontrovertibili, di pari estensione. Ma gli animali sociali se ne trovano non pochi, soprattutto tra gli insetti. Mentre l’uomo rimane senza paralleli, in quanto animale che sacrifica. E, se non compie l’atto, continua comunque a usare la parola e a teorizzarla». Grandi intuizioni, anche per capire il capitalismo. Ne La rovina di Kasch aveva aggiunto: «L’oblio di questa colpa è il fondamento dell’industria», e «l’industria è una officina sacrificale».
Il sacrificio è poi declinato tenendolo in stretto dialogo con la categoria della sostituzione che a sua volta rimanda al concetto di scambio. Ancora ne La rovina di Kasch aveva infatti scritto: «si dice che sacrificio sia l’origine dello scambio: ma lo scambio è l’insieme di cui sacrificio è un sottoinsieme: e lo scambio, a sua volta, è inglobato in un’altra categoria, che solo lo rende possibile: la sostituzione». Il grande racconto di Abramo e Isacco sul Monte Moriah, è per Calasso molto importante, perché «non c’è sacrificio che non ammetta la sostituzione» . E così, «alla domanda di Isacco sull’animale da sacrificare che non c’era, Abramo aveva risposto: “Elohim provvederà all’ariete dell’Olocausto”... La mossa della sostituzione è il punto decisivo. Sarà l’uomo a sostituire l’animale o l’animale a sostituire l’uomo?… se Abramo avesse chiesto di avere la grazia di sostituire Isacco con un ariete… da quel giorno Abramo avrebbe potuto attribuire l’iniziativa di aver proposto la sostituzione. E con ciò sarebbe fallito nella prova a cui Iahvè l’aveva sottoposto e si sarebbe rivelato inadatto quale capostipite dei figli di Israele. La sostituzione doveva essere un dono di Iahvè non un’invenzione degli uomini».
Se infatti Abramo fosse stato l’artefice della sostituzione, «da quel momento tutto avrebbe potuto essere sostituito con tutto». Ed è infatti quanto è accaduto con il capitalismo di ultima generazione, dove con l’infinita riproducibilità e quindi sostituibilità di ogni merce, il rito del consumo ha creato la sua versione dell’immortalità, uno dei dogmi della religione capitalistica, destinato a diventare perfetto con l’Intelligenza Artificiale. La sostituzione di tutto con tutto è una nota della nostra “età dell’inconsistenza”, come la chiama Calasso, generata dall’homosaecularis che ha lasciato il sacro per diventare eterno “turista” nel proprio mondo (un’altra sua espressione). In questa nuova età «il sacrificio non è più ammesso», e quindi la domanda: «dove è finito? Fra le superstizioni?». In realtà è finito nel mondo del business e della grande impresa, il luogo che sta monopolizzando i residui del sacrificio arcaico, sebbene venga presentato come atto libero del lavoratore - di cui molto abbiamo scritto anche su queste pagine.
Seguendo infine la sua analisi della società dell’inconsistenza, ci si imbatte con una frase che da sola spiega molto della dimensione religiosa-idolatrica del nostro tempo: «Oggi, se dovessi definire il presente, la cosa che lo differenzia da tutto è il fatto di aver inventato una mistura micidiale di irreligiosità e bigotteria. Il nostro mondo è profondamente bigotto, ma di una bigotteria laica e religiosa insieme. Il religioso che torna ben poco ha a che fare con quanto è stato». Concludo con un gioiello che non traggo da questo libro ma da Ka (1996), una delle sue opere più belle: «Questo lo devi sapere, capirai presto perché. Tu sei mio figlio - e sei nato per riscattare me. I figli nascono per riscattare i genitori».
Credits foto © Erling Mandelmann - Wikicommons
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/09/2024
Chi conosce, ama e frequenta le comunità spirituali e religiose, sa o intuisce che alla base della vasta e profonda crisi che le attraversa c’è una crisi di desiderio. Una carestia del desiderio e di cose da desiderare, che si ritrova soprattutto nelle persone più generose e con autentiche vocazioni. Siamo tutti in attesa di una resurrezione dei desideri.
[fulltext] =>In questa attesa, molto utile è la lettura di La legge del desiderio. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi) dello psicoanalista e filosofo Massimo Recalcati. Il desiderio, pilastro della psicoanalisi, è il centro anche della riflessione personale di Recalcati, costruita attorno ad una intuizione, la cui origina si trova in Lacan, che la nota tipica del desiderio è desiderare qualcuno che a sua volta ci desidera, perché l’essenza e la vocazione del nostro desiderio è essere desiderati da un altro desiderio. Si comprende allora perché la fondazione biblica è particolarmente attraente per Recalcati, perché la fede cristiana è un incontro gratuito di desideri, nostri e di Dio.
La fondazione biblica della psicoanalisi di Massimo Recalcati è tra le operazioni intellettuali più interessanti di attualizzazione dell’eredità biblica nella modernità; e sebbene Recalcati si collochi, esplicitamente, sulla linea di Lacan (e di Freud), il suo contributo è molto più di un semplice sviluppo di tesi precedenti. Nel 2022 aveva pubblicato La legge della Parola, sull’Antico Testamento, e ora con questo secondo volume il suo lavoro si conclude, o dovrebbe concludersi secondo l’autore (p. xi). Credo e mi auguro invece che lo continui, perché i nodi non sciolti e le potenzialità sono ancora molti, e tra questi il nesso tra grazia, etica del desiderio ed etica della responsabilità, presente ma poco sviluppato nel libro: “Il dono della grazia non esonera affatto dalla responsabilità soggettiva, ma, al contrario, l’accentua” (p. 412).
L’idea del libro è bene espressa nel primo capitolo, che ne è anche una sintesi, talmente efficace da generare inevitabilmente molte, forse troppe, ripetizioni nel corso del volume (di 482 pagine). In realtà, la tesi la troviamo già nella breve Introduzione: “Gli uomini religiosi non sanno cosa significa spendere tutta la propria vita nell'amore, non sanno cosa significa desiderare e amare la vita. Il loro risentimento li avvelena, la loro impotenza li intossica, la loro tristezza li inaridisce… La loro ipocrisia cinica non permette di avere fede del miracolo del desiderio” (p. v). E quindi, “la Legge non può limitarsi a interdire il desiderio perché il vero volto della Legge coincide proprio con quello del desiderio. È questo a impegnare Gesù sino alla fine dei suoi giorni: testimoniare che la Legge non è avversa al desiderio…, perché la Legge è, in realtà, il nome più proprio del desiderio, è il nome più proprio della vita viva” (p. vii).
La tensione, o meglio l’alternativa tra Legge e desiderio, è il centro teorico del libro, che nella sua ultima parte da duale diventa ternario con l’inserimento della dimensione (paolina) della grazia che fa sì che la Legge lungi dall’opporsi al desiderio ne diventi la sua possibilità concreta e buona. Il buon desiderio è quello che, alla luce del mito di Adamo ed Eva nella Genesi, desidera il “Godimento ‘di tutto’ a condizione però che venga esclusa la possibilità di godere del ‘tutto’” (p. 75). Perché la condizione umana pur potendo e dovendo desiderare ‘tutto’ (‘tutto è vostro’) non può desiderare ‘il tutto’ (‘e voi siete di Dio’) - da qui il senso buono del limite posto da Elohim su un solo albero del giardino.
Il senso con cui Recalcati parla di Legge è, di fatto, quello della lettera di Paolo ai Romani, che, non a caso, è forse il testo più citato nel volume, e alla quale è dedicato l’ottimo ultimo capitolo. Lo è in un duplice significato: come Legge nemica e assassina del desiderio e dello spirito, cioè come ‘maledizione della Legge’ (Gal 3,13), e come Legge nuova portata da Gesù, quella Legge dell’agape che è la levatrice del desiderio: “Fintanto che l'umano resta all'interno della dialettica perversa tra Legge e desiderio non c'è salvezza. Il circolo è vizioso: l'esistenza della Legge provoca il peccato che infrange compulsivamente la Legge” (p. 386). Già nel primo capitolo questi concetti sono ben espressi e fondati nel Nuovo Testamento: dai discorsi di Gesù ai discepoli alle polemiche coi sacerdoti, dai miracoli alle parabole, per finire con la morte e resurrezione del Cristo - un Cristo che Recalcati chiama sempre ‘Gesù’, e ci piace.
Recalcati vuole dimostrare che il desiderio è il centro dell’insegnamento spirituale ed etico di Gesù: il desiderio, infatti, “si configura come la forma più radicale del dovere e, di conseguenza, la Legge non può, a sua volta, che affermarsi come una Legge del desiderio della quale Gesù si fa testimone, e non più come una Legge contro il desiderio… Di conseguenza la vita che si perde, la vita smarrita, la vita emarginata, la vita che si sottrae alla vita, non è più la vita che non obbedisce alla Legge - la vita che, trasgredendo la Legge, si perde nel peccato - ma quella che avendo paura della vita vive non tanto senza Legge ma senza desiderio” (pp. 9-10). Nel libro torna anche il grande tema del Sacrificio, che è un’altra colonna portante dell’edificio di Recalcati, perché sacrificio, Legge e desiderio sono aspetti profondamente intrecciati: "La Legge viene innanzitutto emancipata dal culto del sacrificio. Anche questo è un tema ricorrente nella predicazione di Gesù: non è la vita che deve sottomettersi sacrificalmente al potere della Legge, ma è il potere della Legge che deve servire la vita” (p. 10). Non è infatti difficile rintracciare in Gesù, sulla scia dei profeti (Isaia, Osea) una chiara presa di posizione contro la logica del sacrificio in nome dell’agape e della misericordia.
Una digressione. C’è un conflitto, un’alternativa, un "fossato" (J. Jeremias) tra la fede di Cristo e quella del tempio, cioè tra la fede fondata sull’hesed e quella fondata sui sacrifici, tra la civiltà della gratuità e la civiltà del calcolo, tra la religione dell’amore e quella commerciale. Amore e sacrifici: due strade religiose diverse, opposte, incompatibili, come rivela anche il verbo ebraico usato da Osea (hps), che dice chiaramente che Dio ama, gradisce, vuole, apprezza l’hesed e non vuole, non ama, non gradisce i sacrifici, gli danno fastidio. Noi possiamo, con coraggio, arrivare a dire: "I sacrifici sono meno importanti dell’amore, ma un po’ di culto ci vuole pure, qualche offerta al tempio non fa male a nessuno, il popolo ama queste pratiche". I profeti veri e grandi no. Loro ci dicono altro, ci dicono l’opposto. Sono tremendi e radicali, squilibrati, partigiani, divisivi, non gentili, esagerati, eccessivi. Come Gesù di Nazareth, che ci spiega Osea, mostrandoci che l’alternativa-fossato-conflitto tra amore e sacrificio non si limita alla sola vita religiosa ma si estende all’intera vita sociale. Non solo ci ripete, con Osea, che la sua religione non è quella dei sacrifici, ma quella dell’amore-hesed-agape; ci dice anche che la cultura del sacrificio è un rapporto sbagliato con la vita, non solo con Dio. Perché è la relazionalità basata sul calcolo e non sulla generosità, sull’economico e non sull’eccedenza. La logica del sacrificio è prima una trappola antropologica e dopo una questione teologica e religiosa. È la logica di chi vive facendo conti, calcolando i costi e benefici di ogni azione, perché, in fondo, è ateo, non crede che siamo amati, che nel mondo esiste un grande candore, che siamo figli. La fede sacrificale imprigiona Dio in una gabbia più angusta di quella dell’uomo più tirchio. Chi imposta la vita sui sacrifici crede nella meritocrazia perché non crede nella grazia, non si fida della grande provvidenza del mondo e quindi si compra una piccola provvidenza privata che non lo sazia mai. I profeti lottano con tutte le loro forze contro i sacrifici per dirci: voi valete di più delle vostre opere, siete più grandi dei vostri calcoli, siete migliori dei vostri contratti, siete amati anche se non lo meritate: perché ti amo e basta, non per i tuoi meriti, ti amo per te. Combattere la religione dei sacrifici allora significa rinunciare ad una visione del mondo meschina, impoverita, avara. I profeti e Gesù allargando la nostra idea di Dio allargano l’idea che noi abbiamo degli altri e di noi stessi.
Torniamo a Recalcati. Indagando il trittico Legge-Sacrificio-Desiderio, Recalcati entra all’interno di prassi e tradizioni molto importanti nella vita cristiana, mettendone (delicatamente ma efficacemente) in discussione il senso primo: “Verginità, interdizione e repressione della sessualità, pratiche ascetiche, digiuno, celibato, non sono precetti che egli si preoccupa di imporre a chi lo segue. Il percorso di auto-sacrificio come percorso di santificazione non trova nella sua predicazione nessun avallo.… Egli vuole liberare l'uomo da un'idea di Padre come colui che il figlio deve temere perché il suo disegno repressivamente normativo è quello di impedirne la libertà” (pp. 16-17). E quindi può affermare che “il salvato è ogni volta colui che non ha ceduto di fronte alla Legge del proprio desiderio, che è stato in grado di mantenersi conforme a questa Legge” (p. 34). Perché “la Legge che percuote la vita sanzionando implacabilmente l'offesa, il reato, il peccato annienta il desiderio interpretandolo solo come una minaccia per la Legge stessa. È questo il funzionamento basilare del Super-io messo in luce da Freud: una Legge che rimprovera costantemente il desiderio per la sua stessa esistenza con una ‘straordinaria durezza e severità’ poiché lo identifica a una colpa inemendabile” (p. 61). Quindi enuncia le due malattie del desiderio quando sbaglia il rapporto con la Legge (e con la grazia), l’impotenza e l’utopia: “L'impotenza è l'indice di una vita contratta che rinuncia alla vita perché si sente schiacciata dalla paura della vita. I Vangeli sono pieni di riferimenti a questa malattia che coinvolge tra gli altri anche gli stessi discepoli di Gesù… Difendere la propria esistenza dalla vita interpretata come una minaccia significa non cogliere il dono della creazione” (pp. 36-37). La patologia dell’utopia è invece quella che “nella predicazione di Gesù assume la forma essenziale della fede nel regno come qualcosa che dovrebbe risarcire la vita delle sue miserie e dei suoi dolori in un tempo sempre a venire, in un mondo trascendente situato al di là di questo mondo… La critica alla malattia dell'utopia si esplica chiaramente nell'ira con la quale Gesù fulmina il fico sterile, in Matteo 21,18-22” (pp. 46-48).
La malattia dell’impotenza, cioè di un desiderio sacrificato alla paura di affrontare il rischio della vita vera, è individuata da Recalcati nel ‘terzo servo’ della Parabola dei Talenti di Matteo, offrendoci una delle letture più originali e convincenti di questo difficile testo. Nella parabola dei talenti la malattia dell'impotenza e il dinamismo della pulsione securitaria sono messe a nudo: “Il terzo servo resta afflitto dall’impotenza… E’ ‘stato preso dalla paura’. Ma da quale paura? Innanzitutto dalla paura di perdere il solo talento che aveva ricevuto. Per questa ragione si sente spinto a conservarlo seppellendolo sotto terra. Manca in lui la fede nella forza del desiderio come facoltà di moltiplicazione della vita, di estensione, di allargamento del suo orizzonte. Per paura di perdere la sua vita il servo assume un atteggiamento conservatore, inibito, ritentivo che gli costerà la perdita di tutto ciò che ha… Per Gesù è questo il solo vero peccato capitale che si possa commettere: rendere la propria vita sterile, non generare, non desiderare, seppellire il proprio talento. Si tratta di un vero e proprio tradimento. Il soggetto tradisce la Legge del suo desiderio, volta le spalle alla sua vocazione” (p. 40). E così può aggiungere: “La vita capace di generare i frutti è vita desiderante; la vita sterile, è la vita che ha invece sottomesso la vita stessa alle malattie dell'impotenza o dell’utopia” (p. 49). Una patologia associata al rapporto sbagliato con il desiderio è quella che, con Freud, Recalcati chiama masochismo morale, il bisogno di auto-punizione per scontare ipotetiche colpe: “Il masochista vuole essere trattato come un ‘povero bambino piccolo e inerme’ che cerca riparo offrendosi come un oggetto passivo nelle mani onnipotenti dell’Altro” (p. 131).
Uno scoglio naturale di una lettura del vangelo come Legge del desiderio poteva essere la croce, la passione e morte di Gesù, che Recalcati così schiva: “La condizione della croce non coincide con la rinuncia al proprio desiderio, ma ai prestigi del proprio Io, alla sua immagine narcisistica. La rinuncia a cui Gesù invita non concerne affatto il desiderio quanto piuttosto l'Io come ostacolo al desiderio” (p. 129). Infatti, “Gesù crocifisso non è affatto il simbolo del carattere necessario e masochista del sacrificio, ma quello del suo definitivo abbandono” (p. 137). E la croce “non è il simbolo del sacrificio, ma ciò che mette a morte il sacrificio, è ciò che rende per sempre vano il sacrificio” (p. 138). Perché “nella sua passione non c’è alcuna traccia di un’immolazione sacrificale” (p. 304). Dovremmo anche aggiungere che, nella prospettiva paolina, chi è nel peccato lo è in virtù di una logica sbagliata che gli fa apparire come peccato ciò che è solo il frutto di un rapporto sbagliato con la Legge - nel peccato ci mettiamo da soli, Dio non c’entra.
I miracoli di Gesù sono letti come incontri di un maestro errante, che annuncia un inatteso di gratuità, nel quale invita le persone ad entrare. E scrive, citando Lacan, che “si tratta di guarire il soggetto delle illusioni che lo trattengono sulla via del suo desiderio” (p. 150). Il miracolo è l’annuncio di una sorpresa vera, e può far iniziare una nuova vita se si riesce ad essere fedele a questa novità - la vera fedeltà è all’inatteso. Da qui la domanda di Gesù al paralitico di Betzeda: tu vuoi guarire? (Gv 5,6): “Vuoi davvero rinunciare alle catene protettive dell'impotenza, alla sicurezza che ti garantisce restare nell'attesa passiva di una guarigione? (p. 192). Guarire significa allora superare il ‘tornaconto della malattia’ (Freud), di ogni malattia, fisica e morale.
Anche l’amore per i bambini di Gesù viene letto da Recalcati in questa prospettiva desiderante: “I bambini che vanno verso Gesù, vanno, in realtà, verso il fuoco del loro desiderio. Ogni bambino non appartiene a nessuno se non alla legge del proprio desiderio” (p. 186).
Molto bella, forse la parte più convincente di un libro già molto convincente, è la lettura della Resurrezione, che dal capitolo 9 si conclude con il 10 su San Paolo. Letta dalla prospettiva della Legge del desiderio, la resurrezione ha anche un grande significato antropologico, contiene cioè un messaggio di salvezza universale, ed è davvero bello. Recalcati la guarda a partire dalla stupenda categoria biblica del ‘resto’: il primo resto indistruttibile che tornerà dall’esilio è ciò che continua a vivere dopo la morte, grazie ad una resurrezione: “Il vuoto del sepolcro ci costringe a cercare Gesù tra i vivi e non tra i morti. E’ questa un'altra lezione fondamentale della Pasqua cristiana: esiste sempre un resto indistruttibile e eternamente vivente in ogni morte. Sempre qualcosa di chi non è più con noi, resta con noi”. Una Lezione fondamentale che si completa in “un'altra altrettanto decisiva: come si può restare fedeli all'evento che ha cambiato la nostra vita? Come si può non lasciarlo morire? … Accade per ciascuno di noi: sono stato fedele all'incontro che ha cambiato la mia vita? L'incontro con un amore, con un maestro, con un ideale, con una vocazione? Ho vissuto coerentemente quell'incontro assumendomene pienamente il rischio? Oppure l’ho tradito, gli ho voltato le spalle e l’ho ripudiato?". Quindi conclude: “Più che un episodio sovrannaturale - la rianimazione di un morto - la resurrezione resta un evento impensabile che rompe la nostra rappresentazione ordinaria della vita e della morte” (p. 341).
Da qui la sua riflessione sulla Maddalena e il noli me tangere (che in parte riprende da J.L. Nancy), che spiega in rapporto alla fede di Tommaso che invece vuole ‘toccare’: “La fede non può ridursi ad una verifica empirica della verità, ma consiste nella risposta alla chiamata del desiderio incarnata da Gesù, nell'accoglienza della sua grazia… Perché implica un vero e proprio salto nel vuoto, una fiducia nell'incontro con la grazia. È quello che mostra Abramo” (p. 360).
Alcune note a pie’ di pagine su (pochi) aspetti più problematici, che scrivo in un spirito positivo nei confronti di un progetto che seguo con interesse e ammirazione.
Nel capitolo dedicato a Maria, non il più riuscito anche perché vi è una lettura dei primi due capitoli di Luca non abbastanza teologica e metaforica che lo porta a scrivere che Maria “sapeva benissimo che essendo Gesù il figlio di Dio…” (p. 221). Maria non sapeva ‘benissimo' cosa fosse quel suo figlio, e probabilmente non lo sapeva affatto; altrimenti diventa difficile spiegare la fonte evangelica più antica su Maria, quando con i fratelli si reca da Gesù per riportarlo a casa perché pensava che fosse “fuori di senno” (Marco 3). Un altro uso improprio del vangelo lo troviamo quando afferma che la donna che versa l’olio profumato sul capo di Gesù fosse “la Maddalena” (p. 31), che non ha nessuna base nei vangeli (anzi dai vangeli sappiamo che non era la Maddalena). Anche la lettura del tradimento di Giuda, in sé interessante e suggestiva (Giuda tradisce perché a sua volta tradito da Gesù), poggia su una ipotesi - che Giuda credesse in un messianismo politico - che non trova fondamento nei vangeli: “E Gesù, agli occhi di Giuda, non è innanzitutto colui che ha tradito la promessa della liberazione politica della Palestina dal dominio romano?” (p. 266). La seria fondazione biblica della psicanalisi che sta operando Recalcati non ha bisogno di queste affermazioni che l’esegesi ha da tempo superato. Infine, da una parte Recalcati critica molto (e ci piace) la metafora economico-finanziaria applicata al Cristianesimo, ma dall’altra usa, sulla scia dei suoi maestri, spesso parole come “debito simbolico" verso il padre (p. 238), etc., che non aiutano per una vera fuoriuscita da quel pericoloso registro retributivo.
Concludo con le parole, delicate e commoventi, che troviamo in apertura del libro, nei ringraziamenti: “Ringrazio, infine, la mano di Gesù che da bambino sentivo sopra la mia testa”.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/09/2024
Chi conosce, ama e frequenta le comunità spirituali e religiose, sa o intuisce che alla base della vasta e profonda crisi che le attraversa c’è una crisi di desiderio. Una carestia del desiderio e di cose da desiderare, che si ritrova soprattutto nelle persone più generose e con autentiche vocazioni. Siamo tutti in attesa di una resurrezione dei desideri.
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di Luigino Bruni
Estratto dal libro «Il campo dei Miracoli» Marsilio editore in uscita oggi in libreria, pubblicato su Agorà di Avvenire il 05/09/2024
Economia non è la prima parola che associamo a letteratura, tanto meno alla grande letteratura. Gli economisti di professione non si sono occupati, né si occupano, di letteratura; non sono andati a cercare, per studiarle, le dimensioni economiche dei romanzi e delle poesie. Qualche importante economista del passato ha anche scritto alcune pagine in buona prosa, ma non le inseriremmo in nessuna raccolta di testi letterari.
[fulltext] =>In realtà, nei primi tempi della scienza economica non era difficile trovare tra gli economisti anche dei buoni scrittori. Per restare in Italia, penso ad Antonio Genovesi, Pietro Verri, poi a Francesco Fuoco, Carlo Cattaneo, fino ad arrivare, nel primo Novecento, ad Achille Loria e quindi a Luigi Einaudi: tutti loro hanno scritto dei testi di economia con alcune belle pagine. Certi economisti accademici sono stati persino poeti.
Da più di un secolo, però, l’economia ha fatto una scelta radicale nel metodo e nel linguaggio. I nuovi maestri della disciplina hanno lasciato le parole e la prosa per iniziare a parlare quasi esclusivamente con i numeri e con la matematica. E in una scienza fatta di numeri, dati e algoritmi, la letteratura e la poesia non hanno posto. C’è comunque una buona notizia. L’indifferenza degli economisti verso la letteratura è stata ricambiata solo parzialmente dagli scrittori. Perché se da una parte gli scrittori «di mestiere» non hanno cercato intenzionalmente e sistematicamente un dialogo con gli economisti, alcuni letterati si sono comunque interessati di economia, inclusi coloro che questo libro presenta e commenta.
E lo hanno fatto perché sapevano che l’economia è componente essenziale della condizione materiale della gente, è la sostanza della vita concreta delle persone. E così, quando la letteratura ha voluto parlare della vita vera, non ha potuto non incontrare il lavoro, il consumo, il risparmio, le fabbriche, le migrazioni, la cura, gli ospedali, la scuola, i campi, le banche, gli uffici, le tasse. Omero, Virgilio, Esiodo, Isaia parlavano anche di economia. Perché è stato sempre molto difficile, forse impossibile, parlare delle passioni, delle emozioni, della felicità e del dolore senza parlare anche di cose economiche. È il mancato, o insufficiente, dialogo tra economia e letteratura il dato di partenza nel pensare a questo libro, che è un incontro fra un economista accademico e alcuni testi classici, da cui sono nati alcuni primi materiali per una possibile storia letteraria dell’economia. È un dialogo più con i testi che con i loro autori.
Ma gli autori sono anche – quasi sempre – meno interessanti e geniali delle loro opere e dei loro personaggi, perché ogni opera è la creatura meravigliosa, quella dove le scorie diventano diamanti, dove tutti i materiali di risulta si trasformano in mattoni per edificare case, qualche volta cattedrali. Senza la bellezza di Bach non avremmo la bellezza della Passione secondo Matteo, ma quella Passione è più grande di Bach, l’opera è diamante puro, l’autore è la miniera impolverata.
In questo libro ho deciso pertanto di dialogare con i personaggi, non con i loro autori; ho parlato con i burattini, non con i burattinai, ma solo se e quando ho capito che il burattino era scappato dal suo padrone, ed era diventato un essere libero e autonomo. Perché nei pochi romanzi davvero grandi, i personaggi sfuggono di mano al loro autore e iniziano a vivere un’esistenza propria libera, ed è così che fanno immense le opere dei loro creatori.
Nei libri medi e piccoli lo scrittore è il dio delle sue creature, è l’artigiano delle sue marionette che, inerti, eseguono perfettamente i comandi delle sue dita. Questi personaggi-burattini non insegnano nulla al loro scrittore (in quanto già presenti nella sua mente prima di iniziare il lavoro) e quindi insegnano poco anche a noi, perché le conclusioni del racconto sono già inscritte nelle intenzioni dell’autore. Nei libri immensi, invece, una volta messo al mondo, il personaggio lascia la sua casa e inizia a correre libero e a fare cose che il suo autore non voleva né pensava. Solo alla fine ho capito che le opere che commentavo erano capaci di dire da sole tutto ciò che si deve dire di essenziale sulla giustizia, sul dolore, sulla vita, sul dono, e quindi anche sull’economia – questo «tutto sull’economia» lo dicevano anche prima di incontrare le mie domande, potevano farne tranquillamente a meno. Ma l’ho capito dopo: all’inizio c’era soltanto la loro bellezza, non c’era la loro morale. L’interesse della letteratura per l’economia è allora davvero una bella notizia, un’ottima «buona novella». Perché la letteratura è anche la grande svelatrice degli spiriti di un tempo.
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Estratto dal libro «Il campo dei Miracoli» Marsilio editore in uscita oggi in libreria, pubblicato su Agorà di Avvenire il 05/09/2024
Economia non è la prima parola che associamo a letteratura, tanto meno alla grande letteratura. Gli economisti di professione non si sono occupati, né si occupano, di letteratura; non sono andati a cercare, per studiarle, le dimensioni economiche dei romanzi e delle poesie. Qualche importante economista del passato ha anche scritto alcune pagine in buona prosa, ma non le inseriremmo in nessuna raccolta di testi letterari.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 15/08/2024
Trecento anni fa, nel 1724, si pubblicava a Venezia De la carità cristiana in quanto essa è Amore del Prossimo, di Antonio Ludovico Muratori, una edizione veneziana, con pochissime varianti, che era stata anticipata di qualche mese da quella modenese, del dicembre del 1723. Un’occasione per riflettere su un autore oggi dimenticato da una generazione di italiani, cattolici inclusi, che ha deciso di tagliarsi le radici, indifferenti alla sorte degli alberi dopo una simile operazione. Muratori (1672, Vignola - 1750, Modena), una figura immensa di intellettuale cristiano, sacerdote, filosofo, teologo, storico, filologo e biblista - a lui è intitolato un antico frammento latino (fine II secolo) da lui rinvenuto, il Codice Muratoriano, contenente una lista dei libri del Nuovo Testamento.
[fulltext] =>Dopo il Seicento che era stato anche il secolo d’oro della Controriforma, quindi delle penitenze e della lode religiosa del dolore, con l’inizio del Settecento incominciò in Europa un movimento di riforma civile. Alla fine della sua vita Muratori pubblicò Della pubblica felicità (1749), per dire che quella felicità (eudaimonia) che i greci vedevano come un rispecchiarsi reciproco nella pupilla dell’occhio dell’amico, poteva e doveva diventare faccenda civile, pubblica, politica. La pupilla dell’occhio del philos divenne così la città, il luogo buono dove vivere nella sua massima espressione la reciprocità degli sguardi buoni degli amici. E così, mentre nel 1776 Adam Smith pubblicava nella sua Scozia calvinista la Wealth of Nations e i rivoluzionari americani scrivevano la Dichiarazione di Philadelphia annunciando tra i diritti fondamentali dell’individuo il ‘pursuit of happiness’, in Italia esplodeva con Muratori la ‘Pubblica felicità’, che divenne la nota prima della tradizione italiana di Economia civile tra Sette e Ottocento.
Ma mentre dal mondo riformato ci potevamo aspettare una nuova scienza della ricchezza (ce lo ha spiegato per primo Max Weber, o forse Karl Marx), che la ‘valle di lacrime’ della Controriforma partorisse la ‘pubblica felicità’ fu davvero un colpo di scena, uno scacco matto della nostra storia. Una visione sociale del ben vivere che non era più la comunità antica sacrale e ineguale. Era semplicemente l’annuncio profetico di una ‘terra del noi’ composta da persone finalmente libere, uguali e fraterne; una terra sognata in un sogno breve che si è infranto nel risveglio dell’Ottocento.
La carità cristiana è un testo importante dove il Muratori raggiunge una sintesi di alcune sue grandi direttrici di ricerca, anche economiche, che aveva seguito nel suo straordinario lavoro sulla storia d’Italia, che, tra l’altro, aveva generato la sua Rerum Italicarum Scriptores, un’opera monumentale in 27 volumi.
Ne La carità cristiana troviamo menzionati i Monti di Pietà francescani, “i sacri Monti dei pegni, formati dalla pietà dei fedeli in questi ultimi secoli… E’ da benedirne Iddio”. I Monti nacquero, ricorda Muratori, raccogliendo le “limosine” dei cittadini. Per ottenere il prestito non vi era “altro obbligo che di dare il Pegno, cioè la sicurezza di restituire al Luogo pio (che altrimenti andrebbe presto in malora) il capitale ricevuto, e di pagare una tenue ricognizione”. Si noti il linguaggio: non interesse (illecito per i teologi) ma ricognizione o ‘dono per l’usuraio’, come scrive in altre sue opere. In quei secoli non si poteva pronunciare a cuor leggero la parola ‘interesse’, tanto meno ‘usura’ (che sarebbe il pagamento del prezzo per l’uso del denaro), perché duramente e tenacemente condannati dalle autorità ecclesiastiche. Ecco allora che Muratori, e dopo di lui Maffei, al posto della giusta parola interesse introdussero ‘ricognizione’, ‘pro’, ‘frutto’, ‘guadagno’, ‘merito’ - i Monti erano anche chiamati banche sine merito. I divieti astratti diventano quasi sempre manipolazioni delle parole più belle, che sono costrette, come Fantine, a prostituirsi pur di non far morire di stenti Cosette, la sua figliola.
Garantire con un pegno era la forma più ordinaria e accettata di ottenere un prestito, come sapeva bene anche Zio Crocifisso: “Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno” (Giovanni Verga, I Malavoglia, cap. IV). Quindi Muratori continuava, passando dai monti di Pietà ai Monti Frumentari e a quelli della Farina, altra eredità francescana, dei Minori prima e dei Cappuccini dopo: “L’assunto dei Direttori di sì fatto Monte dee consister in comperar grani, e di buona qualità, col maggior vantaggio possibile a’ convenevoli tempi, e con adoperare in ciò non meno diligenza, che si trattasse di un loro proprio affare, per rivenderli poi, senza interesse alcuno, convertiti in Farina, in chi del popolo ne abbisogni… Piacendo a troppa gente quel facile mestiere di succhiare il sangue dei Poverelli, sulla vita de’ quali va d’ordinario a cadere questo tal mercimonio” (Della carità cristiana, pp. 360-365). La natura solidaristica di quelle istituzioni non creava un alibi per mettere nel loro lavoro cura ed efficienza minori. Sul lato dell’offerta, chi prestava denaro lo faceva “con intenzione di riavere non altro che il capitale prestato…, e il pretendere di più, sarebbe Usura condannata dalla Legge di Cristo …; cioè sarebbe cercare solamente l’Interesse nostro, e non già il beneficio del Prossimo nostro”. L’unico interesse lecito nei Monti dei poveri era dunque quello che serve “per rimborso delle spese occorrenti nel mantenimento de gli Ufiziali” (pp. 360-362). Istituzioni non-profit direbbero oggi quelli che hanno studiato sui libri americani e hanno dimenticato, o non hanno mai conosciuto, la tradizione latina.
Da notare che Muratori nelle sue opere difendeva, insieme a Scipione Maffei e pochi altri arditi, la liceità del prestito ad interesse: “l’interesse proprio sempre fu e sempre sarà il gran motore delle nazioni umane” (Della Pubblica felicità, p. 330). Al tempo stesso, l’umanista modenese riconosceva che in alcuni ambiti della vita economia e sociale c’è bisogno anche della risorsa diversa del dono. La legge aurea del mutuo vantaggio basata su interessi legittimi, che è il cemento della società, quando si ha a che fare con i poveri è insufficiente, è inadatto: perché il contratto funzioni occorre , a qualche livello dello scambio, affiancargli il dono - ma non dopo il mercato: durante.
Muratori è pertanto tra i primi ad affermare una differenza tra la Political Economy che stava nascendo nella calvinista Scozia e l’Economia Civile italiana. L’umanesimo protestante, alla luce di una estensione della luterana e agostiniana ‘Dottrina dei due regni’, stava costruendo un capitalismo dove da una parte ‘business is business’ e dall’altra, e dopo, ‘dono è dono’.
L’imprenditore, quindi, mentre lavora doveva fare più profitti possibile, poi, una volta dismessi i panni dell’imprenditore indossa quelli del filantropo, con una piccola parte di quei profitti dava vita alla sua fondazione di beneficienza. Ma durante gli ordinari affari, guai a contaminare il mercato con il dono, e viceversa, ne snaturerebbero entrambi.
Muratori la pensava diversamente - e in questo diversamente sta molto del genio del capitalismo meridiano e italiano. Da una parte riconosceva che la vita civile ha un bisogno essenziale di reciprocità e di mutua assistenza, perché sia l’altruismo che l’egoismo sono faccende individuali molto simili tra di loro anche se appaiono opposte (e per certi versi lo sono). L’egoismo è un +1 per A e un - 1 per B; l’altruismo è un - 1 per A e un + 1 per B: entrambi quindi giochi a somma zero, perché soltanto la reciprocità porta +1 per entrambi. Ma mentre dicevano questo affermavano anche l’importanza del dono che è molto di più dell’altruismo. Perché la carità cristiana, che i vangeli e Paolo chiamarono agape, non sono semplicemente altruismo, ma un modo di vivere ogni azione, incluso il contratto - un trascendentale, avrebbero detto i maestri medioevali. E quando è in gioco il bene comune, e quindi il miglioramento delle condizioni dei poveri, il contratto deve essere irrorato e umanizzato dall’agape, perché quando troppe sono le asimmetrie nei punti di partenza occorre un gesto di gratuità oggi che può attivare processi di mutuo vantaggio. La reciprocità resta il punto di arrivo, ma non sempre anche quello di partenza. E se il contratto si lascia, già dall’inizio, contaminare dal lievito del dono, quando nascerà domani la reciprocità questa sarà un incontro diverso da un solo incrocio di interessi di individui indifferenti gli uni verso gli altri.
Cosa intende Muratori per reciprocità?
Lo vediamo sempre ne La Carità Cristiana: “L’uomo è un animale sociabile, e fatto per convivere con gli altri suoi pari” (p. 5). La diseguaglianza tra gli uomini genera quindi il bisogno reciproco: “Non a tutti comparte la Natura, benché Madre comune, la stessa dote e misura di Intendimento, di Giudizio, ed Ingegno. E da questo universale costante Diseguaglianza pullula poi per necessità il Bisogno, non trovandosi persona per alta, per ingegnosa, per robusta che sia, la quale non abbisogni dell'aiuto del ministero o dei beni dell'altro uomo”. Una visione della società civile come un grande network di reciprocità, che Muratori vede come charitas, come agape, come un esplicarsi civile del comandamento cristiano dell’amore vicendevole. E subito aggiunge: “E’, o sembra questo un disordine”, ma un disordine provvidenziale perché “un tal disordine ha servito alla Natura, o per dir meglio a Dio sapientissimo, per cavarne un bell’Ordine, cioè per imprimere, e stendere più vie ne gli uomini la necessità della beneficienza e dell’amor vicendevole”, perché “l’amore è quello che ha da pareggiar le partite” in modo tale che “tutto il mondo in tal guida diventi una fiera di Benefizji e d’Amore” (p. 5). Una definizione meravigliosa dell’umana civil convivenza, una fiera di benefici reciproci, una sorta di grande mercato, come quelli che si svolgevano nella festa del santo patrono, una fiera di odori, sapori, colori, suoni, tutti e tutte a barattar parole, indossando l’abito buono della festa.Muratori qui non parla solo dell’elemosina verso i poveri, e del solo dono. Nella seconda parte del suo libro, infatti, aggiunge qualcosa d’essenziale: “I poveri sono una semente della Provvidenza, che non viene mai meno, e per attestato del Salvatore gli avremo sempre con esso noi; ma per consiglio del medesimo Dio dovrebbe ingegnarsi la Carità Cristiana, affinché non ne avessimo pur’uno fra noi” (pp. 271-272). Importante, e molto bello. La visione di Muratori non è quindi un consolatorio invito ad assistere i poveri, magari ad amarli per poter lucrare il paradiso. Il suo è un appello civile ed economico, e religioso, a ridurli fino ad eliminarli.
Nel 1723 non era in Muratori ancora esplicito il riferimento al mercato e al lavoro come principale meccanismo per concretizzare questa ‘carità reciproca’, come troveremo pochi anni dopo in Genovesi; ma il passo che manca è davvero piccolo, e lo farà abbastanza chiaramente 25 anni dopo, ne Della pubblica felicità. Qui, infatti, troviamo una lode per i mercanti e per la loro arte necessaria alla felicità pubblica, il miglior rimedio contro ‘l’ozio’, e invita dunque il principe a “far fiorire l’agricoltura e la mercatura” (p. 230).
Il Bene comune buono non nasce solo dagli interessi: nasce anche dal dono, che è il lievito della massa degli interessi. Un pane di solo lievito è immangiabile, come sarebbe la vita civile senza la massa degli interessi naturali e legittimi. Dal desiderio del bene privato nascono molti beni, ma non tutti i beni, perché ce ne sono alcuni che nascono solo in contatto col principio attivo del dono. Beni diversi e co-essenziali per una buona terra del noi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 15/08/2024
Trecento anni fa, nel 1724, si pubblicava a Venezia De la carità cristiana in quanto essa è Amore del Prossimo, di Antonio Ludovico Muratori, una edizione veneziana, con pochissime varianti, che era stata anticipata di qualche mese da quella modenese, del dicembre del 1723. Un’occasione per riflettere su un autore oggi dimenticato da una generazione di italiani, cattolici inclusi, che ha deciso di tagliarsi le radici, indifferenti alla sorte degli alberi dopo una simile operazione. Muratori (1672, Vignola - 1750, Modena), una figura immensa di intellettuale cristiano, sacerdote, filosofo, teologo, storico, filologo e biblista - a lui è intitolato un antico frammento latino (fine II secolo) da lui rinvenuto, il Codice Muratoriano, contenente una lista dei libri del Nuovo Testamento.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l'11/08/2024
L'homo sapiens è un animale agonistico. Per moltissimo tempo i nostri concorrenti sono stati gli eventi naturali, gli animali predatori, le altre comunità umane rivali per le poche risorse. Dietro il fascino che esercitano ancora su di noi corse, salti e frecce ci sono tracce di un Dna collettivo che ha svolto quei gesti essenziali per decine di migliaia di anni, dal cui successo dipendeva spesso la sopravvivenza. Da lì il loro richiamo primordiale che ci incolla e incanta davanti alla tv e negli stadi.
[fulltext] =>Le olimpiadi sono una grande expo della commedia umana, una celebrazione di alcune tra le dimensioni migliori degli umani. Quella eccellenza esposta e celebrata è frutto di virtù che apprezziamo e desideriamo per noi e per tutti. Tra queste la capacità di auto-disciplina, la tenacia, l’elaborazione delle sconfitte, la lealtà, tanto che abbiamo anche inventato un sostantivo sintesi: la sportività. Ed è difficile trovare qualcuno che neghi che queste sono virtù universali che valgono in ogni ambito della vita.
Accanto a queste virtù evidenti ci sono altri aspetti più controversi. Tra questi un certo ambiente militaresco che circonda lo sport e le olimpiadi di più, fatto di bandiere e quindi di quel patriottismo che per qualcuno è virtù ma per altri (me incluso) no - dopo ogni grande evento sportivo globale, ad esempio, l’idea di Europa ne esce sempre indebolita. Anche se si potrebbe ribaltare questa legittima critica restando sullo stesso piano: lo sport è anche una elaborazione narrativa e simbolica della violenza per trasformarla nel suo opposto. È metamorfosi della guerra, è una sua resurrezione.
E, forse, guardando quelle spade flessibili e spuntate che fanno accendere soltanto una luce verde o rossa e quelle lance scagliate senza un nemico da colpire, possiamo addiritturascorgervi una certa realizzazione della grande profezia di Isaia: “Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci … non impareranno più l’arte della guerra” (Is 2,4).
Una volta riconosciuta tutta questa bellezza, possiamo e dobbiamo però provare a dire qualcos’altro. Lo sport, se guardato bene, è un grande fenomeno cooperativo. Ciò è evidente negli sport di squadra, ma non è meno essenziale in quelli individuali. Dietro a ciò che appare talento e abilità di un singolo atleta c’è davvero un ‘intero villaggio’ fatto di allenatori, tecnici, medici, federazione, società sportive amatoriali, compagni di allenamento, e molti altri ancora. Tra questi ‘molti altri’ ci sono anche i concorrenti, compagni ma essenziali di ogni atleta, perché la bravura di chi compete con noi è ingrediente decisivo nei nostri buoni risultati - una sventura di un potenziale campione è non avere abbastanza concorrenti eccellenti. Nello sport (e nella vita) anche la competizione è una forma di cooperazione.
E invece nella narrativa sportiva è proprio la dimensione cooperativa a mancare, sovrastata e ammutolita da quella costruita sulla rivalità e sul medagliere. Il successo di una performance è misurata sull’unico asse delle medaglie; un quarto posto è considerato una sconfitta, al punto che la federazione italiana ha fatto un contro-ricorso (non accolto) per trasformare in terzo un ottimo quarto posto con record italiano, chiaramente a scapito di un’altra atleta.
È infatti la logica posizionale la criticità della grande metafora olimpica, anche perché nelle olimpiadi diventa più forte ed assoluta. Chi fa sport o lo ama sa bene che il ‘successo’ in una manifestazione sportiva è una funzione con molte variabili. Insieme al risultato finale del ranking, che certamente conta, c’è il proprio miglioramento, c’è il passaggio dei primi turni accompagnato dal calore della folla, e soprattutto c’è la partecipazione all’evento voluto e sognato fin da bambino. Abbiamo finito per ridicolizzare il motto di De Coubertin - ‘L’importante è partecipare’ -, che sottolineava quale fosse il primo ‘premio’ dello sport: poter gareggiare, come ci hanno ricordato le nuotatrici Francesca Fangio dopo la sua eliminazione e Giulia Gabrielleschi dopo il suo sesto posto.
Quando allora si assolutizza la dimensione posizionale dello sport, le vittorie e le medaglie, quel grande spettacolo delle olimpiadi si guasta. Il villaggio olimpico, visto da fuori (non da dentro), perde la sua stupenda democraticità e uguaglianza e si divide in vincenti e perdenti, lo sport diventa l’apoteosi della diseguaglianza della società degli ‘happy few’ - i vincenti di medaglie olimpiche sono nel mondo molti meno dei miliardari. C’è una coerenza tra uno sport che vede solo le medaglie e una società che vede solo il PIL - tra l’altro è quasi perfetta la sovrapposizione tra il ranking del medagliere e quello del PIL.
Lo sport è sempre stato così. Da sempre le lacrime di gioia dei vincitori hanno avuto bisogno di quelle di tristezza degli sconfitti. Da sempre io posso essere primo solo se esistono i secondi e gli ultimi. È vero. Però la dimensione posizionale sta aumentando insieme all’estensione della cultura del capitalismo fondato sui dogmi della meritocrazia e della leadership. Infatti, il tarlo non si trova nella comunità degli sportivi. La malìa emerge quando prendiamo lo sport e lo facciamo diventare metafora del mondo; quando il ranking, i vincenti e i medaglieri lasciano gli stadi e le piscine e si espandono in altri campi. Perché quel ‘gioco a somma zero’ (-1/+1), una dimensione importante della competizione sportiva, non è il gioco della vita civile ed economica, che è invece il luogo dei ‘giochi a somma positiva’ (+1/+1). Nella cooperazione economica e civile non solo non contano i ranking, ma sua logica è radicalmente diversa: uno scambio tra un grande e un piccolo può essere per entrambi più vantaggioso di uno scambio tra due ‘grandi’.
Nelle imprese e negli uffici ci sono anche dimensioni posizionali; ma l’economia e la società sono prima e soprattutto network cooperativi, dove la mia ‘vittoria’ non ha bisogno della ‘sconfitta’ di qualcun altro. Le medaglie al merito, che purtroppo stanno aumentando nella nostra società posizionale, sfilacciano i rapporti lavorativi e peggiorano le ‘performance’ di tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/06/2024
Prosegue il dibattito su cattolicesimo e cultura, avviato da PierAngelo Sequeri e Roberto Righetto. Sono intervenuti nelle settimane scorse Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini, Cosentino, Zanchi, Possenti, Alici, Ornaghi, Rondoni, Esposito, Sabatini, Cacciari, Nembrini, Gabellini, Vigini, Timossi, Colombo, De Simone e Arnone.
Partiamo da un dato: i temi oggetto dei dibattiti dei teologi non sembrano essere quelli che appassionano la gente del nostro tempo ormai post-religioso. Risuonano oggi profetiche le domande radicali dell’ultimo Bonhoeffer: «Che cosa significano una Chiesa, una comunità, una predicazione, una liturgia, una vita cristiana in un mondo non-religioso? Come parliamo di Dio senza religione? Come parliamo “mondanamente” di “Dio”? Ma che significa questo? Che significato hanno il culto e la preghiera nella non-religiosità?» (Resistenza e Resa). Il suo cristianesimo non-religioso non è ancora incominciato, e invece, forse, questa evoluzione sarebbe la sola cosa necessaria per riscattarlo dal regno della crescente irrilevanza nella vita ordinaria delle persone. Per la quasi totalità della popolazione occidentale, la religione non svolge più neanche la residuale funzione di “tappabuchi”.
[fulltext] =>Questa mancanza di passione e di interesse per il cristianesimo, parallela ad una vaga e confusa domanda di spiritualità, ha chiaramente radici antiche e profonde. Qui ne voglio discutere tre. La prima riguarda direttamente la lunghissima stagione della cultura della Controriforma e la sua complicata e non riuscita relazione con la Modernità, una cultura e mentalità che sono durate, di fatto, circa quattro secoli. Lo shock della Riforma di Lutero rappresentò un vero trauma per la chiesa romana. La paura per la discesa sotto le Alpi dei venti scismatici e eretici del Nord si intrecciò profondamente con la paura dell’Umanesimo e quindi della Modernità, come rivela anche l’incomprensione e il rifiuto di Erasmo da Rotterdam e del suo movimento. La Controriforma ha generato anche alcuni luci (dalle opere sociali dei carismi ad una certa pietà popolare), ma sue le ombre culturali sono state molte e vaste. La chiusura, ad esempio, verso l’esercizio della libertà di coscienza - «La libertà di coscienza predicata dagli eretici era una libertà degna dei figli del diavolo, peggiore di ogni schiavitù» (Bellarmino, 1587) -, o quella nei confronti della conoscenza popolare delle Scrittura, il non ascolto delle domande di uguaglianza e delle critiche alla gerarchia sacrale, divennero immediatamente chiusura nei confronti dello spirito moderno. Come importante effetto collaterale, i migliori pensatori cattolici iniziarono progressivamente a spostarsi dalla teologia (e filosofia) verso altri ambiti del sapere che scottavano e “bruciavano” di meno. Dopo il Concilio di Trento, infatti, occuparsi con libertà di coscienza di questioni teologiche poteva facilmente condurre alla scomunica o al rogo, e la soluzione fu l’exit (la fuga). I migliori talenti italiani e latini si dedicarono ad altro (musica, arte, letteratura, scienza, teatro, economia), e la teologia e la filosofia moderna divennero faccende prevalentemente protestanti e nordiche. Così la Modernità e la Chiesa cattolica seguirono strade divergenti, e nell’età e nei paesi della Controriforma i teologi-filosofi significativi, se ce ne sono, si contano sulle dita di una mano. Questo allontanamento progressivo tra la Chiesa cattolica e il pensiero moderno, oltre a generare una carestia di vocazioni nelle discipline teologiche, non poteva non generare una naturale e crescente distanza tra i temi della teologia e quelli al centro della Modernità.
Tra Otto e Novecento, poi, una parte significativa del pensiero cattolico, da Giuseppe Toniolo a padre Gemelli, continuavano, lodavano e celebravano il Medioevo e la sua Scolastica come età dell’oro del cristianesimo - quando «al di sopra la Chiesa, finalmente distinta e indipendente dallo Stato, maestra e custode della coscienza, vindice di giustizia sociale, tutrice e puntello degli ultimi, rappresentante della unità e universalità del genere umano» (Toniolo, Trattato di Economia Sociale, 1909). Di conseguenza la cultura cattolica vide l’Umanesimo e il Rinascimento come decadenza spirituale ed etica: «Ecco il nostro programma! Noi siamo medioevalisti. Mi spiego. Noi ci sentiamo profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta “cultura moderna”, così povera di contenuto.… Noi abbiamo paura di questa cultura moderna, perché strozza le anime. Noi siamo medioevalisti perché abbiamo compreso essere necessario che l’anima che ispirava la cultura medioevale ispiri anche la nostra cultura» (Agostino Gemelli, “Medioevismo”, Vita e Pensiero, Anno 1, fasc. I, 1914).
Il Concilio Vaticano II e il movimento che lo preparò prese coscienza di questa distanza, ma erano passati secoli di mancato dialogo e reciproca diffidenza dagli effetti molto vasti e profondi. Ancora nel 1950, Pio XII scriveva: «Chiunque osservi il mondo odierno, che è fuori dell’ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l’ipotesi monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio» (Humani Generis, Introduzione).
Tra questi effetti c’è la tristissima stagione della repressione del movimento modernista cattolico, l’ultima grande ondata della cultura della Controriforma. Centinaia di teologi, biblisti e storici cattolici furono emarginati, perseguitati, non di rado scomunicati “vitando”, spretati e sospesi dall’insegnamento. Intellettuali italiani come Genocchi, Buonaiuti, Fracassini, furono la punta di un iceberg fatto di repressione di un tardivo e più che necessario dialogo teologico con le scienze esegetiche e storiche, un dialogo che aveva luci ed ombre, più luci che ombre. Abbiamo così perso ancora quasi un secolo di cultura biblica, di dialogo con il metodo storico-critico, di sguardo adulto sulla fede. Molte vite umane distrutte, talenti dispersi. Sarebbe quindi molto urgente e importante che il prossimo Giubileo diventi l’occasione per la Chiesa cattolica di chiedere perdono a tutti quei sacerdoti e cattolici perseguitati dopo la Pascendi di Pio X per tesi che in questo secolo sono state accolte nella loro quasi totalità dalla Chiesa cattolica, e chiedere la loro riabilitazione.
La seconda ragione, profondamente legata alla prima, ha a che fare con i codici narrativi della fede cristiana cattolica (e del cristianesimo). Il lungo e assente dialogo tra la chiesa cattolica e la Modernità, ha generato una crescente difficoltà narrativa dell’evento cristiano, che nel XXI secolo è esplosa in quasi incomunicabilità. I codici narrativi cattolici sono rimasti sostanzialmente pre-moderni, mescolati con elementi mitici, senza una vera inculturazione nel mondo moderno (per non parlare del post-moderno). La narrazione della fede e dei suoi fondamenti biblici è ancora troppo simile a quella dei nostri bisnonni. Mentre la Chiesa, nelle missioni, ha tentato e in molti casi con successo l’inculturazione della fede nelle culture non-occidentali, non ha tentato con sufficiente impegno l’inculturazione con la Modernità che essa stessa aveva in buona parte generato; e così, continuiamo a dire parole d’amore in una lingua diventata lingua morta. Non è morto l’evento, non sono morti Dio, Gesù, il Vangelo, l’eskaton: sono morti i loro codici narrativi; ed è bene che siano morti, perché la maggior parte era più eredità del mondo greco-romano che del Vangelo. Il pensiero cattolico è poco rilevante anche perché è diventato incomprensibile il suo linguaggio, fuori della Chiesa e nel popolo credente. Ed essendo la fede una faccenda di logos e quindi di dialogos, i codici narrativi non sono faccende per specialisti (i comunicatori), ma riguardano il cuore dell’esperienza cristiana. I nuovi codici narrativi non nasceranno dalle facoltà teologiche né dai convegni accademici: si trovano già “lungo la via”, nei luoghi meticci e promiscui, soprattutto tra i giovani e tra i poveri. La nuova narrazione nascerà tornando mendicanti e mettendosi in ascolto delle domande di vita della gente, dentro e soprattutto fuori le chiese.
Infine, il consumismo. Tra Otto e Novecento la chiesa cattolica ha individuato nel comunismo e nel socialismo ateo il suo principale nemico globale, il suo nuovo Gog e Magog. Ma mentre combatteva questa battaglia campale, non si è accorta che c’era un altro nemico, ben più potente del comunismo, che stava avanzando ed entrando dentro le sue mura. Finché il capitalismo era rimasto una faccenda di lavoro e di imprenditori, e quindi qualcosa di nordico e di calvinista (e di faticoso), non è riuscito a penetrare in profondità nel mondo cattolico. Da noi e nei Sud il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, era poco convincente e poco attraente la visione del lavoro come vocazione (Beruf). Ma quando con la seconda metà del Novecento il centro del capitalismo si è progressivamente spostato dalla fabbrica al consumo, i paesi cattolici e latini sono stati totalmente conquistati e occupati. L’arcaica e mai tramontata “cultura della vergogna” dei paesi meridiani si è perfettamente sposata con l’umanesimo delle merci, con il consumo vistoso. E come aveva preconizzato negli anni Settanta Pierpaolo Pasolini, il consumismo, molto più del fascismo e del comunismo, è entrato nell’anima della nostra gente, svuotandola di tutta l’eredità classica e cristiana. La Chiesa ha grandemente sottovalutato questo processo, in nome dell’imbroglio dello spirito cristiano del capitalismo. Ha avuto paura della Modernità delle idee, ma ha accolto a braccia aperte la Modernità delle merci, perché non si presentava come logos del serpente ma come prassi, e così non riconosciuto l’idolo, il feticcio nelle merci. E così ha covato a lungo nel suo nido l’uovo del cuculo, che una volta schiuso ha gettato via dal nido gli altri uccellini fratellastri, restando ormai figlio unico e sovrano (la vera “sovranità del consumatore”). Un consumismo che sta rispondendo, da par suo, anche alla crescente confusa di domanda di spiritualità individualista. I mercati della spiritualità a buon mercato stanno diventando il grande business del futuro, dove la profezia marxista della mercificazione del mondo si sta paradossalmente compiendo con la riduzione a merce di Dio stesso, il vero scacco matto. Insieme a Dio, la grande vittima sacrificale della religione del consumismo è infatti la comunità, è la trasformazione della persona nell’individuo consumatore, che più è solo e isolato più consuma per sostituire le relazioni umane mancanti con le merci. E così, sta eliminando la pre-condizioni di ogni esperienza religiosa, soprattutto nella Chiesa cattolica: la comunità. Un cattolicesimo senza comunità è un ossimoro, teologico e pragmatico.
La Chiesa cattolica dovrebbe riaprire o incominciare una profonda riflessione critica sul capitalismo individualista e consumista, un tema che non sembra invece al centro dei lavori sinodali. La “morte di Dio” intravista e annunciata da Nietzsche si è avverata nel nostro capitalismo solitario dei consumi, ma noi distratti non ce ne siamo accorti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/06/2024
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/06/2024
Pubblichiamo in versione integrale l'articolo andato in stampa in versione ridotta
Nell’Europa cristiana il debito è stato per lunghissimo tempo combattuto e scoraggiato. Una critica legata al grande tema dell’interesse sul denaro, condannato nell’Antico e nel Nuovo Testamento. In oltre mille anni, tra il ‘300 e il XIV secolo, si contano circa settanta Concili con dichiarazioni contro l’usura (cioè interesse maggiore di zero), che sono continuate fino alla vigilia della rivoluzione industriale (1745). Il capitalismo ha poi smesso di criticare l’usura, e ne ha fatto il suo primo motore. La Chiesa ha continuato a guardare debito e interessi con sospetto, anche se non sempre lo sua voce è abbastanza forte per essere ascoltata.
[fulltext] =>Le radici di questa lotta all’usura sono molte e profonde. Quella centrale è un problema di asimmetria di potere e quindi un fenomeno di rendita: qualcuno, più forte, detiene una risorsa scarsa e spesso essenziale ad altri per vivere (il denaro) e quindi ha l’incentivo ad usare quell’asimmetria di potere a suo vantaggio e quindi contro i più deboli. Chi presta non ha la stessa responsabilità morale ed economica di chi prende a prestito: chi presta ha più forza, più libertà di chi si indebita, a causa della differenza radicale tra i punti di partenza di creditori e debitori. Per questa ragione la condanna era per chi prestava a interesse, molto meno per chi si indebitava - per questa ragione Bassanio, il giovane scialacquatore nel Mercante di Venezia di Shakespeare, non è meno colpevole dell’usuraio Shylock.
Papa Francesco ha recentemente rilanciato il forte appello per la remissione del debito estero dei paesi più poveri che Papa Giovanni Paolo II formulò alla vigilia del grande giubileo del 2000: “Vorrei farmi eco di questo appello profetico, tenendo presente che il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia che ipoteca il futuro” (5.6.2024).
Nella Bibbia il giubileo era anche e soprattutto una faccenda sociale ed economica. Ricorreva ogni 49 anni, ed era fondato sulla stupenda istituzione dello shabbat (‘sabato’) e sull’anno sabbatico: “Conterai sette settimane di anni, cioè sette volte sette anni” (Levitico 25,8). Il giubileo riguardava il rapporto del popolo col suo Dio, ma nell’umanesimo biblico la fede in Dio è immediatamente etica, la religione diventa subito società ed economia, quindi debiti, terra, proprietà, giustizia: “In questo anno del Giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo” (Levitico 25,12). E si liberavano gli schiavi (Isaia 61,1-3a), una liberazione degli schiavi diventati tali per debiti non pagati. Non stupisce, allora, che la cancellazione dei debiti fosse l’atto giubilare per eccellenza.
Quel settimo giorno diverso, quel settimo anno speciale, quel grande giubileo diversissimo sono vocazione e chiamata di tutti i giorni di tutti gli anni normali. Far riposare animali e terra, non lavorare, liberare gli schiavi e restituire la terra, sebbene accadano in un solo giorno, in un solo anno, hanno un valore infinito. Anche se in molti giorni e in molti anni siamo sotto le leggi ordinarie ferree dei mercati e della forza, anche se in quasi tutti i giorni di quasi tutti gli anni non siamo capaci di uguaglianza, libertà e fraternità cosmica, quel ‘quasi’ custodito dalla Bibbia ci dice qualcosa di decisivo: non siamo condannati per sempre alle leggi dei più forti e dei più ricchi, perché se siamo capaci di immaginare e proclamare un ‘giorno diverso del Signore’ (Isaia 61,1), allora quella terra promessa potrà diventare la nostra terra. Lo shabbat non è l’eccezione ad una regola, è il suo compimento; il Giubileo non è l’anno speciale, è il futuro del tempo: è lo shabbat degli shabbat. Quel ‘quasi’, quella differenza tra tutti e molti giorni, è la porta da dove può arrivare (o tornare) in ogni momento il Messia, è la finestra da dove guardare e vedere i cieli nuovi e la terra nuova.
Allora non c’è richiesta giubilare più opportuna di quella di Giovanni Paolo II e Francesco, non c’è tempo (kairos) più propizio di oggi per farla. Ben sapendo che è quasi certo - un altro ‘quasi’ - che nessuno la raccoglierà; ma sapendo ancora di più che la temperatura etica della civiltà umana cresce per le domande profetiche anche quando nessuno risponde. Il Giubileo non è utopia: è profezia. L’utopia è il non-luogo; la profezia è invece un ‘già’ che indica un ‘non-ancora’, è un’alba di un giorno che deve ancora venire eppure è già iniziato. È Eskaton anticipato, un viaggio al termine della notte, una danza fino alla fine dell’amore.
Sono state le domande profetiche del non-ancora che hanno cambiato il mondo; perché queste domande diventano paletti infilati nella roccia della montagna dei diritti e delle libertà umane e dei poveri. E domani qualcun altro potrà usare quella domanda di ieri per issarsi e continuare la scalata verso un cielo più alto di giustizia. Quando scrivemmo ‘L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro’, l’Italia non era ancora né veramente democratica né ancora fondata sul lavoro, perché grandi e troppi erano i privilegi dei non-lavoratori. Eppure mentre lo scrivevamo iniziava l’era dell’articolo 1. Quando leggiamo nei tribunali che la Giustizia è uguale per tutti (e tutte), sappiamo che stiamo guardando la terra promessa del non ancora, ma guardandola negli occhi la vediamo avvicinarsi ogni giorno di più.
Affinché quella domanda profetica diventi una guglia forte, è però importante immaginare, pensare e poi far nascere istituzioni finanziarie diverse, a livello locale e internazionale. I grandi e i potenti della terra non faranno mai quella diversa “nuova architettura finanziaria internazionale” a vantaggio dei poveri e dei più deboli, perché, semplicemente, quelle istituzioni sono pensate, volute e gestite dai grandi e dai più forti.
La storia della Chiesa ci dice che è possibile. Mentre i papi e i vescovi scrivevano bolle e documenti contro l’usura, vescovi e carismi creavano istituzioni finanziarie anti-usuraie, dai Monti di Pietà ai Monti Frumentari, dalle Casse rurali alle Banche cooperative. Non si limitarono a criticare le istituzioni sbagliate, né ad attenderle dai potenti: fecero opere diverse. Cooperatori, sindacalisti, cittadini, accompagnavano le parole dei documenti con altre parole incarnate fatte di banche, cooperative, istituzioni anti-usuraie.
Infine, l’usura del nostro tempo non è soltanto una faccenda finanziaria, non riguarda solo le banche, gli usurai antichi e nuovi. Siamo dentro una intera cultura usuraia, che non ascolta il principio primo di ogni civiltà anti-usuraia: ‘non puoi lucrare sul tempo futuro, perché quello è il tempo dei figli, della terra e della discendenza’. La nostra generazione è una generazione usuraia, perché usuraio è chiunque specula sul tempo dei figli e delle figlie. Il ‘debito ecologico’ di cui parla Papa Francesco è debito usuraio. Ci stiamo comportando come Mazzarò, il protagonista de La roba di Verga. Dopo aver accumulato roba per tutta la vita, un giorno Mazzarò si rende conto che dovrà morire e non potrà portare con sé la sua adorata roba. Prima, disperato, colpisce un ragazzo con un bastone, “per invidia”; poi “uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba mia, vientene con me!”. Abbiamo costruito una civiltà fondata sulla roba, la roba ha creato la sue istituzioni per aumentare la roba all’infinito. La cultura della roba non conosce il dono, tantomeno la remissione dei debiti - conosce solo i condoni, che sono l’anti-dono per i poveri.
Ma lasciamo l’ultima parola alla Bibbia, facciamoci consolare dalla bellezza di quelle antiche note di speranza e di agape, per provare a sognare la sua terra del non-ancora: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te… ti servirà fino all'anno del Giubileo; allora se ne andrà da te con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri» (Levitico 25, 39-41).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/06/2024
Pubblichiamo in versione integrale l'articolo andato in stampa in versione ridotta
Nell’Europa cristiana il debito è stato per lunghissimo tempo combattuto e scoraggiato. Una critica legata al grande tema dell’interesse sul denaro, condannato nell’Antico e nel Nuovo Testamento. In oltre mille anni, tra il ‘300 e il XIV secolo, si contano circa settanta Concili con dichiarazioni contro l’usura (cioè interesse maggiore di zero), che sono continuate fino alla vigilia della rivoluzione industriale (1745). Il capitalismo ha poi smesso di criticare l’usura, e ne ha fatto il suo primo motore. La Chiesa ha continuato a guardare debito e interessi con sospetto, anche se non sempre lo sua voce è abbastanza forte per essere ascoltata.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/04/2024
Nella Bibbia, dire che qualcuno è «giusto» (Noè, Giuseppe, Simeone…) esprime un giudizio etico superiore persino all’aggettivo «buono». In quell’umanesimo la giustizia, di Dio e degli uomini e delle donne, è talmente importante da collocarla un po’ sopra la bontà. La storia della filosofia morale ha sempre oscillato tra l’assegnare il primato al buono o al giusto, riconoscendo comunque che bontà e giustizia sono i due assi fondamentali di ogni società civile. L’importanza data dalla Bibbia alla giustizia ci dice, tra l’altro, che nei rapporti interpersonali la giustizia è particolarmente importante quando abbiamo a che fare con le povertà. Perché se sono povero e ricevo qualcosa da te, se penso e credo che questa tua buona azione nasce dalla giustizia, l’aiuto è più liberante e degno di un tuo aiuto che mi arriva perché sei buono e altruista verso di me.
[fulltext] =>Solo Dio è buono senza indebitare le persone che ama; ma tra esseri umani è molto raro che chi aiuta in nome della sua bontà non finisca per creare, più o meno intenzionalmente, nel beneficiario qualche forma di debito e quindi di controllo e manipolazione. Da qui abbiamo, con fatica, imparato che nei processi di riduzione della povertà e della miseria è fondamentale la dimensione della reciprocità. Il saggio della filosofa spagnola Adela Cortina, Aporofobia. Il disprezzo per i poveri (Timeo, 2023), tratta di poveri, di giustizia, di etica, di economia, molto di reciprocità. E lo fa a partire dall’etimologia del titolo del libro: Aporofobia, una espressione greca che letteralmente non significherebbe «disprezzo dei poveri», perché, come sappiamo, la fobia è una paura irrazionale per qualcosa che produce l’irrefrenabile spinta ad evitare l’oggetto della fobia. Aporos può indicare il povero, ma in un senso specifico. Aporos non è infatti la prima parola usata nel greco antico per dire povero - in genere si usa ptochos (in «beati i poveri» dei vangeli, ad esempio), o abios, che rimanda all’assenza («a») di vita ( bios). A-poros è colui senza poros, cioè senzascampo, senza via di uscita, che non possiede i mezzi per liberarsi da una situazione. Poros, espediente e scaltrezza, è anche uno dei due genitori di Eros (Platone, nel Simposio); l’altro genitore è Penia, cioè la povertà, l’indigenza. Poros rimanda dunque alla capacità di cavarsela, all’industriosità.
L’a- poros è dunque la condizione di chi non ha vie d’uscita, di chi si trova in una trappola. L’aporos – che ha la stessa radice di aporia – è dunque la povertà di cui ci parla A. Sen (che Cortina considera il suo punto di riferimento teorico per la definizione di povertà: pp. 178 e ss.), vale a dire la mancanza di libertà e di funzionamenti, l’impossibilità di condurre la vita che si vorrebbe vivere ( a-bios), la carenza di capabilities che rende possibile l’uscita dalle trappole dei vincoli della vita. Da qualche decennio abbiamo imparato che la povertà è una carenza di capitali che si manifesta in una carenza di flussi (reddito): si è poveri perché non si hanno capitali educativi, sanitari, relazionali, comunitari, sociali, e per non esserlo più veramente occorre agire sui capitali delle persone e delle comunità, non sui loro redditi. Il saggio è una ricostruzione, in realtà non sempre lineare e scorrevole (si nota che il materiale di partenza è eterogeneo e non abbastanza amalgamato narrativamente), delle varie ragioni che porta le società e le comunità a disprezzare i poveri. Queste ragioni l’autrice le rintraccia soprattutto grazie alle categorie presenti in alcuni classici della filosofia antica (Bibbia, Aristotele, Seneca), moderna (Rousseau, Hume, Smith, soprattutto Kant) e contemporanea (Rawls, Walzer, Sen, etica della virtù).
Non mancano escursioni nel campo della teoria economica in particolare nell’economia comportamentale (pp. 159 e ss.) dove, citando l’ormai vastissima evidenza sperimentale, Cortina va a rintracciare il fondamento psicologico e antropologico della reciprocità, che Adela considera la principale spiegazione dell’origine della aporofobia: «Nel corso di questo volume abbiamo insistito sul fatto che i poveri sono coloro che sembra non possano offrire nulla all'interno di società fondate sul meccanismo dello scambio, della reciprocità, che consiste nel dare così da poter ricevere. È questo il fulcro delle nostre società contrattualiste» (p. 174). La prima povertà dei poveri sarebbe dunque l’assenza della capacità di reciprocità, che diventa la ragione prima del loro disprezzo da parte di coloro che danno e ricevono dai loro pari, che, a detta di Cortina, è stato incorporato evolutivamente persino nel nostro cervello (»Il nostro cervello è aporofobo»: cap. 4).
Detto tra parentesi, lo storico Giacomo Todeschini ( Visibilmente crudeli, 2009, Il Mulino) ci sta insegnando da decenni che l’Europa cristiana è nata esattamente sull’esclusione dei non-reciprocanti (ebrei, inaffidabili, poveri, marginali, nomadi, eretici, donne…) dal consorzio delle nuove città commerciali, i cui cittadini erano coloro capaci di reciprocità: le mura reciproche (cum-moenia) proteggevano i doni reciproci (cummunus) dei cives da chi doveva star fuori dai nuovi club. L’impianto teorico del libro, come ricorda la stessa autrice (p. 34), risale al 1995. Questa relativa maturità del progetto di ricerca spiega, almeno in parte, perché l’autrice, filosofa morale e attenta al dibattito internazionale (sebbene il libro sia molto segnato dal contesto spagnolo) non abbia discusso quella che nel frattempo è diventata la principale ideologia-religione di massa dell’aporofobia nel nostro tempo: la meritocrazia.
Negli anni Novanta era ancora incipiente il tentativo del business di legittimare eticamente il disprezzo del povero trasformandolo in demeritevole e quindi qualcuno che si merita la propria povertà e la consequente espulsione. La meritocrazia ha realizzato perfettamente le promesse discusse nel libro, ricorrendo alla «cultura della colpa» che si è aggiunta a quella della vergogna che ha da sempre accompagnato ogni società: la colpevolizzazione del povero è uno degli obiettivi che la meritocrazia ha raggiunto con maggiore efficacia e consenso, conquistando soprattutto il mondo della sinistra e parte delle Chiese. Data, infine, la buona conoscenza biblica dell’autrice, nel saggio ci sarebbe stata bene una analisi della visione biblica della povertà, soprattutto quella evangelica, costruita attorno alla rivoluzionaria frase: beati i poveri.
Questa beatitudine, non a caso la prima sia in Luca che in Matteo, è l’anti-aporofobia: è l’aporophilia. Come spiegarla e darle un senso in una società costruita sulla paura dei poveri e sulla loro esclusione? – la prima esclusione consiste oggi nel renderli invisibili. Sono in pochi, anche nella Chiesa, a credere ancora in questa beatitudine e in tutto il Discorso della montagna. E lo capiamo, perché questa beatitudine è il paradosso del Vangelo, è l’incompiuta dell’incompiuta, il non-ancora che si allontana sempre più dal nostro orizzonte. Eppure, se non riusciremo a scoprire qualche beatitudine nella condizione di povertà, almeno una, quella reciprocità tra uguali che è la condizione di ogni buono e giusto Bene comune sarà sempre più confinata in un club sempre più ristretto; e l’ideologia meritocratica ci offrirà ogni giorno nuove «buone » ragioni per restringere il club degli eletti ed accrescere quello dei dannati della terra.
Credits foto: Immagine generata da AI di Pete Linforth da Pexels:
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/04/2024
Nella Bibbia, dire che qualcuno è «giusto» (Noè, Giuseppe, Simeone…) esprime un giudizio etico superiore persino all’aggettivo «buono». In quell’umanesimo la giustizia, di Dio e degli uomini e delle donne, è talmente importante da collocarla un po’ sopra la bontà. La storia della filosofia morale ha sempre oscillato tra l’assegnare il primato al buono o al giusto, riconoscendo comunque che bontà e giustizia sono i due assi fondamentali di ogni società civile. L’importanza data dalla Bibbia alla giustizia ci dice, tra l’altro, che nei rapporti interpersonali la giustizia è particolarmente importante quando abbiamo a che fare con le povertà. Perché se sono povero e ricevo qualcosa da te, se penso e credo che questa tua buona azione nasce dalla giustizia, l’aiuto è più liberante e degno di un tuo aiuto che mi arriva perché sei buono e altruista verso di me.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/05/2024
L’incontro tra Papa Francesco e le detenute del carcere della Giudecca a Venezia del 28 aprile scorso, è forse l’immagine più forte con cui siamo entrati in questo Primo Maggio. Tra quelle parole piene di umanità e di commozione, fortissime sono state quelle sul lavoro, che rendeva concretissima quella ‘dignità’ intoccabile che il papa ha messo al centro del suo breve e intenso discorso e dei suoi gesti. Le donne hanno ricambiato il dono della visita di Francesco donandogli i frutti del loro lavoro: creme, saponi, prodotti dell’orto, e una papalina. Una di loro ha detto, tra le lacrime, che il lavoro è ‘importante per noi’, perché ‘dà senso al nostro vivere’. E ci hanno ricordato che tra le eccellenze etiche del Made in Italy ci sono anche le molte cooperative sociali, inclusa Il Cerchio di Venezia, che consentono alle persone detenute di poter lavorare, e così iniziare, lavorando, una resurrezione. Il carcere può essere un punto di osservazione privilegiato per capire cosa è davvero il lavoro, perché è una sorta di laboratorio vivo dove guardare nella sua essenza ciò che nella vita di tutti noi compare mescolato con molte altre realtà che confondono e annebbiano la sua natura. Nelle carceri si vede meglio il lavoro, come, e diversamente, in quel poco lavoro accidentato ma vero che resta ancora nei luoghi di guerra. Quei saponi erano ‘sacramento’ di qualcosa ancora più importante, come se il lavoro svolto in condizioni limite cambiasse la sostanza del lavoro pur lasciando immutati gli accidenti. Quelle donne hanno donato al papa il frutto del loro lavoro, quindi oggetti, ma in realtà il primo e il più vero dono che hanno fatto a Francesco è stato il loro lavoro, il loro poter lavorare, il nuovo ‘senso della vita’ riscoperto aggrappate a qualcosa di vero e buono. Credo non ci sia festa del lavoro più bella e umana di quella che si celebra dentro un carcere dove si lavora, e dove si lavora veramente - non lavoretti finti che producono oggetti inutili, perché solo il lavoro vero ci salva, dentro e fuori le carceri.
[fulltext] =>Facciamo sempre più fatica a proteggere il lavoro, i lavoratori, i contratti, i loro diritti e doveri, perché la nostra società, drogata dai consumi e dalla rendite, non vede più il lavoro: vede i suoi segni, le sue tracce, ma ha smarrito la sua natura. Perché il lavoro non è soltanto il più grande e straordinario network di reciprocità intelligente e intenzionale della terra, il primo linguaggio con cui noi umani parliamo e diciamo a noi stessi e agli altri chi siamo, né solo l’attività con la quale arricchiamo ogni giorno la biodiversità culturale del mondo. Tutto ciò è già molto, forse moltissimo, ma non basta. Perché per capire il lavoro dobbiamo declinarlo insieme al dono, una parola non solo aliena e distante dal lavoro ma da molti considerata nemica e mistificatrice. E invece il lavoro si apre, si svela se posto accanto al dono, lì matura bene come un kiwi in mezzo alle mele.
Nel lavoro c’è molto dono, ma non riusciamo a vederlo nascosto sotto l’involucro duro del contratto e degli incentivi. Forse non c’è luogo collettivo con più presenza di dono, di doni. E non solo nelle scuole, negli ospedali e nella cura dove forse riusciamo ancora a vederlo chiaramente, ma anche nelle officine, nelle strade, negli uffici, nei camion, nei cantieri. Il dono nel lavoro non si trova soltanto, né soprattutto, nell’ora in più che facciamo ‘gratis’, né nel favore del cambio di turno al collega. Il dono più importante è dentro la normalità feriale del lavoro, nelle ore ordinarie del contratto, nelle mansioni di tutti i giorni, perché il dono è il come svolgiamo le azioni quotidiane, è la gratuità del doveroso, quelle azioni che facciamo tutti e ovunque perché, semplicemente, siamo più grandi e degni dei nostri contratti e dei nostri mansionari.
E invece il dono ridotto a gratis è la grande vittoria del capitalismo nel mondo del lavoro, quando un giorno ci ha finalmente convinti che il regno del lavoro e del capitale dovevano essere definiti in quanto immuni dal dono. E come accade in ogni processo di immunizzazione, l’antidoto è stato inserire nel corpo un ‘pezzettino’ del male da cui proteggersi. Ha così inventato i gadget, gli sconti, il volontariato aziendale, la filantropia, tutti ‘donuncoli’, doni omeopatici innocui per immunizzarsi dal dono vero e intero. La magia omeopatica è una delle arti più arcaiche e mai scomparse: si riproduce in piccolo la realtà che si vuole colpire (es. bambola) e si manipola il manufatto per colpire a distanza il grande nemico.
Il capitalismo di fine Novecento ha intuito che il modo più efficace che aveva a disposizione per estrarre profitti e rendite in misura straordinarie consisteva nel creare nuovi ambienti artificiali depurati dalla forza umana più sovversiva: quella della gratuità libera. Ha così prima teorizzato e poi implementato l’idea che il regno del mercato non è quello del dono, che parlare di dono a lavoro era solo manipolazione e ideologia per nascondere sfruttamento e assenza di diritti, e che quindi il lavoro non avesse nulla a che fare con la gratuità del dono. E gli ha dichiarato guerra, consapevole della sua forza destabilizzante dei contratti, delle gerarchie, dei mansionari - perché il dono vero è eccedente, ingestibile e quindi sovversivo.
C’è comunque una buona notizia. La grande campagna ‘dono zero’ nel business non ha avuto il successo sperato. Il dono è sopravvissuto clandestino, la resistenza si è mostrata molto più tenace di quanto l’impero pensasse, sebbene oggi l’industria della grande consulenza e l’ideologia meritocratica stanno sferrando contro il dono nuovi attacchi globali a tenaglia.
E se è vero - ed è vero - che nel lavoro c’è ancora molto dono libero, allora gli imprenditori, sopratutto quelli più attenti, sanno di dipendere profondamente dal dono dei loro dipendenti; sono consapevoli che la loro fragilità più grande non si trova tanto nei mercati ma nel non poter controllare le dimensioni più importanti della libertà brada dei loro lavoratori. Sanno quindi, e imparano ogni giorno, che dipendono radicalmente da qualcosa di fondamentale che non possono acquistare, e che con il contratto comprano cose importanti ma non sufficienti per far vivere bene le loro aziende.
Sta anche qui la dignità immensa del lavoro e di ogni lavoratore: la certezza morale che il nucleo segreto della propria attività lavorativa, il suo diamante più prezioso, non è in vendita, e quindi può essere soltanto donato. E poi decidiamo di donarlo, ogni giorno, e lo doneremo anche domani, quando continueremo a lavorare da donne e uomini liberi. Perché sappiamo che il giorno in cui smettessimo di farlo, di attenerci soltanto alla lettera dei contratti, saremmo persone meno degne e libere, e quindi pessimi lavoratori.
Nella Festa dei lavoratori dobbiamo allora meditare, mentre non lavoriamo, su cosa accade durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, osservarci e osservare gli altri nel gesto ordinario del lavoro, soprattutto in questa fase di passaggio tecnologico ed antropologico epocale.
Se nel lavoro c’è molto dono, quindi moltissima dignità e bellezza, allora anche nelle professioni che oggi stanno per essere sostitute in massa dall’Intelligenza Artificiale, c’è inscritto un infinito patrimonio di libertà, di onore, di dignità. Prima di liquidarle come ferri vecchi, dovremmo fermarci e fare due operazioni collettive, e farle in ogni impresa e in ogni istituzione: riconoscere il loro immenso valore e poi ringraziarle adeguatamente e sinceramente. Perché tra le molte incertezze di questa grande transizione, una certezza ce l’abbiamo: i robot e gli algoritmi sanno fare moltissime cose meglio di noi ma non sanno fare doni. Buona festa!
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/03/2024
San Giuseppe è molto amato dai cristiani. Per molte ragioni, non ultima la sua normalità: Giuseppe lo sentiamo veramente come noi, anche se sappiamo che in quella sua ordinarietà ha vissuto un’esperienza umano-divina straordinaria e unica.
[fulltext] =>Giuseppe era, dice il Vangelo di Matteo, «un uomo giusto» (1,19). Giusto è un aggettivo che nella Bibbia dice moltissimo, forse nell’umanesimo biblico essere giusto è più importante di essere buono. Il primo “uomo giusto” è Noè (Gn 6,9). Noè e Giuseppe hanno in comune molte cose. Sono giusti, non parlano con le parole (non sono riportati loro dialoghi) perché parlano operando, agendo con le mani e con i piedi. Sono entrambi dei “salvatori” e custodi, sono padri, costruttori, carpentieri del legno, e sanno uscire di scena una volta compiuto il loro compito, senza sentirsi eroi: Noè dopo il diluvio pianta una vigna e torna uomo ordinario, Giuseppe dopo l’infanzia di Gesù scompare dai Vangeli e dal Nuovo Testamento, dove il suo nome non si trova più.
Di Giuseppe sappiamo poco, ma non pochissimo. Ce ne parlano soprattutto i Vangeli di Matteo e di Luca. In Matteo è Giuseppe (non Maria) il primo protagonista dei capitoli sulla nascita e l’infanzia di Gesù. A lui appare tre volte un angelo in sogno. Giuseppe è un sognatore, come l’altro Giuseppe suo antico avo. Giuseppe di Nazareth sogna. In particolare sogna angeli, angeli che gli parlano durante il sonno. E come per molti uomini e donne dell’antichità, le teofanie che accadono nel sogno hanno per loro una maggiore forza di verità. Giuseppe è un uomo che sa sognare (ci vuole tutta la vita per impararlo). È un sognatore di Dio, innestato nel cuore del racconto del più grande sogno di Dio – «Ti imploro Dio, mio sognatore, non smettere di sognarmi» (Jorge Luis Borges).
Giuseppe lo amiamo molto, poi, perché è una bella figura di padre e di marito.
Sebbene vivesse in un mondo dove i mariti dominavano le mogli e i figli, Giuseppe ci viene presentato come un custode umile, un protettore di Maria e di Gesù bambino, come un marito e padre che nei momenti di crisi (Erode) sa cosa deve fare, e lo fa senza indugio. Non è un capo-famiglia, non è un padrone della casa: è accanto a moglie e figlio, li protegge, si occupa della loro vita, porta il pane a casa. E in un tempo in cui lo sguardo sui maschi e sui mariti è di nuovo tornato torbido per la violenza assurda di qualcuno che abbuia la notte di tutti, è importante guardare a questa bella figura di uomo mite, di padre e marito rispettoso e capace di cura, che sa svolgere il suo compito di custodia amorevole.
È quasi certo che Giuseppe fosse giovane quando prese in moglie Maria. La tradizione e la storia dell’arte lo hanno invece immaginato e rappresentato quasi sempre vecchio.
Secondo il Protovangelo di Giacomo, un testo del IV secolo, Giuseppe sposò Maria quando era già anziano e aveva avuto altri figli, e per Epifanio di Salamina (Panarion) Giuseppe era vedovo e sposò Maria quando aveva superato gli ottanta anni. I Vangeli non dicono questo e quindi ce lo lasciano immaginare come gli sposi del tempo: giovane e nella primavera della vita. La sua anziana vedovanza è solo teologica (legata alle tradizioni su Maria), ed è bene lasciarla alla storia, e poi pensare a Giuseppe sposo come un giovane marito lavoratore.
Giuseppe, infatti, è per noi anche il falegname. Matteo (13,55), parlando di Gesù, lo chiama figlio del «falegname». Marco (6,3) ci dice poi che anche Gesù era un «falegname», ed è probabile che per una parte della sua gioventù lo sia stato veramente. Ciò che è comunque certo è che Gesù è cresciuto nella casa di un falegname. Non è stato cresciuto (come Samuele) nel tempio, né in un palazzo di corte, neanche in una tribù di nomadi. È cresciuto in una casa e in mezzo al lavoro, e ha lavorato con le mani. Ha respirato per anni gli odori della segatura e del legno spellato, e si è addestrato alla disciplina del lavoro artigianale, antichissima arte, molto amata e stimata anche nella Bibbia: «Ecco un falegname: dopo aver segato un albero maneggevole, ha tagliato facilmente tutta la corteccia intorno e, avendolo lavorato abilmente, ha preparato un oggetto utile alle necessità della vita» (Sapienza 13,11).
Oggi, 19 marzo, è una festa del lavoro per ricordare Giuseppe, ma ricordando Giuseppe lavoratore ricordiamo e festeggiamo anche Gesù lavoratore. Occorre infatti far festa perché all’origine del cristianesimo c’è una famiglia di lavoratori manuali, di artigiani, ci sono mani callose segnate con le schegge del legno e dai colpi di martello. Ed è davvero una bella e grande notizia. Non deve quindi stupirci che Benedetto XIII inserì nel 1726 San Giuseppe nelle litanie dei santi di tutti i libri liturgici. Era infatti un Papa sociale che da vescovo fondò tra Manfredonia e Benevento oltre 170 Monti frumentari per i poveri. Né ci sorprende che Giuseppe fosse un santo molto amato da Bernardino da Feltre, il frate francescano all’origine dei Monti di Pietà, banche popolari fondate per liberare lavoratori e famiglie dall’usura.
Il cristianesimo è dunque una storia di lavoro e di lavoratori, fin dai suoi primi passi. Anche i primi apostoli erano pescatori, lavoratori chiamati mentre riassettavano le reti sulla sponda del lago. Le mani che spezzarono il pane nell’ultima cena e poi nell’agape delle chiese erano mani callose, striate, grezze e scheggiate, non le mani delicate dei sacerdoti del tempio. Il Logos si fece carpentiere; e poi scelse marinai, lavoratori – non scribi, né sacerdoti – che rimasero pescatori cambiando solo l’oggetto della pesca.
Dai Vangeli sappiamo che quei pescatori continuarono qualche volta a pescare pesci anche mentre pescavano uomini. In Giuseppe, Gesù, Pietro, Giovanni, Giacomo, Maria lavoratrice domestica, c’è poi anche la fondazione teologica e antropologica dell’ora et labora del monachesimo, dell’etica del lavoro dei mercanti, degli artigiani e degli artisti europei che hanno reso stupende ed eterne le nostre città, che hanno detto con la vita e con le opere che il lavoro manuale non si addice allo schiavo ma è il distintivo dell’uomo libero, del cittadino, del cristiano. È molto bello che la parola latina con cui san Gerolamo tradusse “falegname” fosse faber: Giuseppe è anche una bella immagine di homo faber, è una radice dell’articolo 1 della Costituzione italiana.
L’odore del legno fresco spellato di casa Gesù lo risentì alla fine su un altro legno spellato fresco, e forse quell’odore fu l’unico abitante domestico di quel giorno tremendo: «Nella bottega di Ioséf non gli fu risparmiato nessun grado dell’addestramento, compreso le martellate sulle dita... Portò sul Golgota l’albero del patibolo, già tutt’uno con lui. Quando li ebbe nella carne, i chiodi, quando li sentì entrare, si trovò per la prima volta dalla parte del legno... Gli tornò alla vista Ioséf. Toccava a lui, Ieshu, finire come un legno disteso e immorsato. La sua vita era materia prima. La docilità del legno era la sua» (Erri de Luca).
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La festa di San Giuseppe
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/03/2024
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 17/02/2024
Le grandi idee, nel corso dei secoli, mutano forma e accidenti ma sono sorprendentemente costanti e tenaci nella loro sostanza. È questa la ragione principale dell’importanza dello studio della storia delle idee e delle controversie attorno ad esse. La storia della cosiddetta gnosi è una di queste antiche controversie che come fiume carsico ha accompagnato per oltre due millenni lo sviluppo della storia delle religioni, le ha influenzate, cambiate, le ha nutrite e se ne è nutrita, e continua a farlo. L’enorme quantità di energie teologiche profuse dai maggiori teologi cristiani dei primi secoli nelle polemiche contro lo gnosticismo, dice di per sé la rilevanza, l’importanza e anche la qualità di quelle correnti gnostiche - quei fuoriclasse non avrebbero perso tempo a criticare chi non consideravano significativo, importante e quindi pericoloso. Lo gnosticismo fu combattuto duramente perché era molto vicino alla dottrina cristiana, gli somigliava troppo, poteva infilarsi nel cuore del cristianesimo e distruggerlo.
[fulltext] =>L’Utet ha recentemente pubblicato una raccolta di Testi gnostici (pagine 760, euro 20,00 a cura di Luigi Moraldi) la cui prima edizione risale al 1982. Un’opera imponente, che comprende alcuni dei codici gnostici cristiani rinvenuti a partire dal 1945 a Nag Hammadi in Egitto, uno dei ritrovamenti archeologici più importanti del XX secolo, paragonabile soltanto a Qumran. Il più famoso di quei testi è il Vangelo di Tommaso, ma non meno importante è l’Apocrifo di Giovanni (presente in tre dei tredici codici). Prima di questo provvidenziale ritrovamento avevamo pochissimi codici gnostici cristiani, e la conoscenza dello gnosticismo derivava principalmente dai Padri della Chiesa che tra la fine del II e il III secolo lo avevano combattuto. Tra questi Ireneo di Lione, poi Clemente Alessandrino, Origene, Epifanio di Salamina, Tertulliano, ai quali si doveva la conoscenza dei principali teologi gnostici “cristiani”, come Valentino, Basilide, o Eracleone. Ciò che abbiamo del “vangelo di Marcione” lo dobbiamo soltanto alle sue citazioni contenute nei testi dei suoi rivali teologici. Gnosi e gnosticismo non sono la stessa cosa. Con gnosi - da “conoscenza” - ci si riferisce in genere ad un insieme di dottrine nate in ambienti antichi pre-cristiani, a teologie e narrative accomunate da alcune tematiche ricorrenti. Tra queste la salvezza legata ad una conoscenza speciale, esoterica e superiore, quindi accessibile solo a pochi iniziati. Come afferma Moraldi nella sua Introduzione: «Vi è una profonda spaccatura tra questo mondo e l’esistenza dell’Essere supremo, “la Luce”; un profondo dualismo anticosmico secondo il quale il male è proprio questo mondo il quale non proviene dall’Essere supremo». Tra XIX e XX secolo si iniziò a studiare l’origine babilonese della gnosi: «Il paragone istituito fra la teologia della gnosi e quella babilonese... dimostra fra la gnosi e il pensiero dei teologi babilonesi un rapporto così intimo e compiuto, da doverlo definire più che una semplice parentela, ma un principio di derivazione della gnosi dalla Babilonia» (Salvatore Minocchi, “I miti babilonesi e le origini della gnosi”, Bilychnis, 1914).
Con gnosticismo, o gnosi cristiana, ci si riferisce invece ad un fenomeno sviluppatosi in ambiente cristiano, testi che contengono filosofie e teologie a loro modo cristiane. Una sorta di sincretismo che segue l’età apostolica (II secolo), dove si intrecciarono una ellenizzazione del cristianesimo insieme ad elementi religiosi orientali, una fusione di temi pre-cristiani (in particolare babilonesi) e di Nuovo Testamento. Quindi, per semplificare, la gnosi precede i Vangeli, lo gnosticismo li segue, e, per i suoi oppositori, ne rappresenta una eresia molto grave, e lo era davvero: per i Padri della Chiesa la gnosi degli gnostici era una cattiva conoscenza, quindi una falsa gnosi.
Adolf Von Harnack, il primo grande studioso della gnosi nella seconda metà dell’Ottocento, riteneva che molta della teologia della Chiesa dei primi secoli fosse emersa come reazione all’attacco gnostico. Una tesi oggi considerata troppo radicale, sebbene è innegabile che la gnosi pre-cristiana abbia influenzato sia la teologia sia la prassi della Chiesa. Un grande tema dibattuto già dai primi studi di fine Ottocento è il possibile influsso gnostico nella formazione del Nuovo Testamento, in particolare sul corpus giovanneo (quarto Vangelo e lettere), e sulle lettere di Paolo: «Influenzato in misura maggiore o minore dal linguaggio e dall’immaginario gnostico appare lo strato fondamentale della teologia paolina e della teologia della comunità giovannea” (W. Schmithals, Nuovo testamento e gnosi, 2008).
Una questione spinosa, complessa e controversa. Non si può negare che in Giovanni si trovino elementi amati dallo gnosticismo: le antinomie luce-tenebre, verità-menzogna, Dio-diavolo, la croce come glorificazione e innalzamento, un certo dualismo antropologico, la salvezza intesa come “conoscenza”. Oggi alcuni studiosi ritengono che nella prima versione del Vangelo di Giovanni ci fossero alcuni tratti gnostici, ma poi, quando nella prima metà del II secolo la polemica anti-gnostica divenne potente, le redazioni successive purificarono il quarto Vangelo dalle componenti gnostiche o dalle parti che davano supporto alle tesi gnostiche.
Per quanto riguarda Paolo, anche la sua visione di un cristianesimo universalista libero dalla Legge e il suo dualismo antropologico (spirito-carne, uomo spirituale-uomo naturale) potrebbero essere nati da un primitivo incontro tra il primo annuncio cristiano e una gnosi ebraica samaritana forse riconducibile al Simon Mago degli Atti degli Apostoli, che secondo molti sarebbe all’origine della gnosi cristiana.
Oggi dobbiamo riconoscere che lo gnosticismo è profondamente intrecciato con quelle che diventeranno nel II e III secolo la dottrina e la prassi cristiane. Si intrecciarono, quindi si influenzarono reciprocamente, perché se da una parte il Nuovo Testamento e prima l’evento Cristo hanno profondamente cambiato la gnosi pre-cristiana generando lo gnosticismo, è altresì vero che il cristianesimo ha assorbito alcuni elementi gnostici che dai primi secoli sono arrivati alla modernità attraversando tutto il Medioevo.
Pensiamo alla tradizione monastica, soprattutto quella orientale. Non è un caso che i codici di Nag Hammadi fossero parte di una biblioteca di un monastero cristiano egiziano fondato da Pacomio. La forma di vita del primo monachesimo, centrato anche sull’ascesi, cioè sulla ginnastica spirituale ed etica, è più facilmente riconducibile ad elementi gnostici che all’umanesimo biblico. La forma di vita che emerge dal Nuovo Testamento è infatti centrato sulla metanoia, che si realizza in un istante e che non è il risultato di un lento e penoso esercizio etico. È evidente, sul piano pratico, che comunità di uomini che non si esercitassero nell’ascesi morale e nelle virtù darebbero molto difficilmente vita ad una vita comunitaria ordinata e buona, ma, in linea di principio, anche una comunità di cristiani non virtuosi ma che si amano scambievolmente e credono nel Vangelo è una comunità pienamente cristiana. L’ascesi può aiutare molto la vita cristiana, ma può anche trasformare il mezzo (l’esercizio) nel fine (la vita nuova nell’agape reciproco). Come non sarebbe difficile individuare nella teologia cristiana del corpo inteso come prigione dell’anima un influsso gnostico, cui può essere legata l’idea di verginità come stato di vita superiore al matrimonio (o come sostituto del martirio). Certo, queste sono ipotesi che non vanno radicalizzate né assolutizzate, e per molte buone ragioni: l’ascetismo non è esclusivo della gnosi, non tutta la gnosi è ascetica, e soprattutto perché il monachesimo è molto più della sua ascesi.
Un dettaglio. Nel lungo libro della Pistis Sophia - un testo che non era tra quelli rinvenuti a Nag Hammadi ma inserito nella raccolta della Utet - troviamo riferimenti alle donne nella prima comunità di Gesù, diversi da quelli dei Vangeli canonici: «Si fece avanti Maria Maddalena, e disse: mio Signore, la mia mente è sempre intelligente e pronta a farsi avanti per esporre la soluzione, ma temo le minacce di Pietro il quale ha in odio il nostro genere femminile». Importante la risposta di Gesù alle discepole: «Anche ai vostri fratelli maschi date l’occasione di presentare domande».
Se volessimo, infine, tentare una sintesi, i problemi principali che si nascondevano dietro il fascino della costruzione barocca delle gnosi cristiane sono infatti tutti decisivi. Il primo riguarda il grandissimo tema dell’incarnazione. Gli gnostici non amavano la carne, la vivono come decadenza dello spirito (e, di conseguenza, non amavano l’eucarestia). Quindi non accettano un Logos che si fa carne e che, addirittura, soffre e muore veramente - molti gnostici credevano che fosse stato Simone di Cirene a morire in croce al posto di Gesù. E un cristianesimo senza carne e senza incarnazione diventa altro, la storia diventa apparenza, fiction; il dolore non ha un senso vero e così invece di essere redento resta per sempre.
All’incarnazione è legato un secondo aspetto decisivo, l’assenza (quassi totale) nella gnosi dell’Antico Testamento: non a caso Marcione era uno dei grandi maestri gnostici. Da questa assenza deriva anche il dualismo antropologico che non vede l’essere vivente nella sua interezza ma come un contrasto tra anima e corpo, tra alto (spirito) e basso (carne). L’umanesimo biblico vede invece l’Adam integrale, e la salvezza è salvezza di tutta la persona. Ogni volta che nel cristianesimo abbiamo separato il corpo dall’anima e abbiamo combattuto il corpo come decadenza dello spirito, ci siamo allontanati dalla storia e dai poveri, la gnosi ha vinto, anche se non lo sapevamo. Inoltre, disprezzare il corpo in nome dello spirito è sempre stata una via maestra per ogni forma di abuso, fisico e spirituale, ieri ed oggi. Terzo, la gnosi porta ad enfatizzare, fino ad assolutizzarla, la dimensione intellettuale: ci salviamo comprendendo Dio e il mondo, non amandolo - l’agape e l’hesed sono le grandi assenti nell’etica della gnosi. Quindi la salvezza intesa come l’ingresso in un club privato, un hotel a cinque stelle accessibile solo a chi possiede la moneta della conoscenza speciale, che si esprime in liturgie speciali, meravigliose e disincarnate, puro consumismo emotivo. E la gente normale, il popolo, le mani e i piedi, il cuore e la carne, soprattutto i poveri, escono di scena, finiscono nelle tenebre, e non si vedono più. Ogni volta che una comunità cristiana cade in questa trappola, rivive la gnosi.
Infine, anche la gnosi, come molte narrative religiose, è nata come strumento per sconfiggere la morte e per dare un senso al dolore nel mondo. La storia mostra uno spettacolo di sofferenze e sventure ingiuste che lanciano un grido verso un altrove. La gnosi ha provato a raccogliere questo urlo, ma mentre il cristianesimo ed altri universi religiosi morali cercavano risposte cambiando anche e soprattutto il mondo quaggiù, la gnosi «trasferisce i tormentosi problemi nel campo vago dell’astrazione, incapace di asciugare una lacrima vera di pianto o di reprimere un grido di disperazione» (Ernesto Buonaiuti, Lo Gnosticismo, 1907). Nella gnosi si costruisce un mondo immaginario perfetto per dimenticare il mondo vero imperfetto. Non c’è dunque spazio per il grido concreto dei poveri e dei sofferenti, perché ogni imperfezione e ogni disordine vengono gestiti con il grande strumento dell’illusione. Ieri, e sempre, perché nel mondo gnostico “l’idea è superiore alla realtà”.
I primi teologi cristiani dei primi secoli capirono che se i cristiani fossero stati sedotti in massa dalle sostanze stupefacenti della gnosi, il cristianesimo si sarebbe snaturato perché avrebbe perso la sua natura popolare. Infatti, insieme ai Padri della Chiesa, la grande oppositrice della gnosi è stata la pietà popolare, la fede vera della gente normale, quella dei poveri, di chi sapeva e sperava che la salvezza non fosse una faccenda solo per i dottori e per i sapienti. La gnosi l’hanno combattuta, senza saperlo, le lacrime delle donne davanti alla statua dell’Addolorata, le processioni dietro i santi, i baci infiniti agli angoletti e al costato di Gesù. È stata la fede della gente vera, normale e imperfetta, che non sapeva nulla di dogmi e di teologia ma sapeva che la croce di Gesù era vera perché erano vere le loro croci quotidiane. Se il cristianesimo del terzo Millennio si salverà dalle nuove gnosi interne ed esterne alle Chiese, il primo e più efficace antidoto sarà ancora la fede del popolo, la verità della sua carne, dei suoi dolori e della sua letizia normale.
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Recensioni - I padre della Chiesa hanno combattuto l'influenza dello gnosticismo sul cristianesimo. La ricerca di soluzioni astratte alle domande dell’uomo relega in secondo piano l’incontro con Dio nei fratelli
di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 17/02/2024
Le grandi idee, nel corso dei secoli, mutano forma e accidenti ma sono sorprendentemente costanti e tenaci nella loro sostanza. È questa la ragione principale dell’importanza dello studio della storia delle idee e delle controversie attorno ad esse. La storia della cosiddetta gnosi è una di queste antiche controversie che come fiume carsico ha accompagnato per oltre due millenni lo sviluppo della storia delle religioni, le ha influenzate, cambiate, le ha nutrite e se ne è nutrita, e continua a farlo. L’enorme quantità di energie teologiche profuse dai maggiori teologi cristiani dei primi secoli nelle polemiche contro lo gnosticismo, dice di per sé la rilevanza, l’importanza e anche la qualità di quelle correnti gnostiche - quei fuoriclasse non avrebbero perso tempo a criticare chi non consideravano significativo, importante e quindi pericoloso. Lo gnosticismo fu combattuto duramente perché era molto vicino alla dottrina cristiana, gli somigliava troppo, poteva infilarsi nel cuore del cristianesimo e distruggerlo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/12/2023
Al crescente ricorso delle aziende alla consulenza è dedicato il saggio critico "Il Grande Imbroglio" (Laterza) delle economiste Mariana Mazzucato e Rosie Collington
Perché le società di consulenza da strumento di aiuto alle imprese sono diventate una debolezza di imprese, governo e istituzioni? Quando e perché la consulenza, un’industria che oggi sfiora i mille miliardi di dollari, si è trasformata da risorsa nella principale malattia della nostra economia? Il Grande Imbroglio («The big Con»), il libro scritto dalle economiste Mariana Mazzucato e Rosie Collington (Laterza, 2023), tratta esattamente questi temi: «La nostra analisi dell’industria della consulenza traccia un quadro cupo della situazione attuale. Tutti questi contratti con società di consulenza che interpretano i ruoli più vari indeboliscono le imprese, infantilizzano il settore pubblico e distorcono l’economia» (p.12). Per capire la novità del libro occorre fare una lunga premessa.
[fulltext] =>Il successo straordinario della consulenza, il fenomeno economico forse più rilevante di questo inizio di millennio, si inserisce in un cambiamento molto più generale della nostra cultura, dove il paradigma del business sta conoscendo un grande, inatteso e crescente successo. La logica della grande impresa ha preso nella vita civile il primo posto che nel Novecento era occupato dalla democrazia. Alla domanda: “vuoi fare qualcosa di buono nella società?” ieri si rispondeva: "crea democrazia, quindi partecipazione, riduci le diseguaglianze, includi più persone possibile". Su questa risposta abbiamo immaginato e poi costruito i welfare del XX secolo, i diritti umani e sociali, la scuola pubblica, la sanità universale, le pensioni, la tassazione progressiva. Col passaggio di millennio, a quella stessa domanda oggi si risponde: “se vuoi fare qualcosa di buono impara dalle imprese, è lì dove si trova l’eccellenza, lì fanno le cose serie”. Così, le grandi imprese for-profit hanno subìto una vera metamorfosi simbolica e culturale: da icona dello sfruttamento, della diseguaglianza e dell’alienazione sono divenute il simbolo perfetto del nuovo mondo, il regno del merito e della sua nuova giustizia, del benessere e persino della felicità, un mondo religioso edificato sui dogmi della meritocrazia, della leadership e degli incentivi. E così, la grande impresa, da centro del conflitto sociale, da luogo dove guardare per capire le ingiustizie del capitalismo, ha lasciato la sua crisalide nel vecchio millennio ed è diventata una bellissima farfalla civile ed etica, che ogni altra istituzione (dalla scuola alla politica) vorrebbe e dovrebbe imitare, con un inedito successo nell’ambito delle Chiese e nei Movimenti e comunità spirituali dove ormai non si riesce più a fare un capitolo generale o un’assemblea senza i professionisti della consulenza aziendale.
La consulenza sta emergendo però come seconda recente rivoluzione, che in pochi anni ha sostituito la prima forma che la cultura d’impresa aveva assunto nell’ultima parte del XX secolo, cioè il management scientifico. Infatti la prima forma che ha preso la cultura della grande impresa moderna è stata il management moderno, che ha preso a sua volta il posto della “vecchia” direzione d’impresa, sebbene senza ancora sostituire il vecchio imprenditore e lavorando con e per lui/lei. In realtà, il management scientifico è innovazione che risale alle grandi fabbriche manifatturiere della prima metà del XX secolo (non a caso si parla di “fordismo” e “taylorismo”), ma per oltre mezzo secolo e oltre la scienza del management era rimasta faccenda di ingegneri (non di economisti) ed era applicata soprattutto alla grande industria. È con gli anni ‘80 e ‘90 che il management scientifico si è esteso dalla fabbrica a ogni tipo di organizzazione, anche per il passaggio tecnologico al postfordismo. Con la fine del Millennio il fordismo è passato in molte regioni avanzate del mondo, non il suo modello di gestione delle relazioni lavorative e di governance. Così gli strumenti e le tecniche del management sono diventate cultura universale, che è uscita dalla fabbrica ed entrata nella società intera. Il manager prende così il posto da una parte dell’imprenditore e dall’altra del vecchio capo ufficio o dirigente pubblico.
Nella stagione di grande successo del management moderno è però accaduto qualcosa di veramente nuovo. È esplosa la società liquida, che entrata per prima nelle imprese. Con lavoratori liquidi, quindi fragili e insicuri, il management non funzionava più, perché anche l’impresa manageriale aveva bisogno di lavoratori già formati all’etica delle virtù nella famiglia e nella comunità. In particolare, il nuovo manager aveva pur sempre bisogno della gerarchia, e quindi lavoratori che le attribuissero un valore e che accettare di essere guidati e “controllati” con gli strumenti del management – essenzialmente incentivi e controllo. I manager si ritrovavano così inondati da una enorme richiesta di attenzione, di lamentele, di conflitti, di crisi relazionali collettive e individuali, lavoratori che stavano cambiando troppo profondamente. A loro volta, i manager non avevano, quasi mai, luoghi più “alti” nei quali scaricare e compensare le tensioni che accumulavano, perché le imprese perdevano le famiglie di imprenditori che le avevano generate. La domanda di cura delle relazioni che investiva il middle e top manager si bloccava nel management senza avere questo altri luoghi di supervisione dove gestire questa domanda proveniente dal basso delle imprese.
È in questo contesto di grande cambiamento che esplode qualche anno fa la consulenza. Già esisteva da qualche decennio, ma col XXI secolo diventa qualcosa di diverso e universale. Accanto ai manager e quello che restava dell’imprenditore nelle grandi imprese (molto poco) si è formata una pletora molto varia di consulenti, ai quali si sono aggiunti psicologi del lavoro, esperti della felicità e del benessere lavorativo, filosofi pratici del senso, della mission e dello scopo (purpose), ma anche sacerdoti, suore ed esperti di meditazione trascendentale e delle spiritualità arcaiche del Pacifico per l’accompagnamento e la formazione alla spiritualità d’azienda, per non parlare delle nuove figure di coach e counselors che si presentano ai nostri studenti come la professione sicura del futuro. Così, mezzo secolo fa a guidare le imprese erano gli imprenditori, trent’anni fa i manager, oggi i consulenti, che stanno sostituendo imprenditori e manager.
In tutto questo processo due sono i fenomeni analizzati con particolare cura dalle autrici de Il grande imbroglio: l’infantilizzazione delle aziende e l’outsourcing delle competenze. L’infantilizzazione (trattata nel capitolo 6) dei governi, delle imprese e ormai delle organizzazioni e di ogni istituzione nasce dalla loro progressiva riduzione di autonomia. Il libro, dati alla mano, fa vedere che si sta creando una vera addiction da consulenti, chiamati da imprenditori e manager sempre più insicuri; e poi come accade in tutte le dipendenze senza sostanza, per mantenere domani la stessa soddisfazione di oggi devo aumentare la dose (p.156). Imprese e imprenditori ridotti a bambini non autonomi, che per ogni scelta si rivolgono all’esterno in certa di sicurezze – la presenza delle grandi società di consulenza è anche una sorta di “certificazione” delle relazioni e della gestione delle emozione, simile alle antiche certificazioni di qualità.
Ecco perché la consulenza non cresce per offerta indotta; no, è guidata dalla domanda, perché sono le imprese (e le istituzioni) che – drogate – ne chiedono sempre di più: «L’offerta è una risposta ad una domanda» (p.104). I consulenti svolgono anche una funzione psicologica (p.127). L’infantilizzazione è dunque perdita di autonomia nelle decisioni e quindi di responsabilità e di controllo sulle scelte che vengono “appaltate” a soggetti terzi che finiscono per essere i veri conduttori delle istituzioni di oggi. Le autrici vedono anche la politica nazionale e internazionale ormai guidata soprattutto da consulenti, con un enorme problema di conflitto di interessi, perché sono le stesse compagnie di consulenza che da una parte assistono i governi per ridurre l’impatto ambientale e dall’altra le imprese per aiutarle ad aumentarlo (p.241).
Interessante poi un punto sottolineato nella parte centrale del libro: la quota di valore aggiunto che va alla consulenza non è tecnicamente profitto ma una rendita (pp.103 e seguenti), perché è parte di un gioco a somma zero con gli imprenditori, una sorta di tassa invisibile che non di rado viene traslata nei prezzi delle merci al consumo. C’è, infine, un ultimo grande pericolo che le autrici denunciano. È quello rappresentato dalla crescita nel capitalismo attuale di un potere senza responsabilità, perché i consulenti non possono e non vogliono rispondere delle conseguenze per i loro consigli che sono sempre più sostitutivi e non sussidiari alle decisioni delle imprese. Quindi non sta entrando in crisi solo l’economia ma – come ripetono molte volte Mazzucato e Collingon – è l’intero impianto democratico in sofferenza.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/11/2023
Il Black Friday è diventato l’inizio dell’anno liturgico della religione capitalistica. Come ogni nuova religione che intende soppiantarne una pre-esistente, anche il capitalismo consumista sostituisce le feste cristiane con le sue nuove feste, e sovrappone i suoi tempi liturgici a quelli precedenti. Quando una religione subentra ad un’altra non cambia l’antico ritmo del tempo sacro, più semplicemente lo occupa, e ne cambia il senso. È infatti interessante che il Black Friday segua il giorno del Ringraziamento, una delle feste religiose dei primi pellegrini.
[fulltext] =>E così, dopo aver ormai da tempo restituito il Natale alla sua prima natura di festa pagana (il ‘sol invinctus’ dei romani), e dopo aver messo a reddito le ancestrali feste dei morti con Halloween, il consumismo ha introdotto il suo avvento.
È questa sostituzione delle feste che dice, con grande efficacia, che siamo entrati nell’era post-cristiana. Perché, come ci ricordava nell’autunno del 1921 il grande filosofo e teologo russo Pavel Florenskij: “Il punto di partenza della cultura è il culto perché la realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta”. Nessuna religione diventa cultura senza culto, e il consumismo è diventato religione perché il nostro mondo è immerso nel culto del consumo. E come nel Medioevo il cristianesimo divenne cultura perché la religione cristiana entrava in ogni operazione e gesto della vita delle persone (campane, preghiere, calendari, feste, spazi misurati in avemarie, parole, narrazioni…), oggi l’economia è diventata cultura universale grazie al suo culto e culti quotidiani (comprare, vendere, pubblicità, misurare, linguaggio, narrative e storytelling delle imprese).
Mentre Florenskij pronunciava le sue lezioni di filosofia all’Accademia Teologica di Mosca, negli stessi mesi il filosofo ebreo Walter Benjamin scriveva le sue note sul Capitalismo come religione, pagine tra le più profetiche del Novecento: “Il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia”. Una religione di sola prassi, di solo culto, senza metafisica: “La trascendenza di Dio è caduta. Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della propria orbita, è l’ethos che caratterizza Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che, riconoscendo la religione capitalistica, comincia ad adempierla”. Quindi, per Benjamin, “il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo”. E la domanda diventa: chi è il superuomo del capitalismo, quell’oltre-uomo capace di vivere in un mondo dove il Dio (ebraico-cristiano) è morto perché “lo abbiamo ucciso noi” (La Gaia Scienza)?
Dopo le analisi di Max Weber, abbiamo pensato che il grande eroe del capitalismo (protestante-calvinista), il suo superuomo, fosse l’imprenditore, un protagonista non molto diverso dal capitalista di Marx e dall’industriale di Saint-Simon. Per Benjamin, però, non è così, o quantomeno non è più così. La prima stagione del capitalismo dell’Otto e Novecento aveva avuto come eroe l’imprenditore-capitalista, che grazie al successo negli affari sperava di essere benedetto e predestinato. Ma col passaggio di millennio il superuomo del capitalismo è diventato il consumatore. Inoltre, il tratto saliente della nuova religione di puro culto è per Benjamin “la durata permanente del culto”, perché “il capitalismo è la celebrazione di un culto ‘senza tregua e senza pietà’. Non ci sono giorni feriali; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante”. Il sogno del consumatore-devoto è un Black Friday di 24 ore al giorno che duri tutto l’anno, un mondo dove il sacrificio (lo sconto) sia permanente - il sacrificio viene offerto dalle imprese al consumatore, invertendo la logica originaria dei sacrifici tradizionali, a dirci che l’idolo-superuomo non è il profitto dell’impresa, né la merce, ma il consumatore.
Finché il capitalismo si era espresso come un’etica dell’impresa e del lavoro era rimasto una faccenda elitaria e di classe; è stato il passaggio dall’impresa al consumo a trasformarlo in religione universale (cattolica) e popolare, che ha occupato pienamente e profondamente l’anima dei popoli comunitari dei Sud, quelli legati all’etica della vergogna e al consumo vistoso, dove la retorica produttiva non era riuscita ad entrare. Il culto universale poteva avvenire solo uscendo dalla fabbrica ed entrando nei consumi, dove la benedizione si ottiene semplicemente consumando, meglio se a debito, un debito-schuld dal quale il nuovo capitalismo è riuscito ad eliminare l’antico senso di colpa.
Ogni religione popolare tende a moltiplicare le sue feste, perché piacciono al popolo e piacciono ai sacerdoti che ci guadagnano. Negli anni quaranta del Settecento, Antonio Ludovico Muratori, lanciò una forte battaglia culturale e politica per cercare di convincere papi e vescovi dell’importanza di ridurre le feste di precetto nella Chiesa cattolica, che in quegli anni erano state fissate a trentasei l’anno, oltre alle domeniche. Il sacerdote Muratori voleva ridurre le feste perché era convinto che la proliferazione delle feste peggiorasse la condizione dei poveri: “Per i poveri come va?” (Lettera del 14.8.1742). Le molte feste oltre a ridurre i giorni di lavoro portavano infatti i poveri ad indebitarsi per far festa. Ieri, e oggi.
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Con l’avanzare del nuovo culto consumista dobbiamo aspettarci una nuova proliferazione delle feste di precetto, perché il consumatore va venerato. Alle antiche trasformate se ne aggiungeranno di nuove. I nuovi sacerdoti si arricchiranno grazie ai loro ‘sacrifici’, e i poveri saranno sempre più distratti e sempre più poveri.Editoriali - Religione del consumo e nuovi culti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/11/2023
Il Black Friday è diventato l’inizio dell’anno liturgico della religione capitalistica. Come ogni nuova religione che intende soppiantarne una pre-esistente, anche il capitalismo consumista sostituisce le feste cristiane con le sue nuove feste, e sovrappone i suoi tempi liturgici a quelli precedenti. Quando una religione subentra ad un’altra non cambia l’antico ritmo del tempo sacro, più semplicemente lo occupa, e ne cambia il senso. È infatti interessante che il Black Friday segua il giorno del Ringraziamento, una delle feste religiose dei primi pellegrini.
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stdClass Object ( [id] => 19629 [title] => Non va mai distolto l'orecchio dal loro grido [alias] => non-va-mai-distolto-l-orecchio-dal-loro-grido [introtext] =>Opinioni - In occasione della VII Giornata mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco, studiare insieme soluzioni di progresso
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/11/2023 *
La povertà è parte della condizione umana. L’essere umano, l’Adam, è anche un povero. Lo è quando nasce e per molti anni della sua infanzia, lo è quando si ammala, quando invecchia, lo è quando muore. Perché la povertà non è altro che una declinazione della fragilità, della non-autonomia e della vulnerabilità, che sono dimensioni costitutive della vita di ogni donna e di ogni uomo, ieri, oggi, e sempre, sebbene la storia dell’umanità sia anche una buona lotta per ridurre la fragilità dell’esistenza. La povertà, dunque, non riguarda gli altri: riguarda noi. Al tempo stesso, le povertà sono molte, e il riconoscere la comune condizione di povertà degli esseri umani non deve distrarci dal distinguere le forme della povertà, dall’individuare quelle ingiuste, evitabili, alleviabili ed eliminabili.
[fulltext] =>Il Vangelo ha generato una sua propria visione della povertà, diversa e rivoluzionaria, che non è diventata cultura. Il Cristianesimo ha seguito l’insegnamento di Gesù in molte cose, poco nella sua visione della povertà. Gesù ha chiamato i poveri ‘beati’, ha proposto ai suoi seguaci la rinuncia alla ricchezza per ottenere una libertà diversa e più grande. E poi, alla sua sequela, è arrivato Francesco che amò la povertà alla follia, al punto di fare dell’altissima povertà l’ideale della sua vita, modello per i suoi tanti fratelli e sorelle che continuano ancora a scegliere liberamente la povertà evangelica anche per liberare coloro che la povertà non la scelgono ma la subiscono.
Per questa ragione, nei vangeli la parola povertà ha una semantica diversa da quella usata dai governi, dagli economisti, dalle istituzioni. Perché la povertà cristiana non indica solo un male, una mancanza, una malattia da combattere, e se insieme alle povertà cattive dovessimo eliminare dalla terra anche le povertà di Gesù, di Francesco, di Madre Teresa e dei loro tanti seguaci (cosci e inconsapevoli) il mondo sarebbe davvero molto più povero. La povertà del Vangelo ha uno spettro molto ampio, che va dalla tragedia della miseria fino alla beatitudine di chi sceglie la povertà come via di liberazione e auto-liberazione per una diversa felicità.
Papa Francesco ha scelto per questa settima Giornata mondiale dei poveri una bella frase tratta dal Libro di Tobia: “Non distogliere lo sguardo dal povero” (Tb 4,7). La Chiesa è interessata prima di tutto al povero, ai nuovi poveri di oggi (nelle solitudini, nei cambiamenti climatici, nella perdita di senso del vivere) e a quelli di ieri; quindi è interessata alle persone concrete, solo dopo al concetto astratto di povertà. La realtà è superiore all’idea, quindi i poveri sono più importanti della povertà. Ecco perché è molto significativo che oggi sia la giornata dei poveri. È necessario non distogliere lo sguardo dalle persone che si trovano in condizioni di povertà: guardarle, poi toccarle, abbracciarle.
Sono molti i significati di questo invito a non distogliere lo sguardo dal povero, a vederlo, guardarlo. Il nostro capitalismo non capisce i valori della povertà, non stima i poveri, li disprezza perché ne ha paura di riconoscere la propria povertà (l’aporofobia), e quindi li nasconde illudendosi che distogliendo lo sguardo si possano eliminare i poveri. Ogni cura di un povero inizia dal decidere di volerlo vedere, da qualcuno che chiama quella sua povertà e le grida: ‘vieni fuori’.Una importante dimensione del ‘non distogliere lo sguardo dal povero’ l’ha indicata Papa Francesco ai giovani di ‘The Economy of Francesco’: “Anche nella teologia abbiamo troppe volte ‘studiato i poveri’ ma abbiamo poco studiato ‘con i poveri’: da oggetto della scienza devono diventare soggetti, perché ogni persona ha storie da raccontare, ha un pensiero sul mondo: la prima povertà dei poveri è essere esclusi dal dire la loro, esclusi dalla stessa possibilità di esprimere un pensiero considerato serio. Si tratta di dignità e rispetto, troppo spesso negati” (6 ottobre 2023). Troppo rari sono infatti i pensieri, i libri, gli studi dei poveri sulla loro condizione e sulla condizione di tutti. Questa mancanza di ascolto e di riconoscimento del loro punto di vista è l’origine di molta sofferenza delle persone povere. Senza ascoltare cosa i poveri pensano di loro stessi e dei loro problemi anche le azioni esterne sono inefficaci se non dannose. Tutto questo si chiama sussidiarietà, che porta a riconoscere che la prima competenza, quella davvero essenziale per uscire dalle povertà cattive, è la competenza che possiede chi vive dentro quella concreta e specifica condizione di povertà. Chi è più distante ha altre competenze preziose e necessarie solo se e quando arrivano dopo, come aiuto, sussidio, alla quella prima competenza che ha solo chi vive dentro il suo problema, quasi mai riconosciuta come tale.
Ecco perché questa giornata dei poveri potrebbe essere una preziosa occasione per ascoltare il pensiero, le parole, le idee dei poveri, sulla loro vita e anche sulla nostra, perché il mondo visto dalla prospettiva di Lazzaro che raccoglie le briciole dei nostri lauti pasti rivela paesaggi e prospettive diverse e necessarie per comprenderlo. Diamo loro la parola, non per compassione ma per stima e interesse. Ascoltiamoli, non distogliamo lo sguardo dal loro volto e neanche dal loro pensiero e dalle loro parole. Non basta guardare i poveri: occorre anche ascoltare la loro narrazioni del mondo, riconoscere il loro diritto a raccontare storie, visioni, sogni. Nessun povero coincide con la sua povertà, perché è più grande del suo problema, ed è in questa eccedenza tra la persona e la sua povertà dove si trova il principio della sua liberazione.
Lo sguardo sul povero è essenziale, ma non basta. Il Vangelo ci offre anche qui spunti importanti. Nel racconto dell’episodio del cieco di Gerico si legge: “Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare… Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse” (Lc 18,35-38). Ogni povertà non-scelta (come era la cecità nel mondo antico) è anche l’impossibilità di gridare perché chi è attorno al povero gli strozza il grido in gola - per vergogna, per non disturbare, per illudersi che le povertà non esistano. Allora insieme al non distogliere lo sguardo è essenziale non distogliere l’orecchio dal grido del povero - nella Bibbia l’orecchio è più importante degli occhi: Dio non si vede, ma è una voce che parla. Il cieco di Gerico nonostante i tentativi dei discepoli di zittirlo “gridava ancora più forte” (18,39), e Gesù lo ascoltò e lo guarì; a ricordarci che il primo diritto fondamentale del povero è il diritto al grido, e il primo dovere fondamentale degli uomini e delle donne è l’ascolto responsabile di quel grido.
Infine, un grande meccanismo collettivo che il nostro sistema economico-sociale ha trovato per distogliere lo sguardo dal povero è la meritocrazia. Questa incontra facili consensi perché si presenta come una nuova e migliore forma di giustizia e persino di inclusione dei poveri; ma appena si va a guardare i frutti che genera si capisce immediatamente che la meritocrazia, con la sua retorica del merito, è essenzialmente una ideologia che si illude di non vedere il povero cambiandogli semplicemente nome, chiamandolo demeritevole. La meritocrazia sta sempre più assumendo le sembianze di una religione, e quindi di una teodicea, cioè una spiegazione e giustificazione del male e del disordine del mondo. Di fronte al dato di fatto che sulla terra gli esseri umani hanno sorti e fortune diverse, questa apparente ingiustizia dell’ordine sociale viene spiegata e giustificato ricorrendo ad un principio etico che ristabilisce l’ordine razionale e giusto che appare violato: se sei ricco la tua ricchezza dipende (o deve dipendere) dai tuoi meriti, e quindi se sei povero la tua povertà è frutto del tuo demerito. Così il dato di fatto della povertà (e della ricchezza) diventa un dato di giustizia - il povero merita la sua sventura, come cercavano di argomentare gli amici di Giobbe, che però non si lasciò convincere da quelle antiche teologie del merito.
Il giorno in cui l’ultimo povero si convincerà dei suoi demeriti, i ricchi saranno tranquilli e giustificati nel loro non-sguardo e non-ascolto, il culto meritocratico sarà finalmente perfetto. E i poveri continueranno, invano, a gridare, fuori dal nostro sguardo.
* pubblichiamo qui la versione integrale dell'articolo, pubblicata su Avvenire in forma ridotta
Credits foto: © Sebastiano Cerrino
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In occasione della VII Giornata mondiale dei Poveri istituita da Papa Francesco, studiare insieme soluzioni di progresso
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/11/2023 *
La povertà è parte della condizione umana. L’essere umano, l’Adam, è anche un povero. Lo è quando nasce e per molti anni della sua infanzia, lo è quando si ammala, quando invecchia, lo è quando muore. Perché la povertà non è altro che una declinazione della fragilità, della non-autonomia e della vulnerabilità, che sono dimensioni costitutive della vita di ogni donna e di ogni uomo, ieri, oggi, e sempre, sebbene la storia dell’umanità sia anche una buona lotta per ridurre la fragilità dell’esistenza. La povertà, dunque, non riguarda gli altri: riguarda noi. Al tempo stesso, le povertà sono molte, e il riconoscere la comune condizione di povertà degli esseri umani non deve distrarci dal distinguere le forme della povertà, dall’individuare quelle ingiuste, evitabili, alleviabili ed eliminabili.
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