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di Luigino Bruni
pubblicato su cittànuova.it il 12/08/2011
Molti di noi sono rimasti colpiti e preoccupati nel confrontare in questi giorni le piazze mediorientali dove i giovani sono scesi in strada, dando la vita, per chiedere democrazia e libertà, e le piazze inglesi dove i giovani spaccavano le vetrine per rubare telefonini e tv al plasma, segnali evidenti che in Occidente serpeggia un mal di vivere profondo e serio.
[fulltext] =>Ma la storia del Novecento ci ha insegnato che quando i giovani, soprattutto se migliaia, scendono in piazza, occorre stare sempre molto attenti, anche quando lo fanno male, spaccando e urlando, poiché dietro la cattiva o pessima risposta ci possono essere domande importanti; come quando un figlio adolescente urla e prende a pugni i mobili di casa, e un genitore intelligente sa che dietro quel linguaggio sbagliato si nascondono spesso cose molto serie. Ciò non vuol dire che i giovani hanno sempre ragione, ma soltanto che occorre capire che cosa sta accadendo in Inghilterra, ma anche in Cile (dove i giovani chiedono una università non solo per i ricchi) e, sebbene la distanza sia grande, in Medioriente.
Ciò che è in gioco è una grande “questione giovanile” mondiale, molto evidente nell’Occidente opulento, che ha certamente a che fare con la crisi e con i tagli, ma che è molto più profonda, poiché rimanda all’ingiusta società di mercato che stiamo costruendo, soprattutto negli ultimi anni con il capitalismo turbo-finanziario. Lo ha messo bene in luce in diverse interviste il sociologo inglese Anthony Giddens, il teorico “della terza via”, quando ci ricorda che dietro queste distruzioni dei giovani inglesi c’è anche la reazione di chi si sente escluso dai grandi lussi e consumi, che vede invece aumentare in modo sfacciato nel 5 per cento più ricco della popolazione.
I ricchi e i poveri ci sono sempre stati al mondo, ma fino a pochi decenni fa la cultura sociale e le religioni avevano costruito legami sociali che reggevano anche con una certa diseguaglianza. Le classi sociali erano distanti e non in stretta comunicazione, per cui l’invidia e la frustrazione erano gestibili, almeno nei momenti ordinari. Oggi invece la crescente diseguaglianza (si ricordi che l’Inghilterra è tra i paesi con la più alta diseguaglianza) non è facilmente gestibile, perché mentre i media costruiscono villaggi globali e gli stili di vita e le aspirazioni sono sempre più uniformi, il potere d’acquisto e le opportunità sono molto diverse.
Soprattutto i giovani percepiscono, anche per gli enormi debiti pubblici che gli mettiamo sulle spalle e per la grande disoccupazione giovanile, che la mobilità sociale è in diminuzione, e il loro futuro potrà essere peggiore di quello dei loro genitori. Il rischio è che questo disagio diventi globale e difficilmente governabile, se non diamo vita, subito, a nuovi patti tra generazioni, ad un sistema economico più egualitario e fraterno, e “a misura di giovane”, che non sono il futuro (come paternalisticamente si dice spesso) ma un modo diverso di vivere e leggere il presente.
Se avessimo ascoltato, oltre le cattive risposte, le proteste e le domande dei giovani del 2001 (fino al luglio 2001 a Genova), che chiedevano una globalizzazione solidale e una governance della speculazione finanziaria (la “Tobin Tax”), forse oggi non conosceremmo questa crisi generata in buona parte da un decennio di distrazione da quei temi che i giovani avevano ben individuato e urlato forte.
Ascoltiamo i giovani, ascoltiamoli sempre, e facciamoli sentire protagonisti delle scelte dell’oggi, e non solo di quelle, incerte e vaghe, di domani.
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di Luigino Bruni
pubblicato su cittànuova.it il 12/08/2011
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di Luigino Bruni
pubblicato su Citta Nuova N.15 del 10/08/2011
Si sta consumando una grande ingiustizia di massa, quella nei confronti degli anziani. La struttura tradizionale delle società occidentali fino a pochi decenni fa era basata su una regola di reciprocità: da adulti si donava assistenza ai nostri genitori, e una volta diventati vecchi si riceveva cura dai propri figli (che a loro volta avevano ricevuto cura dai genitori durante l’infanzia e la giovinezza).
[fulltext] =>E il bilancio tra il “dare” e il “ricevere” cura si chiudeva in pareggio. Tutto ciò trovava poi una rappresentazione politica e sociale nel sistema pensionistico, dove la pensione che riceveva un anziano non era il suo risparmio da giovane, ma una sorta di restituzione e gratitudine dei giovani nei loro confronti.
Oggi stiamo conoscendo un fatto inedito: esiste una generazione che terminerà la propria vita in forte “credito” di accudimento, poiché ha curato i propri genitori, ma non riceve e non riceverà cura da parte dei figli, o in ogni caso ne riceverà mediamente molto meno; né può sperare di riceverla dallo Stato, poiché lo Stato sociale che stiamo costruendo è una foto perfetta di questa nuova cultura. È auspicabile che tra qualche decennio le società troveranno un nuovo patto sociale e un nuovo equilibrio, ma oggi assistiamo inerti al fatto che morirà sola una generazione che ha donato i suoi anni migliori per accudire i figli e gli anziani.
Un senso di ingiustizia che si accentua quando pensiamo che all’interno di questa generazione sono le donne a essere più penalizzate, poiché nei decenni passati erano loro le monopoliste dell’accudimento delle fragilità, a cui hanno sacrificato spesso carriera lavorativa e istruzione. Che fare allora? Da una parte la società civile, con i suoi “carismi”, ha oggi una grande responsabilità nel rendere gli ultimi anni di vita sostenibili e felici, con più innovazioni e creatività; d’altra parte, noi figli adulti di oggi non dovremmo dimenticare troppo presto la cura che abbiamo ricevuto (e quella che abbiamo visto donare ai nostri nonni), e cercare soluzioni più giuste e riconoscenti alla difficile gestione dell’età del tramonto dei nostri genitori, e domani della nostra.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Citta Nuova N.13-14 del 10/07/2011
Di tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato. Si torna a chiedersi se sia giusto, opportuno e possibile creare mercati ufficiali e trasparenti per il traffico di organi, legalizzare la maternità surrogata commerciale, legalizzare la prostituzione, ecc.
[fulltext] =>Tematiche che in molti generano sdegno e rifiuto. Per altri invece, fra cui alcuni Stati del Nord America, la creazione di questi nuovi mercati non sarebbe altro che il frutto dell’evoluzione del nostro costume e dei nostri valori, o il far emergere alla luce mercati che già esistono in modo illegale.
A riguardo, i promotori di questi nuovi mercati sostengono che, esistendo di fatto una domanda di organi, di bambini ecc., se gli Stati e il sistema legale non si attrezzano a gestirli con regole e garanzie, ciò produce inevitabilmente sfruttamento dei più poveri; in condizioni estreme, questi ultimi vendono organi e bambini a condizioni molto più sfavorevoli di quelle che avrebbero in un mercato regolato. È come dire che, di fronte a condizioni di vita e a scelte tragiche, esistendo un ipotetico mercato regolare della maternità surrogata, una famiglia che ha già cinque figli che non riesce a nutrire ed educare in modo dignitoso, potrebbe generare un bambino per un’altra famiglia, effettuando questa transazione con regole e garanzie pubbliche; con la somma ricavata potrebbe nutrire e far studiare gli altri cinque figli.
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Ma la soluzione va posta su un altro piano. Davanti al dato di fatto che molte persone e famiglie nel mondo fronteggiano ancora oggi scelte tragiche non dobbiamo cedere alla tentazione della scelta più facile che mostrerebbe un aspetto quasi umanitario (mercificare il corpo umano e le persone). Queste situazioni tragiche devono spingere individui, società civile e governi a rimuovere quelle situazioni di grave ingiustizia che mettono le persone di fronte a quelle scelte. Non dobbiamo darci pace come persone e come istituzioni finché al mondo ci sarà ancora una donna che per sfamare gli altri figli deve venderne uno, o finché un uomo è costretto a vendere un rene per poter sfamare sé stesso o la propria famiglia. Non vedo altre soluzioni.Di tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato.
di Luigino Bruni
pubblicato su Citta Nuova N.13-14 del 10/07/2011
Di tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato. Si torna a chiedersi se sia giusto, opportuno e possibile creare mercati ufficiali e trasparenti per il traffico di organi, legalizzare la maternità surrogata commerciale, legalizzare la prostituzione, ecc.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.10/2011 del 25/05/2011
Uno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro. Ecco perché “il mercato” del lavoro è stato ed è considerato un mercato particolare: da una parte il lavoro non è una merce, ma dall’altra la prestazione lavorativa risente e sottostà alla legge della domanda e dell’offerta. Da qui l’importanza che in ogni Paese è stata attribuita alle mediazioni sociali (sindacati) e politiche in questo mercato.
[fulltext] =>Negli ultimi tempi però stiamo assistendo a un importante cambiamento: le imprese in realtà non comprano soltanto ore di lavoro ma cercano di comprare (e spesso ci riescono) la persona, soprattutto i giovani, con un ragionamento di questo tipo: «Ti pago molto, ti prometto carriere brillanti, ma non esistono orari, non esistono limiti».
Questo cambiamento dipende anche da una trasformazione più profonda della nostra società ed economia, vale a dire la consapevolezza che se un lavoratore non mette tutta la sua passione, creatività e intelligenza nelle sue prestazioni lavorative, le imprese di oggi non vanno avanti. Ecco allora che si pensa che pagando molto si possa comprare la persona, incluso cuore, mente e passione. Ma in questa operazione si nasconde un tarlo, un virus del nostro sistema capitalistico: l’illusione che una volta eliminato il confine fra lavoro e vita (perché il lavoro diventa la vita), quella persona possa continuare a fiorire e a maturare nel tempo.
In realtà, le qualità più importanti di una persona si nutrono e crescono anche e principalmente fuori dell’impresa. E se l’impresa, comprandomi, mi toglie la possibilità di coltivare queste dimensioni extralavorative, di fatto sta essiccando i pozzi da cui attingo energia, passione e cuore, ritrovandomi dopo alcuni anni totalmente svuotato, non più utile all’azienda stessa e spesso sommerso di macerie sul fronte familiare e relazionale. Per questo se un’impresa vuole e deve cercare il meglio che il lavoratore può dare, deve fare in modo che esista sempre un’eccedenza della vita sul lavoro, deve cioè proteggere gli spazi di gratuità extralavorativi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova, n.8/2011 del 25/04/2011
Qualche giorno fa, a Milano, salgo sul taxi e mi viene chiesto: «Ha viaggiato bene? Da dove arriva? Come sta?». Confesso che queste domande mi hanno sorpreso, perché non mi era mai capitato che un tassista si interessasse di me.
Questo felice episodio di vita ordinaria, invece, mi ha dato modo di riflettere su due aspetti che considero di una certa importanza.
[fulltext] =>Innanzitutto che la vita buona e la felicità non dipendono solo dai “grandi” e importanti rapporti della nostra esistenza (famiglia, amici, colleghi…), ma anche dai piccoli rapporti quotidiani, da quelle decine, forse centinaia di incontri veloci, spesso distratti, con il benzinaio, il cassiere, il giornalaio: se non riempiamo di significato anche questi incontri ordinari e fugaci, la giornata non si riempie di senso, di sapore, di vita.
Quando abbiamo a che fare con incontri umani (ma anche con le altre specie viventi) non esiste la neutralità: o ci si prende cura dell’altro e si è attenti al suo volto, oppure produciamo sensazioni negative degli altri in noi, nei grandi o piccoli incontri della giornata. Ma quel dialogo con il tassista mi ha fatto pensare a quanta poca amicizia ci sia oggi nelle nostre città. Certo, non potremo conoscere tutti i nostri concittadini, ma una città è già in profonda crisi civile quando non sento più il barista, gli impiegati pubblici o le sarte come miei alleati per costruire la città.
La vita in comune, oggi, è sempre più una faccenda di contratti di mercato, ma se questi contratti non sono sostenuti da un “patto” sociale, il legame che unisce le nostre città si sfi laccia e presto si spezza. E patto significa che non si può vivere assieme una vita decente se non ci sentiamo innanzitutto parte di un destino comune, che ci porta a considerare i nostri concittadini (e via via ogni abitante del pianeta) compagni/e di viaggio, alleati per la costruzione del bene comune.
Nessun contratto può reggere senza patti che gli danno senso, forza e durata. Quel tassista, allora, mi stava dicendo che dobbiamo ritrovare insieme un nuovo patto sociale, che ci porti a sentire le sorti dell’altro, di ogni altro, anche come nostre. Buone ragioni per domandare: «Come è andato il viaggio?».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 6/2011 del 25/03/2011
È da un po’ di tempo che si discute attorno all’articolo 41 della Costituzione italiana, che recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
[fulltext] =>La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Da più parti si sostiene che il comma terzo (programmi e controlli) contraddica il comma primo (libertà d’impresa).
È evidente che questo articolo incorpora una tensione di valori, che è l’eterna tensione tra la lode dell’anima sociale e virtuosa dell’economia e il timore per la sua anima più speculativa ed anti-sociale; due dimensioni della vita economica che attraversano tutti i partiti e la società civile. Senza libera iniziativa economica, creatività ed innovazione non c’è bene comune, e questo ce lo ricorda da tempo anche la dottrina sociale della Chiesa. Al tempo stesso, l’ultima crisi, dalla quale siamo tutt’altro che usciti, ci dimostra che senza opportuni “programmi e controlli” sociali e istituzionali quella iniziativa economica, essenziale per una buona società, si indirizza su sentieri speculativi che producono “male comune”, soprattutto quando abbiamo a che fare con i “beni comuni”. In altre parole, la “mano invisibile” dell’ordine spontaneo dell’economia deve stringere la “mano visibile” delle istituzioni, se si vuole che l’economia sia amica della società.
Il punto discutibile di quell’articolo 41 è invece se deve essere soltanto la legge a determinare questi programmi e controlli, e quali sono le istituzioni preposte ad emanare tali leggi. Da una parte, le leggi nazionali o europee sono sempre meno adeguate, perché ancorate ad una logica territoriale, a controllare e a programmare l’iniziativa economica. Inoltre, oltre ai controlli legali e istituzionali è sempre più urgente un controllo dal basso da parte della società civile, dei cittadini che possono orientare l’iniziativa economica al bene comune. 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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n. 6/2011 del 25/03/2011
È da un po’ di tempo che si discute attorno all’articolo 41 della Costituzione italiana, che recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.3/2011
L’igiene è un problema serio in ogni ospedale, che diventa cruciale quando si ha a che fare con terapie intensive neonatali. In un ospedale milanese un primario ha avuto l’idea di aumentare l’igiene degli infermieri piazzando delle telecamere nei lavandini e premiando con tre mila euro l’anno quegli infermieri che si lavano spesso e bene (un minuto) le mani. E i dati sembrano dargli ragione, poiché alcune malattie (la sepsi, in particolare) sono diminuite dal dieci al sette per cento.
[fulltext] =>Gli studiosi hanno spesso scelto gli infermieri per fare alcune ricerche sugli effetti degli incentivi monetari, perché questa professione è considerata una di quelle “vocazionali”, in cui l’uso della moneta è controverso. Infatti, quando introduciamo il denaro in comportamenti che sono retti da altre norme sociali, si ottengono risultati ambivalenti.
Tornando agli infermieri/e di Milano, come si potrebbe evolvere questa storia del tempo? Ipotizziamo, ad esempio, che il prossimo anno quel primario debba ridurre o eliminare quel premio agli infermieri più puliti. Gli studi e l’osservazione ci dicono che dobbiamo aspettarci una riduzione dei comportamenti virtuosi, poiché gli incentivi monetari funzionano finché durano e non riescono nello scopo di far interiorizzare le norme. Se, cambiando ambito, inizio a pagare un giovane per un servizio che prima faceva gratuitamente, da quel momento in poi non si riesce più a tornare alla gratuità iniziale. Un altro effetto probabile (spillover) è che ci saranno “contagi” in altre aeree contigue: potrebbe cioè accadere che gli infermieri chiederanno incentivi monetari anche per ascoltare bene i pazienti, e magari per sorridere ai bambini.
Non occorre però guardare con sospetto ogni inserimento degli incentivi monetari nei lavori “vocazionalmente sensibili” (praticamente quasi tutti). Il denaro, infatti, può addirittura rafforzare le motivazioni intrinseche delle persone se arriva come un “premio”, in modo non contrattato e previsto, che esprime stima e riconoscimento per la qualità e la serietà del lavoro. Saranno queste le nuove frontiere del lavoro, dove dovremmo mettere insieme vocazioni e contratti, gratuità e denaro.
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pubblicato su Città Nuova n.3/2011
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di Luigino Bruni
pubblicato su cittanuova.it il 17/01/2010
Il mondo sociale economico e industriale è veramente cambiato: è questo forse il messaggio centrale che proviene da Mirafiori, prima e dopo il referendum che ha visto la vittoria, di misura e con molte ombre, dei “sì”. Ci stiamo infatti accorgendo che la cosiddetta globalizzazione ha “veramente” cambiato il mondo, con effetti molto concreti e rilevanti anche nella vita quotidiana delle nostre famiglie. In un mondo veramente e radicalmente cambiato, dove le imprese possono andare a produrre in più Paesi del mondo (mentre i lavoratori sono molto più legati al territorio), occorre ripensare “veramente e radicalmente” anche i rapporti sindacali e le relazioni industriali.
Gli attuali diritti e doveri dei lavoratori, che il sindacato giustamente vuole e deve proteggere, sono frutto di un periodo storico – in Italia dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento – caratterizzato da due elementi essenziali. Innanzitutto da una dura e ideologica opposizione capitale-lavoro, dove ciascuno vedeva l’altro prima come rivale, e solo poi come un alleato per il bene comune (ed in un mondo con assenza di diritti dei lavoratori una tale visione era comprensibile, e probabilmente storicamente necessaria). In secondo luogo, e come conseguenza, le relazioni industriali erano basate soprattutto sul conflitto sindacale, dal quale sono uscite le grandi conquiste del mondo del lavoro. Questo conflitto però dipendeva da una premessa fondamentale: che ognuna delle due parti (capitale e lavoro) aveva un vitale ed essenziale bisogno dell’altra, il che significava che la corda non si doveva e poteva spezzare, neanche nelle lotte le più aspre e dure: i lavoratori avevano bisogno della Fiat per vivere, ma anche la Fiat aveva bisogno di quei lavoratori torinesi (e del governo italiano) per poter produrre e crescere.
Per capire l’attuale stagione nei rapporti sindacali e industriali occorre allora sapere che questo secondo elemento, il “conflitto-bisogno” reciproco, è venuto meno: in particolare non è più vero che la grande impresa ha bisogno vitale di quei lavoratori particolari (torinesi, italiani), poiché, a causa della globalizzazione, oggi la Fiat e le grandi multinazionali possono “tagliare la corda”, spostarsi altrove, facendo saltare il banco (e magari con incentivi europei, come nel caso della Serbia: anche questo è un segnale che va preso sul serio, l’Europa oggi guarda ai Paesi meno sviluppati come quarant’anni fa l’Italia guardava al Sud con la cassa del mezzogiorno).
Questo per dire che la lotta ad oltranza, oltre a non essere forse più opportuna (occorre ricordare che soprattutto nell’economia attuale i rapporti economici organizzativi e industriali sono prima cooperativi, poi, ad un secondo livello, conflittuali), oggi non è più uno strumento efficace. Ecco quindi che al sindacato è chiesta oggi una nuova stagione di creatività, di evoluzione, di innovazione, come ha fatto nei suoi grandi momenti fondativi e profetici della sua grande storia.
D’altra parte il capitale, i proprietari e i manager, debbono anche essi mettersi in gioco, in cerca veramente di un nuovo patto sociale. Non basta disegnare contratti con maggiori vincoli e controlli (su assenteismo o scioperi…), poiché sappiamo, come detto in altre occasioni, che soprattutto l’impresa moderna, fatta di innovazioni e di capitale intellettuale e relazionale, ha bisogno del lavoratore-persona e non solo delle prestazioni del lavoratore-operaio, osservabili con telecamera e timbro del cartellino.
I nuovi manager della grande impresa (e questo è molto evidente nel caso Fiat) tendono ancora a vedere il mondo del lavoro soprattutto come un vincolo, come un problema, un costo, e meno come la grande risorsa per il successo della impresa stessa; e senza stima, riconoscimento e premi (30 euro al mese non sono un premio) il lavoratore-persona rischia di restare fuori dal cancello della fabbrica, dove entra solo il lavoratore-operaio.
Ma senza persone tutte intere oggi non si vive e cresce nel mercato globale, non bastano finanza e macchine. Se dopo aver vinto il referendum la Fiat non avrà la lealtà e la passione dei suoi lavoratori, anche di chi ora ha votato No, nessun investimento potrà rilanciare l’azienda, poiché anche nell’economia globalizzata il primo investimento è sempre nelle persone e nei rapporti. Occorre allora un nuovo patto sociale, senza fretta, nel dialogo, nella discussione anche pubblica e non solo nei tavoli, poiché dietro Mirafiori si nasconde il futuro dei rapporti economici, e quindi civili, del nostro Paese. Un dialogo vero che deve riguardare anche la natura del capitalismo, di cui si parla poco, troppo poco, in questi tempi di nuovi dibattiti accesi sul sindacato e sull’impresa. Dove sono oggi i Pasolini o i don Milani capaci di guardare e criticare in profondità il nostro modello di sviluppo, e invitare tutti ad un ripensamento serio?
Sono convinto che occorre ridiscutere, pubblicamente e seriamente, la destinazione dei profitti, gli enormi stipendi e bonus dei manager delle grandi imprese, delle amministrazioni pubbliche e delle banche (tema a me molto caro), se vogliamo che il dialogo sia serio e capace di mostrare prospettive di futuro, che oggi sembrano mancare in questa età di crisi, anche dopo la vittoria dei “sì”.
Un dialogo che in realtà avremmo dovuto iniziare molti anni fa, senza fretta, con la volontà da parte di tutti di ascoltare tutte le anime dei sindacati, capire le istanze di tutti e includerle, con un vero esercizio di democrazia deliberativa ancora troppo assente dalla nostra vita economica e civile. Questi accordi, i “sì” e i “no” nel referendum, sono dunque solo un primo passo, traballante e incerto, di un lungo viaggio.
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pubblicato su cittanuova.it il 17/01/2010
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010
Sono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.
[fulltext] =>Si lavora veramente quando al sig. Rossi si aggiunge Mario, quando al prof. Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia, il lavoro umano diventa troppo simile a quello della macchina del caffè. È qui però che incontriamo un paradosso: i lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia quando è eccedente rispetto al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo bellissimo libro di N. Alter, Donner et prendre, La Découverte); le imprese però non riescono con gli strumenti a loro disposizione a riconoscere il “di più” del dono. Se infatti per riconoscerlo usano gli incentivi classici (denaro), il “di più” diventa dovuto e scompare; se però non fanno niente, nel tempo il “di più” del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa. Sta in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di impiego, arriva una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato il meglio di sé a quella organizzazione, ma senza reciprocità, senza sentire riconosciuto il dono della propria vita, che è sempre più grande del valore dello stipendio ricevuto. L’arte di gestire organizzazioni sta oggi soprattutto nell’inventare nuovi modi per riconoscere tale dono.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010
Sono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.
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di Luigino Bruni
pubblicato su: Cittanuova.it il 23/11/2010
La crisi finanziaria dell’Irlanda, che segue quella della Grecia, non fa che ricordarci che l’Occidente è troppo indebitato. Il salvataggio di molte banche e imprese dello scorso anno, in seguito alla crisi, ha comportato soprattutto uno spostamento dei debiti dal settore privato al settore pubblico.
[fulltext] =>Mentre le grandi economie riescono ancora (fino a quando?) a gestire enormi debiti pubblici, la speculazione finanziaria quando attacca Stati più piccoli e fragili sta comunque segnalando un problema molto più grave: c’è troppo debito in giro perché negli ultimi 40 anni abbiamo consumato più del reddito. Quali le ragioni?
Certamente esiste una grossa questione demografica, un Occidente che negli ultimi decenni ha allungato la vita media di circa vent’anni e che parallelamente fa sempre meno figli, deve trovare un nuovo patto sociale tra generazioni perché il modello tradizionale di “stato sociale” che risale al dopoguerra non può più funzionare (un numero decrescente di giovani deve finanziare le pensioni di un numero crescente di anziani). Ma, come ha anche ricordato il papa, c’è un urgente bisogno di un cambiamento di modello di sviluppo e di stili di vita, che riguarda tutti e ciascuno.
Mi limito a porre alcune domande: quando vedremo migliaia tra i migliori docenti del mondo opulento spendere un semestre nelle fragili università africane? Quando vedremo investimenti seri in energie rinnovabili? Quando le pubbliche amministrazioni acquisteranno soltanto auto ecologiche e di bassa cilindrata? Quando tutte le imprese e i governi del mondo investiranno il 20-30 per cento del loro Pil per una cooperazione seria allo sviluppo, che diventino spese in istruzione, ospedali, tecnologie avanzate e pulite, trasporti efficienti, abitazioni dignitose?
Se non cominciamo nel nostro quotidiano a rispondere a queste domande, lo scenario economico e sociale nei prossimi decenni vedrà senz’altro nuove crisi globali. Si comprende allora come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia qualcosa di molto importante: un invito, forse un grido, che chiama a un cambiamento di stili di vita, ad un’economia che sia finalmente di comunione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.21/2010 del 10/11/2010
A fine maggio 2011 tutto il mondo dell’Economia di Comunione (EdC) si ritroverà a San Paolo per tornare alle radici di questa esperienza e tracciare nuove prospettive. L’EdC è viva e cresce nella storia dell’oggi, nelle crisi e nelle speranze del nostro tempo.Nel maggio 1991, la proposta iniziale di Chiara Lubich di dar vita ad imprese e poli produttivi, e poi (maggio 1998) ad un movimento culturale che desse “dignità scientifica” alla prassi delle aziende, non è caduta nel nulla: essa è stata raccolta da migliaia di persone, prevalentemente dentro ma recentemente anche fuori del Movimento dei focolari, persone e istituzioni che stanno cercando di far fruttificare quel seme.
[fulltext] =>Al tempo stesso, l’intera EdC è oggi chiamata, mi sembra, ad affrontare una nuova tappa. Recentemente in Brasile, insieme ad alcuni dei protagonisti dell’EdC di quel Paese, ho ripercorso alcuni dei momenti iniziali del progetto. Sono stato colpito in particolare da un episodio di quei giorni, poco noto, che mi è tornato nella mente e nel cuore. Chiara, di ritorno dal viaggio brasiliano, notò un particolare nel quadro di “Maria desolata” che aveva nel suo studio, quadro regalatole tanti anni prima da Igino Giordani: in quel dipinto Maria teneva stretta sul petto una corona di spine. Per lei fu immediato il collegamento con la “corona di spine di povertà” che aveva visto nelle favelas di San Paolo e che era stata la scintilla ispiratrice della neonata EdC.
Questo episodio ci ha fatto riflettere sulla natura dell’ispirazione originaria e sulle prospettive che ci attendono ora e negli anni a venire: la corona di spine, il dolore dei poveri, che Chiara invitava ad amare e redimere, era la corona di spine di San Paolo, di tutte le città, la corona di spine del mondo e di questo capitalismo. Quella corona non era, ovviamente, composta soltanto dagli indigenti dei Focolari; i poveri del suo movimento erano per Chiara soltanto un primo passo per andare poi ben oltre.
La prospettiva che si spalancava all’EdC era dunque di grande respiro: contribuire a dar vita ad un nuovo ordine economico-sociale, ad un nuovo modello di sviluppo, ripensando e collegando le due realtà centrali del capitalismo ancora oggi tra loro opposte: l’impresa (motore dello sviluppo economico) e la miseria (degli esclusi da quello sviluppo).Un bilancio sull’EdC oggi deve allora riferirsi soprattutto e primariamente a questa dimensione del progetto: rapporto tra imprese ed esclusione. Solo secondariamente all’impatto culturale o teorico che l’EdC ha avuto ed ha nella Chiesa, nella società e nell’accademia (elementi ovviamente tutti importanti), oltre alla sua capacità di far diventare gli imprenditori più etici e generosi.
In questa prospettiva, dobbiamo ammettere di essere ancora distanti dall’aver realizzato la vocazione dell’EdC. Il successo di un tale progetto non si misura infatti sulla base del numero delle imprese che in questi anni sono diventate più etiche, né con gli utili raccolti e donati (tra l’altro ancora troppo pochi), né con lo sviluppo dei Poli industriali. L’EdC sarà pienamente in linea con la sua missione quando sarà diventata un modello economico e sociale che mostra, qui ed ora, un’economia con il volto della comunione, e quindi con un volto veramente umano. Per raggiungere questo obiettivo, messo in discussione ogni giorno dalla nostra libertà e responsabilità, c’è però bisogno di saper e volere affrontare almeno tre sfide impegnative.
Innanzitutto, occorre che l’EdC, sia come prassi che come cultura, si metta sempre più in rete con le altre esperienze di economia sociale e civile che cercano, a loro modo, di umanizzare l’economia. Una sfida già prefigurata da Chiara stessa nella sua lectio magistralis del 1999 in occasione della laurea honoris causa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza. Nei dieci anni trascorsi da quella laurea, qualche passo si è fatto, ma occorre fare di più e su più larga scala, nazionale e internazionale.
In secondo luogo, la povertà (che preferiamo chiamare più propriamente, e più in linea con il Vangelo, miseria o esclusione) va oggi declinata in più modi: non può restare solo la povertà materiale delle favelas brasiliane del 1991 (sebbene questa dimensione sarà sempre centrale e importante, poiché spesso è anche alla base delle altre forme di povertà).
L’esclusione, la solitudine, la mancanza di senso della vita, di valori veri, di capacità, di diritti e libertà, di rapporti, oggi si stanno sempre più mostrando come forme di povertà tipiche del XXI secolo, che si affiancano alle forme tradizionali. In particolare, e a partire dal carisma dell’unità di cui l’EdC è espressione, oggi è urgente amare e curare proprio quelle indigenze che nascono da rapporti spezzati, carestie di beni relazionali, varie forme di disunità (private, civili, politiche), per le quali il carisma dell’unità ha per vocazione occhi capaci di vedere, per trasformare queste ferite in benedizioni.
Occorre quindi lanciare una nuova fase di creatività ed innovazioni, dove i vari imprenditori e attori dell’EdC, attuali e futuri, sentano la libertà e la responsabilità di guardare alle vecchie e nuove forme di povertà per trovare nuove soluzioni, ricordando sempre che la prima forma di lotta all’esclusione e all’indigenza è il lavoro da creare e offrire.
Infine, occorre fare uno sforzo culturale e teorico, sempre in dialogo con tanti altri, per immaginare, a partire anche dall’esperienza di questi primi anni dell’EdC, la proposta di un nuovo modello economico che non si limiti alle riflessioni sull’azione individuale e sull’impresa. Sono convinto che gli economisti, gli imprenditori e gli operatori dell’EdC abbiano le potenzialità per proporre nuovi modelli di sviluppo e di dinamiche istituzionali, che si offrano come contributo per quel nuovo ordine economico, ambientalmente, socialmente e spiritualmente sostenibile, che oggi tanti cercano, e che è sempre più urgente trovare.
Se l’EdC sarà capace di leggere e affrontare con “coraggio carismatico” queste sfide, allora la profezia di Chiara diventerà sale della storia, e potrà dare un suo contributo al ben vivere delle donne e degli uomini di oggi (e di domani), dentro e fuori i mercati. Non a caso, quest’anno, oltre all’evento del maggio 2011 in Brasile, l’EdC mondiale ha lanciato un “progetto giovani”, che avrà come tappe significative due scuole internazionali: la prima in America latina e la seconda in Africa, entrambe nel gennaio 2011.
Nella cultura del consumo, l’EdC può e deve essere un “luogo di resistenza”: non isole quindi ma oasi di comunione e gratuità, come lo furono le abbazie nel Medioevo, ricordando che Chiara intuì per la prima volta la realtà che sarebbe diventata più tardi l’EdC (“le ciminiere”) contemplando dall’alto di un colle svizzero una abbazia benedettina. Un messaggio di comunione e gratuità che oggi ha un grande valore: infatti, in un mondo dove il denaro tende a diventare tutto poiché con esso si compra (quasi) tutto, l’EdC ricorda che la ricchezza più grande è quella donata e condivisa. Per i singoli e per i popoli.
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Un “luogo di resistenza”.
di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.21/2010 del 10/11/2010
A fine maggio 2011 tutto il mondo dell’Economia di Comunione (EdC) si ritroverà a San Paolo per tornare alle radici di questa esperienza e tracciare nuove prospettive. L’EdC è viva e cresce nella storia dell’oggi, nelle crisi e nelle speranze del nostro tempo.Nel maggio 1991, la proposta iniziale di Chiara Lubich di dar vita ad imprese e poli produttivi, e poi (maggio 1998) ad un movimento culturale che desse “dignità scientifica” alla prassi delle aziende, non è caduta nel nulla: essa è stata raccolta da migliaia di persone, prevalentemente dentro ma recentemente anche fuori del Movimento dei focolari, persone e istituzioni che stanno cercando di far fruttificare quel seme.
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stdClass Object ( [id] => 567 [title] => Dalla finanza speculativa un aiuto al microcredito [alias] => dalla-finanza-speculativa-un-aiuto-al-microcredito [introtext] =>La proposta dell’economista Bruni: tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie per sostenere i Paesi in via di sviluppo
di Sara Fornaro
pubblicato su cittanuova.it il 29/10/2010
Tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie speculative per finanziare progetti di microfinanza nei Paesi in via di sviluppo. È una delle proposte contenute nell’appello che Luigino Bruni, docente presso l’Università Milano Bicocca e vicedirettore del Centro interuniversitario di ricerca sull’etica d’impresa Econometica, sta rilanciando in questi giorni insieme agli economisti Leonardo Becchetti, Gustavo Piga, Lorenzo Sacconi, Francesco Silva e Stefano Zamagni. Attraverso la Fit (Financial transaction tax) ci sarebbe il doppio vantaggio di dare un minimo di regolamentazione al mercato finanziario e di raccogliere fondi da destinare al raggiungimento degli obiettivi del millennio definiti dall’Onu e al finanziamento di beni pubblici globali. È un progetto che sta suscitando sempre più consensi, anche tra i leader delle principali potenze economiche, come ad esempio il presidente francese Nicolas Sarkozy.
[fulltext] =>Vista la frequenza e la proporzione delle transazioni speculative, attraverso la Fit si riuscirebbero a raccogliere ogni anno fino a 200 miliardi di dollari. Per capire la portata di questa proposta, basti pensare che basterebbero 30 miliardi di euro per assicurare l’istruzione primaria obbligatoria in tutto il mondo. «Sulla tassa sulle transazioni finanziarie – si legge nell’appello – si gioca la misura della nostra civiltà e la possibilità che esse possa essere definita veramente tale».
Professor Bruni, a che punto siamo?
«Abbiamo raccolto tante adesioni nel mondo accademico, in quello economico e in quello bancario. Molte di più di quante pensassimo. Ecco perché ci sembra il momento giusto per rilanciare questa proposta, con maggiore ponderazione e meno urgenza di come abbiamo fatto due anni fa. Dopo la proposta avanzata nel 2001 a Genova dal Movimento dei focolari, anche grazie al coinvolgimento delle imprese che aderiscono al progetto di Economia di comunione, adesso siamo entrati in una seconda fase, con una proposta analoga, ma più condivisa, diffusa e articolata. Io sento che questa è la strada sulla quale si deve andare avanti».
Cosa c’è in programma?
«A distanza di 10 anni, vogliamo ripresentare il manifesto di Genova nel 2011, ma in Brasile, in occasione dei venti anni dell’Economia di comunione, presentandola come una nostra proposta concreta da lanciare su scala mondiale e con maggior enfasi. Ormai non si tratta soltanto di finanziare governi e organizzazioni non governative. C’è bisogno di dare impulso alla capitalizzazione delle migliaia di istituzioni di microfinanza esistenti nei Paesi in via di sviluppo e noi, con la rete mondiale delle aziende di Economia di comunione, possiamo sostenere questo progetto. Inoltre, vogliamo lanciare un grande progetto di scambio tra docenti di tutto il mondo perché, senza una educazione di qualità, non si esce dalla miseria».
Ci spieghi meglio questo progetto di scambio.
«Si potrebbero rafforzare i legami tra le diverse istituzioni accademiche, che nei Paesi in via di sviluppo sono molto fragili, e finanziare progetti di scambio: con docenti stranieri che potrebbero trascorrere un certo periodo di tempo nei loro Atenei».
Tra le vostre proposte, c’è anche quella di non tassare i Bot, per non gravare sui cittadini.
«Non si devono tassare i risparmi delle famiglie. Noi proponiamo di tassare la finanza speculativa, ma non si deve demonizzare la finanza in generale, perché è necessaria e non dobbiamo dimenticare che fu inventata dai francescani nel Medioevo. Il problema non è solo quello di raccogliere i soldi, ma anche quello di spenderli bene. La finanza speculativa non si è mai fermata, neanche durante la crisi. Non è mai fallita: una minima percentuale di organismi ha chiuso, ma altri si sono riciclati in mille altri modi. Basti pensare allo scandalo recente di una banca, salvata da fondi pubblici, che continua a pagare bonus enormi ai suoi manager e sarà sempre così, almeno finché non ci sarà un cambiamento istituzionale. Non si deve chiudere tutto, ma se vogliamo che le cose funzionino, serve un sistema di regole e controlli. Come è stato detto: non si fanno una buona società e una buona economia senza finanza, ma si fanno una buona società e una buona economia con una buona finanza, che richiede una regolazione da parte dei governi e un nuovo protagonismo civile da parte della gente».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Cittanuova.it il 27/08/2010
Che oggi l’Italia e in generale la civiltà occidentale abbia bisogno di un nuovo “patto sociale” non ci sono dubbi. Il punto fondamentale è il contenuto, le parti coinvolte, le autorità che lo faranno rispettare, ecc. Relativamente al discorso di Marchionne, ci sono alcuni punti sui quali non si può non essere d’accordo. In particolare è innegabile che in un’economia sempre più globalizzata le relazioni industriali debbano essere ripensate, e in generale va rivisto il rapporto capitale-lavoro in modo meno ideologico di come non si sia fatto negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. In questa età di crisi è necessario che tra le varie componenti dell’impresa prevalgano le ragioni della cooperazione su quelle della competizione o del conflitto, poiché solo cooperando si riesce oggi a crescere nel contesto mondiale (come molti Paesi dell’Asia ci insegnano da diversi decenni).
[fulltext] =>Ma la cooperazione, perché sia in qualche modo genuina e intrinseca (e non solo opportunistica e strumentale), richiede alcune pre-condizioni, di cui non ha parlato Marchionne. La prima è una ridefinizione della redistribuzione della ricchezza e della natura del profitto: uno dei capitoli del nuovo patto sociale dovrà necessariamente definire, nelle sue linee guida e dopo opportuno e serio dibattito (che non vedo in questi anni), come ripartire la ricchezza che la nuova economia produce, i cui destinatari non possono essere solo gli azionisti o i manager.
Occorre prendere maggiormente sul serio i lavoratori che se debbono sentirsi sempre meno “dipendenti” e sempre più protagonisti e co-responsabili della vita e della sorte della loro impresa. Al riguardo gli imprenditori non possono continuare a considerare il lavoro umano come un “costo di produzione” che riduce i profitti.
In ogni caso, finché lo stipendio di Marchionne è centinaia di volte quello degli operai Fiat, il discorso sul patto sociale sarà sempre percepito dal mondo del lavoro come troppo astratto e forse retorico. Occorre certamente un nuovo patto, ma occorre soprattutto una nuova riflessione sul capitalismo sull’impresa e sul profitto, se vogliamo dare contenuto a questo nuovo patto, e assegnare futuro alle parole, anche quando denunciano un problema reale e sono suggestive e colte.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Cittanuova.it il 27/08/2010
Che oggi l’Italia e in generale la civiltà occidentale abbia bisogno di un nuovo “patto sociale” non ci sono dubbi. Il punto fondamentale è il contenuto, le parti coinvolte, le autorità che lo faranno rispettare, ecc. Relativamente al discorso di Marchionne, ci sono alcuni punti sui quali non si può non essere d’accordo. In particolare è innegabile che in un’economia sempre più globalizzata le relazioni industriali debbano essere ripensate, e in generale va rivisto il rapporto capitale-lavoro in modo meno ideologico di come non si sia fatto negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. In questa età di crisi è necessario che tra le varie componenti dell’impresa prevalgano le ragioni della cooperazione su quelle della competizione o del conflitto, poiché solo cooperando si riesce oggi a crescere nel contesto mondiale (come molti Paesi dell’Asia ci insegnano da diversi decenni).
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stdClass Object ( [id] => 347 [title] => Profitto o bene comune? [alias] => profitto-o-bene-comune [introtext] =>Oltre il capitalismo - L’uno e l’altro. Ma bisogna cambiare il modello economico e sociale.
di Luigino Bruni
Pubblicato su: Città Nuova n.15-16/2010 del 10-25/08/2010
Il dibattito pubblico di questi tempi su lavoro, occupazione, crisi (e sofferenza delle famiglie) può offrirci l’opportunità per riflettere, più profondamente di quanto non si sia fatto negli ultimi decenni, sulla natura dell’impresa, del profitto e quindi del capitalismo. Non si uscirà veramente dalle gravi crisi che stiamo vivendo – dall’ambiente alla finanza, dal terrorismo all’occupazione – finché non metteremo seriamente in discussione l’attuale modello economico e sociale. La forma che l’economia di mercato ha assunto negli ultimi due secoli, il capitalismo, deve evolvere in qualcosa d’altro, salvando l’enorme portato di civiltà e libertà che racchiude, ma al tempo stesso consentendo a 8 miliardi di persone di coltivare la propria umanità.
[fulltext] =>Uno dei fatti più gravi di questi ultimi due anni di crisi finanziaria è stata la volgarità (non trovo altra parola) degli stipendi e bonus milionari che banche e società assicurative salvate nell’autunno 2008 con denaro pubblico hanno, dai primi mesi del 2009, ricominciato a distribuire ai loro manager. Anche in tempi di tagli e lotte sindacali, nessuno mette seriamente in dubbio gli alti profitti delle imprese e gli stipendi da superstar. Non si ha il coraggio di mettere in discussione il sistema capitalistico e ci si limita a parlare di economia etica, impresa responsabile, no profit e filantropia, fenomeni funzionali e necessari al sistema economico esistente.
Ma siamo sicuri che lo scopo dell’attività di un’impresa sia massimizzare il profitto? Se ci limitiamo all’ambito più positivo dell’economia di mercato (tralasciando la discussione sulla natura dei “profitti” delle speculazioni), possiamo affermare che il profitto è la parte di valore aggiunto generato dall’attività d’impresa che viene attribuita ai proprietari, a quelli che una volta si chiamavano i capitalisti. Il profitto quindi non è l’intero valore aggiunto, ma solo una parte. Faccio un esempio: l’impresa A produce automobili trasformando materie prime in un prodotto finito chiamato “auto”, al costo di 10. Se aggiungiamo costo del lavoro (8), oneri finanziari e ammortamenti (3), il profitto lordo (prima delle imposte) di un’auto venduta a 30 euro sarebbe pari a 9. Se l’impresa paga poi imposte per 4, il profitto netto diventa dunque 5.
A questo punto nascono due domande. La prima: da dove nasce, e da cosa dipende, questo profitto? La storia del pensiero economico è anche una storia delle diverse teorie sulla natura del profitto. Schumpeter, ad esempio, cento anni fa sosteneva che il profitto è il “premio dell’innovazione” dell’imprenditore, è cioè la remunerazione della capacità innovativa dell’imprenditore. Marx, mezzo secolo prima di lui, aveva invece affermato che il profitto non è altro che un furto che i capitalisti fanno nei confronti dei lavoratori, poiché l’unica vera sorgente del valore aggiunto è il lavoro umano, in particolare quello dei lavoratori. Oggi sappiamo che nel valore aggiunto ci sono tante cose, tra cui la creatività dell’imprenditore, il lavoro umano, le istituzioni della società civile, la cultura tacita di un popolo, la qualità dei rapporti familiari nei quali crescono i bambini nei primi 6 anni di vita (come ci ha mostrato il Premio Nobel James Heckman). In quel “5” di valore aggiunto, dunque, non c’è solo il ruolo creativo dei proprietari dei mezzi di produzione dell’impresa, ma un di più che ha a che fare con la vita dell’intera collettività: c’è anche questa consapevolezza dietro l’articolo 41 della Costituzione italiana, quando dichiara la “funzione sociale” dell’impresa, funzione che ha anche una natura sociale.
Una cosa è comunque certa: se l’impresa A vende le auto a 30, e 5 sono i profitti, in un ipotetico mondo “no profit” (cioè con profitti 0) le auto costerebbero 25 invece di 30. In altre parole, i profitti delle imprese sono anche una forma di tassa sui beni, pagata dai cittadini, che riduce il benessere collettivo della popolazione. Ecco perché una “economia no-profit” è stata spesso desiderata, sognata, e in certi momenti storici anche realizzata su piccola o vasta scala, creando però spesso danni maggiori dei problemi che si volevano risolvere, come nel caso degli esperimenti collettivisti del XX secolo. Questi esperimenti non hanno funzionato per tante ragioni, tutte profonde, ma una di queste è che quando si toglie quel “5” e lo si socializza, chi mette su le imprese (stato o privati) non si impegna più nell’innovare e nel lavorare. La ricchezza, non solo economica, della nazione allora diminuisce, tutti si impoveriscono e sparisce anche quel valore (5) che si vorrebbe socializzare. Al tempo stesso, la grande crisi che stiamo vivendo insegna che un’economia fondata su profitti e speculazione è altrettanto insostenibile. Che fare allora?
Alla luce di quanto detto, quanto accade oggi nell’ambito della cosiddetta economia civile o sociale, e in particolare nell’Economia di comunione, può essere allora letto in due modi, diversi tra loro. Una prima lettura, minimalista e conservatrice, legge l’economia civile e sociale come il “tappabuchi” del sistema capitalistico: l’impresa normale (for-profit) non riesce ad occuparsi dei “vinti” che restano lungo la strada (nel linguaggio di G. Verga), e occorre quindi qualcun altro che svolga la funzione che famiglia e chiese svolgevano nel passato. È la logica del 2 per cento (no-profit), che lascia intatto il restante 98 per cento (economia for-profit).
C’è però anche un’altra lettura di questo movimento di economia civile: immaginare, per ora su piccola scala, un sistema economico dove il valore aggiunto, economico e sociale, venga distribuito tra tanti (non solo agli azionisti), senza però che imprenditori e lavoratori smettano di impegnarsi per mancanza di incentivi, in modo da evitare di cadere negli stessi problemi delle economie collettiviste e socialiste.
La vera scommessa della nuova economia di mercato che ci attende sarà allora mostrare imprenditori (singoli individui ma anche comunità) motivati da “ragioni più grandi del profitto”.L’ultima fase del capitalismo (che potremmo chiamare finanziario-individualista) nasce da un pessimismo antropologico, risalente almeno fino ad Hobbes: gli esseri umani sarebbero troppo opportunisti e auto-interessati per pensare che possano impegnarsi con motivazioni alte (come il bene comune). Non possiamo lasciare a questa “sconfitta antropologica” l’ultima parola sulla vita in comune: abbiamo il dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo positivo sul mondo e sull’uomo.
Ma perché tutto ciò non resti scritto sulla carta ma diventi vita, occorre un nuovo umanesimo, una nuova stagione educativa, occorrono quegli “uomini nuovi” che sono al centro anche del progetto dell’Economia di comunione, capaci di impegnarsi e lavorare non solo per il profitto, ma anche per fare della loro attività lavorativa un’opera d’arte. Se così sarà, allora la nuova economia di mercato nella quale stanno entrando nuovi grandi protagonisti (si pensi all’Africa, ad esempio), potrà essere un luogo bello nel quale abitare, vivere, amare.
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