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Economia Civile

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La studiosa Joan Taylor indaga, con un approccio storico, su ciò che siamo in grado di sapere sui primi anni di Cristo e sul contesto in cui viveva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 24/12/2025

Per entrare nel contenuto de La vera storia di Gesù Bambino di Joan Taylor (Sonda, pagine 432, euro 24,90), conviene partire dalla conclusione: «Questo libro ha esaminato ciò che siamo in grado di sapere dell’infanzia di Gesù grazie alle testimonianze letterarie e archeologiche [...]. Abbiamo visto che in generale c’è un profondo scetticismo tra gli storici: non è detto che si possa sapere qualcosa di Gesù prima della sua missione da adulto. Si sostiene di frequente che è nato a Nazaret, anche se non lo afferma nessuna fonte paleocristiana. Allo stesso modo, è diffusa anche l’ipotesi che non sia un discendente di Davide, nonostante sia ampiamente documentato nella prima letteratura cristiana». E conclude con la sua tesi generale: «Uno scetticismo che qui abbiamo contestato». Infatti, secondo la Taylor, che è una seria e accreditata studiosa delle origini cristiane e del giudaismo del Secondo Tempio, «sembra chiaro che Gesù era un bambino su cui gravavano forti aspettative, un peso che veniva dal passato e dava forma a una chiara identità giudaica, segnata dalla discendenza davidica, dall’essere originario di Betlemme ma strappato via dalla casa ancestrale, rifugiato in Egitto ed emigrato in Galilea, consapevole della persecuzione». 

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Un libro ben scritto, documentato e serio pur essendo rivolto ad un pubblico di non specialisti, molto prezioso per farsi una buona idea sul contesto storico e religioso nel quale Gesù nacque e visse la sua infanzia (il libro termina con Gesù bambino presentato al tempio). La Taylor non ci presenta tesi particolarmente nuove sulla infanzia di Gesù, soprattutto se confrontiamo il suo libro con gli studi degli ultimi cinquant’anni, da quando cioè gli esegeti e gli storici hanno iniziato a prendere sul serio i dati storici riportati dai vangeli senza più liquidarli troppo velocemente come mito o fantasia narrativa degli evangelisti, come si era invece fatto a partire almeno dall’Ottocento, soprattutto in ambito protestante. La ricerca più recente ha invertito l’onere della prova: prima di scartare un dato riportato dal Nuovo Testamento, occorre portare evidenza storica contraria, altrimenti è bene dare fiducia a quegli antichi autori. Come fa la Taylor, che quindi recupera alcuni elementi di storicità su antiche questioni che gli storici del passato avevano liquidato come infondati. Tra questi i racconti dell’infanzia di Matteo e Luca, gli unici due tra i canonici che ne parlano, con importanti elementi di diversità - la centralità di Giuseppe in Matteo, quella di Maria in Luca, l’ambiente regale (i Magi, Erode) di Matteo e quello povero di Luca (i pastori), e molte altre. La Taylor valorizza anche altri dettagli presenti in alcuni vangeli apocrifi, in particolare il Protovangelo di Giacomo e il Vangelo degli ebrei. 

Grande spazio è dedicato alle varie questioni legate alla famiglia e ai famigliari di Gesù, che sono sempre state quelle sulle quali gli storici hanno avuto i dubbi maggiori e più radicali, che hanno toccato e toccano alcuni aspetti centrali delle tradizione cattolica e dei dogmi mariani (la verginità perpetua di Maria, l’immacolata concezione …). Si sofferma a lungo anche sulla vexata questio del luogo della nascita storica di Gesù - Betlemme o Nazaret: la Taylor propende per la prima -, sulla storicità della Strage degli innocenti, dei re Magi e la stella. La studiosa inglese discute le varie ipotesi antiche e recenti alla luce degli scavi archeologici (molto presenti nel libro), presenta le molte tesi degli studiosi, mostra la difficoltà di questi racconti sul piano storico, e poi aggiunge, in linea con la sua impostazione di fondo: «ma non significa che gli eventi fossero tutti completamente falsi». Una lettura conservativa, che qualcuno chiamerebbe conservatrice (che ricorre all’ipotesi dei vangeli dell’infanzia basati su ricordi dei famigliari di Gesù), ma che, onestamente, non ci disturba, anche perché presentata sempre con rispetto e con il beneficio del dubbio. Ma la seguiamo di meno quando, riguardo la storicità dei Magi, arriva a dire, con notevole creatività: «Potrebbe esserci il ricordo di una stella reale identificata da alcuni magoi che vennero a Gerusalemme e poi si recarono a Betlemme, un evento che fece infuriare del tutto Erode. Il nocciolo della storia potrebbe non essere che i magoi si recarono “dal bambino Gesù”, ma il fatto che siano venuti in visita Gerusalemme, alla ricerca di un bambino sulla base di un oroscopo regale suscitò l’aspettativa che fosse nato un grande re, soprattutto perché la morte di Erode sembrava imminente. In questo caso, che dire allora dei possibili ricordi familiari?».

Sulla famiglia di Gesù e sull’infanzia sappiamo, in realtà, molto poco. E la Taylor ne è ben consapevole, anche se le piace presentare i racconti teologici dell’infanzia come potenzialmente storici, o almeno non incompatibili con la storia.
Dai quattro vangeli canonici (e da alcuni apocrifi) noi leggiamo alcune poche cose importanti riguardo la famiglia di Gesù, in particolare di sua madre e i suoi fratelli e sorelle, che, come ricorda la Taylor, erano probabilmente sei: Giacomo, Salomé, Joset, Maria, Giuda e Simone. Già Marco mostra alcune tensioni tra Gesù e il suo clan famigliare. Questi conflitti sono importanti per molte ragioni. Dicono la portata rivoluzionaria della persona e del messaggio di Gesù e dei suoi discepoli. Gesù come Geremia, che trovò anche lui nella sua famiglia di Anatot i suoi primi avversari. Anche Giovanni riporta una certa ostilità familiare: «Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui». Gesù è esplicito nell’affermare che la sua famiglia è ormai diventata un’altra, elemento essenziale per la nascita della Chiesa, dove, comunque, i suoi famigliari continuarono ad avere un peso non piccolo: si pensi a Giacomo, “il fratello del Signore”, di cui ci parla Paolo (1 Cor 15). Per i cristiani il sangue più importante diventa un altro, che genera una nuova fraternità e figliolanza nello Spirito. Alla luce di tutti i vangeli sembra che la parentela sia un ostacolo in più, non un aiuto, per capire il messaggio di Gesù. Nel mondo antico la famiglia era una istituzione fondamentale, era impossibile prescindere dai legami familiari all’interno dei più ampi rapporti sociali; la rete famigliare era la forma con cui si entrava in società (ogni persona era sempre figlio o figlia di, fratello o sorella di, padre o madre di …). L’io non era articolo autonomo per delineare e definire in quel mondo una persona, c’era bisogno accanto di un “noi” più ampio entro il quale l’io, ancora molto fragile, poteva collocarsi.

Importante è il ruolo dei “fratelli” di Gesù. Già nell’episodio delle nozze di Cana, i fratelli non sono i discepoli, sono fratelli carnali (adephoi). Il vangelo di Giovanni ci mostra un “movimento” di Gesù composto da (almeno) tre gruppi: 1) gli apostoli, 2) i discepoli (alcuni itineranti altri sedentari, che comunque ascoltano la sua parola e le “credono”), 3) i famigliari, cioè la madre e i fratelli (non sono menzionati né il padre né le sorelle). I fratelli non sembrano esser qualificati come discepoli ma come un gruppo speciale e a parte, che comunque ha il suo ruolo e il suo peso nella vita pubblica di Gesù, fin dall’inizio.

La Taylor ci dice che non abbiamo ragioni esegetiche né di teologia biblica per ipotizzare che questi fratelli siano fratellastri (cioè figli per sola parte di padre) o cugini. Per trasformare questi fratelli in discepoli o cugini c’è bisogno di una mariologia (e di una cristologia) che sarà sviluppata secoli dopo la composizione dei vangeli. Diversamente dai Sinottici, che ci parlano della “madre e dei fratelli” di Gesù (adulto) non ancora seguaci del figlio, in Giovanni sembra che i fratelli siano parte della prima comunità di Gesù, anche se in una posizione problematica e almeno in parte diversa.

Fa parte della rivoluzione culturale di Gesù anche l’aver messo in secondo piano gli essenziali legami naturali familiari, e chiamando Padre quello celeste - «chi sono mia madre e i miei fratelli?». E anche quando li ascolta (a Cana), l’obbedienza non è mai immediata. Tutto ciò ci ricorda molto da vicino la spoliazione di Francesco di fronte a suo padre: «D’ora in poi voglio dire: “Padre nostro, che sei nei cieli”, non più “padre mio Pietro di Bernardone”» (Fonti francescane 1415). Anche in Assisi la famiglia di Francesco pensava che fosse fuori di sé, e Francesco non ha nessuna esitazione a fare la sua opzione fondamentale, anche qui a imitazione di Gesù.

Un bel libro, dunque, quello della Taylor, molto utile per avvicinarsi in modo storicamente e biblicamente maturo a Gesù bambino, alla sua famiglia e alla sua persona, senza perdere lo stupore per quel Logos fattosi carne. Il libro custodisce il mistero, senza banalizzarlo. Ed è davvero molto.

Credits foto: © Dipinto di John Everett Millais - Cristo nella casa dei suoi genitori (`La bottega del falegname'), Wikicommons

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La studiosa Joan Taylor indaga, con un approccio storico, su ciò che siamo in grado di sapere sui primi anni di Cristo e sul contesto in cui viveva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 24/12/2025

Per entrare nel contenuto de La vera storia di Gesù Bambino di Joan Taylor (Sonda, pagine 432, euro 24,90), conviene partire dalla conclusione: «Questo libro ha esaminato ciò che siamo in grado di sapere dell’infanzia di Gesù grazie alle testimonianze letterarie e archeologiche [...]. Abbiamo visto che in generale c’è un profondo scetticismo tra gli storici: non è detto che si possa sapere qualcosa di Gesù prima della sua missione da adulto. Si sostiene di frequente che è nato a Nazaret, anche se non lo afferma nessuna fonte paleocristiana. Allo stesso modo, è diffusa anche l’ipotesi che non sia un discendente di Davide, nonostante sia ampiamente documentato nella prima letteratura cristiana». E conclude con la sua tesi generale: «Uno scetticismo che qui abbiamo contestato». Infatti, secondo la Taylor, che è una seria e accreditata studiosa delle origini cristiane e del giudaismo del Secondo Tempio, «sembra chiaro che Gesù era un bambino su cui gravavano forti aspettative, un peso che veniva dal passato e dava forma a una chiara identità giudaica, segnata dalla discendenza davidica, dall’essere originario di Betlemme ma strappato via dalla casa ancestrale, rifugiato in Egitto ed emigrato in Galilea, consapevole della persecuzione». 

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Cosa ci dice la storia sull’infanzia di Gesù

Cosa ci dice la storia sull’infanzia di Gesù

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Agorà - Tra il XIII e il XV secolo l’economia diventa un tema di dibattito teologico e raggiunge un ampio pubblico: il saggio di Luca Ughetti Predicare l’economia, Carocci, 2025.

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/11/2025

I mercanti hanno sempre saputo che il mercato era una forma di reciprocità e di amicizia civile. Scambiare merci non era né più né meno civile che amministrare un comune o una confraternita. Chi invece lo sapeva molto meno erano i teologi, i vescovi e i papi, che, in base al principio che l’idea della realtà fosse superiore alla realtà, hanno raccontato e normato mercati, commerci, contratti e finanza mostrando una conoscenza piccola dei mercati e delle transazioni reali, troppo piccola perché l’intero medioevo e ancor più l’età moderna cattolica potessero conoscere una vera alleanza per il Bene comune tra laici e chierici, tra i documenti ufficiali della Chiesa e le scritture contabili dei mercanti e dei banchieri. Nei trattati morali di teologi e pastori della Chiesa si leggevano condanne a prestiti a interesse, ai profitti dei commercianti, come se nelle città reali si trovasse qualcuno che prestava denaro gratuitamente o che portava panni da Firenze a Parigi senza nessun guadagno.

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Ma mentre teologi e dottori scrivevano manuali sulle monete, i mercanti dovevano lavorare. Tutti sapevano, inclusi gli autori dei trattati morali, che gli operatori economico-finanziari non lavoravano gratis, che ricorrere ai loro servizi costava, e che il prezzo da pagare per ottenere la merce-moneta si chiamava interesse, che era accettato da tutti gli operatori soprattutto se non era eccessivo. Tra il XIV e il XV secolo Venezia contava più di cento banchi, cristiani ed ebrei, Firenze settanta, Napoli quaranta, Palermo quattordici. La Chiesa era esperta di ambivalenze, anche di quelle economiche. Conosceva per nome i grandi banchieri in città, sedevano insieme nei consigli di governo, e soprattutto si avvalevano dei loro servizi. Tutto questo lo sapevano tutti, in particolare i cittadini, ma lo si diceva poco, anche perché chi scrive la storia, in genere intellettuali, sopravvalutano il peso dei libri e delle idee, e si dimenticano, o sottovalutano, che la realtà si impone con i suoi bisogni e i suoi desideri. Dall’alto delle loro cattedre e del loro latinorum, i teologi facevano calare proibizioni e vincoli che rendevano molto complicata la vita ai mercanti e alla gente, inclusi i mercanti onesti, e soprattutto quei poveri che in buona fede volevano tutelare.

Predicare economia di Ughetti si inserisce nel filone di studi, riaperto da maestri come Amleto Spicciani e Giocomo Todeschini, che pone al centro gli ordini mendicanti tra Duecento e seconda metà del Quattrocento, nel centro Italia (soprattutto Toscana, Umbria, Marche), per la comprensione della nascita dell’economia di mercato. Il libro è una raccolta di saggi (e quindi, per sua natura, le ripetizioni sono, quasi, inevitabili), e offre molti ispirazioni a chi ama conoscere meglio le radici dell’economia italiana europea, in particolare quello spirito del capitalismo meridiano precedente la Riforma, e quindi una narrativa diversa dalle analisi di Max Weber sulla etica protestante.

I primi protagonisti del libro sono due predicatori domenicani nella Firenze tra Duecento e Trecento, Remigio de’ Girolami e Taddeo Dini; segue poi una ampia analisi di alcune opere meno conosciuti di Bernardino da Siena e di alcuni suoi discepoli dell’Osservanza francescana, Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca (maestro di quel Marco di Montegallo, di cui abbiamo parlato più volte su queste pagine, in quanto fondatore di Monti di Pietà e di Monti frumentari).

I domenicani, lo sappiamo, erano meno aperti dei francescani (Olivi, Scoto) alla novità dei mercanti e dei mercati. La loro critica dei profitti e ancor più delle usure, emerge con forza dal volume: “Ogni usuraio pecca, e ogni peccatore è usuraio” (Remigio, p. 42). Interessante è scoprire la vasta gamma di animali e di bestiari usata per descrivere i peccati di mercanti e usurai: aquila, balena, serpente, asino, cani. I cani, fin da Gerolamo, era l’appellativo preferito per gli ebrei, che divennero l’immagine perfetta dell’usuraio - un forte e tenace anti-semitismo ha accompagnato la fondazione dell’economia di mercato, un aspetto cui il libro accenna ma sviluppa poco.

Importanti le pagine su Bernardino, che è caratterizzato dall’ambivalenza, che è la stessa del suo tempio. In certi testi il grande predicatore senese mostra importanti aperture verso il mercato e i mercanti, se la loro attività soddisfa la sei condizioni indicate dalla teologia e dal diritto medioevale: persona, causa, tempo, luogo, consorzio, modo. A queste sei note morali, Bernardino, rifacendosi (con una certa creatività) a Scoto, ne aggiunge una settima: il danno comune, che è una sua versione in negativo del bene comune. In quei sermoni troviamo sempre parole di condanna senza eccezioni per le usure, ma alcune buone parole nei confronti del commercio, come quando Bernardino usa persino metafore economiche per parlare della Salvezza (“Dio mercante”), e della “mercantia amoris” (p. 92). Ma troppo spesso Bernardino trascurava un dato che lui stesso e gli altri predicatori sapevano molto bene: che i grandi mercanti e i grandi usurai erano spesso le stesse famiglie che venivano tollerati in quanto banchieri grazie alle loro filantropia in quanto mercanti. Si pensi, su questo, ad uno dei messaggi del ‘Mercante di Venezia’ di Shakespeare: Antonio, mercante, che interpretava la parte della vittima e che si vantava di prestare gratis, mentre a Shylock, usuraio, spettava quella del carnefice - una tesi che Shakespeare mette in discussione.

All’analisi di questa settima condizione di Bernardino, Ughetti dedica molte pagine, dalle quali emerge la radice della sostanziale diffidenza dei predicatori medioevali nei confronti dei mercanti. Si trova nell’ipotesi teorica, implicita ma chiara e forte (anche se Ughetti non ce lo dice), che i commerci si svolgano in una costante condizione di quella che noi chiameremmo oggi ‘asimmetria informativa’, dove il mercante è la parte più informata e abusa delle sue conoscenze per truffare il popolo semplice. Questo emerge chiaramente dal bernardiniano Giacomo della Marca, quando, negli anni 1440-1450, in una questio del suo Quaresimale, elenca i trucchi truffaldini di un commerciante (Mastro Bartolomeo): “Primo si è del numerare, di colui che conta e inganna; che nel contare tanto a fretta viene a fare sbalordire colui o colei che riceve i denari: perché il suo contare ha fretta (“to’ to’ to’ to’ uno, due, tre, cinque, sette, otto, dieci, tredici, quattordici, diciassette, diciannove, venti”) e la donnicciuola che non ha tanto intelletto, si crede che siano quelli che tu dici e riceveli come tu le dai, e va a casa e comincia a contare a quattrino a quattrino e trovasi essere ingannata di tre soldi!” (p. 218). Questa ipotesi, che certamente qualche volta e in certi mercati spesso si verifica, veniva da quei frati estesa a regola generale delle transazioni. Da qui la loro conclusione che quello del rigattiere non fosse un lavoro lecito perché non utile al bene comune (cioè al bene del comune, cioè della città), perché basato su quegli imbrogli.

I mercanti erano ben coscienti che spesso il mutuo vantaggio era asimmetrico (+4, +1) per i molti rapporti di forza e di informazioni, ma anche ieri raramente chi accettava uno scambio lo faceva perdendo intenzionalmente ricchezza e utilità; anche perché gli scambi erano ripetuti, le persone tornavano e c’erano effetti reputazionali importanti. Ma quando il contratto arrivava a generare un segno meno da qualche parte del contratto (+1;-1, +4;-1…), gli operatori sapevano benissimo che si stava uscendo dall’economia e si entrava nel furto, si lasciava la fisiologia e iniziava la patologia del mercato. E per queste azioni sbagliate si confessavano, chiedevano perdono e restituivano ogni tanto il maltolto, magari nei giubilei o in punto di morte, come ci ha raccontato quasi un secolo fa Armando Sapori. Nell’ambito finanziario l’asimmetria è molto grande, e per questo era seguito dalle leggi con grande attenzione, ma anche qui c’era un ampio raggio di area di mutuo vantaggio, che tutti conoscevano molto bene – e non erano rare le proteste della gente quando le autorità civili e religiose espellevano gli ebrei e i loro banchi dalle città medievali e moderne. Anche in alcune pagine di Bernardino il mutuo vantaggio nei mercati emerge, ma in tante altre è negate, alimentando l’idea di mercanti (i piccoli soprattutto) come ladri e imbroglioni, da guardare con diffidenza.

E sulla base di questa parziale teoria del valore, Giacomo della Marca costruisce tutta una casistica, che farebbe impallidire le attuali borse valori, dove il “modo” del contratto non deve essere “Malignus, Falsus, Infedelis, Iniustus, Crudelis” (p. 214), e poi venti speci di queste cinque generi (dall’inviluppare al falso cambiare). Sempre nel Quaresimale troviamo un altro suo ipotetico dialogo con il mercante che rivendicava la liceità del suo lavoro perché “nutriva la città”, e a questa tesi così ribatteva: “La prima motivazione è con ogni evidenzia falsa, poiché non ho mai visto alcuno morire di fame se non chi è in carcere per debiti o chi viene spogliato dei propri beni, dato che Dio dà nutrimento agli uomini” (p. 221).

Leggendo questo libri ed altri simili ci accorgiamo che l’economia di mercato in Italia e in Europa è riuscita a svilupparsi nonostante l’azione dei predicatori. I mercanti e i banchieri non hanno ascoltato le casistiche dei predicatori, hanno cercato di continuare a lavorare, anche perché molti altri francescani, mentre i loro colleghi professori di teologia scrivevano trattati in latino, erano amici dei mercanti, loro confessori, li incontravano nei terz’ordini, e li incoraggiavano oltre i divieti e le condanne dei trattatisti e predicatori. Ma soprattutto i mercanti e gli operatori economici hanno sviluppato, nei paesi cattolici, una doppia morale che è ancora alla base di tante anomalie latine, dai condoni all’evasione diffusa. Non siamo stati capaci di generare una vera cultura di fiducia tra mercato, religione e città, e anche per queste ragioni nella nostra bella Costituzione repubblicana non troviamo le parole imprenditore, mercato, banca.

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Agorà - Tra il XIII e il XV secolo l’economia diventa un tema di dibattito teologico e raggiunge un ampio pubblico: il saggio di Luca Ughetti Predicare l’economia, Carocci, 2025.

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/11/2025

I mercanti hanno sempre saputo che il mercato era una forma di reciprocità e di amicizia civile. Scambiare merci non era né più né meno civile che amministrare un comune o una confraternita. Chi invece lo sapeva molto meno erano i teologi, i vescovi e i papi, che, in base al principio che l’idea della realtà fosse superiore alla realtà, hanno raccontato e normato mercati, commerci, contratti e finanza mostrando una conoscenza piccola dei mercati e delle transazioni reali, troppo piccola perché l’intero medioevo e ancor più l’età moderna cattolica potessero conoscere una vera alleanza per il Bene comune tra laici e chierici, tra i documenti ufficiali della Chiesa e le scritture contabili dei mercanti e dei banchieri. Nei trattati morali di teologi e pastori della Chiesa si leggevano condanne a prestiti a interesse, ai profitti dei commercianti, come se nelle città reali si trovasse qualcuno che prestava denaro gratuitamente o che portava panni da Firenze a Parigi senza nessun guadagno.

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Frati mendicanti, i primi maestri di economia

Frati mendicanti, i primi maestri di economia

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 Editoriali - Nuovi culti e resistenza civile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/11/2025

Quest’anno celebriamo i cinquant’anni dalla morte di Pierpaolo Pasolini. Guardando la preparazione del ‘black friday’, ormai trasformato nella ‘black week’ se non nel 'black month’, mi chiedevo cosa avrebbe detto Pasolini di cosa è diventato questo capitalismo consumista che lo scrittore friulano aveva colto in un suo stadio ancora ibrido e incipiente. In realtà, mezzo secolo prima di lui, Walter Banjanim e Pavel Florenskji avevano già profeticamente annunciato che il capitalismo sarebbe diventato presto una vera e propria religione, che avrebbe sostituito il cristianesimo: “In Occidente il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo” (W. Benjamin). Questi tre grandi autori avevano dunque intuito la natura del capitalismo, e soprattutto avevano colto la grande metamorfosi in atto: il primo spirito del capitalismo dell’Ottocento, associato al lavoro, alla fabbrica e agli imprenditori, si stava trasformando nello spirito del consumo totale, un nuovo culto globale che stava generando una nuova cultura globale.

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La natura consumista del capitalismo globale è particolarmente rilevante e decisiva nelle cosiddette ‘culture della vergogna’ (nella definizione della sociologa Ruth Benedict, 1946), distinte dalle ‘culture della colpa’ che sono invece tipiche dei paesi nordici e di matrice protestante. Nei paesi della ‘cultura della vergogna’ la povertà e la ricchezza sono misurate e valutate attraverso gli occhi degli altri. Nel XXI secolo, poi, con la diffusione della meritocrazia operata dal business di natura nord-americano, alla povertà come vergogna si è aggiunta la povertà come colpa (demerito). Simmetricamente, anche la ricchezza vale e produce soddisfazione solo se è vista dagli altri. Nei paesi cattolici essere ricchi senza che nessuno lo veda, lo sappia e lo invidi, vale poco. La ricchezza è tale solo se ostentata e ammirata dagli altri.

Si comprende così che il capitalismo centrato sui consumi esercita nelle culture della vergogna una seduzione invincibile: anche se siamo poveri di reddito e di lavoro, nel consumo possiamo sembrare ricchi - le stesse auto, gli stessi divani, le stesse vacanze. Un consumo alimentato e drogato dai prestiti facili e dall’illusione del gioco d’azzardo e dei ‘pacchi’ in Tv.

È in questo contesto religioso che va compreso e valutato anche il fenomeno black friday, una delle nuove feste comandate della religione capitalistica. Ogni anno la festa diventa più imponente, le adesioni agli sconti più ampie, le code per gli acquisti più lunghe. Fino a quando il cristianesimo era la religione prevalente in Occidente, erano le feste religiose a dettare i tempi per gli sconti (Natale). Ora la nuova religione consumista crea le proprie feste, e quindi decide quando i venditori devono fare gli sconti e i consumatori acquistare - ogni nuova religione deve creare nuove feste.

L’invasione di questa nuova religione globale dovrebbe allora preoccupare molto coloro che credono che la spiritualità e la fede siano cose serie, e magari cercano di custodire quanto resta di vivo nel cristianesimo e nelle altre religioni. E invece non è così; non lo è né nella chiesa né, tantomeno, nel mondo di quella sinistra che nel ‘900 voleva contrastare il capitalismo della fabbrica e dei padroni. Papa Francesco aveva invitato tutta la chiesa a dar vita ad una critica concreta del capitalismo. All’economia aveva dedicato buona parte dei suoi scritti e delle sue parole. E invece oggi assistiamo ad un entusiasmo crescente del mondo cattolico per il black friday, sia sul lato dei consumi che su quello della produzione. Chiediamoci: quanti cattolici hanno fatto oggi ‘obiezione di coscienza’ a questo nuovo culto? E quanti negozi, librerie, banche? Credo molto pochi. Registriamo invece un grande entusiasmo per queste nuove liturgie pagane, che si aggiunge alla esultanza per le nuove teorie religiose del paradigma vincente, dai corsi sulla leadership all’invasione di consulenti aziendali nelle parrocchie, diocesi, sinodi, comunità religiose e movimenti. Una religione che punta alla soddisfazione dei suoi fedeli che si sentono appagati perché fanno affari acquistando a prezzi più bassi nei giorni e nei modi decisi dall’impero. Lo sconto deve essere reale, perché il sacrificio è elemento essenziale in ogni religione pagana - che ci dice che l’idolo è il consumatore, non l’oggetto.

E come è accaduto in tutti gli imperi religiosi globali, la libertà di scelta dei singoli si riduce e diventa molto ‘costosa’. Non si può non fare sconti nel black friday, non si può non comprare. I consumatori accontentati finiscono così per legittimare e rafforzare il sistema; e quel consumatore che ha comprato lo stesso prodotto un giorno prima dell’inizio degli sconti, si sentirà colpevole e stupido. Il ‘senso di colpa’ è infatti un meccanismo essenziale di questa religione: “Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa” (W. Benjamin). Per non parlare degli aspetti più macroscopici ed immediati, tra questi, come denunciato dal WWF Italia, il ‘venerdì nero’ per l’ambiente, la crescita esponenziale della celebrazione online del black friday che scarica sulla collettività e sul pianeta gli sconti (Co2, traffico, chiusura dei piccoli negozi locali …).

Proprio oggi, per una provvidenziale coincidenza, sta iniziando a Castelgandolfo il convengo internazionale di The Economy of Francesco, giovani economisti e imprenditori che si prefiggono di resistere al nuovo impero nichilista dei consumi per dar vita ad una economia delle relazioni, della sobrietà e della pace, nel nome dei due Francesco (di Assisi e Papa Bergoglio). Il cristianesimo può avere qualche chance di superare la sua attuale crisi globale e profonda se presto capirà che non c’è nessuna terra promessa da raggiungere, nessun vangelo da annunciare a cittadini ridotti a consumatori, svuotati nell’anima dalle merci sempre più sofisticate e metafisiche. Senza questa presa di coscienza e la conseguente resistenza morale, continueremo a lamentarci per le chiese vuote e a non vedere che altre chiese si stanno riempiendo di nuovi ‘fedeli’ fidelizzati.

Le comunità spirituali oggi si trovano a poter essere dei luoghi di resistenza all’impero che affida la salvezza alle merci. Solo una profezia che sia anche profezia economica può essere oggi sale della terra: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi… La “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana” (P. Pasolini, 9 dicembre 1973).

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 Editoriali - Nuovi culti e resistenza civile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/11/2025

Quest’anno celebriamo i cinquant’anni dalla morte di Pierpaolo Pasolini. Guardando la preparazione del ‘black friday’, ormai trasformato nella ‘black week’ se non nel 'black month’, mi chiedevo cosa avrebbe detto Pasolini di cosa è diventato questo capitalismo consumista che lo scrittore friulano aveva colto in un suo stadio ancora ibrido e incipiente. In realtà, mezzo secolo prima di lui, Walter Banjanim e Pavel Florenskji avevano già profeticamente annunciato che il capitalismo sarebbe diventato presto una vera e propria religione, che avrebbe sostituito il cristianesimo: “In Occidente il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo” (W. Benjamin). Questi tre grandi autori avevano dunque intuito la natura del capitalismo, e soprattutto avevano colto la grande metamorfosi in atto: il primo spirito del capitalismo dell’Ottocento, associato al lavoro, alla fabbrica e agli imprenditori, si stava trasformando nello spirito del consumo totale, un nuovo culto globale che stava generando una nuova cultura globale.

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Il Black Friday: idoli e colpa nel carrello

Il Black Friday: idoli e colpa nel carrello

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 Editoriali - Guardare il mondo da sotto il tavolo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/11/2025

La giornata mondiale dei poveri voluta nel 2017 da Papa Francesco, non coincide con la Giornata dell’eliminazione della povertà voluta dal’ONU nel 1992, che si celebra il 17 ottobre. Si somigliano, hanno molto in comune, ma tra le due giornate c’è una grande differenza, quella rappresentata dalla prima beatitudine del vangelo: ‘Beati i poveri’. Ecco perché quando nel 1987 Padre Joseph Wresinski, fondatore del Movimento ATD Quarto Mondo, lanciò l’iniziativa che cinque anni dopo l’ONU farà propria, l’aveva evangelicamente chiamata la ‘Giornata mondiale del rifiuto della miseria’. La povertà non è solo miseria, i poveri non solo soltanto miseria. Molti poveri sono anche in miseria, ma non tutti, e non tutte le povertà e non tutti i poveri vanno eliminati, perché se eliminassimo tutti coloro che la povertà la scelgono liberamente la terra diventerebbe davvero troppo misera.

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Quest’anno Papa Leone ha scelto come titolo: “Sei tu, mio Signore, la mia speranza” (Salmo 71,5). Se siamo onesti dobbiamo riconoscere che noi facciamo molta fatica a celebrare la giornata dei poveri e la loro speranza non vana, perché quasi tutti, seduti nei comodi divani delle nostre tiepide case, abbiamo perso contatto con i poveri veri. Per parlare e poi celebrare una giornata dei poveri dovremmo invece prima conoscere i poveri in carne ed ossa, essere amico di qualcuno/a di loro, entrare nelle loro case, baracche o non-case, e magari restarci un bel po’. Ascoltarli, farli parlare, riconoscere loro - come fanno gli amici di ATD Quarto Mondo - una dignità di pensiero e di parole. Tutti i rapporti, gli studi, le statistiche, i libri, le conferenze, le azioni e le politiche sulle povertà vengono fatti da non-poveri, da esperti che parlano quasi sempre di un continente dove non sono mai stati e che conoscono per sentito dire. A questi report e studi, spesso (non sempre) anche utili, dovremmo affiancare report e studi diversi, quelli che nascono da chi è dentro quella povertà che viene descritta da chi è fuori. ‘La realtà è superiore all’idea’, frase molto cara a Papa Francesco, vale sempre ma soprattutto quando si ha a che fare con la miseria e la povertà non-scelta, dove troppe volte l’idea della povertà prevale sulla realtà della povertà.

In occasione di questa giornata dovremmo invece dare finalmente la parola ai poveri veri, udire il loro punto di vista sulle loro povertà, farci raccontare col loro linguaggio quali aspetti di quella loro povertà vorrebbero eliminare e quali invece no. Se lo facessimo vedremmo qualcosa di molto diverso. Sarebbe, ad esempio, qualcosa di cristiano e di profetico se almeno in vista di questa giornata facessimo una commissione composta esclusivamente o prevalentemente da poveri per preparare la prima bozza del messaggio di Papa Leone e l’Introduzione al Rapporto Caritas. Impareremmo a guardare il nostro mondo stando con Lazzaro sotto il tavolo del ricco epulone, perché la prospettiva dei poveri sul mondo è essenziale anche per chi povero non lo è o non lo è più. I poveri non devono restare solo oggetto degli studi, di parole, di azioni e di preghiere, possono diventarne soggetti: vedremo altri studi, altre azioni, altre preghiere.

Forse non lo facciamo perché, anche nella chiesa, i poveri veri ci fanno paura, ci ricordano una parte buia della nostra vita che non vogliamo vedere, e quindi all’incontro vero con loro preferiamo parlare dei poveri e fare qualche elemosina. Se invece conoscessimo davvero i Lazzari di oggi e ci sedessimo accanto a loro, da quel punto basso di osservazione vedremmo cose che i messaggi e i report non riescono a vedere immaginando le povertà e guardando i fenomeni, i dati, le tracce della povertà senza vedere i poveri, o vedendoli solo ogni tanto o in alcuni momenti particolari - ad esempio quando chiedono aiuto. Ma i “poveri” (se proprio vogliamo chiamarli in questo modo che dice solo qualcosa di queste persone), non chiedono solo aiuto, fanno molte altre cose, alcune anche belle: si innamorano, qualche volta aiutano gli altri, sanno ancora mettere al mondo figli, sopportano (come Giobbe) le nostre parole e sguardi su di loro, e spesso sanno ancora fare festa.

Il grande problema degli ‘aiuti’ ai poveri ha a che fare con il tema della competenza. Chi si occupa, quasi sempre in perfetta buona fede, non ha quasi mai la competenza necessaria sulle povertà. Perché la competenza più importante, in tutti gli ambiti (incluso il mercato), è quella che nasce dalla cosiddetta conoscenza tacita, cioè quella dimensione della conoscenza non codificata che non può essere imparata a scuola e nei master. La conoscenza-competenza tacita è infatti quella che si trova solo nella testa e nell’anima delle persone che si trovano dentro quella situazione specifica, e che solo loro possiedono. È la competenza per riuscire a vivere con due dollari al giorno, per preparare un pasto con quasi nulla, sapere veramente cosa sia un compagno (cum-panis), cosa sia la fiducia (fides: corda), cosa sia la carità (ciò che è caro, e quindi vale), come non morire di freddo senza termosifoni e stufe, e persino intuire qualcosa di cosa significhi la frase più scandalosa e profetica della Bibbia: “Beati i poveri, perché di essi è il regno dei cieli” (Lc 6,20).

Tutto questo potremmo anche esprimerlo con il termine ‘sussidiarietà’, un grande principio al cuore della nostra democrazia. Ogni aiuto e ogni parola sulla povertà deve partire da chi è dentro il suo problema, da ciò che già sa ed è, dal suo savoir faire, e poi agire solo in seconda battuta. Solo tu puoi farcela ma non puoi farcela da solo, mi ha insegnato molti anni fa il Vescovo Giancarlo Bregantini, sintesi perfetta di questa sussidiarietà evangelica.

Questa giornata, allora, dovrebbe essere la giornata giusta per conoscere e stimare di più i poveri veri, che hanno bisogno di molte cose, lo sappiamo, ma che prima hanno bisogno dell’amicizia e della stima, perché è la mancanza di stima la vera povertà dei poveri, anche dentro la chiesa che tanto fa per loro. Soprattutto oggi quando la religione meritocratica sta riuscendo a convincerci che i poveri non sono solo indigenti ma anche colpevoli della loro povertà. Buona giornata dei poveri a tutti, ma prima ai poveri.

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 Editoriali - Guardare il mondo da sotto il tavolo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/11/2025

La giornata mondiale dei poveri voluta nel 2017 da Papa Francesco, non coincide con la Giornata dell’eliminazione della povertà voluta dal’ONU nel 1992, che si celebra il 17 ottobre. Si somigliano, hanno molto in comune, ma tra le due giornate c’è una grande differenza, quella rappresentata dalla prima beatitudine del vangelo: ‘Beati i poveri’. Ecco perché quando nel 1987 Padre Joseph Wresinski, fondatore del Movimento ATD Quarto Mondo, lanciò l’iniziativa che cinque anni dopo l’ONU farà propria, l’aveva evangelicamente chiamata la ‘Giornata mondiale del rifiuto della miseria’. La povertà non è solo miseria, i poveri non solo soltanto miseria. Molti poveri sono anche in miseria, ma non tutti, e non tutte le povertà e non tutti i poveri vanno eliminati, perché se eliminassimo tutti coloro che la povertà la scelgono liberamente la terra diventerebbe davvero troppo misera.

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La competenza dei poveri

La competenza dei poveri

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Agorà - Pietro Del Soldà nel suo ultimo saggio mette in guardia dalla fusione e dell’ossessione identitaria, patologie che sono una minaccia per la democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/10/2025

Pietro del Soldà, filosofo e noto e apprezzato giornalista di Radio 3, continua con  Amore e libertà Per una filosofia del desiderio (Feltrinelli, pagine 176, euro 18,00) la sua riflessione sulla libertà, sull’amicizia e sull’amore, che sono tutte parole prima della vita, individuale e collettiva. Un libro scritto con una prosa brillante, colta, coinvolgente, a tratti poetica. É un libro sull’amore e sulla libertà, e sulla possibilità e necessità di declinarli insieme, di dire l’uno dicendo l’altro, e nel dirli reciprocamente capirne le sfide, i paradossi, le incompiutezze, e i tranelli. 

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Già nella Introduzione troviamo molte delle tesi del libro: “Non c’è felicità al di fuori dell’amore, dice Diotima nel Simposio, e non c’è neppure desiderio: se è privo di slancio erotico, infatti, non è vero desiderio, non mi scuote nel profondo, non mi fa sperimentare quello stato di privazione radicale che è invece l’essenza del desiderio e così non mi consente di sfiorare l’eudaimonia, la felicità che scaturisce dall’accordo con il daimon, la mia “parte divina”: se non amo e non sono amato, a questo accordo non ci arriverò mai”. Amore è quindi amare ed essere amati. Del Soldà sa bene che l’eudaimonia di Platone, di cui ci parla, non coincide con quella di Aristotele, dove la felicità è poco associata al daimon divino e molto alle virtù, soprattutto a quelle civili. Il discorso di Del Soldà è, infatti, un discorso sull’amore che parte dalla visione che ne ha Platone, e questo immenso filosofo resta l’asse principale costante con cui metterà in relazione i molti altri autori che ci farà incontrare (Plotino, Agostino, Hegel, Girard, Nietzsche, Simmel, Dumont, etc: un indice dei nomi sarebbe stato utile). Il punto delicato, che introduco subito, è se sia possibile e generativo articolare un discorso sull’amore declinandolo soltanto, o primariamente, come eros. Lo vedremo alla fine di questa nota.

Ma, aggiunge subito l’autore, “Amore, avverte Diotima, è anche un astuto ingannatore, doleros, un “orditore di tranelli””, anche perché figlio di poros, cioè espediente. Quindi per gestire o domare eros (Del Soldà ricorre spesso al mito platonico dell’auriga), con l’eros occorre parlare, non è solo passione irrazionale, non deve diventarlo: “Logos ed Eros, in fondo, non sono affatto due nemici, al contrario, la grande lezione della filosofia greca è che il loro legame è profondo, indistricabile: l’uno può rischiarare le zone d’ombra dell’altro”. Eros non dialoga solo con il Logos, parla continuamente anche con Tanatos, il terzo asse di ogni discorso sull’amore-eros, e forse sull’amore in generale.

E arriviamo subito alla tesi centrale - almeno una delle più importanti - del libro: “Saper vivere in fondo la propria natura erotica significa aprirsi all’ignoto e all’alterità: l’“amore libero”, eleutheros eros, di cui parla Socrate a Fedro e che dobbiamo inseguire contro ogni ostacolo, è il principale antidoto a quella “ossessione identitaria” che oggi rappresenta la principale minaccia per la democrazia”. Del Soldà sviluppa infatti il suo discorso sull’amore muovendosi tra sue due derive o patologie. La prima è quella della fusione, “che aspira a fondere gli amanti in una cosa sola” e che trova la sua prima manifestazione nel “celebre mito narrato da Aristofane nel Simposio”, cioè "ricomporre l’unità perduta di quell’essere primigenio che esisteva nei tempi di remoti”. La seconda malattia è quella “dell’identità personale che se ne sta nel suo recinto ad attendere il riconoscimento degli altri e viene anteposta a ogni relazione coinvolgente”. Qui si rinuncia alla natura nomadica dell’eros, perché la vita buona sta nel “lasciarci andare, nel ‘gettare via la vita’, anche in amore: abbiamo bisogno di cadere e non dobbiamo averne paura. O meglio, la paura ci accompagnerà sempre … E va bene così”. Senza finire, però, nel mito della fusione. Le pagine sulla critica di chi decide di smettere di vivere per paura di morire, di non tentare l’avventura brada di eros solo per paura di tanatos, sono le pagine più belle e dense del libro, e che rivelano un tratto di pensiero originale. 

Per provare ad uscire da questa specie di scelta tragica, Del Soldà trova aiuto in Platone (Fedro), in Lucrezio, e nella politicizzazione dell’eros: “L’amore è, e sarà sempre, l’emersione del desiderio essenziale di quella strana creatura, l’essere umano… che continua a essere ciò che è sempre stato: zoon politikon, un “vivente politico” che parla, pensa, esprime le emozioni e organizza la sua vita in uno spazio comune, la polis”. 

IImportanti e belle sono poi anche le pagine dedicate, sulla scia di Lacan (e di Recalcati), alla incompetenza dell’eros dovuto alla natura reciproca del desiderio, il suo essere desiderio di un desiderio desiderante: “Il mio desiderio non è desiderio di te e basta, come se tu fossi un oggetto inerte (una preda, appunto), ma è desiderio del tuo desiderio”. Il bisogno della desiderabilità rende la “reciprocità dell’amore, dunque, a un tempo piena e imperfetta, compiuta e irraggiungibile. Un altro enigma, insomma”. Da qui l’individuazione di un nodo centrale del mistero dell’amore-eros: “Se l’incontro tra gli amanti è perfetto e cristallino, senza ombre, se non s’insinua anche solo una crepa sottile a incrinare il processo di riconoscimento, allora è probabile che le cose andranno a finire male”. Nell’amore ci deve dunque essere “il desiderio di mancarsi, di non capirsi, o di capirsi solo in parte”.

La ricerca sull’eros come libertà porta Del Soldà ad esplorare soluzione ardite, come il superamento della coppia: “Non è detto che un eventuale superamento della coppia – almeno per come l’abbiamo conosciuta sin qui – sia per forza un male. Non è sicuro che porterebbe per forza al tramonto del sentimento amoroso”. Facciamo fatica a seguire l’autore in questo travalicamento della coppia nell’amore erotico. Per capire questa fatica (rispettosa), occorre aprire un discorso sulle forme dell’amore.

Il libro di Del Soldà parla primariamente dell’eros. Ma, il mondo greco e poi il cristianesimo e quindi l’umanesimo occidentale, ci parla di molti amori: l’amore una semantica plurale. Eros è la forma dell’amore al centro del discorso di Platone, e di altri greci. Aristotele nelle sue Etiche ci parlerà anche soprattutto della philia, di cui, tra l’altro, anche Del Soldà ha parlato a lungo nel suo precedente saggio Sulle ali degli amici (2022). La Philia non è l’eros, le somiglia, non è il suo opposto, ma è un’altra forma dell’amore. Il mondo greco conosceva poi l’amore per i fratelli, per le sorelle, o per i genitori. I vangeli e Paolo, poi, ci hanno parlato di una terza forma di amore, l’agape.

Il lessico greco cristiano era capace di distinguere il "ti voglio bene" detto alla donna amata dal "ti voglio bene" detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che il secondo non era né inferiore né meno vero del primo. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita. Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico.

Sono dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente nell’amicizia, dove la philia non è mai sola, perché è lei la prima ad avere bisogno di amici. È accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter durare, di risorgere dai nostri fallimenti e dalle nostre fragilità. Un’amicizia che è solo philia non è abbastanza calda e forte per non lasciarci soli sulle nostre strade. Ma è la philia che lega l’eros e l’agape tra di loro, e li affratella – anche Gesù ha avuto bisogno del registro della philia per dirci il suo amore. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo perdonato e che ci hanno perdonato settanta volte sette, quelli che quando non tornavano sono stati attesi e desiderati come una sposa o un figlio. Quelli che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci, quelli con i quali abbiamo mischiato molte volte le lacrime fino a fonderle nella stessa goccia salata. Ecco perché pochi dolori sono poi più grandi di quello per la morte di un amico – in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere, e non ricomincia più. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos, e ci sono amici che continuano a vivere, a resistere al dolore e alla malattia, solo perché attendono di rivederci nella nostra prossima visita a casa o all’hospice, quando quel philos che viene vale tutta la vita, tutta la philosophia della terra.

La philia e ancor più l’agape aprono l’amore della coppia, la portano a trascendersi e superarsi. Più difficile pensare ad un buon superamento della coppia se restiamo nel solo registro dell’eros. Certo l’amore è libertà, come recita il titolo del libro, ma l’amore non è soltanto libertà. L’amore umano è molte cose, va declinato con molte parole che qualificano, esaltano e limitano il campo di azione della libertà. Innanzitutto anche la libertà è parola plurale (libertà da, libertà di, libertà con, libertà per …), e alcune di queste preposizioni richiamano direttamente la parola gemella di una buona libertà civile e politica: responsabilità. Perché se l’incontro erotico è un incontro di individui totalmente disimpegnati e irresponsabili gli uni degli altri, quella libertà genera solo inganni e infelicità, alcune delineate anche da Del Soldà nella prima parte del saggio. Perché, come messo in luce nel capitolo 4, l’eros ha un nesso unico e inscindibile col corpo e con le tipiche responsabilità del corpo (il corpo non è solo bellezza e desiderio).

Per un amore responsabile non basta l’eros. Non basta alla famiglia, alle moglie, ai mariti, non basta ai bambini, non basta perché le ferite nostre e degli altri siano sostenibili e possibili.

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Agorà - Pietro Del Soldà nel suo ultimo saggio mette in guardia dalla fusione e dell’ossessione identitaria, patologie che sono una minaccia per la democrazia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/10/2025

Pietro del Soldà, filosofo e noto e apprezzato giornalista di Radio 3, continua con  Amore e libertà Per una filosofia del desiderio (Feltrinelli, pagine 176, euro 18,00) la sua riflessione sulla libertà, sull’amicizia e sull’amore, che sono tutte parole prima della vita, individuale e collettiva. Un libro scritto con una prosa brillante, colta, coinvolgente, a tratti poetica. É un libro sull’amore e sulla libertà, e sulla possibilità e necessità di declinarli insieme, di dire l’uno dicendo l’altro, e nel dirli reciprocamente capirne le sfide, i paradossi, le incompiutezze, e i tranelli. 

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Non solo Eros: l'amore è libertà responsabile

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Editoriali - La "Dilexi te" di Papa Leone XIV parla soprattutto della povertà cattiva, cioè di miseria e deprivazione, ma non dimentica la bella povertà del Vangelo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/10/2025

Nell’umanesimo cristiano lo spettro della parola povertà è molto ampio. Va dalla disperazione di chi la povertà la subisce dagli altri o dalle sventure, a chi la povertà la sceglie liberamente come strada di beatitudine, una scelta libera che spesso diventa la via maestra per liberare coloro che la povertà non l’hanno scelta. Nella Chiesa ci sono sempre stati, e ci sono, migliaia di donne e uomini che si sono fatti poveri per sperare di sentirsi chiamare “beati” (DT, n. 21) e che poi, più tardi, hanno capito che quella prima beatitudine di Gesù l’avrebbero potuta ascoltare solo facendosi compagni di quei poveri che della povertà conoscono solo il suo lato oscuro. Se allora questa povertà scelta, questa caparra del Regno dei cieli, fosse eliminata dalla terra da un raggiunto “obiettivo del millennio” (n. 10), quel giorno porterebbe davvero un pessimo annuncio per l’umanità, che senza la povertà evangelica si ritroverebbe infinitamente più povera e misera, anche se non lo sa.  La Dilexi te (DT) di Papa Leone XIV parla soprattutto della povertà cattiva ‒ che potremmo chiamare anche miseria o deprivazione ‒ per spingerci a prendercene cura e a non «abbassare la guardia» (n. 12), ma non dimentica la bella povertà del Vangelo, soprattutto nelle lunghe sessioni dedicate alla visione biblica della povertà.  [fulltext] => Dai Vangeli e dalla vita sappiamo che non è possibile separare lo sguardo e il giudizio evangelico sulla povertà da quello sulla ricchezza (n. 11). La povertà non è, infatti, uno status individuale, un tratto della personalità, né «un amaro destino» (n. 14). È, invece, un rapporto sbagliato con le persone, con le istituzioni e con i beni, è un male relazionale, è il risultato di scelte collettive e individuali di persone e istituzioni concrete. Se ci sono persone che si ritrovano, senza averla scelta, in una condizione di miseria, ciò è profondamente legato ad altre persone e istituzioni che si ritrovano con ricchezze eccessive e spesso ingiuste, avendolo quasi sempre scelto. Senza con ciò arrivare a dire che la tua ricchezza è la ragione della mia povertà ‒ tesi che è alla base di molte invidie sociali ‒, ma solo riconoscere la natura sostanzialmente relazionale (n. 64), sociale e politica delle povertà e delle ricchezze degli uomini, e ancor più delle donne (n. 12) e delle bambine e dei bambini. Ecco perché non è semplice per la Chiesa parlare di povertà e di poveri, perché occorrerebbe mantenere in tensione vitale queste due dimensioni della povertà ‒ quella buona e quella cattiva ‒, perché qualora se ne lasci fuori una, non si fa solo un grave errore: si esce dal Vangelo. Il discorso diventa ancora più difficile se spingiamo fino in fondo la logica paradossale delle beatitudini e ci accorgiamo che tra quei poveri chiamati “beati” da Gesù non ci sono soltanto i poveri-Francesco, che hanno scelto la povertà, ma ci sono anche i poveri-Giobbe, quelli che la povertà l’hanno solo subita. E lì riuscire a chiamare “beati” entrambi, senza vergogna. «Beati i poveri» è poi anche la beatitudine dei bambini e quella dei moribondi.
 
La Dilexi te è, ad un tempo, un appello all’azione dei cristiani e una meditazione sulla povertà vista dalla prospettiva dell’Antico e Nuovo Testamento, Paolo, i Padri, la tradizione della Chiesa, con una speciale attenzione ai suoi carismi che hanno messo i poveri e la povertà al centro, Francesco d’Assisi (n. 64) e i suoi tanti amici e amiche. È anche una riflessione sulla povertà specifica di Gesù (nn. 20-22).  È importante che questa prima esortazione di papa Leone sia in piena continuità ‒ anche nel titolo, che è il gemello di Dilexit nos ‒ con il magistero di papa Francesco sulla povertà (n. 3), il tema al centro del suo pontificato. Papa Francesco ha scelto il luogo di Lazzaro (Lc 16) sotto il tavolo del ricco epulone come suo punto di vedetta sul mondo. Da lì ha visto persone e cose diverse ‒ tra queste le carceri: n. 62 ‒, da quanto vedono coloro che guardano il mondo seduti a fianco del ricco epulone. Con Dilexi te Leone ci dice allora che vuole continuare a guardare la Chiesa e il mondo insieme a Francesco e ai Lazzari della storia. E questa è davvero una bella notizia. I poveri, scrive, «non ci sono per caso o per un cieco e amaro destino» (n. 14), eppure, continua, «c’è ancora qualcuno che osa affermarlo, mostrando cecità e crudeltà». Importante che papa Leone ricolleghi, anche qui in continuità con Francesco, questa «cecità e crudeltà» alla «falsa visione della meritocrazia», perché questa è una ideologica dove «sembra che abbiano meriti solo quelli che hanno avuto successo nella vita» (n. 14). Quindi la meritocrazia è una falsa visione. L’ideologia meritocratica è, infatti, una delle principali «strutture di peccato» (nn. 90 ss.) che generano esclusione e poi provano a legittimarla eticamente.
 
Un’ultima nota. Esiste oggi un grande magistero laico sulla povertà non-scelta. È quello di A. Sen, M. Yunus, Ester Duflo (tre premi Nobel) e di molti altri studiosi che ci hanno insegnato molte cose nuove sulle povertà. Ci hanno mostrato che la povertà è una privazione di libertà, di capacità (capabilities), è quindi un’assenza di capitali (sociali, sanitari, familiari, educativi…) che ci «impediscono di svolgere la vita che desideriamo vivere» (A. Sen). L’assenza di capitali si manifesta come assenza di flussi (reddito), ma è solo curando i capitali che si potranno domani migliorare i flussi. Ed è ai capitali dove si dovrebbero quindi orientare anche «le elemosine» (nn. 115 e ss.), come i molti carismi della Chiesa fanno da molti secoli (nn. 76 e ss.), combattendo la miseria “in conto capitale”, costruendo scuole o ospedali. Ci auguriamo che futuri documenti pontifici includano questo magistero laico sulla povertà, ormai essenziale per capirla e curarla. E ci auguriamo che anche il mondo laico scopra la bellezza della povertà scelta. Perché per il mondo, anche per la parte migliore di esso, la povertà è solo un male da estirpare. Ed è davvero troppo poco.
 
Credit Foto: © Diego Sarà
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Editoriali - La "Dilexi te" di Papa Leone XIV parla soprattutto della povertà cattiva, cioè di miseria e deprivazione, ma non dimentica la bella povertà del Vangelo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'11/10/2025

Nell’umanesimo cristiano lo spettro della parola povertà è molto ampio. Va dalla disperazione di chi la povertà la subisce dagli altri o dalle sventure, a chi la povertà la sceglie liberamente come strada di beatitudine, una scelta libera che spesso diventa la via maestra per liberare coloro che la povertà non l’hanno scelta. Nella Chiesa ci sono sempre stati, e ci sono, migliaia di donne e uomini che si sono fatti poveri per sperare di sentirsi chiamare “beati” (DT, n. 21) e che poi, più tardi, hanno capito che quella prima beatitudine di Gesù l’avrebbero potuta ascoltare solo facendosi compagni di quei poveri che della povertà conoscono solo il suo lato oscuro. Se allora questa povertà scelta, questa caparra del Regno dei cieli, fosse eliminata dalla terra da un raggiunto “obiettivo del millennio” (n. 10), quel giorno porterebbe davvero un pessimo annuncio per l’umanità, che senza la povertà evangelica si ritroverebbe infinitamente più povera e misera, anche se non lo sa.  La Dilexi te (DT) di Papa Leone XIV parla soprattutto della povertà cattiva ‒ che potremmo chiamare anche miseria o deprivazione ‒ per spingerci a prendercene cura e a non «abbassare la guardia» (n. 12), ma non dimentica la bella povertà del Vangelo, soprattutto nelle lunghe sessioni dedicate alla visione biblica della povertà.  [jcfields] => Array ( ) [type] => intro [oddeven] => item-even )
Beati i poveri, non la miseria

Beati i poveri, non la miseria

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Educazione finanziaria: con i più piccoli, anche per le faccende di casa, occorre usare il denaro come premio e non come incentivo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/10/2025

«Le Avventure di Pinocchio» oltre ad essere un classico della letteratura mondiale, contengono anche molta economia. I classici non invecchiano, e neanche l’etica economica di Pinocchio è invecchiata. In alcuni suoi passaggi troviamo dei veri e propri insegnamenti sull’uso del denaro dei bambini e dei ragazzi. Fin dall’inizio delle sue avventure, Pinocchio sviluppa un pessimo rapporto con il denaro che è all’origine delle pagine disgraziate della sua storia. Finisce nel teatrino di Mangiafoco vendendo il suo abbecedario, e poi, per i cinque zecchini d’oro donati, finisce tra le zampe del gatto e la volpe e del loro abuso economico. 

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Gli interpreti di Pinocchio, inclusi quei pochi economisti che hanno provato a studiarlo, di fronte alla impreparazione e ingenuità di Pinocchio nel maneggiare soldi, hanno tirato la conclusione che a molti appare la più ovvia: è bene che i ragazzi siano educati da subito alla finanza, alla logica del denaro, altrimenti da grandi finiranno per diventare vittime di gatti e volpi: “La storia di Pinocchio offre lo spunto per ragionare sul nostro denaro” (FEduF).

In realtà, sono convinto che il messaggio del libro di Collodi sia esattamente il contrario, e cioè: tenete lontani i vostri ragazzi e ragazze dal denaro e dalla sua logica, finché siete in tempo. Il denaro e i ragazzi vivono – dovrebbero vivere – in mondi diversi. La loro lingua madre è il dono, e quando entrano in contatto con il denaro e la logica economica occorre farlo con infinita cura perché succede troppo spesso che la forza del linguaggio economico si divori il delicato registro del dono – e questo sì che sarebbe un vero disastro educativo.

Quando hanno bisogno di denaro lo chiedono ai genitori, ed è dentro questo rapporto non economico e di gratuità che si impara anche l’abbecedario dell’economia di domani. La loro dipendenza economica dai genitori è ottima, perché il denaro conosciuto all’inizio come dono crea le premesse etiche per assegnare il giusto valore ai contratti e al lavoro, domani. C’è, ormai, evidenza empirica che bambini e pre-adolescenti (in esperimenti svolti in setting controllati) alle prese con attività rette da incentivi estrinseci (monetari o meno), durante lo sviluppo mostrano una minore attitudine a svolgere attività a ricompensa intrinseca (David Greene e Mark R. Lepper 1974).

Il principale tema al centro dell’uso del denaro con i minori è dunque il cosiddetto spiazzamento (crowding-out) motivazionale (Frey 1997; Aknin, Van de Vonderwoort and Hamlin, 2018). L’introduzione di una motivazione estrinseca all’attività stessa (il denaro) al fine di far compiere al ragazzo una data azione, progressivamente erode nei più giovani la forza delle motivazioni intrinseche a quella azione, fino al possibile esito di educare persone che rispondono solo agli incentivi esterni. Se, per un esempio, una famiglia introduce un sistema incentivante per le attività domestiche dei figli e figlie (sparecchiare: 3 euro; piatti: 3; passeggiata nonno 4; passeggiata cane 2…), col tempo diventerà molto difficile educarli all’etica delle virtù, secondo la quale la tavola va sparecchiata per una ragione interna all’essere figlio e parte di una famiglia, il nonno accompagnato perché gli si vuole bene e fa parte del “dovere” di un nipote farlo, la camera tenuta in ordine perché è bene farlo, eccetera. Questo non significa non usare mai denaro con i figli piccoli; occorre però usarlo come premio e non come incentivo, cioè per rafforzare l’azione buona e non come il “perché” fare una azione buona – il premio rafforza la virtù, non la crea; l’incentivo crea l’azione, che non ci sarebbe senza l’incentivo.

L’incentivo usato con gli adulti può svolgere la sua buona funzione se poggia su un’etica intrinseca che è capace di reggere l’impatto manipolatorio degli incentivi – non dimentichiamo che incentivo deriva da incentivus, il flauto che accordava gli strumenti, l’incantatore magico che ci porta dove non andremo spontaneamente. Se invece l’incentivo giunge su persone non dotate di una robusta etica delle virtù, si ritrovano col tempo simili ad asini che rispondono solo a bastone e carota. È la libertà, e quindi la capacità di gratuità, ad essere al centro di questi strumenti e di questi ragionamenti. Ieri era più semplice che l’incentivo poggiasse su un’etica intrinseca del “lavoro ben fatto”, oggi è sempre molto più difficile, soprattutto se viene introdotta troppo presto a casa o a scuola.

Discorso analogo, seppur diverso, è quello sulla paghetta. Anche in questi casi, sebbene lo strumento della paghetta non coincida con quello dell’incentivo (possono coesistere, o si può attivare l’uno senza l’altra e viceversa), scatta un frame contrattuale ed economico. Anche la pedagogia della paghetta porta inevitabilmente alla crescita del registro economico-finanziario e a lasciare più sullo sfondo quello della gratuità e del dono, e della buona dipendenza dalla mediazione dei genitori.

Oggi i giovani non stanno sviluppando una buona amicizia con il mondo del lavoro anche perché la logica economica entra troppo presto dentro casa, mediante il cavallo di Troia della responsabilità. La cultura dominante dell’“impero” è sempre più quella del business, e come accade in ogni impero la sua cultura entra ovunque, quasi sempre a nostra insaputa.​

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Educazione finanziaria: con i più piccoli, anche per le faccende di casa, occorre usare il denaro come premio e non come incentivo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/10/2025

«Le Avventure di Pinocchio» oltre ad essere un classico della letteratura mondiale, contengono anche molta economia. I classici non invecchiano, e neanche l’etica economica di Pinocchio è invecchiata. In alcuni suoi passaggi troviamo dei veri e propri insegnamenti sull’uso del denaro dei bambini e dei ragazzi. Fin dall’inizio delle sue avventure, Pinocchio sviluppa un pessimo rapporto con il denaro che è all’origine delle pagine disgraziate della sua storia. Finisce nel teatrino di Mangiafoco vendendo il suo abbecedario, e poi, per i cinque zecchini d’oro donati, finisce tra le zampe del gatto e la volpe e del loro abuso economico. 

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Ai bambini insegniamo la logica del dono: il modello non è Pinocchio

Ai bambini insegniamo la logica del dono: il modello non è Pinocchio

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Religione - Le meditazioni presenti nel libro di Welte indagano i titoli e i simboli associati alla Madonna nella tradizione cristiana Pensare, edificare e orientare l’esistenza dei fedeli attraverso il suo esempio perché lei può davvero indicare la via del discepolo, avendola percorsa per prima

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/09/2025

Bernhard Welte (1906-1983), filosofo, sacerdote e teologo tedesco, è stato uno dei più importanti rappresentati della filosofia della religione del Novecento, una figura al centro dei dibattiti mitteleuropei sulla natura del cristianesimo, sulla sua dimensione storica e il suo divenire. 

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Welte si inserisce dentro quel movimento che provò a pensare Dio al di fuori della metafisica occidentale, ma salvando una sua presenza reale e presente nella vita concreta delle persone e delle comunità. In particolare ha lavorato molto sul dialogo tra cristianesimo e mondo post-moderno, di cui colse le contraddizioni ma anche le potenzialità per una nuova primavera cristiana, inclusa una rivalutazione della critica di Nietzsche, che, con Heidegger (suo concittadino e amico), è all’origine dell’ispirazione di quella che resta forse la sua linea di ricerca più affascinante : “la luce del nulla”.

Perché è forse impossibile per il cristianesimo trovare oggi una via di accesso alla post-modernità senza prendere molto sul serio il grido nichilista di Nietzsche. Quello di Welte è stato un percorso intellettuale e biografico tragico, rappresentabile dall’immagine del combattimento di Giacobbe con l’angelo (Gen 32), episodio biblico a lui molto caro.

Potrebbe, allora, stupire che un filosofo di questa natura e calibro abbia dedicato alcune meditazioni popolari a Maria, che oggi torna in stampa in nuova edizione, la prima è del 1977, Maria la madre di Gesù. Meditazioni (Morcelliana, pagine 80, euro 10,00). Maria è sempre stata oggetto del cuore, dell’arte, della preghiera, della pietà popolare. Ma la teologia e la filosofia non hanno scritto le pagine più belle su Maria, sia quando l’hanno esaltata attribuendole privilegi unici e irripetibili, sia quando, dopo Lutero, l’hanno confinata in uno spazio teologico troppo angusto e in uno liturgico e popolare quasi inesistente. Oggi sarebbe veramente necessario un nuovo incontro post-moderno con Maria, purificato dalla teologia della Controriforma e dal movimento mariano dell’Ottocento con le sue molte mariologie, che includa anche una rivisitazione degli eccessi delle pietà popolari, sebbene la Maria popolare resti di gran lunga preferibile a quella dei teologi. Perché alla teologia antica e moderna su Maria non è bastato il Vangelo con tutta la Bibbia per parlare di lei: ha voluto costruirle cattedrali usando come mattoni i pochi sostantivi, verbi ed aggettivi evangelici, che spesso hanno finito per allontanarla dal popolo. Maria, infatti, è già grandissima e amatissima restando semplicemente fedeli a quanto di lei ci dicono i vangeli, e rimane grandissima e bellissima proprio e finché resta una creatura e una madre, una donna, finché rimane dalla parte della storia e della carne, come noi; con una missione unica e speciale, certo, ma sempre della nostra stessa natura, sempre dalla nostra stessa parte del cielo, una parte umana che lei rende ancora più bella con la sua bellezza straordinaria e umanissima: «Una madre, per natura, anzitutto crede a suo figlio. Perché per Maria dovrebbe essere stato diverso? C’è un legame naturale di simpatia che unisce madre e figlio e che insegna alla madre a preferire suo figlio a tutti gli altri e in questo senso a credere a lui. Ma questa fede naturale viene messa alla prova non appena il figlio comincia ad andare per la sua strada».

Welte è stato un grande amante della dimensione storica del cristianesimo, e questo sguardo avvolge anche la sua idea di Maria. La Maria della storia ha impiegato tutta la vita per capire chi fosse veramente suo figlio, e, probabilmente, non l’ha mai capito del tutto. Maria di Nazareth ha dovuto anch’ella credere e convertirsi alle parole di suo figlio – come tutti, come noi. E affermare ciò non riduce il valore di Maria ma lo accresce, perché umanizza la sua fede, non le fa nessuno sconto antropologico per i suoi «meriti» pregressi e retroattivi, e diventa davvero icona di ogni credente. Quando Maria, invece, viene allontanata dal Vangelo e dalla sua natura tutta umana, finisce per entrare nel mito e farle quindi seguire le sue tristi sorti nel tempo moderno.

Maria è modello e icona della fede cristiana, perché nonostante abbia avuto un ruolo unico e irripetibile nella storia umana, soggettivamente ha vissuto lo stesso cammino dei discepoli di suo Figlio («figlia del tuo figlio», Dante, Paradiso). Anche lei è dovuta diventare «arameo errante» come tutti i cristiani, e ritrovare nello Spirito il figlio della carne: «Maria faceva parte della cerchia dei discepoli raccolti a pregare…. Si può pensare: in quest’ora Maria fu pienamente la prima e più cara sorella della giovane chiesa credente. Si può pure pensare: in questa comunità anche per lei si compì il lungo e talvolta faticoso cammino. Si chiarirono le cose, che talora erano sembrate oscure».

La Maria della gente è molte cose insieme, e in genere tutte buone. Il seme del messaggio del Vangelo è cresciuto lentamente nell’humus delle antiche culture mediterranee, dei suoi amati semi-dei e divinità maschili e femminili, incluse quelle etrusche e romane venerate con il bambino in braccio. Il cristianesimo ha assunto molto delle vestigia religiose che ha incontrato lungo i secoli, e il Medioevo ‘cristiano’ fu molto più ampio e meticcio del solo vangelo. Le lacrime e le candele ai piedi della Madonna sono vecchie di migliaia di anni, da quando le donne e gli uomini iniziarono ad avere uno sguardo simbolico sulla terra e cercarono segni e mezzi per parlare con l’invisibile e con gli abitanti dell’altra vita invisibile ma che sentivano molto reale. La Maria del popolo non è mai stata solo quella della chiesa. Era madre di Gesù, ma anche immagine del volto femminile della divinità, in uno spazio sacro tutto dominato da maschi, in cielo e sulla terra. Era amatissima dalle donne anche perché madre con il bambino in braccio o con il figlio sulle ginocchia (pietà), donne del popolo che non sapevano i dogmi trinitari ma pregavano una madre che aveva vissuto la loro stessa vita, aveva gioito e sofferto come loro. I pianti ai piedi delle sue statue, amatissime, e dei suoi dipinti, non erano pianti teologici, erano molto di diverso e di più. Tutto ciò non riduce Maria, la storicizza e umanizza.

Molto bella, infine, l’immagine che Welte ci dona nel capitolo dedicato a Maria, piena di grazia: «Consideriamo la vita intellettuale. Si sviluppa negli interrogativi, nelle ricerche, nel pensiero. Dovunque ciò si coltivi, si debbono investire in grande misura la fatica e la diligenza umana. Ma si può fare l’esperienza che proprio il momento decisivo di tutta questa vita e di tutto questo lavoro non proviene dalla diligenza umana… Si può magari dire: adesso mi è venuto in mente l’idea. Da dove può essere venuto qualcosa nel cammino faticoso del nostro lavoro quotidiano? Poiché per il sopravvenire di una buona idea tutto può diventare improvvisamente migliore, più libero, più lieto, più aperto… Qualcosa deve mostrarsi come Charis, come grazia».

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Religione - Le meditazioni presenti nel libro di Welte indagano i titoli e i simboli associati alla Madonna nella tradizione cristiana Pensare, edificare e orientare l’esistenza dei fedeli attraverso il suo esempio perché lei può davvero indicare la via del discepolo, avendola percorsa per prima

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/09/2025

Bernhard Welte (1906-1983), filosofo, sacerdote e teologo tedesco, è stato uno dei più importanti rappresentati della filosofia della religione del Novecento, una figura al centro dei dibattiti mitteleuropei sulla natura del cristianesimo, sulla sua dimensione storica e il suo divenire. 

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Riscoprire Maria come madre di Gesù

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Editoriale - L'antidoto quotidiano alla guerra

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/09/2025

Pochi giorni fa una mia amica aveva difficoltà nel pagare per via telematica una multa. Si è rivolta a una vigilessa che l’ha ascoltata e le ha risolto il problema. Ringraziandola, la mia amica le ha detto: «Come sarebbe bello se tutti lavorassero come lei!», e la vigilessa si è commossa. Quella commozione di una lavoratrice mi ha toccato e parlato molto.

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Siamo immersi, ogni giorno, in un oceano di reciprocità, e non ce ne accorgiamo. Una rete fittissima di amore civile tra sconosciuti che ci preparano la colazione, ci curano negli ospedali, educano a scuola i nostri figli, producono le cose che usiamo, ci puliscono le strade e assistono i nostri anziani. Anche questo è un volto del mercato, anzi: il mercato è soprattutto questo immenso network di cooperazione, il più grande e vasto realizzato nel corso della storia umana. E il cemento che tiene insieme questo mirabile edificio etico è il lavoro, l’umile e feriale lavoro: ci incontriamo, ci serviamo, ci parliamo semplicemente lavorando. Quando vediamo cosa accade ogni giorno nel lavoro di infermieri, dottori, maestre, muratori, tranvieri, spazzini, camerieri, viene da dubitare molto se la fraternità sia davvero il “principio dimenticato” della Rivoluzione francese, o se, invece, non sia quello che abbiamo collettivamente più sviluppato: non è certamente né l’uguaglianza né la libertà a tenere in piedi, ogni mattina, ospedali e scuole. Senza la scuola e la sanità pubblica la libertà e l’uguaglianza effettive sarebbero troppo piccole, ma ciò che porta a cooperare ogni secondo in una classe o in un Pronto soccorso è più facilmente narrabile dalla parola fraternità; perché la fraternità è un legame, è un rapporto, non è né un diritto né uno status individuale – è il bene che sta in mezzo, è il “tra”. E se un giorno i computer e l’IA faranno i lavori che noi facciamo oggi, dovremmo presto reinventarci un altro linguaggio altrettanto serio per parlarci e non precipitare in un incubo dove ciascuno incontra solo sé stesso.

Ma poi c’è qualcos’altro da dire. La forma buona della cooperazione convive con forme cattive di cooperazione. Perché mentre la gran parte delle donne e degli uomini cooperano per far vivere altri uomini e donne, ce ne sono altri, ancora piccola minoranza, che cooperano per far morire, moralmente e fisicamente, altre donne, uomini e bambini. Sono le cooperazioni per il gioco d’azzardo, per la pornografia e per le prostituzioni, quella delle molte mafie: altri network, grandi e sempre più globali, dove si coopera altrimenti.

Il libro della Genesi ci racconta prima la costruzione dell’arca di Noè (cap. 6), e dopo (cap. 11) la costruzione della torre di Babele. Sia i costruttori dell’arca sia quelli della torre-fortezza erano lavoratori, ed erano tra di loro solidali, perché senza una forma di solidarietà lavorativa non si inizia nessuna opera.

Anche nella costruzione della torre di Babele è esplicita un’azione collettiva, una comunità di lavoro. Il confronto tra l’arca di Noè e la torre di Babele ci dice che non tutte le solidarietà e le cooperazioni sono buone, e non tutti i lavori sono buoni: il lavoro dei muratori e degli ingegneri di Babele non era un lavoro benedetto, e venne disperso da Dio. Perché ci sono lavori umani che è bene che vadano dispersi. Sono sempre lavori di uomini e donne, a volte, spesso di uomini e donne individualmente buoni. La condanna di Babele non è rivolta al singolo lavoratore, è una condanna etica per quelle strutture di peccato, anche quando sono frutto di lavoro e di cooperazione.

Il lavoro nelle opere del male convive ogni giorno con il lavoro nelle opere del bene. In questi ultimi anni stiamo prendendo una nuova, drammatica, coscienza della più grande cooperazione cattiva di cui gli uomini sono capaci: la guerra.
La guerra è anch’essa azione collettiva, è cooperazione, lavoro, è complessissima cooperazione. Non si vince nessuna battaglia senza cooperazione perfetta, dalle fabbriche di armi ai campi di guerra. Ma, se la guardiamo un attimo negli occhi, ci accorgiamo che la cooperazione per la guerra è l’opposto di quella dei nostri mercati buoni di tutti i giorni. Quella è la cooperazione di un gruppo contro la cooperazione di un altro gruppo. È un gioco a somma zero (+1,-1) o a somma negativa (-1,2), dove alla vittoria di una parte corrisponde la sconfitta dell’altra.

L’opposto di quanto accade nel mercato civile, dove il pizzaiolo che mi prepara la focaccia e io che la mangio gioiamo della stessa gioia, che si traduce nel saluto finale: «grazie», «grazie a lei», una reciprocità dello stesso senso e segno (+1,+1).

Possiamo fare troppo poco, da ordinari cittadini, di fronte all’assurdo di questi nuovi venti di guerra. Ci resta un acufene morale costante, che riduce le nostre felicità buone, ed è bene che le riduca – sarebbe totalmente stonata oggi una nostra felicità piena, in mezzo a tutto questo dolore del mondo. Ogni mattina miliardi di persone dicono di no alla guerra dicendo di sì al proprio lavoro, alla cooperazione dei mercati, alla catena buona della reciprocità civile. Possiamo vivere il nostro lavoro come antidoto alla guerra, guardando negli occhi le persone che lavorano con noi e per noi, e magari iniziare a ringraziarli più spesso: nella loro commozione possiamo sperare.

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Editoriale - L'antidoto quotidiano alla guerra

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/09/2025

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La fraternità del lavoro

La fraternità del lavoro

Editoriale - L'antidoto quotidiano alla guerra di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/09/2025 Pochi giorni fa una mia amica aveva difficoltà nel pagare per via telematica una multa. Si è rivolta a una vigilessa che l’ha ascoltata e le ha risolto il problema. Ringraziandola, la mia amica le...
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 Il saggio postumo - Il grande psichiatra offre testi tratti dai classici su una realtà che, contrariamente alla felicità, il mercato non può venderci. Perché si consuma mentre la si genera

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/09/2025

La felicità è la nuova promessa dell’economia di mercato. L’altroieri ci prometteva il pane, ieri il benessere, oggi la felicità. Ce la promette in molti modi, per ultimo con l’intelligenza artificiale, che finalmente, facendo meglio di noi tutto ciò che non ci piace e nuove cose che non facciamo ancora, ci donerà la perfetta felicità. Una felicità che ha a che fare con l’avere, con il confort, con la libertà di scelta, con la crescita, con il “di più”, e spesso confina con il divertimento e con il piacere.

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Ciò che il mercato non riesce a venderci né a donarci è invece la Gioia di cui Eugenio Borgna ci parla in un bel saggio (Einaudi, pagine 144, euro 13,00). Non è un saggio accademico, somiglia ad un taccuino, a un diario di viaggio, a uno zibaldone di pensieri sparsi, accomunati dal tema della gioia. La gioia non è la felicità, perché la gioia accade nel presente, è esperienza, mentre la felicità (o l’infelicità) è una condizione più stabile. Non è neanche la letizia, anche se Borgna non ci dice perché, ma lo intuiamo pensando alla perfetta letizia di Francesco, all’etimologia della parola che rimanda a letame (“laetus”).

La Provvidenza ha messo la gioia tra le risorse essenziali per vivere. L’ha nascosta però nelle cose piccole, piccolissime, quasi invisibili se corriamo troppo. E forse per questa ragione i poveri e i puri di cuore riescono a coglierla, forse soltanto loro. È parte del paesaggio di quel Regno dei cieli dove abitano tutti i poveri e i puri di cuore, a volte senza saperlo. Qualche volta arriva dopo grandi dolori, depressioni, lutti, e il suo arrivo è la sentinella che ci annuncia l’aurora. È grazia, solo grazia, tutto dono. Possiamo comprare alcune felicità: la gioia di vivere no, è gratuità pura, ed è la più bella. Qualche altra volta arriva durante una preghiera diversa, ed è accompagnata dalle lacrime.

Diciamo subito che non è facile, neanche per un autore significativo ed eccellente come è stato Borgna (1930-2024), scrivere un libro composto prevalentemente da citazioni di molti tra più grandi poeti, scrittori e filosofi di tutti i tempi. Perché è difficile per tutti alternare propri pensieri con quelli infiniti di Rilke, di Leopardi, Nietzsche o di Simone Weil. Ma, forse, l’intenzione o l’animus di Borgna era proprio donarci al termine della sua vita (che una volta avrebbero definito lunga) le parole e i testi più belli sulla gioia che ha incontrato nell’attraversamento della sua vita e di quella di molti, soprattutto nell’esercizio del suo mestiere di psichiatra. Comunque, incastonate tra le parole dei classici, anche alcune riflessioni di Borgna sulla gioia sono importanti e belle, sfiorano la bellezza delle sue citazioni, come questa che troviamo all’inizio del saggio: « Il tempo della speranza è il futuro, come lo è quello dell’attesa; il tempo della nostalgia e della tristezza è il passato; il tempo della gioia è il presente, friabile e luminoso». La gioia accade ora, la gioia non si accumula, non siamo più capaci di gioia domani perché l’abbiamo sentita oggi o ieri; anzi a volte la lunga carestia di gioia prepara una gioia sublime e unica. La si “consuma” mentre la si genera. È effimera come una farfalla, ma in quel volo breve sprigiona tutta la sua bellezza infinita. Ancora: « Nella gioia non ci sono più le dimensioni del passato e del futuro, le preoccupazioni e timori, le nostalgie e le paure; si vive nel presente, nell’istante bruciante di un presente, che si dilata e ridona un senso alla vita».

Ma le pagine più originali e suggestive di Borgna sono quelle legate al suo lavoro, in particolare all’invito forte a custodire la fragile gioia negli altri (e in noi stessi) anche e perché è effimera e transitoria: « A ciascuno di noi è demandato il compito di rintracciare le orme della gioia nei volti, negli occhi, negli sguardi e nei sorriso di una persona che si incontri con noi, evitando di spegnerla con la nostra disattenzione, e con la nostra indifferenza. Allora quando in una paziente, in un paziente, rinasce qualche goccia, qualche scintille di gioia non si può non sentirsi chiamate e chiamati a intravedere l’alba della speranza». E questa è davvero una pagina molto bella. E aggiunge: «Sulla soglia della conclusione di questo libro non posso non dire che, quando in psichiatria, ma anche in medicina, ci si incontra con una persona, giovane o anziana, immersa nella gioia, e nella quale ci siano sintomi di malattia, dovremmo fare di tutto per non ferire la gioia come avviene attenendoci rigidamente allo slogan del dire tutta la verità, alla malata o al malato. Un bene troppo prezioso, la gioia, perché non la si tenga vicino al cuore, e non la si accolga nella sua luce interiore e nella sua leggerezza, nella sua lievità e nella sua friabilità: nel suo silenzio e nella sua grazia». Sono parole dove tutta la sua arte e saggezza professionale è fiorita in sapienza e poesia. Ogni tanto Borgna entra il dialogo con alcuni autori cristiani, da Teresa d’Avila a papa Francesco (con cui chiude il libro), quasi a farci venire la voglia di domandarci: ma quale è il timbro tipico della gioia dei cristiani? Lui non risponde, ma ci invita a cercarla e magari trovarla nella gioia dei bambini, che Gesù indica spesso nei Vangeli come del modelli della fede, e ci invita ad essere come loro per entrare nel Regno. Ci deve essere allora qualcosa di speciale nella gioia dei bambini in rapporto a quella del Vangelo. È davvero tutto e solo grazia. I bambini sperimentano la vita semplicemente vivendo, non importa che cosa facciano, gioiscono anche quando si addormentano ovunque - il sonno dei bambini è patrimonio dell’umanità. L’infanzia è l’età della gioia perfetta, perché i bambini hanno solo il presente, e nel presente la incontrano. Ecco perché il contatto con i bambini è essenziale per la gioia di tutti.

La gioia diventa più complicata da adulti e poi da vecchi, perché sentiamo la vita fuggire e per non perderla pensiamo di fermarla catturandola e divorandola - e la gioia non arriva. Divertimento, aperitivi, ristoranti, crociere, vacanze inseguite tutto l’anno. Ci mangiamo la vita, divoriamo persone e tutto ciò che incontriamo per una gioia che non arriva. Ma anche da vecchi la gioia è possibile. È però molto simile alla gioia possibile di Sisifo che, giunto in cima all’ennesima salita spingendo il suo eterno masso, nella breve pausa tra la fine dell’ascesa e l’inizio della nuova discesa, dentro quel respiro fugace può sperimentare una paradossale ma vera gioia: « Dobbiamo immaginare Sisifo felice» (A. Camus). Altre volte è il masso che genera un’altrettanto paradossale gioia, quando la vita ha tolto tutte le ragioni delle gioie e delle felicità di ieri e si va avanti solo perché la vita impone la sua disciplina intrinseca preparare la colazione, uscire per il pane, apparecchiarsi con cura la tavola anche se siamo soli e non c’è più nessun com-pagno. È il masso del vivere che ci spinge e, improvvisamente, ci può donare una delicata e vera gioia, che si intrufola tra le stoviglie e la scopa. Lascio l’ultima parola a Borgna, ringraziandolo: « Dovremmo non ferire mai la gioia di una persona che si affida alle nostre cure».

Credits foto: Foto di Arina Krasnikova su Pexels

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 Il saggio postumo - Il grande psichiatra offre testi tratti dai classici su una realtà che, contrariamente alla felicità, il mercato non può venderci. Perché si consuma mentre la si genera

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/09/2025

La felicità è la nuova promessa dell’economia di mercato. L’altroieri ci prometteva il pane, ieri il benessere, oggi la felicità. Ce la promette in molti modi, per ultimo con l’intelligenza artificiale, che finalmente, facendo meglio di noi tutto ciò che non ci piace e nuove cose che non facciamo ancora, ci donerà la perfetta felicità. Una felicità che ha a che fare con l’avere, con il confort, con la libertà di scelta, con la crescita, con il “di più”, e spesso confina con il divertimento e con il piacere.

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Eugenio Borgna sulle tracce della gioia: è effimera, ma va custodita

Eugenio Borgna sulle tracce della gioia: è effimera, ma va custodita

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Spiritualità - Una nuova collana editoriale propone il testo italiano senza note. Modalità che intende incoraggiare una lettura "immediata", in un abbraccio che lasci fuori il chiasso dei social

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/08/2025 

Nel 1559, in pieno concilio di Trento, papa Paolo V fece redigere l’Indice dei libri proibiti (ribadito poi nel 1564 da Pio IV e nel 1596 da Clemente VIII, e giunto fino al Novecento), per cercare di controllare e frenare l’ingresso dei venti eretici della Riforma sotto le Alpi. Lutero aveva messo la Bibbia al centro della sua rivoluzione (sola Scriptura), e il mondo cattolico reagì mettendo la lettura diretta della Bibbia tra i sintomi di potenziali eretici. E così, tra i libri proibiti ai fedeli cattolici c’erano anche le traduzioni della Bibbia nelle lingue volgari, tra queste ovviamente anche l’italiano.

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I primi due secoli della stampa videro molte edizioni della Bibbia in italiano. Se consideriamo non solo le edizioni integrali, ma anche quelle parziali, tra il 1471 e il 1562 furono stampate una settantina di Bibbie, quasi tutte a Venezia. In seguito, con la Controriforma apparvero quasi solo a Ginevra negli ambienti protestanti italiani. Abbiamo dovuto così aspettare l’età dell’Illuminismo, le spinte progressiste di Benedetto XIV, Antonio Ludovico Muratori o Antonio Genovesi perché, tra il 1769 e il 1781, si avesse una traduzione italiana della bibbia latina accettata dalla Chiesa cattolica, a cura dell’abate Antonio Martini. Una edizione rimasta di fatto l’unica ufficiale, sulla base della Vulgata latina, fino al Vaticano II e alla sua rivoluzione nella cultura biblica, che generò nuove e diverse versioni della Bibbia in italiano e nelle molte lingue moderne. Comunque, nei quattro secoli segnati dall’età della Controriforma (1565-1965), leggere la Bibbia in italiano, da soli o in gruppo, senza la presenza di un sacerdote, era esercizio scoraggiato. Nella costituzione Dominici gregis custodiae del Concilio di Trento del 24 marzo 1564 si legge: «Le traduzioni dei libri dell’Antico Testamento potranno essere concesse solo a uomini dotti e pii, a giudizio del vescovo, purché tali traduzioni vengano usate come spiegazione dell’edizione della Volgata per comprendere la Sacra Scrittura e non invece come un testo in sé autosufficiente». Insomma, il rapporto tra Chiesa cattolica e Sacra Scrittura non è stato lineare, e anche la teologia dalla Scolastica al Vaticano II non sentiva il bisogno di fondarsi direttamente nel testo biblico; in alcuni secoli Aristotele o lo pseudo-Dionigi erano considerati e citati forse più libro della Bibbia. Per non parlare poi dell’Antico Testamento, molto distante dalla formazione del popolo (anche se sempre molto presente nell’arte, che ad istinto lo amava molto). Marcione, che voleva escludere dal Canone cristiano tutto l’Antico Testamento, fu sconfitto dai Padri e considerato eretico, ma nella prassi il popolo cattolico ha continuato a pensare che “basta il Vangelo”, che l’Antico Testamento è molto complicato, distante e tutto sommato inutile o dannoso se non anticipa il Vangelo e Gesù. Una storia diversa è quella del monachesimo e della gran parte della vita consacrata, dove la Parola è pane quotidiano, è l’atmosfera e il grembo dove si svolge tutta la giornata e l’esistenza - ma, lo sappiamo, la cultura cattolica ha sviluppato due binari paralleli: quello per i monaci, monache e suore, e quello per i laici.

Poi è arrivato il Concilio Vaticano II con la sua svolta relativa anche alla frequentazione della Parola, raccomandata e rilanciata a tutti i livelli: «È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura» (Dei Verbum); ma secoli di tradizione poco o affatto biblica non si cambiano nel giro di una o due generazioni. C’è dunque ancora molto da fare per arrivare ad una cultura cattolica amica della Bibbia, di tutta la Bibbia, che è davvero urgente. Non supereremo l’impatto, per ora devastante, con la cultura moderna e scientifica senza una vera formazione biblica, quotidiana e seria, che superi l’approccio naif, improvvisato e spiritualista che spesso si trova in alcuni gruppi e movimenti, dove si legge e magari si vive il Vangelo, senza però che tutto ciò sia accompagnato da una cultura biblica, che è ben altra e seria cosa rispetto al semplice leggere e mettere in pratica il Vangelo. Una seria cultura biblica è anche la buona strada per far sì che i giovani, una volta diventati adulti, possono continuare l’esperienza cristiana, quando occorre cercare fondamenta più profonda delle emozioni.

Ecco perché non possiamo che accogliere con entusiasmo l’iniziativa della casa editrice La Vela, di Lucca, che ha lanciato una nuova e innovativa collana, I libri della Bibbia, a cura di Sergio Valzania. Piccoli libri, molto ben curati già a partire dalla scelta dell’immagine di copertina. La sfida della nuova impresa culturale la troviamo indicata nel retro di copertina dei singoli volumi: «Questa collana propone i libri della Bibbia nella traduzione curata dalla CEI, in un formato agile, senza note e commenti». Libri che quindi contengono soltanto il testo italiano del libro biblico, introdotto da una paginetta del curatore Sergio Valzania. Tutte le Bibbie, anche quella di Diodati (protestante) o di Martini, sono sempre state accompagnate da note a pie’ di pagina, anche se spesso si limitavano a riferimenti incrociati di altri passaggi biblici e poco più. Valzania e La Vela hanno invece stampato il testo senza note, non per favorire un approccio magico e ingenuo alla Bibbia, ma per alleggerire e quindi incoraggiare la prima lettura del nudo testo, sine glossa. La prima buona lettura della Bibbia è un corpo a corpo senza mediatori, come quello tra Giacobbe e l’angelo nel guado notturno dello Jabbock (capitolo 32 della Genesi). Un combattimento che è anche un abbraccio, che ci ferisce e ci benedice, perché dopo la prima lettura ne servirà una seconda, e lì le note e i commenti tecnici saranno essenziali.

Per ora sono stati pubblicati tre libri: Genesi, Cantico e Qoelet (l’Ecclesiaste). Una nuova bella avventura editoriale, rischiosa come tutte le innovazioni. E noi non possiamo che augurarle un buon cammino, tra credenti e anche non-credenti, perché la Bibbia è un bene comune globale per tutti, per ogni persona interessata ad esplorare il mistero e la bellezza del mondo. La Bibbia è molte cose, tutte importanti, ma è soprattutto un addestramento al senso e alla vocazione della parola, delle parole, di Dio e delle nostre. In un tempo abitato da chiacchiere, intelligenza artificiale e fake news, attraversare la Bibbia è un esercizio straordinario e necessario per apprendere la disciplina della parola. Un ultimo consiglio personale per questa prima lettura del testo biblico. Spegnete il cellulare, recatevi, sa soli o in compagnia, in un luogo aperto, silenzioso, possibilmente con alberi, uccelli, natura. E lì sarà possibile riudire, qui ed ora, il suono e il senso della parola: «In principio Dio creò il cielo e la terra».

Credits foto: Foto di John-Mark Smith su Pexels

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Spiritualità - Una nuova collana editoriale propone il testo italiano senza note. Modalità che intende incoraggiare una lettura "immediata", in un abbraccio che lasci fuori il chiasso dei social

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/08/2025 

Nel 1559, in pieno concilio di Trento, papa Paolo V fece redigere l’Indice dei libri proibiti (ribadito poi nel 1564 da Pio IV e nel 1596 da Clemente VIII, e giunto fino al Novecento), per cercare di controllare e frenare l’ingresso dei venti eretici della Riforma sotto le Alpi. Lutero aveva messo la Bibbia al centro della sua rivoluzione (sola Scriptura), e il mondo cattolico reagì mettendo la lettura diretta della Bibbia tra i sintomi di potenziali eretici. E così, tra i libri proibiti ai fedeli cattolici c’erano anche le traduzioni della Bibbia nelle lingue volgari, tra queste ovviamente anche l’italiano.

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Leggere la Bibbia sine glossa. E sine smartphone

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Il ricorso ai consulenti per la riorganizzazione della vita religiosa fa entrare nelle comunità criteri e modelli che le allontanano dal primato del carisma. Con una pericolosa metamorfosi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/08/2025

Per molti secoli i carismi cristiani hanno offerto idee e categorie alla vita civile. Monaci, monache e frati hanno scritto statuti comunali, consigliato prìncipi, mercanti e banchieri, inventato università e ospedali. Da qualche decennio la creatività culturale e sociale dei carismi si è molto ridotta. Anche a causa del mancato incontro con lo spirito moderno, la cultura cristiana è entrata in una buia notte muta, dove domandiamo al profeta: ‘Sentinella, quanto resta della notte?’ (Isaia 21,11). In questa lunga carestia di pensiero e di spirito, i rappresentanti del paradigma vincente, il business, stanno entrando in massa dentro le comunità ecclesiali, dove vorrebbero insegnare come si governa, ci si relaziona, persino la spiritualità. Le imprese hanno mutuato la spiritualità dal mondo delle religioni, l’hanno adattata ai fini aziendali, snaturandola (la spiritualità conosce solo il valore intrinseco); e la spiritualità che oggi ritorna al mondo religioso è quella ‘geneticamente modificata’ dal passaggio attraverso il business. Ma ci piace lo stesso, forse di più.

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Un ambito decisivo dove la presenza del business nelle comunità religiose è particolarmente pesante è quello della leadership, il primo dogma della nuova religione capitalista. Esiste infatti una affinità elettiva tra il mondo religioso e la leadership. La vita religiosa è nata in passato come società gerarchica, con i membri suddivisi in superiori e sudditi. Il mondo è poi cambiato, la visione gerarchica è saltata generando un vero e proprio vuoto, che assume varie forme. La prima è l’anarchia, comunità ‘fai da te’ dove ciascuna/o ha la sua propria interpretazione del carisma. Altri reagiscono con un ritorno nostalgico alla gerarchia e alla ‘radicalità’ del passato, e i danni sono forse maggiori. Sempre più, infine, si affidano ai consulenti e alla leadership che si presenta come una soluzione semplice: basta trasformare il superiore in un leader per salvare sia la tradizione sia lo spirito moderno. Se poi al sostantivo leadership si accostano nuovi aggettivi, la conquista è perfetta: leadership etica, compassionevole, inclusiva, autentica, responsabile, d’amore, ignaziana, benedettina, di Gesù, francescana, ‘servant’, ‘caring’, ‘graceful’, etc. Si lavora ogni giorno sugli aggettivi senza mettere in dubbio il sostantivo (leadership), dove si trova invece il baco. Ma nulla conquista più l’anima del mondo religioso della leadership spirituale, il nuovo culto capitalista in veste mistica che sta invadendo comunità, movimenti, sinodi, dove è accolto con lo stesso entusiasmo con cui il re azteco Montezuma accolse Cortès.

Immaginiamo Suor Antonia, priora di un monastero benedettino in crisi. Le decisioni del capitolo incontrano nelle monache una fatica crescente. Si creano sottogruppi, conflitti striscianti, individualismo, mormorazioni, calo di entusiasmo e di letizia. Sr. Antonia sta perdendo fiducia e speranza. Va a leggere le vecchie costituzioni, trova linguaggio e parole che sente lontane. Un giorno una monaca propone di rivolgersi ad una agenzia esperta di governance e leadership, specializzata nella vita consacrata. Iniziano i lavori, e dopo tre settimane le consulenti individuano il centro del problema: la priora è ancora vista come superiora, occorre una trasformazione in leader spirituale, secondo i seguenti principi: (1) il leader spirituale non ha bisogno della gerarchia, perché il consenso interiore e l'adesione libera dei seguaci nascono dal “carisma del leader"; (2) deve poi possedere “livelli più elevati di valori etici” (Oh & Wang, 2020); (3) Inoltre, “deve essere attraente, credibile e visto come modello morale” (Brown, Trevino e Harrison, 2005). Sr. Antonia è all’inizio un po’ smarrita - si chiede: ‘ma avrò tutte queste qualità?’ -; ma poi le consulenti la convincono, mostrandole che la leadership spirituale è più egualitaria e gentile rispetto alle Regole dei fondatori. Ma è proprio così? Diciamo subito che il vero problema di questi cambiamenti non è il loro fallimento ma il loro successo: spesso la metamorfosi riesce, ma invece di volare come farfalla ci si risveglia nel letto di Gregor Samsa (Kafka).

Il primo equivoco della leadership sta nella stessa parola leadership. Perché la sua filosofia è costruita sulla distinzione tra chi guida (leader) e chi è guidato (followers). Nessuna teoria della leadership può mettere in dubbio questo dualismo, anche quando dice esplicitamente di volerlo superare. La leadership è, infatti, in sé concetto gerarchico e posizionale - basti pensare all’uso popolare della parola nello sport: ‘leader della corsa’, ‘leader corner’…

C’è poi un secondo problema, decisivo. Ogni teoria della leadership implica necessariamente l’enfasi sul leader come modello etico e spirituale per i followers: il leader deve diventare il riferimento per i suoi seguaci. E così si dimentica qualcosa di fondamentale: nei monasteri e nei conventi il leader non è l’abate né l’abadessa ma la regola e il carisma. L’abate è il primo seguace. Guai allora al giorno in cui nei monasteri qualche monaco pensasse di dover seguire un leader, una persona diversa da Cristo che ci ricorda con forza: “Non vi fate chiamare guide” (Mt 23,10). Sta nell’assenza di leader il segreto della longevità del carisma del mondo monastico, che in questo si differenzia dai movimenti e dalle nuove comunità carismatiche del XX secolo. In queste, infatti, il fondatore somiglia molto al ‘leader carismatico’ descritto da Max Weber, dove tutto e tutti dipendono dalla persona del leader. La leadership del fondatore è essenziale per la nascita di questi movimenti, ma quelli che sono riusciti a superare la fase fondativa hanno dovuto passare da una leadership personale ad un governo sganciato dalle caratteristiche di una o più persone. La leadership del fondatore è la grande eredità dei movimenti carismatici ma è anche il loro grande vulnus. Quando, invece, i movimenti pensano di superare la crisi del post-fondatore trattando il presidente da leader, cioè come il fondatore, incontrano difficoltà fatali. La sapienza delle comunità dopo i fondatori consiste soprattutto nel saper trasformare il governo in chiave post-leadership, dove si riesce a stare insieme non conformandosi e seguendo un nuovo leader ma sulla base del carisma di tutti e di ciascuno. Un cambiamento davvero radicale.

E arriviamo così ad un terzo nodo. Le teorie della leadership si dimenticano che le suore di una comunità non sono le follower della priora, fosse anche la più spirituale ed etica dell’universo: seguono invece ciascuna la regola, il carisma e la vocazione (che è un modo di seguire Cristo), e ognuna obbedisce alla parte migliore di sé. Immaginare che le comunità possano essere disegnate come una dinamica di leader spirituale e followers significa smarrire il senso profondo del carisma e delle comunità. Quando arrivano gli esperti di leadership questi ripropongono la visione dicotomica leader/seguaci, e senza volerlo (è il loro mestiere) conducono la comunità nella direzione sbagliata. Lavorando da anni, insieme a Paolo Santori, sulla leadership, mi sono convinto che è sempre più dannosa anche per le imprese, ma è veramente devastante nella vita religiosa. Perché mentre dalle aziende la sera si torna a casa e tutto si relativizza, dalle comunità la sera non si esce, e se ai responsabili si attribuisce un crisma sacrale la gerarchia diventa più totalizzante e pericolosa di quella antica, dove almeno esistevano limiti, confini e contrappesi all’autorità dell’abate.

Cosa, allora, potrebbero fare Sr. Antonia e la sua comunità? Innanzitutto, riconoscere la crisi, non negarla, chiamarla per nome e far uscire i suoi angeli e i suoi demoni. Poi accoglierla dentro casa e far festa con il nuovo ospite. Ascoltare la crisi fino in fondo, facendola parlare, urlare, perché ha cose preziose da dire nascoste sotto l’involucro del dolore e della paura. Quindi iniziare ad ascoltarsi l’un l’altra, senza fretta. Pregare i Salmi, Giobbe, il Cantico, perché i secoli, millenni di frequentazione quotidiana della Scrittura sono un patrimonio infinito, anche di governo e relazioni durante le crisi. Quindi Sr. Antonia farà la sua parte, ciascuna farà la propria, e tutte con pari dignità, onore, rispetto. Non si sentirà la leader spirituale delle sue sorelle, non si presenterà come modello morale o spirituale per le altre. Sarà fragile e piena di limiti come tutte, ma continuerà a credere nello spirito e nel carisma - questa è la speranza cristiana - e vivrà quel suo compito transitorio solo come servizio. Farà semplicemente la sua parte in un ‘gioco’ collettivo, il suo passo in una ‘danza’ comunitaria. Anche perché, se guardiamo veramente la Bibbia, le persone scelte per i compiti più importanti - da Davide a Mosè, da Ester a Pietro - erano i meno adatti ad essere posti come modelli spirituali da seguire: furono invece scelti perché non erano all’altezza del loro compito - è l’inadeguatezza la condizione ordinaria dei re e profeti biblici, e coscienti di questo indicavano la Legge (la Torah) come ‘leader’.

Qualche volta arriverà una soluzione, sempre provvisoria. Altre volte si dovrà invece convivere con la non-soluzione, come facciamo tutti nelle famiglie, nelle istituzioni e nelle imprese. Perché il mestiere del vivere è una crescente mite convivenza con il limite, con l’imperfezione e con l’inadeguatezza. Fino alla fine.

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Il ricorso ai consulenti per la riorganizzazione della vita religiosa fa entrare nelle comunità criteri e modelli che le allontanano dal primato del carisma. Con una pericolosa metamorfosi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/08/2025

Per molti secoli i carismi cristiani hanno offerto idee e categorie alla vita civile. Monaci, monache e frati hanno scritto statuti comunali, consigliato prìncipi, mercanti e banchieri, inventato università e ospedali. Da qualche decennio la creatività culturale e sociale dei carismi si è molto ridotta. Anche a causa del mancato incontro con lo spirito moderno, la cultura cristiana è entrata in una buia notte muta, dove domandiamo al profeta: ‘Sentinella, quanto resta della notte?’ (Isaia 21,11). In questa lunga carestia di pensiero e di spirito, i rappresentanti del paradigma vincente, il business, stanno entrando in massa dentro le comunità ecclesiali, dove vorrebbero insegnare come si governa, ci si relaziona, persino la spiritualità. Le imprese hanno mutuato la spiritualità dal mondo delle religioni, l’hanno adattata ai fini aziendali, snaturandola (la spiritualità conosce solo il valore intrinseco); e la spiritualità che oggi ritorna al mondo religioso è quella ‘geneticamente modificata’ dal passaggio attraverso il business. Ma ci piace lo stesso, forse di più.

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Madre superiora o “leader”? Il convento non è un’azienda

Madre superiora o “leader”? Il convento non è un’azienda

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La diffusione in conventi e monasteri delle tecniche di consulenza aziendale incide sulla vita religiosa. Ma le ispirazioni profetiche vengono dagli estremi e non dalla "mediana" tra le possibilità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/08/2025 

Le teorie, i metodi e le tecniche della consulenza aziendale e del management stanno entrando decisamente nelle congregazioni, nei conventi, nei movimenti e comunità. Il fenomeno più visibile è l’organizzazione di assemblee e di capitoli che ormai non si svolgono più senza uno o più esperti esterni che conducono – “facilitano” –, come se in un decennio avessimo dimenticato secoli di sapienza carismatica e fossimo diventati analfabeti relazionali. Ormai i post-it segnano il nuovo ambiente, le/i responsabili sono spinti a partecipare a corsi di leadership, le comunità chiamate a scoprire la propria mission e il proprio purpose, sulla base della propria vision che emerge durante i world cafè, parole sacre del nuovo karma della vita religiosa. Una suora di un carisma missionario, dopo uno di questi corsi mi diceva stupita: «Sai che ho scoperto che anche noi abbiamo una mission?» . Il tema della leadership è forse il fenomeno più preoccupante, e per questo lo guarderemo da vicino nel prossimo articolo. Strumenti che piacciono molto, sono agili, leggeri, femminili, e incantano. Tecniche e prassi nate nel mondo delle grandi imprese che le avevano mutuate dalla psicologia delle organizzazioni. E quindi delle grandi imprese globali portano i tratti somatici ed etici, anche se si presentano come tecnica neutrale. In realtà nessuna tecnica è esente da ideologie e valori, ma la grande ideologia della tecnica è il suo presentarsi senza ideologia. 

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Da cosa dipende questa crescente “aziendalizzazione” della vita religiosa? Tra le molte ragioni una è decisiva. Le comunità carismatiche sono nate con una ben precisa idea di governo e di relazioni, che recentemente è entrata in crisi nell’incontro-scontro con la cultura moderna. Quelle antiche istituzioni erano infatti espressione di una società ineguale, gerarchica e patriarcale. I tre voti religiosi erano strumenti adeguati per assicurare il loro funzionamento: persone celibi senza famiglia, senza diritti sulle proprie ricchezze ed eredità, e legati ai superiori da un vincolo sacro di obbedienza. Nello spazio di una generazione questo modello si è frantumato, e le comunità sono rimaste relazionalmente mute, soprattutto con i giovani figli di questo nuovo mondo. Ecco allora che in questa profonda silente crisi identitaria i potenti strumenti aziendali vengono percepiti come salvezza. La consulenza riempie un vuoto, ma poi velocemente crea infantilizzazione e mancanza di autonomia delle comunità, che si somma alla dipendenza (addiction) e alla crescente insicurezza dei responsabili che quindi chiedono sempre più consulenze per tutto; e così i tecnici finiscono per diventare non solo ghostwriter di discorsi e documenti, ma anche direttori e superiori invisibili. Si capisce allora che è la domanda (da parte delle comunità) che genera l’offerta. È superfluo affermare che i consulenti onesti della vita religiosa (ne conosco alcuni) ci sono e ci vogliono, soprattutto quando cercano di adattare strumenti e tecniche, tentando ibridazioni tra carismi e mondo aziendale e psicologico. Ma il centro del problema sta in capo alle comunità che devono riprendere in mano il proprio destino. 

Occorre qualcosa di diverso, di molto diverso, e subito. Le comunità carismatiche non sono imprese. Sono certamente organizzazioni, ma con note identitarie troppo diverse da quelle delle imprese per poterle trattare con gli stessi strumenti. Sono simili al 98%, come il nostro DNA e quello degli scimpanzé, ma se non si vede e conosce quel 2% diverso non capiamo nulla di un convento o di un monastero. Una suora non è una dipendente del suo istituto, non è una collaboratrice, non è una risorsa umana, né una follower di una leader. Non ha un purpose, non ha una vision: ha un carisma (senza possederlo), che è qualcosa di profondamente diverso da tutto ciò che si insegna nelle scuole di business o di psicologia del lavoro. La quasi totalità dei tecnici e degli esperti non hanno né possono avere una sufficiente cultura biblica o teologica, né tantomeno una vera frequentazione del mondo misterioso dei carismi e dello Spirito, il più misterioso e stupendo della terra. Non dimentichiamo poi che l’ingresso di tecnici esterni dentro le aziende è nato dall’esigenza di mediare le relazioni di lavoro dirette, affinché quindi i manager non “toccassero” le emozioni delle loro persone sempre più complicate e fragili. L’esperto esterno, infatti, “tocca” le persone al posto dei “leader”. Le tecniche sono quindi strumenti di immunità relazionale. Ma, chiediamoci: che cosa resta delle comunità carismatiche se si afferma la cultura immunitaria, se è vero che l’immunitas è la negazione della  communitas?

Pensiamo, per un solo esempio, ad un capitolo di una congregazione. I metodi degli esperti di tecniche partecipative creano la nota sindrome della mediana: nel passaggio dalle idee del singolo al documento del gruppo di lavoro e poi dai gruppi alla sintesi finale, le tecniche tendono a selezionare le tesi e i valori mediani, e quindi a scartare gli estremi. Questa metodologia funziona per le (le scelte facili delle) imprese, per le decisioni politiche e per le istituzioni, incluse quelle vaticane o diocesane (dove oggi spopola), dove occorre ridurre i conflitti tra posizioni e arrivare presto a soluzioni che accontentino molti o la maggioranza. Nei carismi però la regola della mediana non funziona. I carismi sono eredi dei profeti biblici, e le soluzioni e le idee profetiche provengono (quasi) sempre dagli estremi, dagli scarti, non dalle mediane. Se si applica il metodo della mediana nei capitoli si finisce infatti per scrivere documenti dove non si troveranno le idee più innovative - è il fenomeno che il mio amico Tommaso Bertolasi chiama della “galletta di riso”: la possono mangiare tutti perché sa di poco. Nessuna idea di Isaia, del Battista o di Gesù sarebbe oggi selezionata da un facilitatore, perché troppo devianti dalla mediana. Stesso risultato mediano quando i documenti finali si scrivono sommando le sintesi dei lavori di gruppi. La sindrome della mediana tende ad evita o ridurre i conflitti; ma nei carismi non si trova nessuna soluzione vera senza affrontare, far emergere e accudire i conflitti (basti pensare alla Bibbia, a Paolo e ai vangeli). In sintesi, se le comunità carismatiche scavassero di più nel cuore del carisma troverebbero intuizioni e sapienza che, attualizzati, sarebbero il solo modo giusto per condurre la comunità, capitoli e assemblee. Occorre quindi cambiare. Una comunità spirituale che non vuole morire o trasformarsi in una Ong, dovrebbe usare poco e sussidiariamente la consulenza, sceglierli oculatamente, e lavorare essa stessa di più sulla cultura organizzativa del proprio carisma. Esternalizzare le relazioni comunitarie non è come appaltare la mensa o le pulizie del convento - nelle relazioni ci si gioca tutto del carisma. Il primo e decisivo passo spetta alla comunità, con le persone e i talenti che ha, qui ed ora, come sa e come può. “Date voi stessi loro da mangiare” (Lc 9,13). Questo lavoro va custodito gelosamente dentro una intimità collettiva, altrimenti a breve, e senza accorgercene, del carisma resteranno qualche quadro del fondatore e un pensiero per gli auguri di Natale.

 (continua)
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La diffusione in conventi e monasteri delle tecniche di consulenza aziendale incide sulla vita religiosa. Ma le ispirazioni profetiche vengono dagli estremi e non dalla "mediana" tra le possibilità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/08/2025 

Le teorie, i metodi e le tecniche della consulenza aziendale e del management stanno entrando decisamente nelle congregazioni, nei conventi, nei movimenti e comunità. Il fenomeno più visibile è l’organizzazione di assemblee e di capitoli che ormai non si svolgono più senza uno o più esperti esterni che conducono – “facilitano” –, come se in un decennio avessimo dimenticato secoli di sapienza carismatica e fossimo diventati analfabeti relazionali. Ormai i post-it segnano il nuovo ambiente, le/i responsabili sono spinti a partecipare a corsi di leadership, le comunità chiamate a scoprire la propria mission e il proprio purpose, sulla base della propria vision che emerge durante i world cafè, parole sacre del nuovo karma della vita religiosa. Una suora di un carisma missionario, dopo uno di questi corsi mi diceva stupita: «Sai che ho scoperto che anche noi abbiamo una mission?» . Il tema della leadership è forse il fenomeno più preoccupante, e per questo lo guarderemo da vicino nel prossimo articolo. Strumenti che piacciono molto, sono agili, leggeri, femminili, e incantano. Tecniche e prassi nate nel mondo delle grandi imprese che le avevano mutuate dalla psicologia delle organizzazioni. E quindi delle grandi imprese globali portano i tratti somatici ed etici, anche se si presentano come tecnica neutrale. In realtà nessuna tecnica è esente da ideologie e valori, ma la grande ideologia della tecnica è il suo presentarsi senza ideologia. 

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Le comunità non sono aziende: la cultura manageriale spegne i carismi

Le comunità non sono aziende: la cultura manageriale spegne i carismi

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Opinioni - Dare un nome così impegnativo a un incarico di governo significherebbe fare qualcosa di profetico, in tempi di guerra. Dare un incarico a una figura femminile lo sarebbe ancora di più

di Luigino Bruni*

pubblicato su Avvenire il 29/06/2025

La storia civile e morale dei popoli può essere scritta seguendo la storia dei loro ministeri. I ministeri soppressi, i nomi nuovi dati ai vecchi ministeri, i nomi scelti per i nuovi. Il governo Mussolini, ad esempio, nel ventennio più buio della nostra storia moderna, cambiò nomi a vecchi ministeri, ne soppresse alcuni e soprattutto ne introdusse molti di nuovi: ministero delle corporazioni, ministero della produzione bellica, dell’educazione nazionale, della cultura popolare, ecc. E conservò il ministero della guerra.

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Nel 1947, il governo de Gasperi cambiò il nome dell’antico ministero della guerra in “Ministero della difesa”, un nuovo nome frutto dell’infinita tragedia delle guerre, del fascismo, dell’Assemblea Costituente. Un nome figlio della stessa coscienza collettiva che in quello stesso anno stava scrivendo l’Articolo 11 della Costituzione repubblicana, sul ripudio della guerra. I molti governi della Repubblica hanno poi introdotto, di quando in quando, nuovi ministeri (Ministero del turismo, dei beni culturali e ambientali, dello sport …), e cambiato nome ad altri; come quando, dopo un lungo iter che coinvolse governi di tutti gli orientamenti politici, il “Ministero della pubblica istruzione” venne amputato dell’aggettivo “pubblica”. Un nome poi, ancora modificato e danneggiato dal governo Meloni, che all’istruzione non più pubblica volle aggiungere il triste sostantivo “merito”. Chiunque abbia creato una impresa, una istituzione o una associazione, sa che la scelta del primo nome o il suo eventuale cambiamento è sempre un fatto estremamente importante. Si cambia il nome in seguito a un evento decisivo, a un trauma, un lutto, un matrimonio, un cambiamento d’epoca che modifica radicalmente le coordinate della vita, di una comunità, del mercato e della società. Non è mai un’operazione estetica, non dovrebbe mai esserlo. Le guerre sono tornate dentro casa, anche se facciamo finta che riguardino solo gli altri, e noi interpretiamo la parte comoda di chi invia soltanto armi di difesa o di chi aumenta l’arsenale militare per prudenza. Quelle guerre che, almeno in Europa, pensavamo di aver consegnato ai soli libri di storia, sono invece tornate dentro i giornali e le cronache, dentro i temi dei nostri figli a scuola. Da qui una prima domanda: non sarebbe opportuno o necessario cambiare almeno il nome dell’attuale Ministero della difesa in “Ministero della difesa e della pace”? Così, dopo la prima trasformazione da Ministero della guerra a Ministero della Difesa, oggi, in un tempo tornato drammaticamente bellico, si potrebbe fare un passo culturale ed etico nella sola direzione giusta, con un umile cambiamento del nome.

Ma si potrebbe fare ancora qualcosa di più e di davvero profetico: prendere molto sul serio la Campagna per l’istituzione di un Ministero della pace, originariamente lanciata negli anni Novanta da Don Oreste Benzi, poi rilanciata su queste pagine qualche mese fa da Stefano Zamagni (in questo buon allievo di Don Oreste), e oggi fatta propria da diverse associazioni. Cosa c’è di più opportuno e necessario di questo nuovo ministero? La politica ha altro in mente, lo vediamo, e così firma la richiesta Nato di riarmo, rispondendo in modo sbagliato alla nostra stessa preoccupazione. Solo una campagna che diventa prima palla di neve e poi valanga potrà ottenere ciò che oggi appare solo desiderio o utopia. Perché, lo sappiamo dalla storia, quando la realtà raggiunge e supera una invisibile soglia critica, essa rivela una sua disciplina assoluta che si impone sopra tutte le ideologie e gli interessi di parte.
Come dovrebbe funzionare un tale Ministero? Quali i suoi uffici e dipartimenti? Quali le sue competenze? Tutto questo si vedrà, ma ora occorre solo continuare la campagna, a tutti i livelli. Perché, come amava dire Don Oreste, «le cose belle prima si fanno e poi si pensano». E cosa c’è di più bello della pace? In ogni tempo, in ogni luogo, nel nostro tempo?

Infine, il ministro di questo nuovo Ministero dovrebbe essere una donna. La Bibbia è piena di “donne di pace” (alle quali Avvenire ha dedicato una lunga campagna giornalistica, ndr) che hanno saputo usare il loro talento relazionale per evitare potenziali conflitti. Abigail, l’anonima donna di Tekòa, la regina Ester. Donne sapienti che riuscirono ad evitare guerre con le loro parole diverse, con un logos di pace. Forse perché da piccoli ci insegnano a trasformare i primi suoni e rumori in parole, perché nutrono i loro bambini con latte e storie, o forse perché per migliaia di anni, sotto le tende, si scambiavano soprattutto parole di vita. Forse per tutto questo e certamente per altro ancora, le donne sanno spesso parlare di pace diversamente e meglio degli uomini. Soprattutto sanno cercare, creare, inventare parole che non ci sono ancora, ma che devono assolutamente esserci per continuare a vivere. Una donna ministra della pace. Magari una madre, perché la storia della pace e delle guerre dovrebbero scriverla soltanto le madri.

Vicepresidente Fondazione The Economy of Francesco

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Un ministero della pace è necessario

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