Città Nuova

Economia Civile

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Continuare a cercare, seriamente e tutti, un nuovo patto industriale e sociale.

di Luigino Bruni

pubblicato su cittanuova.it il 17/01/2010

Fiat

Il mondo sociale economico e industriale è veramente cambiato: è questo forse il messaggio centrale che proviene da Mirafiori, prima e dopo il referendum che ha visto la vittoria, di misura e con molte ombre, dei “sì”. Ci stiamo infatti accorgendo che la cosiddetta globalizzazione ha “veramente” cambiato il mondo, con effetti molto concreti e rilevanti anche nella vita quotidiana delle nostre famiglie. In un mondo veramente e radicalmente cambiato, dove le imprese possono andare a produrre in più Paesi del mondo (mentre i lavoratori sono molto più legati al territorio), occorre ripensare “veramente e radicalmente” anche i rapporti sindacali e le relazioni industriali.

Gli attuali diritti e doveri dei lavoratori, che il sindacato giustamente vuole e deve proteggere, sono frutto di un periodo storico – in Italia dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento – caratterizzato da due elementi essenziali. Innanzitutto da una dura e ideologica opposizione capitale-lavoro, dove ciascuno vedeva l’altro prima come rivale, e solo poi come un alleato per il bene comune (ed in un mondo con assenza di diritti dei lavoratori una tale visione era comprensibile, e probabilmente storicamente necessaria). In secondo luogo, e come conseguenza, le relazioni industriali erano basate soprattutto sul conflitto sindacale, dal quale sono uscite le grandi conquiste del mondo del lavoro. Questo conflitto però dipendeva da una premessa fondamentale: che ognuna delle due parti (capitale e lavoro) aveva un vitale ed essenziale bisogno dell’altra, il che significava che la corda non si doveva e poteva spezzare, neanche nelle lotte le più aspre e dure: i lavoratori avevano bisogno della Fiat per vivere, ma anche la Fiat aveva bisogno di quei lavoratori torinesi (e del governo italiano) per poter produrre e crescere.

Per capire l’attuale stagione nei rapporti sindacali e industriali occorre allora sapere che questo secondo elemento, il “conflitto-bisogno” reciproco, è venuto meno: in particolare non è più vero che la grande impresa ha bisogno vitale di quei lavoratori particolari (torinesi, italiani), poiché, a causa della globalizzazione, oggi la Fiat e le grandi multinazionali possono “tagliare la corda”, spostarsi altrove, facendo saltare il banco (e magari con incentivi europei, come nel caso della Serbia: anche questo è un segnale che va preso sul serio, l’Europa oggi guarda ai Paesi meno sviluppati come quarant’anni fa l’Italia guardava al Sud con la cassa del mezzogiorno).

Questo per dire che la lotta ad oltranza, oltre a non essere forse più opportuna (occorre ricordare che soprattutto nell’economia attuale i rapporti economici organizzativi e industriali sono prima cooperativi, poi, ad un secondo livello, conflittuali), oggi non è più uno strumento efficace. Ecco quindi che al sindacato è chiesta oggi una nuova stagione di creatività, di evoluzione, di innovazione, come ha fatto nei suoi grandi momenti fondativi e profetici della sua grande storia.

D’altra parte il capitale, i proprietari e i manager, debbono anche essi mettersi in gioco, in cerca veramente di un nuovo patto sociale. Non basta disegnare contratti con maggiori vincoli e controlli (su assenteismo o scioperi…), poiché sappiamo, come detto in altre occasioni, che soprattutto l’impresa moderna, fatta di innovazioni e di capitale intellettuale e relazionale, ha bisogno del lavoratore-persona e non solo delle prestazioni del lavoratore-operaio, osservabili con telecamera e timbro del cartellino.

I nuovi manager della grande impresa (e questo è molto evidente nel caso Fiat) tendono ancora a vedere il mondo del lavoro soprattutto come un vincolo, come un problema, un costo, e meno come la grande risorsa per il successo della impresa stessa; e senza stima, riconoscimento e premi (30 euro al mese non sono un premio) il lavoratore-persona rischia di restare fuori dal cancello della fabbrica, dove entra solo il lavoratore-operaio.

Ma senza persone tutte intere oggi non si vive e cresce nel mercato globale, non bastano finanza e macchine. Se dopo aver vinto il referendum la Fiat non avrà la lealtà e la passione dei suoi lavoratori, anche di chi ora ha votato No, nessun investimento potrà rilanciare l’azienda, poiché anche nell’economia globalizzata il primo investimento è sempre nelle persone e nei rapporti. Occorre allora un nuovo patto sociale, senza fretta, nel dialogo, nella discussione anche pubblica e non solo nei tavoli, poiché dietro Mirafiori si nasconde il futuro dei rapporti economici, e quindi civili, del nostro Paese. Un dialogo vero che deve riguardare anche la natura del capitalismo, di cui si parla poco, troppo poco, in questi tempi di nuovi dibattiti accesi sul sindacato e sull’impresa. Dove sono oggi i Pasolini o i don Milani capaci di guardare e criticare in profondità il nostro modello di sviluppo, e invitare tutti ad un ripensamento serio?

Sono convinto che occorre ridiscutere, pubblicamente e seriamente, la destinazione dei profitti, gli enormi stipendi e bonus dei manager delle grandi imprese, delle amministrazioni pubbliche e delle banche (tema a me molto caro), se vogliamo che il dialogo sia serio e capace di mostrare prospettive di futuro, che oggi sembrano mancare in questa età di crisi, anche dopo la vittoria dei “sì”.

Un dialogo che in realtà avremmo dovuto iniziare molti anni fa, senza fretta, con la volontà da parte di tutti di ascoltare tutte le anime dei sindacati, capire le istanze di tutti e includerle, con un vero esercizio di democrazia deliberativa ancora troppo assente dalla nostra vita economica e civile. Questi accordi, i “sì” e i “no” nel referendum, sono dunque solo un primo passo, traballante e incerto, di un lungo viaggio.

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Il mondo sociale economico e industriale è veramente cambiato: è questo forse il messaggio centrale che proviene da Mirafiori, prima e dopo il referendum che ha visto la vittoria, di misura e con molte ombre, dei “sì”. Ci stiamo infatti accorgendo che la cosiddetta globalizzazione ha “veramente” cambiato il mondo, con effetti molto concreti e rilevanti anche nella vita quotidiana delle nostre famiglie. In un mondo veramente e radicalmente cambiato, dove le imprese possono andare a produrre in più Paesi del mondo (mentre i lavoratori sono molto più legati al territorio), occorre ripensare “veramente e radicalmente” anche i rapporti sindacali e le relazioni industriali.

Gli attuali diritti e doveri dei lavoratori, che il sindacato giustamente vuole e deve proteggere, sono frutto di un periodo storico – in Italia dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento – caratterizzato da due elementi essenziali. Innanzitutto da una dura e ideologica opposizione capitale-lavoro, dove ciascuno vedeva l’altro prima come rivale, e solo poi come un alleato per il bene comune (ed in un mondo con assenza di diritti dei lavoratori una tale visione era comprensibile, e probabilmente storicamente necessaria). In secondo luogo, e come conseguenza, le relazioni industriali erano basate soprattutto sul conflitto sindacale, dal quale sono uscite le grandi conquiste del mondo del lavoro. Questo conflitto però dipendeva da una premessa fondamentale: che ognuna delle due parti (capitale e lavoro) aveva un vitale ed essenziale bisogno dell’altra, il che significava che la corda non si doveva e poteva spezzare, neanche nelle lotte le più aspre e dure: i lavoratori avevano bisogno della Fiat per vivere, ma anche la Fiat aveva bisogno di quei lavoratori torinesi (e del governo italiano) per poter produrre e crescere.

Per capire l’attuale stagione nei rapporti sindacali e industriali occorre allora sapere che questo secondo elemento, il “conflitto-bisogno” reciproco, è venuto meno: in particolare non è più vero che la grande impresa ha bisogno vitale di quei lavoratori particolari (torinesi, italiani), poiché, a causa della globalizzazione, oggi la Fiat e le grandi multinazionali possono “tagliare la corda”, spostarsi altrove, facendo saltare il banco (e magari con incentivi europei, come nel caso della Serbia: anche questo è un segnale che va preso sul serio, l’Europa oggi guarda ai Paesi meno sviluppati come quarant’anni fa l’Italia guardava al Sud con la cassa del mezzogiorno).

Questo per dire che la lotta ad oltranza, oltre a non essere forse più opportuna (occorre ricordare che soprattutto nell’economia attuale i rapporti economici organizzativi e industriali sono prima cooperativi, poi, ad un secondo livello, conflittuali), oggi non è più uno strumento efficace. Ecco quindi che al sindacato è chiesta oggi una nuova stagione di creatività, di evoluzione, di innovazione, come ha fatto nei suoi grandi momenti fondativi e profetici della sua grande storia.

D’altra parte il capitale, i proprietari e i manager, debbono anche essi mettersi in gioco, in cerca veramente di un nuovo patto sociale. Non basta disegnare contratti con maggiori vincoli e controlli (su assenteismo o scioperi…), poiché sappiamo, come detto in altre occasioni, che soprattutto l’impresa moderna, fatta di innovazioni e di capitale intellettuale e relazionale, ha bisogno del lavoratore-persona e non solo delle prestazioni del lavoratore-operaio, osservabili con telecamera e timbro del cartellino.

I nuovi manager della grande impresa (e questo è molto evidente nel caso Fiat) tendono ancora a vedere il mondo del lavoro soprattutto come un vincolo, come un problema, un costo, e meno come la grande risorsa per il successo della impresa stessa; e senza stima, riconoscimento e premi (30 euro al mese non sono un premio) il lavoratore-persona rischia di restare fuori dal cancello della fabbrica, dove entra solo il lavoratore-operaio.

Ma senza persone tutte intere oggi non si vive e cresce nel mercato globale, non bastano finanza e macchine. Se dopo aver vinto il referendum la Fiat non avrà la lealtà e la passione dei suoi lavoratori, anche di chi ora ha votato No, nessun investimento potrà rilanciare l’azienda, poiché anche nell’economia globalizzata il primo investimento è sempre nelle persone e nei rapporti. Occorre allora un nuovo patto sociale, senza fretta, nel dialogo, nella discussione anche pubblica e non solo nei tavoli, poiché dietro Mirafiori si nasconde il futuro dei rapporti economici, e quindi civili, del nostro Paese. Un dialogo vero che deve riguardare anche la natura del capitalismo, di cui si parla poco, troppo poco, in questi tempi di nuovi dibattiti accesi sul sindacato e sull’impresa. Dove sono oggi i Pasolini o i don Milani capaci di guardare e criticare in profondità il nostro modello di sviluppo, e invitare tutti ad un ripensamento serio?

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Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010

Giovani_al_BarSono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.

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Si lavora veramente quando al sig. Rossi si aggiunge Mario, quando al prof. Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia, il lavoro umano diventa troppo simile a quello della macchina del caffè. È qui però che incontriamo un paradosso: i lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia quando è eccedente rispetto al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo bellissimo libro di N. Alter, Donner et prendre, La Découverte); le imprese però non riescono con gli strumenti a loro disposizione a riconoscere il “di più” del dono. Se infatti per riconoscerlo usano gli incentivi classici (denaro), il “di più” diventa dovuto e scompare; se però non fanno niente, nel tempo il “di più” del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa. Sta in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di impiego, arriva una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato il meglio di sé a quella organizzazione, ma senza reciprocità, senza sentire riconosciuto il dono della propria vita, che è sempre più grande del valore dello stipendio ricevuto. L’arte di gestire organizzazioni sta oggi soprattutto nell’inventare nuovi modi per riconoscere tale dono.

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Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010

Giovani_al_BarSono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.

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Il paradosso del “grazie”

Il paradosso del “grazie”

Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010 Sono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” a...
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Si comprende come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia un invito, forse un grido, ad un cambiamento serio degli stili di vita.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Cittanuova.it il 23/11/2010

La crisi finanziaria dell’Irlanda, che segue quella della Grecia, non fa che ricordarci che l’Occidente è troppo indebitato. Il salvataggio di molte banche e imprese dello scorso anno, in seguito alla crisi, ha comportato soprattutto uno spostamento dei debiti dal settore privato al settore pubblico. 

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Mentre le grandi economie riescono ancora (fino a quando?) a gestire enormi debiti pubblici, la speculazione finanziaria quando attacca Stati più piccoli e fragili sta comunque segnalando un problema molto più grave: c’è troppo debito in giro perché negli ultimi 40 anni abbiamo consumato più del reddito. Quali le ragioni?

 Certamente esiste una grossa questione demografica, un Occidente che negli ultimi decenni ha allungato la vita media di circa vent’anni e che parallelamente fa sempre meno figli, deve trovare un nuovo patto sociale tra generazioni perché il modello tradizionale di “stato sociale” che risale al dopoguerra non può più funzionare (un numero decrescente di giovani deve finanziare le pensioni di un numero crescente di anziani). Ma, come ha anche ricordato il papa, c’è un urgente bisogno di un cambiamento di modello di sviluppo e di stili di vita, che riguarda tutti e ciascuno.

Mi limito a porre alcune domande: quando vedremo migliaia tra i migliori docenti del mondo opulento spendere un semestre nelle fragili università africane? Quando vedremo investimenti seri in energie rinnovabili? Quando le pubbliche amministrazioni acquisteranno soltanto auto ecologiche e di bassa cilindrata? Quando tutte le imprese e i governi del mondo investiranno il 20-30 per cento del loro Pil per una cooperazione seria allo sviluppo, che diventino spese in istruzione, ospedali, tecnologie avanzate e pulite, trasporti efficienti, abitazioni dignitose?

Se non cominciamo nel nostro quotidiano a rispondere a queste domande, lo scenario economico e sociale nei prossimi decenni vedrà senz’altro nuove crisi globali. Si comprende allora come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia qualcosa di molto importante: un invito, forse un grido, che chiama a un cambiamento di stili di vita, ad un’economia che sia finalmente di comunione.

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Si comprende come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia un invito, forse un grido, ad un cambiamento serio degli stili di vita.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Cittanuova.it il 23/11/2010

La crisi finanziaria dell’Irlanda, che segue quella della Grecia, non fa che ricordarci che l’Occidente è troppo indebitato. Il salvataggio di molte banche e imprese dello scorso anno, in seguito alla crisi, ha comportato soprattutto uno spostamento dei debiti dal settore privato al settore pubblico. 

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Quale modello di sviluppo?

Quale modello di sviluppo?

Si comprende come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia un invito, forse un grido, ad un cambiamento serio degli stili di vita. di Luigino Bruni pubblicato su: Cittanuova.it il 23/11/2010 La crisi finanziaria dell’Irlanda, che segue quella della Grecia, non fa che ricordarci che l’O...
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L’Economia di Comunione è ormai vicina ai suoi primi venti anni. Un “luogo di resistenza”.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.21/2010 del 10/11/2010
Favelas_San_PaoloA fine maggio 2011 tutto il mondo dell’Economia di Comunione (EdC) si ritroverà a San Paolo per tornare alle radici di questa esperienza e tracciare nuove prospettive. L’EdC è viva e cresce nella storia dell’oggi, nelle crisi e nelle speranze del nostro tempo.

 Nel maggio 1991, la proposta iniziale di Chiara Lubich di dar vita ad imprese e poli produttivi, e poi (maggio 1998) ad un movimento culturale che desse “dignità scientifica” alla prassi delle aziende, non è caduta nel nulla: essa è stata raccolta da migliaia di persone, prevalentemente dentro ma recentemente anche fuori del Movimento dei focolari, persone e istituzioni che stanno cercando di far fruttificare quel seme.

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Al tempo stesso, l’intera EdC è oggi chiamata, mi sembra, ad affrontare una nuova tappa. Recentemente in Brasile, insieme ad alcuni dei protagonisti dell’EdC di quel Paese, ho ripercorso alcuni dei momenti iniziali del progetto. Sono stato Madonnina_di_Edc_ridcolpito in particolare da un episodio di quei giorni, poco noto, che mi è tornato nella mente e nel cuore. Chiara, di ritorno dal viaggio brasiliano, notò un particolare nel quadro di “Maria desolata” che aveva nel suo studio, quadro regalatole tanti anni prima da Igino Giordani: in quel dipinto Maria teneva stretta sul petto una corona di spine. Per lei fu immediato il collegamento con la “corona di spine di povertà” che aveva visto nelle favelas di San Paolo e che era stata la scintilla ispiratrice della neonata EdC.

Questo episodio ci ha fatto riflettere sulla natura dell’ispirazione originaria e sulle prospettive che ci attendono ora e negli anni a venire: la corona di spine, il dolore dei poveri, che Chiara invitava ad amare e redimere, era la corona di spine di San Paolo, di tutte le città, la corona di spine del mondo e di questo capitalismo. Quella corona non era, ovviamente, composta soltanto dagli indigenti dei Focolari; i poveri del suo movimento erano per Chiara soltanto un primo passo per andare poi ben oltre.

La prospettiva che si spalancava all’EdC era dunque di grande respiro: contribuire a dar vita ad un nuovo ordine economico-sociale, ad un nuovo modello di sviluppo, ripensando e collegando le due realtà centrali del capitalismo ancora oggi tra loro opposte: l’impresa (motore dello sviluppo economico) e la miseria (degli esclusi da quello sviluppo).

Un bilancio sull’EdC oggi deve allora riferirsi soprattutto e primariamente a questa dimensione del progetto: rapporto tra imprese ed esclusione. Solo secondariamente all’impatto culturale o teorico che l’EdC ha avuto ed ha nella Chiesa, nella società e nell’accademia (elementi ovviamente tutti importanti), oltre alla sua capacità di far diventare gli imprenditori più etici e generosi.

In questa prospettiva, dobbiamo ammettere di essere ancora distanti dall’aver realizzato la vocazione dell’EdC. Il successo di un tale progetto non si misura infatti sulla base del numero delle imprese che in questi anni sono diventate più etiche, né con gli utili raccolti e donati (tra l’altro ancora troppo pochi), né con lo sviluppo dei Poli industriali. L’EdC sarà pienamente in linea con la sua missione quando sarà diventata un modello economico e sociale che mostra, qui ed ora, un’economia con il volto della comunione, e quindi con un volto veramente umano. Per raggiungere questo obiettivo, messo in discussione ogni giorno dalla nostra libertà e responsabilità, c’è però bisogno di saper e volere affrontare almeno tre sfide impegnative.

Innanzitutto, occorre che l’EdC, sia come prassi che come cultura, si metta sempre più in rete con le altre esperienze di economia sociale e civile che cercano, a loro modo, di umanizzare l’economia. Una sfida già prefigurata da Chiara stessa nella sua lectio magistralis del 1999 in occasione della laurea honoris causa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza. Nei dieci anni trascorsi da quella laurea, qualche passo si è fatto, ma occorre fare di più e su più larga scala, nazionale e internazionale.

In secondo luogo, la povertà (che preferiamo chiamare più propriamente, e più in linea con il Vangelo, miseria o esclusione) va oggi declinata in più modi: non può restare solo la povertà materiale delle favelas brasiliane del 1991 (sebbene questa dimensione sarà sempre centrale e importante, poiché spesso è anche alla base delle altre forme di povertà).

L’esclusione, la solitudine, la mancanza di senso della vita, di valori veri, di capacità, di diritti e libertà, di rapporti, oggi si stanno sempre più mostrando come forme di povertà tipiche del XXI secolo, che si affiancano alle forme tradizionali. In particolare, e a partire dal carisma dell’unità di cui l’EdC è espressione, oggi è urgente amare e curare proprio quelle indigenze che nascono da rapporti spezzati, carestie di beni relazionali, varie forme di disunità (private, civili, politiche), per le quali il carisma dell’unità ha per vocazione occhi capaci di vedere, per trasformare queste ferite in benedizioni.

Occorre quindi lanciare una nuova fase di creatività ed innovazioni, dove i vari imprenditori e attori dell’EdC, attuali e futuri, sentano la libertà e la responsabilità di guardare alle vecchie e nuove forme di povertà per trovare nuove soluzioni, ricordando sempre che la prima forma di lotta all’esclusione e all’indigenza è il lavoro da creare e offrire.

Infine, occorre fare uno sforzo culturale e teorico, sempre in dialogo con tanti altri, per immaginare, a partire anche dall’esperienza di questi primi anni dell’EdC, la proposta di un nuovo modello economico che non si limiti alle riflessioni sull’azione individuale e sull’impresa. Sono convinto che gli economisti, gli imprenditori e gli operatori dell’EdC abbiano le potenzialità per proporre nuovi modelli di sviluppo e di dinamiche istituzionali, che si offrano come contributo per quel nuovo ordine economico, ambientalmente, socialmente e spiritualmente sostenibile, che oggi tanti cercano, e che è sempre più urgente trovare.

Se l’EdC sarà capace di leggere e affrontare con “coraggio carismatico” queste sfide, allora la profezia di Chiara diventerà sale della storia, e potrà dare un suo contributo al ben vivere delle donne e degli uomini di oggi (e di domani), dentro e fuori i mercati. Non a caso, quest’anno, oltre all’evento del maggio 2011 in Brasile, l’EdC mondiale ha lanciato un “progetto giovani”, che avrà come tappe significative due scuole internazionali: la prima in America latina e la seconda in Africa, entrambe nel gennaio 2011.

Nella cultura del consumo, l’EdC può e deve essere un “luogo di resistenza”: non isole quindi ma oasi di comunione e gratuità, come lo furono le abbazie nel Medioevo, ricordando che Chiara intuì per la prima volta la realtà che sarebbe diventata più tardi l’EdC (“le ciminiere”) contemplando dall’alto di un colle svizzero una abbazia benedettina. Un messaggio di comunione e gratuità che oggi ha un grande valore: infatti, in un mondo dove il denaro tende a diventare tutto poiché con esso si compra (quasi) tutto, l’EdC ricorda che la ricchezza più grande è quella donata e condivisa. Per i singoli e per i popoli.

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L’Economia di Comunione è ormai vicina ai suoi primi venti anni. Un “luogo di resistenza”.

di Luigino Bruni

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L'EdC oggi: sfide e prospettive

L'EdC oggi: sfide e prospettive

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La proposta dell’economista Bruni: tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie per sostenere i Paesi in via di sviluppo

di Sara Fornaro

pubblicato su cittanuova.it il 29/10/2010
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Tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie speculative per finanziare progetti di microfinanza nei Paesi in via di sviluppo. È una delle proposte contenute nell’appello che Luigino Bruni, docente presso l’Università Milano Bicocca e vicedirettore del Centro interuniversitario di ricerca sull’etica d’impresa Econometica, sta rilanciando in questi giorni insieme agli economisti Leonardo Becchetti, Gustavo Piga, Lorenzo Sacconi, Francesco Silva e Stefano Zamagni.  Attraverso la Fit (Financial transaction tax) ci sarebbe il doppio vantaggio di dare un minimo di regolamentazione al mercato finanziario e di raccogliere fondi da destinare al raggiungimento degli obiettivi del millennio definiti dall’Onu e al finanziamento di beni pubblici globali. È un progetto che sta suscitando sempre più consensi, anche tra i leader delle principali potenze economiche, come ad esempio il presidente francese Nicolas Sarkozy

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Vista la frequenza e la proporzione delle transazioni speculative, attraverso la Fit si riuscirebbero a raccogliere ogni anno fino a 200 miliardi di dollari. Per capire la portata di questa proposta, basti pensare che basterebbero 30 miliardi di euro per assicurare l’istruzione primaria obbligatoria in tutto il mondo. «Sulla tassa sulle transazioni finanziarie – si legge nell’appello – si gioca la misura della nostra civiltà e la possibilità che esse possa essere definita veramente tale».

Professor Bruni, a che punto siamo?

«Abbiamo raccolto tante adesioni nel mondo accademico, in quello economico e in quello bancario. Molte di più di quante pensassimo. Ecco perché ci sembra il momento giusto per rilanciare questa proposta, con maggiore ponderazione e meno urgenza di come abbiamo fatto due anni fa. Dopo la proposta avanzata nel 2001 a Genova dal Movimento dei focolari, anche grazie al coinvolgimento delle imprese che aderiscono al progetto di Economia di comunione, adesso siamo entrati in una seconda fase, con una proposta analoga, ma più condivisa, diffusa e articolata. Io sento che questa è la strada sulla quale si deve andare avanti».

Cosa c’è in programma?

«A distanza di 10 anni, vogliamo ripresentare il manifesto di Genova nel 2011, ma in Brasile, in occasione dei venti anni dell’Economia di comunione, presentandola come una nostra proposta concreta da lanciare su scala mondiale e con maggior enfasi. Ormai non si tratta soltanto di finanziare governi e organizzazioni non governative. C’è bisogno di dare impulso alla capitalizzazione delle migliaia di istituzioni di microfinanza esistenti nei Paesi in via di sviluppo e noi, con la rete mondiale delle aziende di Economia di comunione, possiamo sostenere questo progetto. Inoltre, vogliamo lanciare un grande progetto di scambio tra docenti di tutto il mondo perché, senza una educazione di qualità, non si esce dalla miseria».

Ci spieghi meglio questo progetto di scambio.

«Si potrebbero rafforzare i legami tra le diverse istituzioni accademiche, che nei Paesi in via di sviluppo sono molto fragili, e finanziare progetti di scambio: con docenti stranieri che potrebbero trascorrere un certo periodo di tempo nei loro Atenei».

Tra le vostre proposte, c’è anche quella di non tassare i Bot, per non gravare sui cittadini.

«Non si devono tassare i risparmi delle famiglie. Noi proponiamo di tassare la finanza speculativa, ma non si deve demonizzare la finanza in generale, perché è necessaria e non dobbiamo dimenticare che fu inventata dai francescani nel Medioevo. Il problema non è solo quello di raccogliere i soldi, ma anche quello di spenderli bene. La finanza speculativa non si è mai fermata, neanche durante la crisi. Non è mai fallita: una minima percentuale di organismi ha chiuso, ma altri si sono riciclati in mille altri modi. Basti pensare allo scandalo recente di una banca, salvata da fondi pubblici, che continua a pagare bonus enormi ai suoi manager e sarà sempre così, almeno finché non ci sarà un cambiamento istituzionale. Non si deve chiudere tutto, ma se vogliamo che le cose funzionino, serve un sistema di regole e controlli. Come è stato detto: non si fanno una buona società e una buona economia senza finanza, ma si fanno una buona società e una buona economia con una buona finanza, che richiede una regolazione da parte dei governi e un nuovo protagonismo civile da parte della gente».

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La proposta dell’economista Bruni: tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie per sostenere i Paesi in via di sviluppo

di Sara Fornaro

pubblicato su cittanuova.it il 29/10/2010
wall_street

Tassare dello 0,05 per cento le transazioni finanziarie speculative per finanziare progetti di microfinanza nei Paesi in via di sviluppo. È una delle proposte contenute nell’appello che Luigino Bruni, docente presso l’Università Milano Bicocca e vicedirettore del Centro interuniversitario di ricerca sull’etica d’impresa Econometica, sta rilanciando in questi giorni insieme agli economisti Leonardo Becchetti, Gustavo Piga, Lorenzo Sacconi, Francesco Silva e Stefano Zamagni.  Attraverso la Fit (Financial transaction tax) ci sarebbe il doppio vantaggio di dare un minimo di regolamentazione al mercato finanziario e di raccogliere fondi da destinare al raggiungimento degli obiettivi del millennio definiti dall’Onu e al finanziamento di beni pubblici globali. È un progetto che sta suscitando sempre più consensi, anche tra i leader delle principali potenze economiche, come ad esempio il presidente francese Nicolas Sarkozy

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Dalla finanza speculativa un aiuto al microcredito

Dalla finanza speculativa un aiuto al microcredito

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Quello di cui Marchionne non ha parlato ma che resta fondamentale tra le componenti aziendali.

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 27/08/2010

Che oggi l’Italia e in generale la civiltà occidentale abbia bisogno di un nuovo “patto sociale” non ci sono dubbi. Il punto fondamentale è il contenuto, le parti coinvolte, le autorità che lo faranno rispettare, ecc. Relativamente al discorso di Marchionne, ci sono alcuni punti sui quali non si può non essere d’accordo. In particolare è innegabile che in un’economia sempre più globalizzata le relazioni industriali debbano essere ripensate, e in generale va rivisto il rapporto capitale-lavoro in modo meno ideologico di come non si sia fatto negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. In questa età di crisi è necessario che tra le varie componenti dell’impresa prevalgano le ragioni della cooperazione su quelle della competizione o del conflitto, poiché solo cooperando si riesce oggi a crescere nel contesto mondiale (come molti Paesi dell’Asia ci insegnano da diversi decenni).

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Ma la cooperazione, perché sia in qualche modo genuina e intrinseca (e non solo opportunistica e strumentale), richiede alcune pre-condizioni, di cui non ha parlato Marchionne. La prima è una ridefinizione della redistribuzione della ricchezza e della natura del profitto: uno dei capitoli del nuovo patto sociale dovrà necessariamente definire, nelle sue linee guida e dopo opportuno e serio dibattito (che non vedo in questi anni), come ripartire la ricchezza che la nuova economia produce, i cui destinatari non possono essere solo gli azionisti o i manager.

Occorre prendere maggiormente  sul serio i lavoratori che se debbono sentirsi sempre meno “dipendenti” e sempre più protagonisti e co-responsabili della vita e della sorte della loro impresa. Al riguardo gli imprenditori non possono continuare a considerare il lavoro umano come un “costo di produzione” che riduce i profitti.

In ogni caso, finché lo stipendio di Marchionne è centinaia di volte quello degli operai Fiat, il discorso sul patto sociale sarà sempre percepito dal mondo del lavoro come troppo astratto e forse retorico. Occorre certamente un nuovo patto, ma occorre soprattutto una nuova riflessione sul capitalismo sull’impresa e sul profitto, se vogliamo dare contenuto a questo nuovo patto, e assegnare futuro alle parole, anche quando denunciano un problema reale e sono suggestive e colte.

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Quello di cui Marchionne non ha parlato ma che resta fondamentale tra le componenti aziendali.

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 27/08/2010

Che oggi l’Italia e in generale la civiltà occidentale abbia bisogno di un nuovo “patto sociale” non ci sono dubbi. Il punto fondamentale è il contenuto, le parti coinvolte, le autorità che lo faranno rispettare, ecc. Relativamente al discorso di Marchionne, ci sono alcuni punti sui quali non si può non essere d’accordo. In particolare è innegabile che in un’economia sempre più globalizzata le relazioni industriali debbano essere ripensate, e in generale va rivisto il rapporto capitale-lavoro in modo meno ideologico di come non si sia fatto negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. In questa età di crisi è necessario che tra le varie componenti dell’impresa prevalgano le ragioni della cooperazione su quelle della competizione o del conflitto, poiché solo cooperando si riesce oggi a crescere nel contesto mondiale (come molti Paesi dell’Asia ci insegnano da diversi decenni).

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Le condizioni per un accordo strategico

Le condizioni per un accordo strategico

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Oltre il capitalismo - L’uno e l’altro. Ma bisogna cambiare il modello economico e sociale.

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.15-16/2010 del 10-25/08/2010

wall_streetIl dibattito pubblico di questi tempi su lavoro, occupazione, crisi (e sofferenza delle famiglie) può offrirci l’opportunità per riflettere, più profondamente di quanto non si sia fatto negli ultimi decenni, sulla natura dell’impresa, del profitto e quindi del capitalismo.  Non si uscirà veramente dalle gravi crisi che stiamo vivendo – dall’ambiente alla finanza, dal terrorismo all’occupazione – finché non metteremo seriamente in discussione l’attuale modello economico e sociale. La forma che l’economia di mercato ha assunto negli ultimi due secoli, il capitalismo, deve evolvere in qualcosa d’altro, salvando l’enorme portato di civiltà e libertà che racchiude, ma al tempo stesso consentendo a 8 miliardi di persone di coltivare la propria umanità. 

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Uno dei fatti più gravi di questi ultimi due anni di crisi finanziaria è stata la volgarità (non trovo altra parola) degli stipendi e bonus milionari che banche e società assicurative salvate nell’autunno 2008 con denaro pubblico hanno, dai primi mesi del 2009, ricominciato a distribuire ai loro manager. Anche in tempi di tagli e lotte sindacali, nessuno mette seriamente in dubbio gli alti profitti delle imprese e gli stipendi da superstar. Non si ha il coraggio di mettere in discussione il sistema capitalistico e ci si limita a parlare di economia etica, impresa responsabile, no profit e filantropia, fenomeni funzionali e necessari al sistema economico esistente.

Ma siamo sicuri che lo scopo dell’attività di un’impresa sia massimizzare il profitto? Se ci limitiamo all’ambito più positivo dell’economia di mercato (tralasciando la discussione sulla natura dei “profitti” delle speculazioni), possiamo affermare che il profitto è la parte di valore aggiunto generato dall’attività d’impresa che viene attribuita ai proprietari, a quelli che una volta si chiamavano i capitalisti. Il profitto quindi non è l’intero valore aggiunto, ma solo una parte. Faccio un esempio: l’impresa A produce automobili trasformando materie prime in un prodotto finito chiamato “auto”, al costo di 10. Se aggiungiamo costo del lavoro (8), oneri finanziari e  ammortamenti (3), il profitto lordo (prima delle imposte) di un’auto venduta a 30 euro sarebbe pari a 9. Se l’impresa paga poi imposte per 4, il profitto netto diventa dunque 5. 

A questo punto  nascono due domande. La prima: da dove nasce, e da cosa dipende, questo profitto? La storia del pensiero economico è anche una storia delle diverse teorie sulla natura del profitto. Schumpeter, ad esempio, cento anni fa sosteneva che il profitto è il “premio dell’innovazione” dell’imprenditore, è cioè la remunerazione della capacità innovativa dell’imprenditore. Marx, mezzo secolo prima di lui, aveva invece affermato che il profitto non è altro che un furto che i capitalisti fanno nei confronti dei lavoratori, poiché l’unica vera sorgente del valore aggiunto è il lavoro umano, in particolare quello dei lavoratori. Oggi sappiamo che nel valore aggiunto ci sono tante cose, tra cui la creatività dell’imprenditore, il lavoro umano, le istituzioni della società civile, la cultura tacita di un popolo, la qualità dei rapporti familiari nei quali crescono i bambini nei primi 6 anni di vita (come ci ha mostrato il Premio Nobel James Heckman). In quel “5” di valore aggiunto, dunque, non c’è solo il ruolo creativo dei proprietari dei mezzi di produzione dell’impresa, ma un di più che ha a che fare con la vita dell’intera collettività: c’è anche questa consapevolezza dietro l’articolo 41 della Costituzione italiana, quando dichiara la “funzione sociale” dell’impresa, funzione che ha anche una natura sociale.

Una cosa è comunque certa: se l’impresa A vende le auto a 30, e 5 sono i profitti, in un ipotetico mondo “no profit” (cioè con profitti 0) le auto costerebbero 25 invece di 30. In altre parole, i profitti delle imprese sono anche una forma di tassa sui beni, pagata dai cittadini, che riduce il benessere collettivo della popolazione. Ecco perché una “economia no-profit” è stata spesso desiderata, sognata, e in certi momenti storici anche realizzata su piccola o vasta scala, creando però spesso danni maggiori dei problemi che si volevano risolvere, come nel caso degli esperimenti collettivisti del XX secolo. Questi esperimenti non hanno funzionato per tante ragioni, tutte profonde, ma una di queste è che quando si toglie quel “5” e lo si socializza, chi mette su le imprese (stato o privati) non si impegna più nell’innovare e nel lavorare. La ricchezza, non solo economica, della nazione allora diminuisce, tutti si impoveriscono e sparisce anche quel valore (5) che si vorrebbe socializzare. Al tempo stesso, la grande crisi che stiamo vivendo insegna che un’economia fondata su profitti e speculazione è altrettanto insostenibile. Che fare allora?

Alla luce di quanto detto, quanto accade oggi nell’ambito della cosiddetta economia civile o sociale, e in particolare nell’Economia di comunione, può essere allora letto in due modi, diversi tra loro.  Una prima lettura, minimalista e conservatrice, legge l’economia civile e sociale come il “tappabuchi” del sistema capitalistico: l’impresa normale (for-profit) non riesce ad occuparsi dei “vinti” che restano lungo la strada (nel linguaggio di G. Verga), e occorre quindi qualcun altro che svolga la funzione che famiglia e chiese svolgevano nel passato. È la logica del 2 per cento (no-profit), che lascia intatto il restante 98 per cento (economia for-profit). 

C’è però anche un’altra lettura di questo movimento di economia civile: immaginare, per ora su piccola scala, un sistema economico dove il valore aggiunto, economico e sociale, venga distribuito tra tanti (non solo agli azionisti), senza però che imprenditori e lavoratori smettano di impegnarsi per mancanza di incentivi, in modo da evitare di cadere negli stessi problemi delle economie collettiviste e socialiste.
La vera scommessa della nuova economia di mercato che ci attende sarà allora mostrare imprenditori (singoli individui ma anche comunità) motivati da “ragioni più grandi del profitto”. 

L’ultima fase del capitalismo (che potremmo chiamare finanziario-individualista) nasce da un pessimismo antropologico, risalente almeno fino ad Hobbes: gli esseri umani sarebbero troppo opportunisti e auto-interessati per pensare che possano impegnarsi con motivazioni alte (come il bene comune). Non possiamo lasciare a questa “sconfitta antropologica” l’ultima parola sulla vita in comune: abbiamo il dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo positivo sul mondo e sull’uomo.

Ma perché tutto ciò non resti scritto sulla carta ma diventi vita, occorre un nuovo umanesimo, una nuova stagione educativa, occorrono quegli “uomini nuovi” che sono al centro anche del progetto dell’Economia di comunione, capaci di impegnarsi e lavorare non solo per il profitto, ma anche per fare della loro attività lavorativa un’opera d’arte. Se così sarà, allora la nuova economia di mercato nella quale stanno entrando nuovi grandi protagonisti (si pensi all’Africa, ad esempio), potrà essere un luogo bello nel quale abitare, vivere, amare.

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Oltre il capitalismo - L’uno e l’altro. Ma bisogna cambiare il modello economico e sociale.

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.15-16/2010 del 10-25/08/2010

wall_streetIl dibattito pubblico di questi tempi su lavoro, occupazione, crisi (e sofferenza delle famiglie) può offrirci l’opportunità per riflettere, più profondamente di quanto non si sia fatto negli ultimi decenni, sulla natura dell’impresa, del profitto e quindi del capitalismo.  Non si uscirà veramente dalle gravi crisi che stiamo vivendo – dall’ambiente alla finanza, dal terrorismo all’occupazione – finché non metteremo seriamente in discussione l’attuale modello economico e sociale. La forma che l’economia di mercato ha assunto negli ultimi due secoli, il capitalismo, deve evolvere in qualcosa d’altro, salvando l’enorme portato di civiltà e libertà che racchiude, ma al tempo stesso consentendo a 8 miliardi di persone di coltivare la propria umanità. 

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Profitto o bene comune?

Profitto o bene comune?

Oltre il capitalismo - L’uno e l’altro. Ma bisogna cambiare il modello economico e sociale. di Luigino Bruni Pubblicato su: Città Nuova n.15-16/2010 del 10-25/08/2010 Il dibattito pubblico di questi tempi su lavoro, occupazione, crisi (e sofferenza delle famiglie) può offrirci l’opportunità per ri...
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Oggi assistiamo a un grande revival della fortuna. La ricerca della felicità è sempre meno legata alla virtù.

La fortuna e la virtù

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Città Nuova n.12/2010 del 25/06/2010

Gratta_e_vinciUno degli elementi più importanti nella nascita della civiltà occidentale è stata la contrapposizione tra fortuna e virtù. Nel mondo mitico greco esisteva uno stretto rapporto tra felicità e fortuna: era considerato felice chi aveva dalla sua parte un buon (eu) dio (daimon). Socrate e la grande stagione filosofica greca affermarono invece che la felicità, la fioritura umana, dipende dalle virtù e non dalla fortuna. La virtù vince la cattiva sorte. Su questo si è costruita tutta l’etica personale e collettiva dell’Europa che, grazie anche al grande evento cristiano, ha affermato che la vita buona, la felicità, dipende dalla capacità di coltivare le virtù, dal nostro impegno e dalla nostra responsabilità.

Oggi assistiamo invece a un grande revival della fortuna. La ricerca della felicità è sempre meno legata alla virtù, al lavoro in particolare, e sempre più alla fortuna, al gioco, alla sorte. Proliferano trasmissioni basate su promesse di arricchimenti facili, gratta e vinci, lotterie, slot machine, lotto, telepoker.

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La crisi finanziaria ed economica è anche espressione di questo revival di cultura arcaica, e dell’allontanamento dall’idea delle virtù e dal lavoro. La nostra Repubblica nasce fondata sul lavoro, una tesi che racchiude secoli di civiltà nei quali l’Occidente e il cristianesimo avevano affermato che la ricchezza che non nasce dal lavoro umano non porta normalmente felicità individuale e collettiva. Oggi invece questa cultura della fortuna (che va assieme alla magia e all’astrologia, altri ambiti in forte crescita, altri ambiti neopagani) ci sta promettendo, illudendoci, che ci si possa arricchire senza lavorare, ma trovando un investimento fortunato, o vincendo una lotteria. Non c’è una grande differenza culturale tra chi consuma sistematicamente gratta e vinci e chi specula in borsa: è la cultura della fortuna che si sta prendendo la rivincita sulla cultura della virtù. Si uscirà da questa crisi lavorando, meglio e insieme, rilanciando una stagione di virtù pubbliche, di beni collettivi, di progetti comuni. Se così non sarà, continueremo ad attenderci la salvezza da fuori, e rimanderemo ancora il tempo della responsabilità, individuale e collettiva.

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Pubblicato su: Città Nuova n.12/2010 del 25/06/2010

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La fortuna e la virtù

La fortuna e la virtù

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Prezzi troppo alti o troppo bassi sono entrambi dei problemi.

Il prezzo e il valore

di Luigino Bruni
pubblicato su www.cittanuova.it il 5/05/2010

MoneyIn quasi tutti gli aeroporti del mondo, c’è un servizio Internet a pagamento. A Zurigo con un euro si avevano 4 minuti di connessione: le postazioni erano quasi tutte libere. Pochi giorni fa, a Porto, ho trovato in aeroporto un servizio Internet gratuito: ho fatto più di un’ora di fila, e poi ho desistito, poiché chi occupava una postazione non la mollava più. Forse un costo un po’ più basso a Zurigo e uno maggiore di zero a Porto avrebbero migliorato l’efficienza di entrambi i sistemi.

Prezzi troppo alti o troppo bassi sono entrambi dei problemi. Un prezzo del petrolio per decenni troppo basso non ha solo accelerato l’esaurimento di giacimenti, ma ha anche rallentato la ricerca di energie alternative. Il prezzo di un bene, quando i mercati sono concorrenziali, dovrebbe esprimere la sua scarsità economica e sociale; ma ci sono beni come il petrolio (e in generale l’ambiente) dove, per poter far sì che i loro prezzi esprimano la vera scarsità, dovremmo includere anche la disponibilità di quel bene per le future generazioni.

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Venendo poi ai prezzi troppo alti, non riesco ancora a trovare un collega economista che mi dia una giustificazione teorica degli stipendi milionari dei manager. Sono convinto che se pagassimo i dirigenti, privati e pubblici, sulla base della scarsità e del valore del loro contributo all’azienda e alla società, potremmo ridurre i costi di beni, polizze e bollette che lievitano anche a causa delle rendite che i membri di questi club esclusivi si auto-assegnano. Stipendi più bassi favorirebbero poi la coesione e l’armonia sociale, che sono sempre messe in crisi da forti diseguaglianze. Sono convinto che anche nel campo dei manager occorre sviluppare le ricerche sulle “fonti alternative”; ma, anche qui, finché gli stipendi dei dirigenti delle grandi imprese e dell’amministrazione pubblica resteranno così scandalosamente alti, sarà molto arduo per l’economia sociale e civile attrarre i migliori giovani dirigenti. Per fortuna, però, conosco tanti giovani che, pur avendo ottime alternative, scelgono di impegnare i loro anni migliori in Ong, in imprese sociali e civili, dove si trovano quelle “energie alternative” da cui dipenderà la sostenibilità economica sociale e spirituale dei prossimi anni.

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pubblicato su www.cittanuova.it il 5/05/2010

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Prezzi troppo alti o troppo bassi sono entrambi dei problemi. Un prezzo del petrolio per decenni troppo basso non ha solo accelerato l’esaurimento di giacimenti, ma ha anche rallentato la ricerca di energie alternative. Il prezzo di un bene, quando i mercati sono concorrenziali, dovrebbe esprimere la sua scarsità economica e sociale; ma ci sono beni come il petrolio (e in generale l’ambiente) dove, per poter far sì che i loro prezzi esprimano la vera scarsità, dovremmo includere anche la disponibilità di quel bene per le future generazioni.

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Il prezzo e il valore

Il prezzo e il valore

Prezzi troppo alti o troppo bassi sono entrambi dei problemi. Il prezzo e il valore di Luigino Bruni pubblicato su www.cittanuova.it il 5/05/2010 In quasi tutti gli aeroporti del mondo, c’è un servizio Internet a pagamento. A Zurigo con un euro si avevano 4 minuti di connessione: le postazioni er...
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L'imprenditore bresciano che ha pagato di tasca propria la mensa scolastica ai bambini che non se la potevano permettere ha ricevuto, insieme alle lodi, anche forti critiche. Qual è il valore della gratuità all'interno della comunità? Tre domande all'economista Luigino Bruni.

di Chiara Andreola

pubblicato su cittanuova.it il 16/04/2010
Luigino_Bruni_03Dapprima gli strali erano arrivati al sindaco di Adro (Brescia), che aveva deciso di lasciare fuori dalla mensa scolastica chi non era in regola con i pagamenti. Poi, quando un (inizialmente) anonimo imprenditore ha saldato il debito per non lasciare a stomaco vuoto incolpevoli bambini di scuola elementare, sotto il fuoco di fila è finito l'autore del munifico gesto: troppo facile ora, per chi vuol fare il furbo, approfittare della generosità altrui. Così circa 200 famiglie hanno annunciato che non pagheranno più la retta in segno di protesta. Il sindaco ha inoltre dichiarato al Corriere che quella di Silvano Lancini – questo il nome dell'imprenditore – è «un'azione politica», volta a favorire l'opposizione. Che sia generosità autentica o una mossa calcolata, l'episodio porta al centro la questione del valore e del ruolo della gratuità nel contesto cittadino. Ne parliamo con Luigino Bruni, docente di economia all'università di Milano Bicocca, autore di un libro proprio su quest’argomento (Il prezzo della gratuità, Città Nuova).

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Appena è stato reso noto il nome del benefattore, hanno preso corpo le supposizioni su quali altri interessi potesse nascondere: come mai facciamo fatica a concepire un gesto di gratuità?
 
«L'ethos del mercato è talmente centrato attorno al principio dell'interesse personale, come traspare anche dai libri di testo e dalle scuole di management in cui si formano le classi dirigenti, che anche un atto altruistico finisce per rientrare in questa logica e diventare “sospetto”. Però c'è da dire che questa è anche una reazione ad un'idea di beneficenza che nascondeva rapporti di potere: il munus, il dono, ha accompagnato per millenni la vita comune, ma era in alcuni casi espressione di dominio. Anche Seneca affermava che, se il beneficiato non riesce a rispondere al dono del benefattore, finisce per odiarlo, perché gli ricorda ogni giorno la sua dipendenza. Bisogna quindi creare le condizioni per l'esistenza di una cultura della gratuità: l'economia civile e l'Economia di Comunione vanno in questa direzione».
 
In che cosa dunque la gratuità si distingue dalla beneficenza?
 
«La gratuità è radicata nella reciprocità: è un processo che inizia, come ad esempio in questo caso, con una donazione, ma poi si sviluppa e dura nel tempo all'interno della comunità, non è solo l'atto di una persona. In questo senso la cultura europea è diversa da quella americana, dove è considerato normale che un imprenditore faccia una donazione anche consistente: non essendo abituati al modello filantropico, ma a quello comunitario, non abbiamo l'idea che sia il singolo a provvedere di tasca propria ad un compito che attribuiamo allo Stato o alla comunità. Ed è proprio nella comunità che la reciprocità trova la sua piena espressione, appunto perché non è semplice beneficenza, ma un modello di rapporti. La povertà stessa è un rapporto, non uno status».
 
 Uno dei motivi per cui il gesto dell'imprenditore bresciano è stato criticato è il rischio che se ne approfitti anche chi, pur avendone la possibilità, non paga la retta della mensa: la gratuità ha dei limiti?
 
«L'atto di generosità è per sua natura fragile ed esposto all'opportunismo. Il rischio è inevitabile, ma non è una buona ragione per non farlo. Costruire comunità solidali per dinamiche più sostenibili funziona anche da garanzia in questo senso, perché una volta che il processo di gratuità è inserito nella dimensione comunitaria si può esercitare una sorta di controllo».

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di Chiara Andreola

pubblicato su cittanuova.it il 16/04/2010
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La gratuità, un processo comunitario

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Secondo la teoria economica, esaminando i costi e i benefici legati al voto, i cittadini dovrebbero disertare le urne. E' solo questa la causa dell’astensionismo alle ultime elezioni o ci sono motivazioni di altra natura?

Quanto vale un voto?

di Luigino Bruni

pubblicato su: www.cittanuova.it il 01/04/2010

Scheda_elettoralePerché la gente va a votare?

La scienza economica non riesce ancora a darci risposte del tutto convincenti a questa domanda. Se seguissimo i soli criteri della pura razionalità economica, quella cioè che ci porta a scegliere in termini di costi e benefici individuali, nessun cittadino razionale dovrebbe recarsi alle urne. Infatti l’impatto che il singolo voto ha sull’esito finale di una votazione politica è molto vicino allo zero, mentre il costo (di tempo soprattutto) è tutto sull’individuo. Se, in altre parole, ciascuno si domandasse “che cosa aggiunge il mio voto alla politica nazionale?” e agisse di conseguenza, dovremmo ritrovarci con seggi deserti.

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Ma perché allora, in barba alla teoria economica e agli economisti, ancora tanta gente va a votare? Forse perché quando partecipiamo alla vita civile e politica non guardiamo soltanto ai benefici e ai costi individuali e materiali, ma attribuiamo anche un valore intrinseco o etico alla partecipazione politica in sé. Quando Franca deve decidere se recarsi o no a votare, se il costo materiale del voto è 2 (tempo, benzina …), e il beneficio è 0.1 (cioè quanto influirà il suo voto sull’esito elettorale), se lei non considerasse altri tipi di benefici se ne starebbe tranquillamente a casa o andrebbe a fare un gita. Se invece la partecipazione politica le procura per se stessa benessere o felicità, e come se a quello 0.1 aggiungesse un valore immateriale, che, se abbastanza elevato, la fa recare alle urne invece di godere del riposo domenicale. Come possiamo dire allora, da questa prospettiva, sul calo dell’affluenza? Innanzitutto dedurre che questo calo è anche il risultato di un numero crescente di persone ragionano in termini puramente individualistici ed “economici”.

Ma possiamo dire anche qualcosa di più. Quando la qualità del dibattito pubblico e la moralità dei politici scendono, quel valore intrinseco e simbolico della partecipazione si riduce nelle persone. E quando scende sotto una soglia critica (per Franca è di 1.9, e ognuno ha la sua “soglia critica”) si può non andare più a votare: “Non vale più la pena”, è un’espressione che dice in estrema sintesi tutto ciò. E anche se Franca ignora quale sia la sua “soglia critica”, se quest’anno non è andata a votare, con questa sua scelta ci ha rivelato che il suo valore intrinseco della partecipazione politica è sceso. In questo caso anche un non voto è un segnale di malessere e forse una richiesta per una maggiore qualità della vita politica. Certo, ci sono cittadini per i quali il valore etico della partecipazione politica è molto alto, ma tanti altri gravitano attorno a quel valore “soglia” , e la crisi morale della politica può avere indotto molti di questi a rinunciare al voto.

Che cosa concludere allora? Se vogliamo che la gente continui a votare, ad esercitare questo diritto-dovere principe in una democrazia, occorre riempire di ideali e di moralità la politica, e far sì che quel valore simbolico ma realissimo resti sempre alto, e che ne “valga la pena”.  

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Secondo la teoria economica, esaminando i costi e i benefici legati al voto, i cittadini dovrebbero disertare le urne. E' solo questa la causa dell’astensionismo alle ultime elezioni o ci sono motivazioni di altra natura?

Quanto vale un voto?

di Luigino Bruni

pubblicato su: www.cittanuova.it il 01/04/2010

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La scienza economica non riesce ancora a darci risposte del tutto convincenti a questa domanda. Se seguissimo i soli criteri della pura razionalità economica, quella cioè che ci porta a scegliere in termini di costi e benefici individuali, nessun cittadino razionale dovrebbe recarsi alle urne. Infatti l’impatto che il singolo voto ha sull’esito finale di una votazione politica è molto vicino allo zero, mentre il costo (di tempo soprattutto) è tutto sull’individuo. Se, in altre parole, ciascuno si domandasse “che cosa aggiunge il mio voto alla politica nazionale?” e agisse di conseguenza, dovremmo ritrovarci con seggi deserti.

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Tasse e giustizia

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 18/03/2010

Puntualmente si riparla di riforma fiscale e di lotta all’evasione fiscale, una malattia non solo del sistema fiscale ma dell’intera vita civile, poiché mina alla radici il “patto sociale” tra i cittadini. Ogni tanto dovremmo infatti ricordare la logica della tassazione in una democrazia moderna. Le tasse (e le imposte) svolgono tre scopi: hanno una funzione di redistribuzione del reddito e della ricchezza dai più ricchi verso i più poveri; la tassazione poi è uno strumento per incoraggiare il consumo di beni meritori (arte, educazione, cultura…), e scoraggiare quelli demeritori (fumo, superalcolici…); infine servono a finanziare i beni pubblici, come strade, sicurezza o sanità.

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Tutte e tre queste funzioni hanno senso all’interno di società che si sentono legate da un patto, poiché hanno una dimensione collettiva che è più di una somma di contratti e azioni individuali e privati. Pensiamo, ad esempio, ai beni pubblici: se il loro costo è 1000 e siamo in 100 a pagare le tasse, ognuno contribuisce in media con 10. Ma se siamo 100 cittadini e soltanto 50 di questi pagano le tasse, chi contribuisce paga 20, per sé e per i “furbi”. Ecco perché quando l’evasione fiscale supera una soglia critica mina alle fondamenta il patto sociale, poiché si spezza la fiducia che tiene assieme i popoli e ogni comunità politica.

Quando si parla dello scandalo dei paradisi fiscali – “luoghi” dove transita spesso denaro riciclato che trasuda violenza e sangue –, occorre tener presente che esistono pure tanti purgatori fiscali. Quelli di chi, anche a causa dei paradisi dei furbi, si ritrova con una pressione fiscale troppo alta, ingiusta e spesso insostenibile. Purgatorio che si trasforma in inferno quando un imprenditore che vive la legalità in settori ad alta evasione fiscale è costretto a chiudere la propria impresa. La cultura fiscale si cambia allora nel lungo periodo, con la faticosa arte delle azioni quotidiane virtuose, iniziando dalla scuola. Non è facile rispondere a un ragazzo che ci chiede «perché esistono i paradisi fiscali?», ma possiamo sempre augurargli che la sua generazione sia la prima a eliminare questa vergogna collettiva.

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Tasse e giustizia

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 18/03/2010

Puntualmente si riparla di riforma fiscale e di lotta all’evasione fiscale, una malattia non solo del sistema fiscale ma dell’intera vita civile, poiché mina alla radici il “patto sociale” tra i cittadini. Ogni tanto dovremmo infatti ricordare la logica della tassazione in una democrazia moderna. Le tasse (e le imposte) svolgono tre scopi: hanno una funzione di redistribuzione del reddito e della ricchezza dai più ricchi verso i più poveri; la tassazione poi è uno strumento per incoraggiare il consumo di beni meritori (arte, educazione, cultura…), e scoraggiare quelli demeritori (fumo, superalcolici…); infine servono a finanziare i beni pubblici, come strade, sicurezza o sanità.

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Purgatorio fiscale

Purgatorio fiscale

Tasse e giustizia di Luigino Bruni pubblicato su Cittanuova.it il 18/03/2010 Puntualmente si riparla di riforma fiscale e di lotta all’evasione fiscale, una malattia non solo del sistema fiscale ma dell’intera vita civile, poiché mina alla radici il “patto sociale” tra i cittadini. Ogni tanto d...
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Di fronte alla grave crisi dell’occupazione, bisogna darsi da fare.

di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.4 - 2010

Benedetto XVI ha recentemente ribadito che occorre «fare tutto il possibile per tutelare e far crescere l’occupazione». Anche e soprattutto oggi, il centro del sistema economico deve essere occupato dalle persone. I capitali tecnologico, finanziario e sociale sono certamente importanti ma il “capitale umano”, cioè i lavoratori, resta il fattore chiave di una economia che voglia essere a misura di persona. Invece, la crisi finanziaria ed economica globale mostra con grande forza che il lavoro umano è decisamente relegato sullo sfondo del nostro modello di sviluppo capitalistico, il quale, sempre più in mano alla finanza, ha perso contatto con la fatica del lavoro.

D’altra parte, esso viene asservito al consumo, dando vita a uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo: la rincorsa ai consumi, appunto. Ma la storia ci insegna che i popoli si sviluppano quando la tendenza “competitiva” e agonistica degli esseri umani non si esprime primariamente nel consumo (si gareggia possedendo auto e telefonini più costosi degli altri) ma nel lavoro e nella produzione. Inoltre, questa crisi avrebbe dovuto insegnarci che la ricchezza che produce vero benessere è solo quella che nasce dal lavoro umano. Le promesse di ricchezza senza lavoro sono sempre sospette e molto spesso dei bluff individuali e sociali.

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Che fare allora oggi in questi tempi di profonda crisi del lavoro? Innanzitutto, occorre tener ben presente che esso non è una merce che può essere lasciata al solo gioco della domanda (imprese) e dell’offerta (lavoratori). Il lavoro, o meglio il lavorare, è un bene per così dire primario, poiché da esso dipendono la dignità e l’identità delle persone, i loro sogni e anche la possibilità di poter acquistare gli altri beni, e far così girare l’economia. Ecco perchè la presenza del sindacato sarà sempre un grande segno di civiltà e di piena umanizzazione della vita civile.

Da questa crisi usciremo se sapremo trovare un nuovo assetto sul lato dell’occupazione. La globalizzazione e l’entrata sulla scena economica di nuovi continenti sta cambiando radicalmente il modello economico che aveva dominato in Occidente durante il XX secolo, tutto giocato sul binomio Stato-mercato. In quel modello, che ha portato risultati straordinari sul piano della crescita economica, al mercato capitalistico era affidato il compito di produrre e di occupare i lavoratori, allo Stato di colmare le lacune, anche occupazionali, del mercato. Tutto ciò che atteneva alla vita privata e quella associativa, e quindi ai valori ideali e politici, non rientrava né nel mercato né nello Stato. Tutto questo era un “terzo settore”, e quando creava occupazione, questa era in ogni caso qualcosa di marginale, poiché la sua natura era altra e non economica.

Oggi questo modello sta entrando in crisi mortale, perché il mercato tradizionale non ce la fa più, e tanto meno lo Stato. Il Terzo settore allora deve evolvere in quella che chiamiamo “economia civile”, vale a dire un nuovo modello economico e sociale dove la società civile non è un elemento residuale (terzo), ma il fulcro di creatività dell’intera economia. Occorre oggi una nuova stagione di innovazione dove i cittadini non affidino il lavoro soltanto alle grandi imprese tradizionali e allo Stato, ma siano protagonisti di nuove imprese in settori ad alta innovazione.

Il lavoro oggi non va solo “salvato” e “cercato”, ma anche “creato”. Va immaginato un sistema dove le cooperative e le associazioni non si occupino solo di cura della persona, ma anche di beni ad alto valore aggiunto. Va inventato allora un nuovo patto sociale, perchè l’economia civile non abbia solo la funzione di ridistribuire risorse, ma anche quella di crearle.

Se l’Italia vuol continuare a occupare un posto significativo nel nuovo scenario economico mondiale, occorre che si rilanci una fase di nuova creatività per immaginare nuovi scenari e nuovi mercati, in quei beni che oggi sono sempre più scarsi e quindi preziosi: quelli relazionali, culturali, e ambientali.

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pubblicato su Città Nuova n.4 - 2010

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Il lavoro va salvato, cercato e creato

Il lavoro va salvato, cercato e creato

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Editoriali - Società evolute

di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.3 - 2010

Ci sono imprese, organizzazioni, associazioni che organizzano eventi e li pubblicizzano inviando email a migliaia di persone: con un solo click raggiungono migliaia di regalo_ridpersone, e risparmiano tempo e denaro rispetto agli arcaici metodi di alcuni anni fa (telefono, posta …). Spesso, molto spesso, accade però che quegli eventi si svolgano in sale semivuote, e che delle migliaia di persone raggiunte ne arrivino solo poche e sparute unità. Come mai? Ridurre i costi non è sempre positivo dal punto di vista sociale. Quando riceviamo un invito ad una conferenza insieme a centinaia di altre persone, magari con l’intestazione anonima: “Spett.le/egregio”, siamo ben coscienti che quell’invito è costato solo pochi secondi di tempo, e anche per questo ci lascia indifferenti. Quando invece riceviamo una mail, o meglio una lettera o una telefonata personale,  sappiamo che quel maggior costo o impegno richiesto da questa forma comunicativa è anche un segnale di una maggiore attenzione nei nostri confronti.

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Ciò è espressione di una tendenza più generale dei rapporti umani. Pensiamo, ad esempio, alla grammatica relazionale dei doni: quando riceviamo un dono che sappiamo non è costato nulla o troppo poco al donatore (in termini di tempo e/o di denaro), tendiamo a non apprezzarlo. Ed questa la principale ragione che spiega l’esistenza di una norma sociale di portata universale: non riciclare i doni per fare altri “doni”. Se vogliamo raggiungere obiettivi occorre fare investimenti: se voglio far sì che qualcuno superi la forza d’inerzia esercitata dalla TV al plasma che “grazie” al mercato oggi ci offre sempre maggiori programmi, e far modo che il dopocena esca e partecipi ad un incontro culturale o spirituale, dobbiamo investire tempo ed impegno, altrimenti non superiamo il muro del suono della nostra società dei consumi, e i nostri segnali si perdono nel magma dei tanti segnali che ci raggiungono superficialmente ogni giorno.

Dobbiamo imparare a recuperare la comunicazione faccia a faccia: ridurre le tefonate, le mail, gli SMS, e utilizzare quel risparmio di tempo per andare a bussare alla porta di qualcuno: i frutti di questo investimento del tempo risparmiato sono molto abbondanti, anche perché in una società che vive di virtuale, l’incontro umano cuore-a-cuore sta diventando un bene sempre più scarso, e quindi di crescente valore.

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Editoriali - Società evolute

di Luigino Bruni
pubblicato su Città Nuova n.3 - 2010

Ci sono imprese, organizzazioni, associazioni che organizzano eventi e li pubblicizzano inviando email a migliaia di persone: con un solo click raggiungono migliaia di regalo_ridpersone, e risparmiano tempo e denaro rispetto agli arcaici metodi di alcuni anni fa (telefono, posta …). Spesso, molto spesso, accade però che quegli eventi si svolgano in sale semivuote, e che delle migliaia di persone raggiunte ne arrivino solo poche e sparute unità. Come mai? Ridurre i costi non è sempre positivo dal punto di vista sociale. Quando riceviamo un invito ad una conferenza insieme a centinaia di altre persone, magari con l’intestazione anonima: “Spett.le/egregio”, siamo ben coscienti che quell’invito è costato solo pochi secondi di tempo, e anche per questo ci lascia indifferenti. Quando invece riceviamo una mail, o meglio una lettera o una telefonata personale,  sappiamo che quel maggior costo o impegno richiesto da questa forma comunicativa è anche un segnale di una maggiore attenzione nei nostri confronti.

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Costi e benefici del cuore-a-cuore

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