Città Nuova

Economia Civile

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I sacrifici annunciati da Monti richiedono grande responsabilità civile. Possiamo farcela ma insieme e senza recriminazioni di parte. Il commento di Luigino Bruni

di Maddalena Maltese

pubblicato su: Cittanuova.it il 5/12/2011

Mario_Monti_ridIl presidente del Consiglio, Mario Monti, ha presentato ieri la manovra economica di oltre 20 miliardi di euro che dovrebbe risollevare la situazione economica italiana e salvarla dal baratro del fallimento.

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Ci sono i sacrifici duri preannunciati dai media e che hanno, in conferenza stampa commosso anche il ministro del lavoro Fornero. Mentre si sollevano contestazioni e apprezzamenti, abbiamo chiesto un commento a Luigino Bruni, nostro editorialista e docente di Economia politica all’università Milano - Bicocca.

Professor Bruni che valutazione dà di questa manovra?

«Ho apprezzato le decisioni prese dal consiglio dei ministri e capisco quanto sia stato complesso elaborare questa manovra. Ho apprezzato molto lo stile in cui è stata presentata e anche la grande umanità dei ministri. Le lacrime del ministro del lavoro quando ha annunciato i sacrifici sulle pensioni basse testimoniano uno stile della politica molto diverso, di vicinanza alla gente e ai problemi veri. Anche il chiamarsi per nome tra gli stessi ministri, il darsi del tu dice il lavoro di squadra fatto insieme. Idem la scelta di incontrare le parti sociali. Anche la velocità e la fermezza con cui si è agito è apprezzabile».

Scendiamo però nel particolare e sulle singole misure…

«Una nota negativa è stata la scelta di toccare l’Iva: è un’imposta iniqua che colpisce i consumi del ceto medio che continuerà ad impoverirsi e quindi consumerà meno con serio rischio di recessione. Certo fa cassa subito. Apprezzo molto invece l’aver tassato i patrimoni e il coraggio di estendere questa tassazione anche ai titoli finanziari e non solo sui beni, sulle case, sulle barche. Significativa, poi, la scelta di diminuire l’Irap, la tassazione sul lavoro per consentire una seria ripresa. Importanti le liberalizzazioni. Insomma tutta la manovra conferma la visione di Monti che è sostanzialmente un liberista, attento al mercato e alla concorrenza, in linea con la politica dell’Europa. Sarà il lungo periodo a giudicare se le sue scelte siano state corrette».

La famiglia è ancora la grande dimenticata…

«Su quest’ambito si è proceduto sulla stessa linea del governo precedente: la famiglia continua ad essere poco presente anche se Monti si è impegnato personalmente a lavorare di più e meglio e non c’è stato un peggioramento nelle misure già varate. Siamo sull’orlo del precipizio e bisognava scegliere delle priorità. La prima è stata quella dei mercati. I venti miliardi che si proverà a recuperare in un anno serviranno in qualche modo come segnale positivo per diminuire lo spread che ci fa pagare salatissimi interessi sul nostro debito pubblico. Il tema dell’equità mi sembra sia stato tenuto molto presente in vari aspetti della manovra. Non ci sono stati solo annunci che poi si rivelano nei fatti inattendibili».

Assieme agli apprezzamenti si preparano anche le contestazioni…

«E’ un errore pensare che questa manovra la farà solo il governo. Essa appartiene a tutti i cittadini: è una manovra dell’Italia. Questo difficile momento richiede un’evoluzione della nostra cultura che deve passare dal piagnisteo e dal particolarismo ad una cultura della responsabilità. Non si può delegare tutto a chi governa, c’è bisogno del sostegno di tutte le parti politiche e della gente, perché se ciascuno non sente proprie queste scelte non risponderà in modo compatto ai sacrifici e cercherà nuove vie di evasione. Dobbiamo tornare ad acquisire uno spirito più comunitario».

In una prospettiva europea, queste scelte salveranno anche l’euro?

«Certo questa settimana sarà importante per la moneta unica, ma l’euro non si indebolisce o si rafforza in una settimana. Sicuramente queste scelte potranno invertire il trend negativo, ma l’Europa è molto più forte di quanto si racconta. Saremo però chiamati tutti fare scelte più sostenibili, più sobrie e questo favorirà un rafforzamento generale di tutta la politica europea».

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pubblicato su: Cittanuova.it il 5/12/2011

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La manovra di tutta l’Italia

La manovra di tutta l’Italia

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La manovra appena approvata punta a ridurre il deficit e magari a raggiungere presto il pareggio di bilancio.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.19/2011, 10/10/2011

Euro_ridLa manovra appena approvata punta a ridurre il deficit e magari a raggiungere presto il pareggio di bilancio. Se vogliamo che differenza uscite/entrate pubbliche sia zero (o meno di zero visto che dobbiamo rientrare da un incredibile debito pubblico), possiamo giocare sulle entrate, sulle uscite, o su tutte e due. Se, per un esempio, le uscite sono 120 e le entrate 100, se vogliamo portare il bilancio a pareggio possiamo ridurre le uscite di 20 o aumentare le entrate di 20 (o magari -10 e +10). 

Ma, a differenza dell’aritmetica, tagliare la spesa pubblica o aumentare le tasse sono scelte tutt’altro che indifferenti sotto il profilo della giustizia sociale. Se tagliare la spesa significa ridurre le inefficienze e gli sprechi delle nostre burocrazie, ben venga perché ciò è urgente ed etico.

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Se invece si tagliano servizi e beni pubblici, allora ridurre la spesa pubblica significa ridurre la giustizia in un Paese, perché si penalizzano soprattutto i più poveri. Quando le famiglie iniziano a pagare i ticket per la sanità di base, quando a Milano il biglietto del tram/metro passa da 1,00 euro a 1,50, chi paga questi tagli è il ceto medio-basso che usa la sanità e i trasporti pubblici. Ridurre poi i fondi agli enti locali per l’assistenza e la cura significa colpire quelle realtà che si occupano, con pochi mezzi, dei più fragili e vulnerabili. La ricchezza e povertà di una persona non è misurata solo dal suo reddito pro-capite, ma anche dai beni pubblici di cui usufruisce. 

Aumentare le entrate, invece, potrebbe portare i più ricchi a contribuire di più, tassando non tanto gli imprenditori e la creazione di lavoro, ma combattendo i paradisi fiscali e le società di comodo (insieme agli evasori), creando presto una “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie, e magari anche una patrimoniale. Se invece per aumentare le entrate si aumenta l’Iva si continuano a colpire di più le famiglie e i poveri. Le tasse e lo Stato sociale sono faccende molto serie, perché sono i pilastri su cui poggia il patto sociale che tiene assieme un popolo: vanno maneggiate con somma cura, soprattutto in tempo di crisi.

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di Luigino Bruni

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Più entrate è giustizia

Più entrate è giustizia

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Dietro ai problemi della finanza mondiale bisogna ridefinire la democrazie e il capitalismo

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 18/2011 il 25/9/2011

Giochi_in_borsa_ridDietro le crisi si nascondono spesso cose importanti, molte delle quali invisibili agli occhi di chi non sa vedere oltre le apparenze. Anche questa crisi economica, politica e sociale copre sfide di grande rilevanza per il futuro dell’Italia, dell’Europa e del capitalismo. 

Innanzitutto, al di sotto degli alti e bassi dei listini di borsa, è in gioco il significato e il ruolo della democrazia nell’età della globalizzazione. Questa crisi, infatti, è il primo infarto dell’era della globalizzazione. I mercati da un paio di decenni ragionano e si muovono su scala mondiale, con geografia e tempi che non sono più quelli della democrazia e della politica.

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Lo scenario della nuova economia finanziaria è il pianeta, i tempi sono i nanosecondi, mentre la democrazia ha come orizzonte gli Stati nazione e i tempi delle politiche e delle burocrazie. La logica dei governi degli Stati è ancora dipendente dai partiti che competono tra di loro al fine di ottenere il consenso attraverso il voto.

Di fronte a questa crisi c’è allora forte la domanda di cambiamenti non solo dell’economia e della finanza, ma anche delle forme di esercizio della democrazia, che richiedono un aggiornamento e che dovrebbero, tra l’altro, affrancare i governi dei singoli Paesi dal ricatto delle diverse lobby che li esprimono e metterli nelle condizioni di fare scelte per il bene comune, anche oltre il consenso immediato elettorale. 

Questa sfida nasconde dunque il bisogno urgente di una nuova politica e di una nuova stagione della democrazia che siano all’altezza dei tempi; una stagione che ancora non si intravvede, ma che probabilmente avrà a che fare con nuove forme di democrazia diretta sui territori (i recenti referendum ci dovrebbero pur dire qualcosa), e con un forte ruolo dei nuovi strumenti offerti dalla Rete, che potrebbero garantire tempi più veloci, nuove forme di aggregazione politica e soprattutto un nuovo protagonismo dei giovani e dei loro linguaggi. La primavera araba ci ha detto molte cose importanti, tra cui la complementarità virtuosa tra web e piazza, tra network virtuali e reti di impegno politico, tra l’urlo lanciato su un blog e quello di un giovane che muore in strada. La democrazia che uscirà da queste crisi dovrà basarsi su una forte complementarità tra strumenti tradizionali e nuovi della partecipazione, con un ruolo decisivo della Rete. 

La seconda sfida, profondamente legata alla prima, riguarda la grande questione del sistema economico capitalistico. L’economia di mercato è stata una straordinaria invenzione dell’umanesimo civile e cristiano, che ha consentito risultati incredibili per la qualità della vita di miliardi di persone, per i diritti umani e la democrazia. Negli ultimi decenni quell’economia centrata sui mercati reali (scambi di merci e servizi) e sulle persone (imprenditori, lavoratori, banchieri) è stata progressivamente soverchiata dalla finanza speculativa, avida e impersonale. Questo capitalismo ultra-finanziario è troppo fragile e ingordo e non è più capace di mantenere quelle promesse di sviluppo e libertà che erano alla base della prima stagione dell’economia di mercato. 

Sotto questa crisi si nasconde allora un bisogno di rilancio di un forte dibattito, a tutti i livelli, per realizzare una nuova stagione dell’economia di mercato post-capitalistica. E non posso non vedere nell’Economia di Comunione, in rete con le tante esperienze di economia solidale e civile, un piccolo seme di questo “qualcosa di nuovo” che nascerà da queste doglie del parto. Ma il qualcosa di nuovo ha bisogno anche e soprattutto di “nuovi cittadini”: la stagione dell’economia che viviamo dipende sempre meno dalle grandi manovre dei governi e sempre più dalle scelte di milioni, miliardi di cittadini. Se questi cittadini, o almeno una minoranza profetica di essi, saranno capaci di stili di vita sobri, di “votare con il portafoglio” premiando le imprese civilmente innovative e responsabili, di protestare insieme e con forza per chiedere cambiamenti a istituzioni e imprese, se non aspetteremo che a compiere le scelte decisive siano altri, allora questa crisi potrà essere l’aurora di un’età migliore di quella che sta tramontando.

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Dietro ai problemi della finanza mondiale bisogna ridefinire la democrazie e il capitalismo

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 18/2011 il 25/9/2011

Giochi_in_borsa_ridDietro le crisi si nascondono spesso cose importanti, molte delle quali invisibili agli occhi di chi non sa vedere oltre le apparenze. Anche questa crisi economica, politica e sociale copre sfide di grande rilevanza per il futuro dell’Italia, dell’Europa e del capitalismo. 

Innanzitutto, al di sotto degli alti e bassi dei listini di borsa, è in gioco il significato e il ruolo della democrazia nell’età della globalizzazione. Questa crisi, infatti, è il primo infarto dell’era della globalizzazione. I mercati da un paio di decenni ragionano e si muovono su scala mondiale, con geografia e tempi che non sono più quelli della democrazia e della politica.

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Borsa e bancarelle, urgono idee positive

Borsa e bancarelle, urgono idee positive

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Democrazia e capitalismo ultra-finanziario vengono rimessi in gioco dai grandi sommovimenti globali di questi ultimi mesi. Serve un nuovo tipo di cittadino. Responsabile e attivo.

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 07/09/2011

Quotazioni_borsaDietro le crisi di questi tempi si nascondono cose importanti, forse troppo importanti perché se ne parli nei grandi media.
 
Innanzitutto c’è in gioco il significato e il ruolo della democrazia nell’età della globalizzazione. Questa crisi, infatti, è la prima grande crisi dell’economia e della finanza nell’era della globalizzazione: i mercati ormai da un paio di decenni ragionano e si muovono su scala mondiale, e con tempi rapidissimi. È il mondo lo scenario della nuova economia finanziaria, mentre la politica e la democrazia hanno come orizzonte ancora gli Stati Nazione (è anche questa una delle cause di fragilità dell’Europa). La logica dei governi degli Stati è ancora quella pre-globalizzazione, dove i partiti competono per ottenere il consenso attraverso il voto.

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Di fronte a questa crisi ci sarebbe bisogno da una parte di risposte politiche globali e veloci, che mancano; dall’altra di governi dei singoli Paesi non dovrebbero preoccuparsi di non essere rieletti ma agire con coraggio per il bene comune, anche oltre il consenso immediato. Ma con gli attuali meccanismi della politica queste scelte sono troppo costose, e dalla Grecia all’Italia i governi restano impantanati tra veti incrociati al loro interno, ma anche nelle varie componenti della società civile che difendono interessi contrapposti. Le manovre non risultano quindi efficaci perché per non svantaggiare nessuno rischiano seriamente di svantaggiare tutti: l’opposto del bene comune è il male comune. Questa sfida nasconde dunque il bisogno urgente di una nuova politica e di una nuova stagione della democrazia che sia all’altezza della globalizzazione, una stagione che ancora non si intravvede.
 
C’è poi la grande questione del sistema economico capitalistico: l’economia di mercato è stata una straordinaria invenzione dell’umanesimo civile e cristiano. Ha consentito risultati inauditi per la qualità della vita di miliardi di persone, per i diritti umani e la democrazia. Negli ultimi decenni quell’economia centrata sui mercati reali (scambi di merci e servizi) e sulle persone (imprenditori, lavoratori, banchieri) è stata soverchiata dalla finanza speculativa, virtuale e impersonale, e a fronte di una transazione reale (denaro contro beni) oggi si realizzano decine di operazioni finanziarie. Questo capitalismo ultra-finanziario è troppo fragile e rischioso, e non è più capace di mantenere le promesse di sviluppo e libertà, che erano alla base della prima stagione dell’economia di mercato. C’è allora bisogno di una nuova sintesi, di nuove istituzioni ma – e qui sta la sfida – anche di nuovi cittadini. C’è anche tutto ciò dietro alle crisi di questi giorni: se sapremo cogliere i segnali che ci arrivano dalla storia potremo uscire migliori da questi tempi difficili, ma ciascuno deve fare con responsabilità e serietà la propria indispensabile parte.

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Democrazia e capitalismo ultra-finanziario vengono rimessi in gioco dai grandi sommovimenti globali di questi ultimi mesi. Serve un nuovo tipo di cittadino. Responsabile e attivo.

di Luigino Bruni

pubblicato su Cittanuova.it il 07/09/2011

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Che c’è dietro la crisi?

Che c’è dietro la crisi?

Democrazia e capitalismo ultra-finanziario vengono rimessi in gioco dai grandi sommovimenti globali di questi ultimi mesi. Serve un nuovo tipo di cittadino. Responsabile e attivo. di Luigino Bruni pubblicato su Cittanuova.it il 07/09/2011 Dietro le crisi di questi tempi si nascondono cose importa...
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Cosa vogliono davvero i disoccupati che protestano in Inghilterra, gli studenti che manifestano in Cile, i giovani protagonisti della "primavera" mediorientale? Vale la pena sforzarsi di capire cosa c'è sotto queste proteste.

di Luigino Bruni

pubblicato su cittànuova.it il 12/08/2011

Disordini_LondraMolti di noi sono rimasti colpiti e preoccupati nel confrontare in questi giorni le piazze mediorientali dove i giovani sono scesi in strada, dando la vita, per chiedere democrazia e libertà, e le piazze inglesi dove i giovani spaccavano le vetrine per rubare telefonini e tv al plasma, segnali evidenti che in Occidente serpeggia un mal di vivere profondo e serio.

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Ma la storia del Novecento ci ha insegnato che quando i giovani, soprattutto se migliaia, scendono in piazza, occorre stare sempre molto attenti, anche quando lo fanno male, spaccando e urlando, poiché dietro la cattiva o pessima risposta ci possono essere domande importanti; come quando un figlio adolescente urla e prende a pugni i mobili di casa, e un genitore intelligente sa che dietro quel linguaggio sbagliato si nascondono spesso cose molto serie. Ciò non vuol dire che i giovani hanno sempre ragione, ma soltanto che occorre capire che cosa sta accadendo in Inghilterra, ma anche in Cile (dove i giovani chiedono una università non solo per i ricchi) e, sebbene la distanza sia grande, in Medioriente.

Ciò che è in gioco è una grande “questione giovanilemondiale, molto evidente nell’Occidente opulento, che ha certamente a che fare con la crisi e con i tagli, ma che è molto più profonda, poiché rimanda all’ingiusta società di mercato che stiamo costruendo, soprattutto negli ultimi anni con il capitalismo turbo-finanziario. Lo ha messo bene in luce in diverse interviste il sociologo inglese Anthony Giddens, il teorico “della terza via”, quando ci ricorda che dietro queste distruzioni dei giovani inglesi c’è anche la reazione di chi si sente escluso dai grandi lussi e consumi, che vede invece aumentare in modo sfacciato nel 5 per cento più ricco della popolazione.

I ricchi e i poveri ci sono sempre stati al mondo, ma fino a pochi decenni fa la cultura sociale e le religioni avevano costruito legami sociali che reggevano anche con una certa diseguaglianza. Le classi sociali erano distanti e non in stretta comunicazione, per cui l’invidia e la frustrazione erano gestibili, almeno nei momenti ordinari. Oggi invece la crescente diseguaglianza (si ricordi che l’Inghilterra è tra i paesi con la più alta diseguaglianza) non è facilmente gestibile, perché mentre i media costruiscono villaggi globali e gli stili di vita e le aspirazioni sono sempre più uniformi, il potere d’acquisto e le opportunità sono molto diverse.

Soprattutto i giovani percepiscono, anche per gli enormi debiti pubblici che gli mettiamo sulle spalle e per la grande disoccupazione giovanile, che la mobilità sociale è in diminuzione, e il loro futuro potrà essere peggiore di quello dei loro genitori. Il rischio è che questo disagio diventi globale e difficilmente governabile, se non diamo vita, subito, a nuovi patti tra generazioni, ad un sistema economico più egualitario e fraterno, e “a misura di giovane”, che non sono il futuro (come paternalisticamente si dice spesso) ma un modo diverso di vivere e leggere il presente.

Se avessimo ascoltato, oltre le cattive risposte, le proteste e le domande dei giovani del 2001 (fino al luglio 2001 a Genova), che chiedevano una globalizzazione solidale e una governance della speculazione finanziaria (la “Tobin Tax”), forse oggi non conosceremmo questa crisi generata in buona parte da un decennio di distrazione da quei temi che i giovani avevano ben individuato e urlato forte.

Ascoltiamo i giovani, ascoltiamoli sempre, e facciamoli sentire protagonisti delle scelte dell’oggi, e non solo di quelle, incerte e vaghe, di domani.

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Cosa vogliono davvero i disoccupati che protestano in Inghilterra, gli studenti che manifestano in Cile, i giovani protagonisti della "primavera" mediorientale? Vale la pena sforzarsi di capire cosa c'è sotto queste proteste.

di Luigino Bruni

pubblicato su cittànuova.it il 12/08/2011

Disordini_LondraMolti di noi sono rimasti colpiti e preoccupati nel confrontare in questi giorni le piazze mediorientali dove i giovani sono scesi in strada, dando la vita, per chiedere democrazia e libertà, e le piazze inglesi dove i giovani spaccavano le vetrine per rubare telefonini e tv al plasma, segnali evidenti che in Occidente serpeggia un mal di vivere profondo e serio.

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I giovani vanno sempre ascoltati

I giovani vanno sempre ascoltati

Cosa vogliono davvero i disoccupati che protestano in Inghilterra, gli studenti che manifestano in Cile, i giovani protagonisti della "primavera" mediorientale? Vale la pena sforzarsi di capire cosa c'è sotto queste proteste. di Luigino Bruni pubblicato su cittànuova.it il 12/08/2011 Molti di noi...
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La struttura tradizionale delle società occidentali fino a pochi decenni fa era basata su una regola di reciprocità: da adulti si donava assistenza ai nostri genitori, e una volta diventati vecchi si riceveva cura dai propri figli.

di Luigino Bruni

pubblicato su Citta Nuova N.15 del 10/08/2011   

AnzianiSi sta consumando una grande ingiustizia di massa, quella nei confronti degli anziani. La struttura tradizionale delle società occidentali fino a pochi decenni fa era basata su una regola di reciprocità: da adulti si donava assistenza ai nostri genitori, e una volta diventati vecchi si riceveva cura dai propri figli (che a loro volta avevano ricevuto cura dai genitori durante l’infanzia e la giovinezza).

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E il bilancio tra il “dare” e il “ricevere” cura si chiudeva in pareggio. Tutto ciò trovava poi una rappresentazione politica e sociale nel sistema pensionistico, dove la pensione che riceveva un anziano non era il suo risparmio da giovane, ma una sorta di restituzione e gratitudine dei giovani nei loro confronti.

Oggi stiamo conoscendo un fatto inedito: esiste una generazione che terminerà la propria vita in forte “credito” di accudimento, poiché ha curato i propri genitori, ma non riceve e non riceverà cura da parte dei figli, o in ogni caso ne riceverà mediamente molto meno; né può sperare di riceverla dallo Stato, poiché lo Stato sociale che stiamo costruendo è una foto perfetta di questa nuova cultura. È auspicabile che tra qualche decennio le società troveranno un nuovo patto sociale e un nuovo equilibrio, ma oggi assistiamo inerti al fatto che morirà sola una generazione che ha donato i suoi anni migliori per accudire i figli e gli anziani.

Un senso di ingiustizia che si accentua quando pensiamo che all’interno di questa generazione sono le donne a essere più penalizzate, poiché nei decenni passati erano loro le monopoliste dell’accudimento delle fragilità, a cui hanno sacrificato spesso carriera lavorativa e istruzione. Che fare allora? Da una parte la società civile, con i suoi “carismi”, ha oggi una grande responsabilità nel rendere gli ultimi anni di vita sostenibili e felici, con più innovazioni e creatività; d’altra parte, noi figli adulti di oggi non dovremmo dimenticare troppo presto la cura che abbiamo ricevuto (e quella che abbiamo visto donare ai nostri nonni), e cercare soluzioni più giuste e riconoscenti alla difficile gestione dell’età del tramonto dei nostri genitori, e domani della nostra.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Citta Nuova N.15 del 10/08/2011   

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Rimediare all'ingiustizia

Rimediare all'ingiustizia

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Di tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato.

di Luigino Bruni

pubblicato su Citta Nuova N.13-14 del 10/07/2011

Mercato_organiDi tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato. Si torna a chiedersi se sia giusto, opportuno e possibile creare mercati ufficiali e trasparenti per il traffico di organi, legalizzare la maternità surrogata commerciale, legalizzare la prostituzione, ecc.

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Tematiche che in molti generano sdegno e rifiuto. Per altri invece, fra cui alcuni Stati del Nord America, la creazione di questi nuovi mercati non sarebbe altro che il frutto dell’evoluzione del nostro costume e dei nostri valori, o il far emergere alla luce mercati che già esistono in modo illegale.

A riguardo, i promotori di questi nuovi mercati sostengono che, esistendo di fatto una domanda di organi, di bambini ecc., se gli Stati e il sistema legale non si attrezzano a gestirli con regole e garanzie, ciò produce inevitabilmente sfruttamento dei più poveri; in condizioni estreme, questi ultimi vendono organi e bambini a condizioni molto più sfavorevoli di quelle che avrebbero in un mercato regolato. È come dire che, di fronte a condizioni di vita e a scelte tragiche, esistendo un ipotetico mercato regolare della maternità surrogata, una famiglia che ha già cinque figli che non riesce a nutrire ed educare in modo dignitoso, potrebbe generare un bambino per un’altra famiglia, effettuando questa transazione con regole e garanzie pubbliche; con la somma ricavata potrebbe nutrire e far studiare gli altri cinque figli.
 
Ma la soluzione va posta su un altro piano. Davanti al dato di fatto che molte persone e famiglie nel mondo fronteggiano ancora oggi scelte tragiche non dobbiamo cedere alla tentazione della scelta più facile che mostrerebbe un aspetto quasi umanitario (mercificare il corpo umano e le persone). Queste situazioni tragiche devono spingere individui, società civile e governi a rimuovere quelle situazioni di grave ingiustizia che mettono le persone di fronte a quelle scelte. Non dobbiamo darci pace come persone e come istituzioni finché al mondo ci sarà ancora una donna che per sfamare gli altri figli deve venderne uno, o finché un uomo è costretto a vendere un rene per poter sfamare sé stesso o la propria famiglia. Non vedo altre soluzioni.

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Mercato_organiDi tanto in tanto negli ultimi anni si riaccende il dibattito sui limiti del mercato. Si torna a chiedersi se sia giusto, opportuno e possibile creare mercati ufficiali e trasparenti per il traffico di organi, legalizzare la maternità surrogata commerciale, legalizzare la prostituzione, ecc.

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Nuovi mercati nati vecchi

Nuovi mercati nati vecchi

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Uno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2011 del 25/05/2011

Giovane_che_rifletteUno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro. Ecco perché “il mercato” del lavoro è stato ed è considerato un mercato particolare: da una parte il lavoro non è una merce, ma dall’altra la prestazione lavorativa risente e sottostà alla legge della domanda e dell’offerta. Da qui l’importanza che in ogni Paese è stata attribuita alle mediazioni sociali (sindacati) e politiche in questo mercato.

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Negli ultimi tempi però stiamo assistendo a un importante cambiamento: le imprese in realtà non comprano soltanto ore di lavoro ma cercano di comprare (e spesso ci riescono) la persona, soprattutto i giovani, con un ragionamento di questo tipo: «Ti pago molto, ti prometto carriere brillanti, ma non esistono orari, non esistono limiti».

Questo cambiamento dipende anche da una trasformazione più profonda della nostra società ed economia, vale a dire la consapevolezza che se un lavoratore non mette tutta la sua passione, creatività e intelligenza nelle sue prestazioni lavorative, le imprese di oggi non vanno avanti. Ecco allora che si pensa che pagando molto si possa comprare la persona, incluso cuore, mente e passione. Ma in questa operazione si nasconde un tarlo, un virus del nostro sistema capitalistico: l’illusione che una volta eliminato il confine fra lavoro e vita (perché il lavoro diventa la vita), quella persona possa continuare a fiorire e a maturare nel tempo.

In realtà, le qualità più importanti di una persona si nutrono e crescono anche e principalmente fuori dell’impresa. E se l’impresa, comprandomi, mi toglie la possibilità di coltivare queste dimensioni extralavorative, di fatto sta essiccando i pozzi da cui attingo energia, passione e cuore, ritrovandomi dopo alcuni anni totalmente svuotato, non più utile all’azienda stessa e spesso sommerso di macerie sul fronte familiare e relazionale. Per questo se un’impresa vuole e deve cercare il meglio che il lavoratore può dare, deve fare in modo che esista sempre un’eccedenza della vita sul lavoro, deve cioè proteggere gli spazi di gratuità extralavorativi.

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Uno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.10/2011 del 25/05/2011

Giovane_che_rifletteUno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro. Ecco perché “il mercato” del lavoro è stato ed è considerato un mercato particolare: da una parte il lavoro non è una merce, ma dall’altra la prestazione lavorativa risente e sottostà alla legge della domanda e dell’offerta. Da qui l’importanza che in ogni Paese è stata attribuita alle mediazioni sociali (sindacati) e politiche in questo mercato.

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Produco se sono persona

Produco se sono persona

Uno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del lavoro, è l’idea che l’impresa non compra persone ma ore di lavoro. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.10/2011 del 25/05/2011 Uno dei grandi pilastri dell’economia di mercato, in particolare del mercato del...
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Contratti e patti

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, n.8/2011 del 25/04/2011

Taxi_ridQualche giorno fa, a Milano, salgo sul taxi e mi viene chiesto: «Ha viaggiato bene? Da dove arriva? Come sta?». Confesso che queste domande mi hanno sorpreso, perché non mi era mai capitato che un tassista si interessasse di me.

Questo felice episodio di vita ordinaria, invece, mi ha dato modo di riflettere su due aspetti che considero di una certa importanza.

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Innanzitutto che la vita buona e la felicità non dipendono solo dai “grandi” e importanti rapporti della nostra esistenza (famiglia, amici, colleghi…), ma anche dai piccoli rapporti quotidiani, da quelle decine, forse centinaia di incontri veloci, spesso distratti, con il benzinaio, il cassiere, il giornalaio: se non riempiamo di significato anche questi incontri ordinari e fugaci, la giornata non si riempie di senso, di sapore, di vita.

Quando abbiamo a che fare con incontri umani (ma anche con le altre specie viventi) non esiste la neutralità: o ci si prende cura dell’altro e si è attenti al suo volto, oppure produciamo sensazioni negative degli altri in noi, nei grandi o piccoli incontri della giornata. Ma quel dialogo con il tassista mi ha fatto pensare a quanta poca amicizia ci sia oggi nelle nostre città. Certo, non potremo conoscere tutti i nostri concittadini, ma una città è già in profonda crisi civile quando non sento più il barista, gli impiegati pubblici o le sarte come miei alleati per costruire la città.

La vita in comune, oggi, è sempre più una faccenda di contratti di mercato, ma se questi contratti non sono sostenuti da un “patto” sociale, il legame che unisce le nostre città si sfi laccia e presto si spezza. E patto significa che non si può vivere assieme una vita decente se non ci sentiamo innanzitutto parte di un destino comune, che ci porta a considerare i nostri concittadini (e via via ogni abitante del pianeta) compagni/e di viaggio, alleati per la costruzione del bene comune.

Nessun contratto può reggere senza patti che gli danno senso, forza e durata. Quel tassista, allora, mi stava dicendo che dobbiamo ritrovare insieme un nuovo patto sociale, che ci porti a sentire le sorti dell’altro, di ogni altro, anche come nostre. Buone ragioni per domandare: «Come è andato il viaggio?».

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Contratti e patti

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Taxi_ridQualche giorno fa, a Milano, salgo sul taxi e mi viene chiesto: «Ha viaggiato bene? Da dove arriva? Come sta?». Confesso che queste domande mi hanno sorpreso, perché non mi era mai capitato che un tassista si interessasse di me.

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Come è andato il viaggio?

Come è andato il viaggio?

Contratti e patti di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova, n.8/2011 del 25/04/2011 Qualche giorno fa, a Milano, salgo sul taxi e mi viene chiesto: «Ha viaggiato bene? Da dove arriva? Come sta?». Confesso che queste domande mi hanno sorpreso, perché non mi era mai capitato che un tassista si in...
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È da un po’ di tempo che si discute attorno all’articolo 41 della Costituzione italiana, che recita: «L’iniziativa economica privata è libera».

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n. 6/2011 del 25/03/2011

Operaio_Bianchi_ridÈ da un po’ di tempo che si discute attorno all’articolo 41 della Costituzione italiana, che recita: «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

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La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Da più parti si sostiene che il comma terzo (programmi e controlli) contraddica il comma primo (libertà d’impresa).

È evidente che questo articolo incorpora una tensione di valori, che è l’eterna tensione tra la lode dell’anima sociale e virtuosa dell’economia e il timore per la sua anima più speculativa ed anti-sociale; due dimensioni della vita economica che attraversano tutti i partiti e la società civile. Senza libera iniziativa economica, creatività ed innovazione non c’è bene comune, e questo ce lo ricorda da tempo anche la dottrina sociale della Chiesa. Al tempo stesso, l’ultima crisi, dalla quale siamo tutt’altro che usciti, ci dimostra che senza opportuni “programmi e controlli” sociali e istituzionali quella iniziativa economica, essenziale per una buona società, si indirizza su sentieri speculativi che producono “male comune”, soprattutto quando abbiamo a che fare con i “beni comuni”. In altre parole, la “mano invisibile” dell’ordine spontaneo dell’economia deve stringere la “mano visibile” delle istituzioni, se si vuole che l’economia sia amica della società.

Il punto discutibile di quell’articolo 41 è invece se deve essere soltanto la legge a determinare questi programmi e controlli, e quali sono le istituzioni preposte ad emanare tali leggi. Da una parte, le leggi nazionali o europee sono sempre meno adeguate, perché ancorate ad una logica territoriale, a controllare e a programmare l’iniziativa economica. Inoltre, oltre ai controlli legali e istituzionali è sempre più urgente un controllo dal basso da parte della società civile, dei cittadini che possono orientare l’iniziativa economica al bene comune. Anche le scelte di consumo e di risparmio sono strumenti per l’esercizio della democrazia, per una cittadinanza attiva.

 

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Comportamenti virtuosi - In un ospedale milanese un primario ha avuto l’idea di aumentare l’igiene degli infermieri premiando con tre mila euro l’anno quegli infermieri che si lavano spesso e bene le mani.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.3/2011

Reparto_maternitL’igiene è un problema serio in ogni ospedale, che diventa cruciale quando si ha a che fare con terapie intensive neonatali. In un ospedale milanese un primario ha avuto l’idea di aumentare l’igiene degli infermieri piazzando delle telecamere nei lavandini e premiando con tre mila euro l’anno quegli infermieri che si lavano spesso e bene (un minuto) le mani. E i dati sembrano dargli ragione, poiché alcune malattie (la sepsi, in particolare) sono diminuite dal dieci al sette per cento.

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Gli studiosi hanno spesso scelto gli infermieri per fare alcune ricerche sugli effetti degli incentivi monetari, perché questa professione è considerata una di quelle “vocazionali”, in cui l’uso della moneta è controverso. Infatti, quando introduciamo il denaro in comportamenti che sono retti da altre norme sociali, si ottengono risultati ambivalenti.

Tornando agli infermieri/e di Milano, come si potrebbe evolvere questa storia del tempo? Ipotizziamo, ad esempio, che il prossimo anno quel primario debba ridurre o eliminare quel premio agli infermieri più puliti. Gli studi e l’osservazione ci dicono che dobbiamo aspettarci una riduzione dei comportamenti virtuosi, poiché gli incentivi monetari funzionano finché durano e non riescono nello scopo di far interiorizzare le norme. Se, cambiando ambito, inizio a pagare un giovane per un servizio che prima faceva gratuitamente, da quel momento in poi non si riesce più a tornare alla gratuità iniziale. Un altro effetto probabile (spillover) è che ci saranno “contagi” in altre aeree contigue: potrebbe cioè accadere che gli infermieri chiederanno incentivi monetari anche per ascoltare bene i pazienti, e magari per sorridere ai bambini.

Non occorre però guardare con sospetto ogni inserimento degli incentivi monetari nei lavori “vocazionalmente sensibili” (praticamente quasi tutti). Il denaro, infatti, può addirittura rafforzare le motivazioni intrinseche delle persone se arriva come un “premio”, in modo non contrattato e previsto, che esprime stima e riconoscimento per la qualità e la serietà del lavoro. Saranno queste le nuove frontiere del lavoro, dove dovremmo mettere insieme vocazioni e contratti, gratuità e denaro.

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pubblicato su Città Nuova n.3/2011

Reparto_maternitL’igiene è un problema serio in ogni ospedale, che diventa cruciale quando si ha a che fare con terapie intensive neonatali. In un ospedale milanese un primario ha avuto l’idea di aumentare l’igiene degli infermieri piazzando delle telecamere nei lavandini e premiando con tre mila euro l’anno quegli infermieri che si lavano spesso e bene (un minuto) le mani. E i dati sembrano dargli ragione, poiché alcune malattie (la sepsi, in particolare) sono diminuite dal dieci al sette per cento.

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Più soldi più impegno?

Più soldi più impegno?

Comportamenti virtuosi - In un ospedale milanese un primario ha avuto l’idea di aumentare l’igiene degli infermieri premiando con tre mila euro l’anno quegli infermieri che si lavano spesso e bene le mani. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova n.3/2011 L’igiene è un problema serio in ogni os...
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Continuare a cercare, seriamente e tutti, un nuovo patto industriale e sociale.

di Luigino Bruni

pubblicato su cittanuova.it il 17/01/2010

Fiat

Il mondo sociale economico e industriale è veramente cambiato: è questo forse il messaggio centrale che proviene da Mirafiori, prima e dopo il referendum che ha visto la vittoria, di misura e con molte ombre, dei “sì”. Ci stiamo infatti accorgendo che la cosiddetta globalizzazione ha “veramente” cambiato il mondo, con effetti molto concreti e rilevanti anche nella vita quotidiana delle nostre famiglie. In un mondo veramente e radicalmente cambiato, dove le imprese possono andare a produrre in più Paesi del mondo (mentre i lavoratori sono molto più legati al territorio), occorre ripensare “veramente e radicalmente” anche i rapporti sindacali e le relazioni industriali.

Gli attuali diritti e doveri dei lavoratori, che il sindacato giustamente vuole e deve proteggere, sono frutto di un periodo storico – in Italia dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento – caratterizzato da due elementi essenziali. Innanzitutto da una dura e ideologica opposizione capitale-lavoro, dove ciascuno vedeva l’altro prima come rivale, e solo poi come un alleato per il bene comune (ed in un mondo con assenza di diritti dei lavoratori una tale visione era comprensibile, e probabilmente storicamente necessaria). In secondo luogo, e come conseguenza, le relazioni industriali erano basate soprattutto sul conflitto sindacale, dal quale sono uscite le grandi conquiste del mondo del lavoro. Questo conflitto però dipendeva da una premessa fondamentale: che ognuna delle due parti (capitale e lavoro) aveva un vitale ed essenziale bisogno dell’altra, il che significava che la corda non si doveva e poteva spezzare, neanche nelle lotte le più aspre e dure: i lavoratori avevano bisogno della Fiat per vivere, ma anche la Fiat aveva bisogno di quei lavoratori torinesi (e del governo italiano) per poter produrre e crescere.

Per capire l’attuale stagione nei rapporti sindacali e industriali occorre allora sapere che questo secondo elemento, il “conflitto-bisogno” reciproco, è venuto meno: in particolare non è più vero che la grande impresa ha bisogno vitale di quei lavoratori particolari (torinesi, italiani), poiché, a causa della globalizzazione, oggi la Fiat e le grandi multinazionali possono “tagliare la corda”, spostarsi altrove, facendo saltare il banco (e magari con incentivi europei, come nel caso della Serbia: anche questo è un segnale che va preso sul serio, l’Europa oggi guarda ai Paesi meno sviluppati come quarant’anni fa l’Italia guardava al Sud con la cassa del mezzogiorno).

Questo per dire che la lotta ad oltranza, oltre a non essere forse più opportuna (occorre ricordare che soprattutto nell’economia attuale i rapporti economici organizzativi e industriali sono prima cooperativi, poi, ad un secondo livello, conflittuali), oggi non è più uno strumento efficace. Ecco quindi che al sindacato è chiesta oggi una nuova stagione di creatività, di evoluzione, di innovazione, come ha fatto nei suoi grandi momenti fondativi e profetici della sua grande storia.

D’altra parte il capitale, i proprietari e i manager, debbono anche essi mettersi in gioco, in cerca veramente di un nuovo patto sociale. Non basta disegnare contratti con maggiori vincoli e controlli (su assenteismo o scioperi…), poiché sappiamo, come detto in altre occasioni, che soprattutto l’impresa moderna, fatta di innovazioni e di capitale intellettuale e relazionale, ha bisogno del lavoratore-persona e non solo delle prestazioni del lavoratore-operaio, osservabili con telecamera e timbro del cartellino.

I nuovi manager della grande impresa (e questo è molto evidente nel caso Fiat) tendono ancora a vedere il mondo del lavoro soprattutto come un vincolo, come un problema, un costo, e meno come la grande risorsa per il successo della impresa stessa; e senza stima, riconoscimento e premi (30 euro al mese non sono un premio) il lavoratore-persona rischia di restare fuori dal cancello della fabbrica, dove entra solo il lavoratore-operaio.

Ma senza persone tutte intere oggi non si vive e cresce nel mercato globale, non bastano finanza e macchine. Se dopo aver vinto il referendum la Fiat non avrà la lealtà e la passione dei suoi lavoratori, anche di chi ora ha votato No, nessun investimento potrà rilanciare l’azienda, poiché anche nell’economia globalizzata il primo investimento è sempre nelle persone e nei rapporti. Occorre allora un nuovo patto sociale, senza fretta, nel dialogo, nella discussione anche pubblica e non solo nei tavoli, poiché dietro Mirafiori si nasconde il futuro dei rapporti economici, e quindi civili, del nostro Paese. Un dialogo vero che deve riguardare anche la natura del capitalismo, di cui si parla poco, troppo poco, in questi tempi di nuovi dibattiti accesi sul sindacato e sull’impresa. Dove sono oggi i Pasolini o i don Milani capaci di guardare e criticare in profondità il nostro modello di sviluppo, e invitare tutti ad un ripensamento serio?

Sono convinto che occorre ridiscutere, pubblicamente e seriamente, la destinazione dei profitti, gli enormi stipendi e bonus dei manager delle grandi imprese, delle amministrazioni pubbliche e delle banche (tema a me molto caro), se vogliamo che il dialogo sia serio e capace di mostrare prospettive di futuro, che oggi sembrano mancare in questa età di crisi, anche dopo la vittoria dei “sì”.

Un dialogo che in realtà avremmo dovuto iniziare molti anni fa, senza fretta, con la volontà da parte di tutti di ascoltare tutte le anime dei sindacati, capire le istanze di tutti e includerle, con un vero esercizio di democrazia deliberativa ancora troppo assente dalla nostra vita economica e civile. Questi accordi, i “sì” e i “no” nel referendum, sono dunque solo un primo passo, traballante e incerto, di un lungo viaggio.

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Continuare a cercare, seriamente e tutti, un nuovo patto industriale e sociale.

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Il mondo sociale economico e industriale è veramente cambiato: è questo forse il messaggio centrale che proviene da Mirafiori, prima e dopo il referendum che ha visto la vittoria, di misura e con molte ombre, dei “sì”. Ci stiamo infatti accorgendo che la cosiddetta globalizzazione ha “veramente” cambiato il mondo, con effetti molto concreti e rilevanti anche nella vita quotidiana delle nostre famiglie. In un mondo veramente e radicalmente cambiato, dove le imprese possono andare a produrre in più Paesi del mondo (mentre i lavoratori sono molto più legati al territorio), occorre ripensare “veramente e radicalmente” anche i rapporti sindacali e le relazioni industriali.

Gli attuali diritti e doveri dei lavoratori, che il sindacato giustamente vuole e deve proteggere, sono frutto di un periodo storico – in Italia dalla metà dell’Ottocento agli anni Settanta del Novecento – caratterizzato da due elementi essenziali. Innanzitutto da una dura e ideologica opposizione capitale-lavoro, dove ciascuno vedeva l’altro prima come rivale, e solo poi come un alleato per il bene comune (ed in un mondo con assenza di diritti dei lavoratori una tale visione era comprensibile, e probabilmente storicamente necessaria). In secondo luogo, e come conseguenza, le relazioni industriali erano basate soprattutto sul conflitto sindacale, dal quale sono uscite le grandi conquiste del mondo del lavoro. Questo conflitto però dipendeva da una premessa fondamentale: che ognuna delle due parti (capitale e lavoro) aveva un vitale ed essenziale bisogno dell’altra, il che significava che la corda non si doveva e poteva spezzare, neanche nelle lotte le più aspre e dure: i lavoratori avevano bisogno della Fiat per vivere, ma anche la Fiat aveva bisogno di quei lavoratori torinesi (e del governo italiano) per poter produrre e crescere.

Per capire l’attuale stagione nei rapporti sindacali e industriali occorre allora sapere che questo secondo elemento, il “conflitto-bisogno” reciproco, è venuto meno: in particolare non è più vero che la grande impresa ha bisogno vitale di quei lavoratori particolari (torinesi, italiani), poiché, a causa della globalizzazione, oggi la Fiat e le grandi multinazionali possono “tagliare la corda”, spostarsi altrove, facendo saltare il banco (e magari con incentivi europei, come nel caso della Serbia: anche questo è un segnale che va preso sul serio, l’Europa oggi guarda ai Paesi meno sviluppati come quarant’anni fa l’Italia guardava al Sud con la cassa del mezzogiorno).

Questo per dire che la lotta ad oltranza, oltre a non essere forse più opportuna (occorre ricordare che soprattutto nell’economia attuale i rapporti economici organizzativi e industriali sono prima cooperativi, poi, ad un secondo livello, conflittuali), oggi non è più uno strumento efficace. Ecco quindi che al sindacato è chiesta oggi una nuova stagione di creatività, di evoluzione, di innovazione, come ha fatto nei suoi grandi momenti fondativi e profetici della sua grande storia.

D’altra parte il capitale, i proprietari e i manager, debbono anche essi mettersi in gioco, in cerca veramente di un nuovo patto sociale. Non basta disegnare contratti con maggiori vincoli e controlli (su assenteismo o scioperi…), poiché sappiamo, come detto in altre occasioni, che soprattutto l’impresa moderna, fatta di innovazioni e di capitale intellettuale e relazionale, ha bisogno del lavoratore-persona e non solo delle prestazioni del lavoratore-operaio, osservabili con telecamera e timbro del cartellino.

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Ma senza persone tutte intere oggi non si vive e cresce nel mercato globale, non bastano finanza e macchine. Se dopo aver vinto il referendum la Fiat non avrà la lealtà e la passione dei suoi lavoratori, anche di chi ora ha votato No, nessun investimento potrà rilanciare l’azienda, poiché anche nell’economia globalizzata il primo investimento è sempre nelle persone e nei rapporti. Occorre allora un nuovo patto sociale, senza fretta, nel dialogo, nella discussione anche pubblica e non solo nei tavoli, poiché dietro Mirafiori si nasconde il futuro dei rapporti economici, e quindi civili, del nostro Paese. Un dialogo vero che deve riguardare anche la natura del capitalismo, di cui si parla poco, troppo poco, in questi tempi di nuovi dibattiti accesi sul sindacato e sull’impresa. Dove sono oggi i Pasolini o i don Milani capaci di guardare e criticare in profondità il nostro modello di sviluppo, e invitare tutti ad un ripensamento serio?

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Un dialogo che in realtà avremmo dovuto iniziare molti anni fa, senza fretta, con la volontà da parte di tutti di ascoltare tutte le anime dei sindacati, capire le istanze di tutti e includerle, con un vero esercizio di democrazia deliberativa ancora troppo assente dalla nostra vita economica e civile. Questi accordi, i “sì” e i “no” nel referendum, sono dunque solo un primo passo, traballante e incerto, di un lungo viaggio.

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Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010

Giovani_al_BarSono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.

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Si lavora veramente quando al sig. Rossi si aggiunge Mario, quando al prof. Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia, il lavoro umano diventa troppo simile a quello della macchina del caffè. È qui però che incontriamo un paradosso: i lavoratori e i dirigenti di ogni impresa sanno che il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia quando è eccedente rispetto al dovuto, quando è dono (come ci ricorda l’ultimo bellissimo libro di N. Alter, Donner et prendre, La Découverte); le imprese però non riescono con gli strumenti a loro disposizione a riconoscere il “di più” del dono. Se infatti per riconoscerlo usano gli incentivi classici (denaro), il “di più” diventa dovuto e scompare; se però non fanno niente, nel tempo il “di più” del lavoratore viene meno, producendo tristezza e cinismo nei lavoratori, e peggiori risultati per l’impresa. Sta in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di impiego, arriva una profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato il meglio di sé a quella organizzazione, ma senza reciprocità, senza sentire riconosciuto il dono della propria vita, che è sempre più grande del valore dello stipendio ricevuto. L’arte di gestire organizzazioni sta oggi soprattutto nell’inventare nuovi modi per riconoscere tale dono.

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Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010

Giovani_al_BarSono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” al barista. Due “grazie” detti in contesti che sembrerebbero molto diversi: dono e amicizia nel primo, contratto e anonimato nel secondo. Eppure usiamo la stessa parola. Che cosa accomuna questi due fatti? Il loro essere incontri liberi tra esseri umani. Quel grazie che non diciamo solo all’amico ma anche al barista, al panettiere o al cassiere non è solo buona educazione o abitudine, ma il riconoscimento che anche quando non stiamo facendo altro che il nostro dovere, nel lavorare c’è sempre qualcosa di più;anzi, potremmo dire che il lavoro inizia veramente quando andiamo oltre il dovuto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un bullone o fare una lezione in aula.

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Il paradosso del “grazie”

Il paradosso del “grazie”

Anche un semplice ringraziamento al bar nasconde valori morali ed economici. di Luigino Bruni pubblicato su Città Nuova, n.23/2010 il 10/12/2010 Sono invitato a cena, porto una bottiglia di buon vino e il mio ospite mi dice “grazie”. Prendo un caffè in stazione, e dopo aver pagato dico “grazie” a...
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Si comprende come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia un invito, forse un grido, ad un cambiamento serio degli stili di vita.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Cittanuova.it il 23/11/2010

La crisi finanziaria dell’Irlanda, che segue quella della Grecia, non fa che ricordarci che l’Occidente è troppo indebitato. Il salvataggio di molte banche e imprese dello scorso anno, in seguito alla crisi, ha comportato soprattutto uno spostamento dei debiti dal settore privato al settore pubblico. 

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Mentre le grandi economie riescono ancora (fino a quando?) a gestire enormi debiti pubblici, la speculazione finanziaria quando attacca Stati più piccoli e fragili sta comunque segnalando un problema molto più grave: c’è troppo debito in giro perché negli ultimi 40 anni abbiamo consumato più del reddito. Quali le ragioni?

 Certamente esiste una grossa questione demografica, un Occidente che negli ultimi decenni ha allungato la vita media di circa vent’anni e che parallelamente fa sempre meno figli, deve trovare un nuovo patto sociale tra generazioni perché il modello tradizionale di “stato sociale” che risale al dopoguerra non può più funzionare (un numero decrescente di giovani deve finanziare le pensioni di un numero crescente di anziani). Ma, come ha anche ricordato il papa, c’è un urgente bisogno di un cambiamento di modello di sviluppo e di stili di vita, che riguarda tutti e ciascuno.

Mi limito a porre alcune domande: quando vedremo migliaia tra i migliori docenti del mondo opulento spendere un semestre nelle fragili università africane? Quando vedremo investimenti seri in energie rinnovabili? Quando le pubbliche amministrazioni acquisteranno soltanto auto ecologiche e di bassa cilindrata? Quando tutte le imprese e i governi del mondo investiranno il 20-30 per cento del loro Pil per una cooperazione seria allo sviluppo, che diventino spese in istruzione, ospedali, tecnologie avanzate e pulite, trasporti efficienti, abitazioni dignitose?

Se non cominciamo nel nostro quotidiano a rispondere a queste domande, lo scenario economico e sociale nei prossimi decenni vedrà senz’altro nuove crisi globali. Si comprende allora come dietro gli allarmi dei mercati e delle borse ci sia qualcosa di molto importante: un invito, forse un grido, che chiama a un cambiamento di stili di vita, ad un’economia che sia finalmente di comunione.

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Quale modello di sviluppo?

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