Serve un nuovo patto
di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.5/2012 il 10/03/2012
Il tema della decrescita è un tema ambivalente. Quindi le cose più importanti e rilevanti vanno cercate nelle sfumature. La prima domanda che va posta al centro di un dibattito serio attorno a questo tema è la seguente: decrescita di che cosa? È, infatti, evidente che ci sono delle dimensioni dell’attuale modello di sviluppo capitalistico che possono e dovrebbero decrescere se vogliamo migliorare il benessere delle persone e la sostenibilità del pianeta.
Queste dimensioni sono l’impronta ecologica, troppo pesante nell’Occidente opulento, le merci, soprattutto i beni vistosi, posizionali, di confort (televisori, telefonini, automobili), che hanno un bilancio tra costi e benefici molto negativo e incivile: tutte le volte che esce un nuovo modello di cellulare o un nuovo tv al plasma, il nostro benessere in termini di confort forse aumenta dello 0,001, ma i costi ambientali e sociali sono di gran lunga maggiori. Si pensi, ad esempio, allo scandalo di quanto sta avvenendo in Africa per accaparrarsi le riserve di minerali oggi essenziali per produrre telefonini.
Quindi, se oggi fossimo capaci, a partire da noi consumatori (questo è un tema cruciale), di orientare capitali e risorse verso nuove forme di energia e di consumi a servizio del bene comune, otterremmo tutti un grande miglioramento e la Terra respirerebbe di più.
Personalmente la declinazione della decrescita che amo è la decrescita del peso dell’economico (inteso come scambio mercantile) all’interno della vita civile. In Occidente, negli ultimi decenni, stiamo riempiendo il vuoto lasciato dalla famiglia tradizionale e dallo Stato con un mercato sempre più pervasivo: dalla cura alla scuola, dalla sanità al tempo libero. Oggi dobbiamo liberare le energie e le forze della società civile e dei cittadini che tornino a creare spazi per relazioni di gratuità sottraendole al mercato for pro?t. Non è sostenibile una cura degli anziani e dei bambini af?data prevalentemente al mercato. Oggi accompagnare alla morte un anziano malato di Alzheimer è un’impresa che spesso impoverisce intere famiglie, rende insostenibile la vita di ?glie e nuore, a meno che non si riescano ad attivare reti di prossimità e di vicinato. Sarà sempre più vero che per crescere un bambino e accudire un anziano “ci vuole un intero villaggio”.
Ecco allora l’urgenza di una decrescita degli scambi economici e monetari per una crescita degli scambi e degli incontri di reciprocità; di una decrescita delle merci per una crescita dei beni relazionali, dei beni comuni, dei beni ambientali, dei beni spirituali, del ben-vivere o, come dicevano gli economisti toscani del Settecento, del Benestare.
In tutto questo discorso è molto importante il tema del lavoro: sono convinto che oggi sia necessario nei Paesi avanzati ridurre il tempo di lavoro all’interno del tempo di vita ma con due note: la prima è che il tempo di lavoro non va inteso solo come orario giornaliero di lavoro ma nell’arco dell’intera esistenza. In particolare, va superata la visione tipica della società fordista del secolo scorso: da giovani si studia, da adulti si lavora e da anziani si è in pensione.
Oggi dobbiamo iniziare a immaginare, dando vita ad un nuovo patto sociale, la possibilità reale di studiare durante gli anni del lavoro, non solo come hobby e come attività totalmente periferica, ma rendendo possibile a tanti di prendere lauree e dottorati anche in età adulta, alternando ad esempio 5 anni di lavoro con un anno di studio: diventeremo così meno obsoleti come lavoratori e arriveremo alla pensione meno s?niti anche se un po’ dopo.
La seconda nota: non dobbiamo fare l’errore grave di contrapporre la vita economica ai beni relazionali e alla gratuità. C’è tanto dono nel lavoro, anche se la nostra società non lo vede, e dobbiamo fare in modo di riempire i luoghi del lavoro con tanti beni relazionali e con tanta gratuità. Il lavoro, l’economia e il mercato sono pezzi di vita, sono i luoghi anche delle passioni e delle virtù, e se non siamo capaci di costruire i luoghi dell’economia e del lavoro come i luoghi dell’umano tutto intero, si rischia il grave pericolo di immaginare una economia sociale e solidale che nasca solo per l’1 per cento dell’umanità, abdicando così al compito di umanizzare il restante 99 per cento (imprese, uf?ci, scuole…).
La grande sfida che ci sta di fronte allora è quella di costruire una nuova casa comune, un’oikonomia dove l’artigiano, l’imprenditore, il contadino, il funzionario pubblico siano tutti alleati per un nuovo patto sociale.