Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Alta finanza, alto rischio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/08/2015

Su quanto sta veramente accadendo nei mercati e nella borsa di Shanghai sappiamo tutti molto poco. E questa è già una cattiva notizia, perché se c’è qualcosa che preoccupa i mercati – e tutti noi - è proprio la mancanza di trasparenza, che più di ogni cosa produce paura, incertezza, e quindi vendite e fuga di capitali, che hanno prodotto ieri la maggiore perdita dal 2007 (-8,49%), che ha trascinato le borse europee nel peggior crollo dal 2011. Qualcosa, però, lo sappiamo.

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Il mercato finanziario cinese è senza dubbi cresciuto troppo e troppo velocemente negli ultimissimi anni, e proprio mentre rallentava la crescita dell’economia reale e della manifattura. E soprattutto sappiamo dell’intreccio, misterioso e unico nella storia, di capitalismo e controllo statale del colosso asiatico. Nel giro di pochi anni l’economia cinese ha subito una radicale evoluzione. Da paese della cuccagna degli imprenditori occidentali che delocalizzavano le industrie attratti dal bassissimo costo del lavoro, la Cina oggi è uno dei principali mercati mondiali di consumo, anche di beni di lusso (non a caso i titoli italiani che sprofondano a Milano sono quelli dell’alta moda). Il settore finanziario ha subito una crescita esponenziale, anche grazie alla svolta normativa, avvenuta nell’Ottobre del 2014, che ha aperto il mercato borsistico agli investitori internazionali, trasformando così le borse cinesi da piazze periferiche a secondo mercato al mondo (dietro solo a Wall Street). E quando la finanza cresce a tassi molto elevati mentre l’economia reale rallenta, certamente si sta formando una bolla speculativa che, ce lo dice la storia economica, prima o poi scoppia.  

È ancora troppo presto per dire se siamo alla vigilia di un altro tsunami finanziario mondiale con baricentro in Cina, o se si tratta soltanto di un rimbalzo e di un aggiustamento di un ciclo dei rendimenti finanziari cinesi che dopo essere cresciuti molto nell’ultimo anno ora stanno restituendo quanto guadagnato (ad oggi le perdite estive hanno ‘soltanto’ azzerato i guadagni degli ultimi dodici mesi).
Ma se guardiamo bene a quanto sta accadendo nel mondo (alla politica monetaria della Federal Reserve, al crollo del prezzo del petrolio, o alle incertezze sul presente e futuro della Grecia e dell’Europa), possiamo tentare alcune considerazioni di carattere generale sullo stato di salute del sistema economico-finanziario globale.  

Innanzitutto, questa crisi cinese ci sta dicendo che, nonostante gli effetti devastanti della ultima grande crisi finanziaria US ed europea, la speculazione non si è mai fermata in nessun paese, e si è più orientata alle economie emergenti, Cina in primis. Le istituzioni politiche, economiche e finanziarie non hanno tratto nessuna lezione dalle lacrime di questi otto anni. Non appena l’economia US e quella degli stati europei più forti hanno riiniziato a crescere, le politiche, le leggi e soprattutto l’atteggiamento culturale delle istituzioni nei confronti della finanza sono tornati, nella sostanza, quelli di prima il 2007. In materia di economia e finanza la storia è una maestra che ha soltanto pessimi alunni. La crisi dell’euro e della Grecia ha poi di nuovo distratto l’opinione pubblica che ha dimenticato di seguire, con opportuno senso critico, il mondo della grande finanza che, nella nostra disattenzione, ha continuato indisturbato a fare il suo mestiere.

Un primo messaggio che allora ci arriva da queste turbolenze cinesi è forte e chiaro: l’alta finanza è oggi il vero unico potere mondiale, e non possiamo permetterci di ignorarlo o di lasciarlo solo agli specialisti (che, tra l’altro, da diversi mesi lanciavano allarmi sulle borse cinesi), anche perché quando le grandi bolle finanziarie esplodono è sempre troppo tardi.
Il secondo messaggio riguarda le sorti del capitalismo globale. Anche se la retorica delle grandi potenze sottolinea la salute delle economie occidentali, in realtà il nostro sistema globale è estremamente vulnerabile, perché lo stiamo allontanando progressivamente dal lavoro umano e dall’economia reale, per fondarlo su ricchezze troppo astratte e virtuali. Domandiamoci: quale valore aveva creato l’economia cinese in quest’ultimo anno, se è stato distrutto in poche sedute di borsa? Su quale valore e su quali valori si poggia il nostro nuovo mondo?   

Anche su queste colonne, mentre infuriavano le nostre crisi economiche e finanziarie, abbiamo più volte e a più voci ricordato che le grandi bolle speculative sarebbero diventate la regola, non l’eccezione, del nuovo capitalismo finanziario. Se infatti le nostre economie producono benessere sganciato dal nostro lavoro, è probabile che quella cinese di oggi o una mega-bolla finanziaria domani distruggano in pochi giorni la pseudo-ricchezza che credevamo fondasse i nostri consumi e i nostri mutui. Per evitare questi tristi scenari, non troppo improbabili, occorre un nuovo protagonismo della politica, locale e globale. In fondo i tentativi, maldestri, del governo cinese di governare una finanza che è diventata ingovernabile, ci dicono anche che una economia e una finanza totalmente fuori dalle dinamiche democratiche, si trasformano in macchine incontrollabili, che oggi ci fanno esultare per guadagni gratis e domani piangere per perdite che ricadono in massima parte su chi non aveva goduto dei primi facili guadagni.

Allora mentre siamo tutti col fiato sospeso in attesa degli sviluppi dei prossimi giorni, ritorniamo a seguire la finanza, studiamola di più, esercitiamo la nostra sovranità di cittadini, chiediamo più democrazia economica e finanziaria, se non vogliamo rassegnarci a diventare sempre più sudditi di un impero invisibile.

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Commenti - Alta finanza, alto rischio

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/08/2015

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L’invisibile Impero

L’invisibile Impero

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Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2015

Immigrazione 02 ridIl dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe, …) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.

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L’ospitalità è un rapporto (ed è bello che in italiano ci sia un’unica parola, ospite, per dire colui che ospita e colui che è ospitato). Al forestiero che si accoglieva a casa non veniva chiesto né il nome né l’identità, perché era sufficiente trovarsi di fronte a uno straniero in condizione di bisogno affinché scattasse la grammatica dell’ospitalità. La reciprocità delle relazioni d’accoglienza era alla base delle alleanze tra persone e comunità, che componevano la grammatica fondamentale della convivenza pacifica tra i popoli.

La guerra di Troia, l’icona mitica di tutte le guerre, nacque da una violazione dell’ospitalità (da parte di Paride). La civiltà romana continuò a riconoscere la sacralità dell’ospitalità, che veniva anche regolata giuridicamente. La Bibbia, poi, è un continuo canto al valore assoluto dell’ospitalità e dell’accoglienza dei forestieri, che, non di rado, vengono chiamati "angeli". Il primo grande peccato di Sodoma fu rinnegare l’ospitalità a due degli uomini che erano stati ospiti di Abramo e Sara alle Querce di Mamre (Genesi, 18-19), e uno degli episodi biblici più raccapriccianti è una profanazione dell’ospitalità - lo stupro omicida dei beniaminiti di Gabaa (Libro dei Giudici, 19). Il cristianesimo raccolse queste tradizioni sull’ospitalità, e le interpretò come una declinazione del comandamento dell’agape ed espressione diretta della predilezione di Gesù per gli ultimi e i poveri: “Ero straniero e mi avete accolto” (Matteo 25,35).

In quelle culture antiche, dove vigeva ancora la "legge del taglione", dove non era riconosciuto quasi nessuno dei diritti dell’uomo che l’Occidente ha conquistato e proclamato in questi ultimi secoli, l’ospitalità fu scelta come prima pietra di civiltà dalla quale è poi fiorita la nostra. In un mondo molto più insicuro, indigente e violento del nostro, quegli antichi uomini capirono che l’obbligo di ospitalità è essenziale per uscire dalla barbarie. I popoli barbari e incivili sono quelli che non conoscono e non riconoscono l’ospite. Polifemo è l’immagine perfetta dell’inciviltà e della disumanità perché divora i suoi ospiti invece di accoglierli. L’ospitalità è la prima parola civile perché dove non si pratica l’ospitalità si pratica la guerra, e si impedisce lo shalom, cioè la pace e il benessere.

Smettiamo allora di essere civili, umani e intelligenti quando interrompiamo la pratica antichissima dell’ospitalità. E se l’ospitalità è il primo passo per entrare nel territorio della civiltà, la sua negazione diventa automaticamente il primo passo per tornare indietro verso il mondo dei ciclopi, dove regnano solo la forza fisica e l’altezza.

I popoli saggi sapevano che l’ospitalità conviene a tutti, anche se individualmente costa a ciascuno. Per questo occorre proteggerla e parlarne molto bene, se vogliamo che resista nei tempi degli alti costi. La reciprocità dell’ospitalità non è un contratto, perché non c’è equivalenza fra il dare e il ricevere, e soprattutto perché il mio essere accogliente oggi non genera nessuna garanzia di trovare accoglienza domani quando ne avrò bisogno. Non esiste un contratto di assicurazione per la non accoglienza domani di chi è stato accogliente oggi. Per questo l’ospitalità è un bene comune, e quindi fragile. Come tutti i beni comuni viene distrutto se non è sostenuto da una intelligenza collettiva più grande degli interessi individuali e di parte. Ma come tutti i beni comuni, una volta distrutto il bene non c’è più per nessuno ed è quasi impossibile ricostruirlo.

L’Europa è nata dall’incontro tra umanesimo giudaico-cristiano e quello greco e romano fondati sull’ospitalità. Ma in Occidente è sempre rimasta viva anche l’anima beniaminita e polifemica, dominante per lunghi periodi, sempre bui. È l’anima che vede gli ospiti solo come minacce o prede. Oggi questo spirito buio, incivile e non-intelligente sta riaffiorando, ed è urgente esercitare il prezioso esercizio del discernimento degli spiriti. Evitando, ad esempio, di credere a chi ci racconta che Polifemo ha divorato i compagni di Ulisse perché sarebbero stati in troppi a bordo e la nave poteva affondare nel ritorno verso Itaca, o che i beniaminiti volevano incontrare gli ospiti di Lot solo per controllarne i documenti. Il riconoscimento del valore e del diritto dell’ospitalità viene prima di tutte le politiche e le tecniche per gestirla e renderla sostenibile.

L’ospitalità è uno spirito, uno spirito buono. Quando non c’è si vede, si sente. Gli spiriti vanno conosciuti, riconosciuti e chiamati per nome, e quelli cattivi vanno semplicemente cacciati via.

Nella casa degli umani se non c’è posto per l’altro non c’è posto neanche per me. Sta scritto: "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo" (Lettera agli Ebrei).

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Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/08/2015

Immigrazione 02 ridIl dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe, …) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.

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Non siamo Ciclopi

Non siamo Ciclopi

Commenti - L'ospitalità fonda la nostra civiltà di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/08/2015 Il dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi...
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Inchiesta Bes/26 - Quella ricchezza relazionale nascosta a fianco del Pil. Nell'era dei beni comuni sono gli stock (ambientali, relazionali, spirituali e sociali) che devono ritornare al centro della scena

di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Avvenire (49 KB) l'11/08/2015

BESIl tema del benessere, del benestare, della felicità pubblica, o del ben vivere sociale è stato, ed è ancora, al centro della tradizione italiana dell’Economia civile. Negli ultimi anni è cresciuto significativamente il dibattito attorno alla necessità di superare il Pil o, secondo alcuni, di affiancargli altri indicatori che dicano altre dimensioni del benessere.

In questo affiancamento del PIL con altri indicatori non-economici, si sta però correndo seriamente un rischio. Lo scenario che si sta profilando assomiglia molto a quanto accade nel mondo del calcio.

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Al termine della partita compaiono sui nostri schermi statistiche con più indicatori: le percentuali del possesso palla delle due squadre, i falli fatti e subiti, il numero dei tiri in porta ecc. Ma, in cima al quadro delle statistiche, domina solitario il numero dei goal, che è l’unico dato che veramente conta, e che nessun’altra statistica che lo affianca può neanche lontanamente modificare. L’indice di sviluppo umano, l’impronta ecologica, il Bes (benessere equo e sostenibile), e altri indicatori analoghi, ad oggi assomigliano ancora molto al possesso palla e al numero di tiri in porta, che fanno da ‘contorno’ al numero dei goal realizzati (cioè il Pil). Come fare per prendere veramente sul serio altri indicatori di benessere e superare l’idea che il PIL sia il sono numero importante nella partita economica della nostra società?

Innanzitutto un po’ di storia. Il Pil, come lo conosciamo oggi, è un concetto relativamente recente, poiché è legato allo sviluppo della contabilità nazionale a partire dagli anni Trenta del XX secolo. I suoi veri padri (o nonni) fondatori sono stati i cosiddetti Fisiocratici, studiosi francesi della metà del Settecento, i quali erano convinti che la forza economica di un paese non fosse misurata da capitali, o da valori stock (come si pensava fino ad allora, quando si misurava la ricchezza di una nazione prevalentemente sulla base dell’oro da essa posseduto); ma dissero che ciò che veramente contava per la ricchezza erano i flussi, cioè il reddito. Da allora abbiamo iniziato un po’ tutti a pensare che non è la misurazione della ricchezza in termini di terreni, di materie prime, di coste, di musei, di cattedrali, di capitali culturali né umani, che fa un popolo «ricco», ma la capacità che ha quel popolo di «far girare» quei capitali in modo da ‘metterli a reddito’ e generare nuovi flussi.

Oggi sappiamo, e in Italia lo vediamo sempre di più, che se un popolo non è capace di far sì che i suoi capitali siano impiegati in modi produttivi, resta indigente pur se i suoi cittadini sono seduti su miniere d’oro. Dai fisiocratici in poi, è dunque il flusso annuo di nuova ricchezza che ci dice quanto una comunità nazionale è ricca. Prima di liquidare il Pil, allora, facciamo tesoro di questo valore presente nel suo DNA: una persona, una comunità, una regione resta economicamente povera se non è nelle condizioni (istituzionali, culturali, politiche) di trasformare i suoi capitali in reddito. Quando invece un paese nonostante i capitali non riesce più a produrre redditi, le rendite uccidono i profitti, e le società iniziano il declino. Benvengano allora altri indicatori o indicatori economici più sofisticati, ma non dimentichiamo che senza un indicatore di flusso, non sappiamo misurare la nostra capacità di valorizzare i nostri capitali, per capire se li stiamo nel tempo potenziando o impoverendo.

Per questa ragione, credo che un’operazione importante in tema di misurazioni più sofisticate dello stato economico e sociale di un Paese consista nell’affiancare, con pari dignità e rilevanza, al PIL indicatore capaci di cogliere anno dopo anno lo stato di salute dei nostri capitali, soprattutto di quelli sociali, ambientali, culturali, relazionali, spirituali. Nonostante la lezione importante dei Fisiocratici, resta vero che i redditi (flussi) nascono dai capitali (stock), e se i capitali si deteriorano o si estinguono, i redditi diminuiscono fino a scomparire.

Nell’era dei beni comuni nella quale siamo drammaticamente entrati con il terzo millennio, sono gli stock che devono ritornare ad occupare il centro della scena economica, sociale e politica. Il tema ambientale, ma anche quello relazionale e sociale (flussi migratori, inclusione sociale, terrorismo...), e altri temi che sono tornati centrali nell’era dei beni comuni, sono faccende di stock, perché sono legate a forme di capitali, presenti o assenti – sappiamo ormai da molti studi quanto l’intolleranza e razzismo siano legati alla carenza di ‘capitali’ culturali e artistici nelle persone. Ma c’è di più. L’eccessiva enfasi sulla creazione di flussi, inclusi i grandi flussi finanziari che oggi dominano di gran lunga i flussi di beni e servizi reali, stanno producendo effetti molti seri sugli stock delle nostre economie e del nostro pianeta. Dobbiamo imparare a misurare adeguatamente i patrimoni, che al pari delle energie non rinnovabili stanno subendo forti depauperamenti proprio a causa della grande invadenza dei flussi di reddito (misurati dal Pil).

Infine, alla radice di qualsiasi sviluppo di nuove misurazioni, c’è una questione più generale di carattere culturale e politico, che coinvolge direttamente il mondo delle imprese. Finché gli unici indicatori di successo delle imprese (soprattutto di quelle grandi) sono i profitti raggiunti e gli indici prettamente economici, e finché i «bilanci sociali» saranno pubblicazioni patinate donate agli stakeholder durante le feste aziendali, senza che i dati ‘sociali’ abbiamo alcuna rilevanza per le scelte importanti (rinnovo dei manager, dei membri del Cda ecc.), sarà impossibile che la nostra società giunga a valorizzare indicatori diversi dal Pil.

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di Luigino Bruni

pubblicato su pdf Avvenire (49 KB) l'11/08/2015

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Non c'è perdono per i popoli, ma per le istituzioni finanziare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/07/2015

Comunità europeaLa comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro distruzione. Nota è infatti la cosiddetta ‘Tragedia dei beni comuni’ (Garrett Hardin, 1968), che si verifica quando i fruitori di un bene comune cercano di massimizzare gli interessi individuali, dimenticandosi, o lasciando troppo sullo sfondo, il deterioramento del bene comune dovuto al loro consumo. Se – nell’esempio più famoso - gli utilizzatori del pascolo comune guardano solo i costi e benefici soggettivi, hanno l’incentivo a portare al pascolo sempre più mucche, e così l’esito finale del processo sarà la distruzione del pascolo.

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Il principale messaggio della teoria dei beni comuni è la distruzione del bene come effetto non intenzionale: nessuno lo vorrebbe, ma tutti contribuiscono a distruggerlo.

La crisi della Grecia ci sta mostrando che oggi i vari Paesi che hanno dato vita all’Unione rischiano di distruggere il bene comune da loro costruito nei decenni passati. Ogni tragedia dei beni comuni, ce lo ricorda la premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, si può evitare solo cambiando la prospettiva culturale: occorre passare dalla logica dell’io a quella del noi, iniziando a guardare il bene comune come ‘bene di tutti’ e non come ‘bene di nessuno’.

Le comunità, come ci dice anche la sua radice etimologica (cum-munus), sono un intreccio essenziale di doni e di obblighi - la parola latina munus significa, infatti, dono e obbligo. Non bastano i doni, lo sappiamo, ma non bastano neanche gli obblighi, perchè sono entrambi co-essenziali. I contratti e le regole sono solo una faccia della moneta delle comunità. Se manca il volto del dono le comunità implodono, collassano, si auto-distruggono. È la faccia del dono che manca nell’Europa di oggi, un dono che fu invece fondamentale per la sua creazione nel dopo-guerra. Le regole hanno occupato tutti gli spazi. E così il patto di fondazione si sta riducendo a solo contratto, e nei contratti, diversamente dai patti, non c’è spazio per il dono, scompaiono le comunità e nascono i club.

La vera soluzione possibile e sostenibile della crisi greca sarebbe stata una soluzione di con-dono parziale del debito, perché nelle condizioni economiche, psicologiche, sociali nelle quali si trova la Grecia, è impensabile che si possano restituire debiti di quelle dimensioni generando altri debiti con nuovi prestiti spietati. In realtà, il paradosso più sconvolgente di questi anni di crisi finanziaria ed economica, è vedere applicato il registro del dono ai debiti della finanza, mentre viene negato ai popoli e ai cittadini – quante migliaia di miliardi di debiti sono stati di fatto condonati alle istituzioni finanziarie?

Il grave errore dell’Europa di oggi, o meglio di alcuni dei suoi governanti più potenti, è pensare di risolvere una crisi del patto ricorrendo soltanto al registro del contratto. Da ogni grande crisi si esce con una buona combinazione di regole e di doni, mai con il solo inasprimento delle regole. I doni si rafforzano con l’educazione alla responsabilità delle regole, e le regole si umanizzano quando sono accompagnate dalla gratuità del dono. Ma per poter donare a chi ha commesso errori (e anche i greci ne hanno commessi) c’è prima bisogno della stima e della fiducia che quel popolo e quei cittadini abbiano le energie morali per ricominciare e tornare degni di nuova fiducia. Ogni vera fiducia è soprattutto dono, perché quando la fiducia si basa sui soli contratti, il contratto finisce per distruggere quella fiducia che vorrebbe ricreare.

Le regole senza perdono, gli obblighi senza i doni, non sono capaci di manutenere i beni comuni, soprattutto quei beni comuni primari su cui poggia la nostra fragile democrazia.
Abbiamo raggiunto Plutone, abbiamo fatto progressi straordinari e meravigliosi nella scienza e nelle tecnologie. Questa crisi ci sta mostrando che nella capacità relazionale ed etica di gestire grandi crisi collettive siamo ancora troppo simili agli uomini del neolitico, e probabilmente abbiamo perso alcune delle abilità e delle saggezze che il medioevo cristiano e la modernità ci avevano lasciato in eredità.

L’oikonomia, cioè le regole della casa, non è sufficiente per edificare una buona polis. In Europa oggi ci sarebbe bisogno di dono e di per-dono, una parola aliena all’economia capitalistica, che nessuno ha il coraggio di evocare nei tavoli che contano, anche perché l’abbiamo logorata, depotenziata, ridotta ai gadget e alla filantropia dei privati. Ma senza recuperare questa grande parola fondativa delle comunità, siamo destinati ad assistere ad un inesorabile declino di quella terra comune che avrebbe ancora le risorse per nutrirci.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/07/2015

Comunità europeaLa comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro distruzione. Nota è infatti la cosiddetta ‘Tragedia dei beni comuni’ (Garrett Hardin, 1968), che si verifica quando i fruitori di un bene comune cercano di massimizzare gli interessi individuali, dimenticandosi, o lasciando troppo sullo sfondo, il deterioramento del bene comune dovuto al loro consumo. Se – nell’esempio più famoso - gli utilizzatori del pascolo comune guardano solo i costi e benefici soggettivi, hanno l’incentivo a portare al pascolo sempre più mucche, e così l’esito finale del processo sarà la distruzione del pascolo.

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 Le (il)logiche insidie al bene comune Europa

Le (il)logiche insidie al bene comune Europa

Non c'è perdono per i popoli, ma per le istituzioni finanziare di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 15/07/2015 La comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro dist...
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Commenti - Genesi di una crisi e suoi possibili esiti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/07/2015

Crisi greca ridYanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno studioso di scelte razionali in situazioni nelle quali sono coinvolti due o più agenti e ciascuno agisce obbedendo ad una logica strategica, anticipando cioè le mosse e contromosse reciproche. Il ministro greco conosce quindi molto bene il cosiddetto “gioco del pollo” (o del coniglio), che descrive una situazione molto simile ad una nota scena del film Gioventù bruciata.

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Jim (James Dean) sfida Buzz in una gara folle: entrambi spingono le loro auto a tutta velocità verso un precipizio, e vincerà colui che si getterà dalla propria auto in corsa per ultimo, appena prima che precipiti nel burrone. L’esito peggiore del “gioco del pollo” è che entrambi i piloti precipitino nel precipizio, se per voler vincere la gara aspettano troppo prima di saltare fuori dall’auto.

Immaginare oggi che il governo greco e le sue controparti stiano giocando a un gioco simile a quello del ‘pollo’, è una lettura che può far sperare che i giochi non siano ancora chiusi e che i giocatori siano ancora in corsa - augurandoci che l’esito sia quello dettato dalla razionalità e non dalle emozioni e dalle passioni.

L’uscita della Grecia dall’euro non conviene a nessuno, in tutte le possibili declinazioni della parola convenienza. Staremmo solo tutti peggio e nessuno starebbe meglio. <Siamo tra l'incudine e il martello>, mi ha appena scritto un collega economista dell’università di Atene. E starebbero molto peggio i poveri, i giovani, i bambini greci, che non hanno mai firmato nessun contratto e magari non hanno mai avuto nessun beneficio dai soldi sperperati in passato dai loro governanti.

È uno scenario fosco e tremendamente confuso, da cui dovrebbe derivare una raccomandazione generale di metodo a chi in questi giorni parla e scrive: non immaginare soluzioni semplici ad una situazione estremamente complessa, dividendo la scena in buoni e cattivi, pro o contro la Grecia.

Un primo elemento di complessità ce lo offrono i dati storici. L’economia greca è stata tra quelle più colpite dalla crisi finanziaria del 2007. Fino a quella data la Grecia cresceva, e aveva attratto molti investitori internazionali. Il suo debito pubblico è raddoppiato tra il 2007 e il 2012. Il suo rapporto debito/Pil nel 2007 era solo del 95,59%, ma è diventato del 130.2% nel 2010 e quindi del 143.5% nel 2012. Il suo debito verso UE e FMI è nato tra il 2010 e il 2012, costretta da una situazione economico-finanziaria del Paese resa insostenibile dalla crisi. Le onde anomale dello tzunami finanziario partito dagli USA sono arrivate sulle coste greche e hanno provocato danni molto ingenti. Senza la crisi del 2007 oggi avremmo uno scenario completamente diverso.

I dati, tutti i numeri, non aiutano a trovare soluzioni se non vengono letti e interpretati dentro un contesto relazionale idoneo – sono innumerevoli i conflitti generati e alimentati da letture opposte degli stessi dati. L’ambiente umano dentro il quale si stanno svolgendo da anni le trattative sul caso greco è molto negativo, per non dire pessimo. Le crisi – ogni crisi – è uno ‘stress test’ della qualità delle relazioni tra persone e istituzioni. Ci sarebbe bisogno, ad esempio, di una radicale purificazione del linguaggio usato a tutti i livelli. È urgente che Unione Europea, FMI e anche Governo greco smettano di colpevolizzare la controparte.

Soprattutto è fondamentale cambiare linguaggio sulle ‘colpe’ dei greci. Lo sappiamo e lo abbiamo visto molte volte lungo la storia: la prima soluzione facile a problemi complessi è stata creare qualche teoria che dimostri che l’altro si merita la sua sventura perché è colpevole. Il libro di Giobbe, ad esempio, combatte soprattutto contro questa ideologia. Sono troppi e molto pericolosi i ragionamenti che si odono e leggono sulle colpe dei greci. ‘Si meritano la loro sventura, perché hanno avuto governi corrotti, e perché anche i cittadini sono pigri, assistiti, grandi evasori fiscali’. Commenti e discorsi ideologici che sono gravi sia quando provengono da paesi, come l’Italia, che su questi temi non può dare lezioni morali a nessuno, sia quando arrivano da giornalisti o politici tedeschi e francesi, perché dimenticano le grandi e gravi lezioni della storia e perché eclissano le altre ragioni della crisi, ragioni che pesano, anche quantitativamente, molto di più. Attribuire le cause dei problemi da risolvere al ‘carattere’ nazionale o alla ‘mentalità’ dei popoli, non fa altro che allontanare le soluzioni, perché ‘caratteri’ e ‘mentalità’ sono variabili sulle quali chi oggi deve decidere non ha nessun controllo. Ma a chi vuole ridurre il costo etico di scelte difficili, evocare colpe, carattere e mentalità aiuta sempre, e ogni tanto funziona.

Debito e colpa, in alcune lingue, hanno la stessa radice. Una volta per debiti si diventava schiavi, e non di rado si veniva condannati a morte. Generazioni intere hanno donato vita e sangue perché la democrazia mettesse la parola fine alla schiavitù per debiti, affermando che nessun debito, per quanto grande, deve ridurre anche una sola persona in schiavitù. Figuriamoci un popolo intero.

Un vero piano responsabile di rilancio della Grecia deve allora svilupparsi in un arco di tempo quinquennale o decennale, durante il quale sospendere il rimborso dei debiti esteri, e lavorare tutti e a tutti i livelli per creare gli investimenti e le condizioni perché i debiti degli Stati non diventino una via post-moderna a nuove forme di schiavitù dei popoli – anche la Laudato si’ ce lo chiede. La soluzione deve arrivare, e scongiurare che questa ‘gara’ abbia lo stesso epilogo da quello di Gioventù bruciata.

Infine, sono tante le prospettive possibili per giudicare la moralità e la giustizia di una scelta tragica. Una delle migliori è guardare ai suoi costi e benefici dalla prospettiva dei bambini. È un esercizio che aiuta sempre, e a volte può essere decisivo.

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Commenti - Genesi di una crisi e suoi possibili esiti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/07/2015

Crisi greca ridYanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno studioso di scelte razionali in situazioni nelle quali sono coinvolti due o più agenti e ciascuno agisce obbedendo ad una logica strategica, anticipando cioè le mosse e contromosse reciproche. Il ministro greco conosce quindi molto bene il cosiddetto “gioco del pollo” (o del coniglio), che descrive una situazione molto simile ad una nota scena del film Gioventù bruciata.

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Non è tempo di giochi

Non è tempo di giochi

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La «Laudato si’» è tutt’altro che anti-impresa. Ma leggiamola in un bosco

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/06/2015

Sul nostro sistema capitalistico incombe un’enorme domanda di giustizia che si innalza dalle vittime e dagli "scarti" umani, una domanda che è particolarmente grave perché non viene più vista né udita. Papa Francesco è oggi l’unica autorità morale globale capace innanzitutto di vedere e sentire questa grande domanda etica sul mondo (e questo dipende dal suo proprio carisma), e poi porre interrogativi radicali (e questo nasce dalla sua agape).

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Nessun altra "agenzia" mondiale ha la sua libertà dai poteri forti dell’economia e della politica, una libertà che purtroppo né l’Onu né la Commissione europea né tantomeno i politici nazionali dimostrano di avere, tant’è che continuano «a vendere il povero per un paio di sandali» (Amos) – vedi ciò che si rischia in Italia con le nuove regole sull’azzardo.

Alcuni commentatori, sedicenti amanti del libero mercato, hanno scritto che l’enciclica Laudato si’ è contro il mercato e contro la libertà economica, espressione dell’anti-modernismo e, addirittura, del marxismo del Papa «preso quasi alla fine del mondo». Nell’enciclica non si trova niente di tutto questo, anzi vi si trova l’opposto. Francesco ci ricorda che il mercato e l’impresa sono preziosi alleati del bene comune se non diventano ideologia, se la parte (il mercato) non diventa il tutto (la vita). Il mercato è una dimensione della vita sociale essenziale per ogni bene comune (sono molte le parole dell’enciclica che lodano gli imprenditori responsabili e le tecnologie al servizio del mercato che include e crea lavoro). Ma non è l’unica, e neppure la prima.

Il Papa, innanzitutto, richiama il mercato alla sua vocazione di reciprocità e di «mutuo vantaggio». E su questa base critica le imprese che depredano persone e terra (e lo fanno spesso), perché stanno negando la natura stessa del mercato, arricchendosi grazie all’impoverimento della parte più debole.

A un secondo livello, Francesco ci ricorda qualcosa di fondamentale che oggi è sistematicamente trascurato. La tanto declamata «efficienza», la parola d’ordine della nuova ideologia globale, non è mai una faccenda solo tecnica e quindi eticamente neutrale (34). I calcoli costi-benefici, che sono alla base di ogni scelta "razionale" delle imprese e delle pubbliche amministrazioni, dipendono decisamente da che cosa inseriamo tra i costi e che cosa tra i benefici. Per decenni abbiamo considerato efficienti imprese che tra i costi non mettevano i danni che stavano producendo nei mari, nei fiumi, nell’atmosfera. Ma il Papa ci invita ad allargare il calcolo a tutte le specie, includendole in una fraternità cosmica, estendono la reciprocità anche ai viventi non umani, dando loro voce nei nostri bilanci economici e politici.

C’è, poi, un terzo livello. Anche riconoscendo il «mutuo vantaggio» come legge fondamentale del mercato civile, e magari estendendola anche al rapporto con altre specie viventi e con la terra, il «mutuo vantaggio» non può e non deve essere l’unica legge della vita. È importante, ma non è la sola. Esistono anche quelli che l’economista e filosofo indiano Amartya Sen chiama «gli obblighi di potere». Dobbiamo agire responsabilmente nei confronti del creato perché, oggi, la tecnica ci ha attribuito un potere per determinare unilateralmente conseguenze molto gravi verso altri esseri viventi con i quali siamo legati. Tutto nell’universo è vivo, e tutto ci chiama a responsabilità. Esistono anche obblighi morali senza vantaggi per noi. Il «mutuo vantaggio» del buon mercato non basta a coprire tutto lo spettro della responsabilità e della giustizia. Anche il mercato migliore se diventa l’unico criterio si trasforma in un mostro. Nessuna logica economica ci spinge a lasciare le foreste in eredità a chi vivrà tra mille anni, eppure abbiamo obblighi morali anche verso quei futuri abitanti della terra.

Molto importante è la questione del «debito ecologico» (51), che rappresenta uno dei passaggi più alti e profetici dell’enciclica. La logica spietata dei debiti degli Stati domina la terra, mette in ginocchio interi popoli (come nel caso della Grecia), e ne tiene sotto ricatto molti altri. Molto potere nel mondo è esercitato in nome del debito e del credito. Esiste però anche un grande «debito ecologico» del Nord del mondo nei confronti del Sud, di un 10% dell’umanità che ha costruito il proprio benessere scaricando i costi sull’atmosfera di tutti, e che continua a produrre "cambiamenti climatici".

L’espressione "cambiamenti" è fuorviante perché è eticamente neutrale. Il Papa parla invece di «inquinamento» e di deterioramento di quel bene comune chiamato clima (23). Il deterioramento del clima contribuisce alla desertificazione di intere regioni che influiscono decisamente sulle miserie, le morti e le migrazioni dei popoli (25). Di questo immenso «debito ecologico» e di giustizia globale non si tiene conto quando chiudiamo le nostre frontiere a chi arriva da noi perché gli stiamo bruciando la casa. Questo debito ecologico non pesa per nulla nell’ordine politico mondiale, nessuna Troika condanna un Paese perché ha inquinato e desertificato un altro Paese, e così il «debito ecologico» continua a crescere nell’indifferenza dei grandi e dei potenti.

Infine, un consiglio. Chi deve ancora leggere questa meravigliosa enciclica, non inizi la lettura nel proprio studio o seduto sul divano. Esca di casa, vada in mezzo a un prato o in un bosco, e lì inizi a meditare il cantico di papa Francesco. La terra di cui ci parla è una terra reale, toccata, sentita, odorata, vista, amata. E, poi, concluda la lettura in qualche periferia reale, in mezzo ai poveri, e guardi il mondo dei ricchi epuloni accanto ai nostri lazzari, e ne abbracci almeno uno, come Francesco. Da questi luoghi potremmo reimparare a «stupirci» (11) delle meraviglie della terra e degli uomini, e così forse potremo capire e pregare Laudato si’.

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La «Laudato si’» è tutt’altro che anti-impresa. Ma leggiamola in un bosco

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/06/2015

Sul nostro sistema capitalistico incombe un’enorme domanda di giustizia che si innalza dalle vittime e dagli "scarti" umani, una domanda che è particolarmente grave perché non viene più vista né udita. Papa Francesco è oggi l’unica autorità morale globale capace innanzitutto di vedere e sentire questa grande domanda etica sul mondo (e questo dipende dal suo proprio carisma), e poi porre interrogativi radicali (e questo nasce dalla sua agape).

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Enciclica, il mercato buono del Papa

Enciclica, il mercato buono del Papa

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Ci stiamo convincendo che per agire servono incentivi e le persone rispondono soltanto a interessi...Mentre la difesa dei beni comunivuole gratuità: un lago non s’inquina solo perché non conviene!

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/05/2015

Adamo Eva Poussin cropLa custodia è vocazione universale, di tutti e di ciascuno. L’economia, nonostante la sua etimologia (oikos nomos) rimandi all’oikos, all’ambiente, alla casa, negli ultimi decenni sta tradendo questa vocazione di custodia, perché troppo schiacciata sulle rendite e sui profitti di breve periodo. L’homo oeconomicus non ha, per come è stato pensato fin qui dalla scienza e prassi economica, luoghi da abitare, ma solo spazi da occupare. Il luogo, lo sappiamo, dice identità, specificità, radici; lo spazio è la dimensione razionale dei luoghi: è uniforme, senza radici né destino. E così il nostro capitalismo speculativo sta eliminando le specificità e le identità dei luoghi, delle loro tradizioni sociali ed economiche, per poterli controllare e orientare al mercato, dando vita ad un mondo piatto senza biodiversità nelle forme di impresa, di lavoro, di vivere.

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La logica economica imperante non capisce la custodia perché non capisce la gratuità. Il mercato come lo stiamo conoscendo oggi è sempre più definito sulla logica dell’incentivo, e quindi sul calcolo costi-benefici. Ci stiamo convincendo che per agire nella sfera economica e quindi lavorativa dobbiamo essere incentivati, perché le persone rispondono soltanto a interessi. Ma la custodia del creato, della terra, dei beni comuni, delle relazioni, la cura dell’altro e di se stessi, hanno un bisogno essenziale di una dimensione di gratuità, o, quantomeno, di logiche più complesse della troppo semplice ragione economica. Un lago non si inquina solo perché ci conviene tenerlo pulito, ma, prima di tutto, per rispetto di quella realtà vivente come noi. Il rispetto, la dignità, il riconoscimento non sono categorie economiche, ma sono parole fondamentali per vivere e far vivere. Le ragioni che portavano i nostri nonni a custodire i fiumi e le vallate, non erano soltanto né primariamente economiche: c’era un istinto antico, anche religioso, che li spingeva a rapportarsi in modo non predatorio con l’ambiente che li ospitava – un rapporto non predatorio che altre culture non occidentali hanno saputo custodire nei secoli. La custodia è parte della condizione umana. Ma è estranea al nostro capitalismo, che continua a curare i figli di Abele con le fondazioni create dai figli di Caino, come quando le multinazionali dell’azzardo sponsorizzano le associazioni che curano i giocatori patologici, o quelle delle armi per ‘custodire’ gli orfani delle guerre. Questa custodia è l’opposto di quella contenuta nella tradizione biblica e in ogni autentico umanesimo, che ci ricordano che l’essere umano è animale capace di custodia, di accudimento. E quindi di cura di sé, dell’altro e della natura.

Non a caso nel libro della Genesi troviamo la stessa parola, shamar, quando ci descrive l’Adam come il ‘custode’ del giardino (capitolo 1), e quando Caino torna omicida-fratricida dai campi, si dichiara non custode, shamar, di suo fratello (capitolo 4).

La custodia è espressione diretta di un’altra grande parola umana: responsabilità. Caino non era stato custode e quindi non era stato responsabile. E infatti di fronte alla domanda di Dio: “dov’è tuo fratello?”, non risponde, ma pone un’altra domanda: “Non lo so. Son forse io il custode di mio fratello?”. Ancora shamar: l’Adam era stato custode dell’Eden, Caino non era stato custode del fratello e quindi non aveva custodito né le relazioni né la terra degli uomini. Dietro ogni domanda di custodia si nasconde allora la domanda radicale della fraternità, inter-umana e cosmica (gli esseri umani non esauriscono la vocazione universale alla fraternità, come avevano capito molto bene Giobbe o San Francesco).

La custodia del mondo e la custodia dell’altro sono una unica cosa. Quando manca è la morte che prevale. Muore Abele, e insieme a lui muoiono anche gli animali, le piante, il creato che, assieme al fratello, ci chiede custodia.

La custodia costringe ad uscire da sé per occuparsi dell’altro. Quindi è per natura anti-narcisista, perché ci decentra. E in una civiltà dove il narcisismo sta diventando malattia endemica, la custodia non è capita e non è vista.

Ci sono alcune sfide culturali e sociali da cui dipende la qualità, quantità e forse sopravvivenza della categoria della custodia dalla nostra società. La prima riguarda i bambini e gli anziani. Le famiglie, dove ancora resistono, non sono più capace, in larghissima misura, di assicurare la custodia e la cura dell’aurora e del tramonto della vita. Dobbiamo reinventarci forme nuove di custodia delle relazioni e delle persone in queste fasi fondamentali, perché non può essere il mercato con quel che resta dello stato sociale, a custodire le nostre relazioni primarie. C’è bisogno, come ricorda la filosofa Jennifer Nedeslky, di una rivoluzione nella cultura della cura, che porti ciascuna persona adulta a prendersi cura delle proprie comunità e dei propri luoghi, se vogliamo salvarci.

La seconda riguarda i beni comuni. Mari, ghiacciai, foreste, verde, biodiversità, non si possono salvare se lasciati gestire e ‘custodire’ dalla sola logica economica, come sta avvenendo. Anche perché stiamo scaricando sui poveri molti dei costi delle nostre ‘soluzioni’.

Occorre parlare di più di custodia, occorre parlare di più della gratuità, occorre parlare di più di vita. E chiedere di più. Forse, qualcuno, risponderà.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/05/2015

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L'economia cerca custodi

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Il messaggio del giorno dei lavoratori

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 1/05/2015

primo maggio 2015Ogni primo maggio è un messaggio, che va cercato, scoperto e decifrato nelle pieghe del nostro presente, nelle sue contraddizioni, nei suoi dolori e nelle sue speranze.

Dopo anni molto duri, stiamo cercando di ripartire, e dobbiamo essere coscienti che il primo indicatore che ci dirà se è arrivata veramente l’alba di un nuovo giorno sarà la capacità di tornare a generare lavoro per tutti, prima di tutto per i giovani. Quando un Paese non riesce a occupare i giovani, che sono sempre la sua parte migliore e più creativa, produce due danni molto gravi: perde l’energia più potente che possiede e priva il suo presente migliore e il suo futuro della possibilità di fiorire.

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Quando una o un giovane, una volta concluso il suo iter formativo, non trova in breve tempo l’opportunità concreta di far fiorire in lavoro la sua formazione, assiste triste all’appassimento del suo potenziale creativo e al deterioramento del suo capitale umano. I capitali di un Paese – non dimentichiamolo mai – sono certamente composti dalla sua tecnologia, dai suoi patrimoni naturali e culturali, dai suoi mezzi finanziari ed economici. Ma il suo primo capitale più produttivo e prezioso sono le persone, e tra queste i giovani. Lasciare sfiorire questi capitali personali è un reato civile e morale che non resta mai impunito. Lo spreco di questi capitali oggi, riduce domani (un domani molto prossimo) la competitività economica, la robustezza etica e sociale, allenta il legame sociale, impoverisce tutti. Un reato che stiamo perpetrando già da troppo tempo, e che dobbiamo assolutamente fermare. A tutti i livelli

Innanzitutto sul piano politico, istituzionale e sindacale. Dobbiamo dar vita, subito, a una redistribuzione del lavoro che c’è. Dobbiamo incentivare il part-time per gli over55 (con opportune modifiche fiscali e pensionistiche che non penalizzino troppo chi fa questa scelta), in modo che una significativa quota di giovani possa usufruire di questo “lavoro liberato”. È sciocco e senza futuro un Paese dove gli adulti non sentono l’urgenza etica di far spazio ai loro giovani. Una applicazione concreta di quella fraternità civile che abbiamo posto al centro dell’umanesimo moderno, un principio essenziale nei momenti di crisi. Ne siamo stati capaci dopo terremoti e catastrofi naturali e civili, dobbiamo esserlo oggi per uscire da questa crisi di lavoro, che non sta facendo meno vittime.

C’è, poi, molto da lavorare sul lato della scuola e dell’istruzione. Non possiamo riformare il sistema educativo facendo leva sull’incentivo e sulla managerializzazione della scuola. Occorrono più innovazione e visione. L’Italia ha inventato nei secoli passati le università, le scuole, le accademie, e il mondo intero ha imparato da noi. Oggi, invece, non solo abbiamo smesso di innovare, ma stiamo supinamente importando logiche e strumenti di gestione della scuola da quelli universi culturali, che leggono la scuola e l’istruzione all’interno della “logica di mercato” da essi inventata. La scuola e l’università devono presto aggiornarsi per stare al passo con un mondo e con un lavoro cambiato molto, forse troppo, velocemente. Ma non ci riusciremo trasformando le scuole in imprese. Troppo semplice, troppo poco. I bambini e i giovani sono troppo preziosi per lasciarli in mano alla logica dei costi e dei profitti. Ogni processo educativo è un intreccio di beni relazionali, di fiducia, di stima, di riconoscimento, di reciprocità, di gratitudine. E anche di incentivi, che però funzionano solo se e quando sono inseriti dentro questa grammatica più grande. C’è troppa economia e troppo linguaggio economico dentro i luoghi dell’educazione. Il bilancio e le risorse finanziarie sono vincoli e mezzi dell’educare, non sono il fine; e quando lo diventano la scuola fallisce, anche se ha i bilanci in attivo.

La Festa di oggi deve infine ricordarci che senza lavoro non sappiamo più parlare bene gli uni con gli altri. Il lavoro è il “verbo” della grammatica sociale, ciò che lega e dà senso alle nostre relazioni. Tutti i giorni ci incontriamo, parliamo, cooperiamo grazie al nostro lavoro. Quando troppa gente resta fuori dal mondo del lavoro, nella nostra società molte “parole” perdono significato sociale, il nostro discorso collettivo diventa monco, la nostra democrazia e la nostra Repubblica perdono il loro primo fondamento. L’Italia è una Repubblica democratica perché è fondata sul lavoro.

Infine, è molto significativo e importante che la nostra civiltà onori il lavoro con un giorno di festa, con un giorno di non lavoro. Per la buona festa il lavoro è necessario, e viceversa. Quando non si lavora e si vorrebbe e dovrebbe lavorare, si intristisce anche la festa. Privare una persona del lavoro significa privarlo anche della gioia della festa. Troppi lavoratori hanno perso in questi anni difficili il loro Primo Maggio. È ora che tornino a far festa.

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Il messaggio del giorno dei lavoratori

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 1/05/2015

primo maggio 2015Ogni primo maggio è un messaggio, che va cercato, scoperto e decifrato nelle pieghe del nostro presente, nelle sue contraddizioni, nei suoi dolori e nelle sue speranze.

Dopo anni molto duri, stiamo cercando di ripartire, e dobbiamo essere coscienti che il primo indicatore che ci dirà se è arrivata veramente l’alba di un nuovo giorno sarà la capacità di tornare a generare lavoro per tutti, prima di tutto per i giovani. Quando un Paese non riesce a occupare i giovani, che sono sempre la sua parte migliore e più creativa, produce due danni molto gravi: perde l’energia più potente che possiede e priva il suo presente migliore e il suo futuro della possibilità di fiorire.

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Che la festa ritorni

Che la festa ritorni

Il messaggio del giorno dei lavoratori di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 1/05/2015 Ogni primo maggio è un messaggio, che va cercato, scoperto e decifrato nelle pieghe del nostro presente, nelle sue contraddizioni, nei suoi dolori e nelle sue speranze. Dopo anni molto duri, stiamo cercan...
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Regole per affrontare le difficoltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/04/2015

Sono ormai in tanti a parlare di ripresa dell’economia e del Pil, come se il Pil fosse capace di parlare da solo di cose buone. La realtà vera della nostra economia dice che le imprese soffrono e continueranno a soffrire a lungo, e con esse il mondo del lavoro. E non soffrono e chiudono soltanto per mancanza di mercati e di vendite. Una causa comune di sofferenza e di fallimento si trova, infatti, in alcuni tipici errori nella gestione dei lavoratori durante le crisi. Quando si attraversano fasi difficili e lunghe, infatti, commettiamo più facilmente molti errori gravi nelle relazioni tra classe dirigente e lavoratori.

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Ci sono sempre più grandi aziende che di fronte a una crisi che comporta una riduzione del personale (non dimentichiamo che ridurre il personale durante le crisi non è un dogma, ma – quasi sempre – una scelta), si muovono interamente sul piano 'politico': la proprietà incontra i sindacati, propone un piano industriale e la crisi si contratta 'politicamente' decidendo quanti lavoratori sacrificare alle esigenze della sopravvivenza, lavoratori che non vengono mai, intenzionalmente, considerati né ascoltati.

Altre imprese, invece, per licenziare seguono la strada del mercato, usando incentivi individuali e compensazioni monetarie per chi viene 'rimosso'. In entrambi i casi manca il soggetto principale: la comunità dei lavoratori, perché nel primo caso sono rappresentati e mediati, nel secondo ci sono solo i singoli individui (spesso messi in conflitto tra di loro). Una impresa, però, non è né un piccolo parlamento né un insieme di individui separati, legati ciascuno dal contratto con la proprietà: le imprese reali vivono se sono capaci di creare un organismo vivo di relazioni virtuose tra tutti i vari componenti dell’organizzazione. Quando un’impresa inizia una crisi seria, ci sono alcune regole fondamentali da seguire, se si vuole tentare un vero coinvolgimento dei lavoratori nel cercare soluzioni e cercare di superarla, a volte uscendone migliori di come vi si era entrati.

La prima si chiama tempismo: per affrontare bene una crisi è fondamentale intervenire in tempo, non quando il processo è ormai avanzato e grave. Una buona classe dirigente deve anticipare le crisi importanti, e quindi capire quale è il momento giusto per intervenire, cogliendo i segnali deboli che consentano di prevedere l’esplosione della crisi. E poi bisogna iniziare ad ascoltare i lavoratori all’inizio della crisi (esterna o interna) e non alla fine, magari solo per comunicare loro la soluzione già decisa ad altri livelli. I 'coinvolgimenti' dei lavoratori in questa fase terminale, oltre a non essere di giovamento non fanno altro che acuire le sofferenze.

Seconda regola: se si vogliono ascoltare i lavoratori questi vanno ascoltati davvero. Occorre creare un contesto di fiducia, nel quale i lavoratori possano dire e donare il loro pensiero, e percepire di essere ascoltati veramente. Un processo che richiede i suoi spazi e i suoi luoghi, e soprattutto richiede tempo (non si possono fare riunioni di un’ora per iniziare a parlare di una crisi seria). Un coinvolgimento finto è più dannoso di un noncoinvolgimento. E vanno ascoltati i lavoratori veri, possibilmente tutti, non solo i loro rappresentanti. Terzo: occorre presentarsi ai lavoratori con un discorso appena iniziato e ancora tutto aperto, dicendo che molte soluzioni sono possibili, coinvolgendo i lavoratori nel cercare le soluzioni. Ho conosciuto lavoratori che insieme sono stati capaci di atti eroici (riduzioni significative dello stipendio
per anni, pur di salvare qualche posto di lavoro), che la direzione non aveva neanche immaginato. E questo perché presi sul serio all’inizio della crisi, considerati come il grande valore dell’impresa e non solo come il principale problema. Si capisce che in questi casi il linguaggio e la scelta delle parole sono molto importanti.

Un quarto principio di chiama sussidiarietà. Qualsiasi terapia di una crisi, che voglia arrivare davvero a una guarigione (molte crisi aziendali di questi tempi, purtroppo, vogliono solo portare alla vendita delle aziende a fondi di investimento o alla liquidazione), deve partire dall’assunto che le persone che possono indicare vie possibili di soluzione sono soprattutto quelli che sono a contatto tutti i giorni con il lavoro, e non solo i membri dei Consigli di amministrazione che sono quasi sempre distanti e quindi 'incompetenti' di quel lavoro specifico, anche se sono competenti di strategia e finanza. Senza la stretta collaborazione con chi lavora veramente dentro l’impresa, le soluzioni vere e buone non si trovano, perché la competenza più preziosa è sempre quella incorporata nelle mani e nella mente di chi il lavoro lo vive e non di quelli che il lavoro lo conoscono raccontato dai manager o rappresentato dai numeri.

Infine, il principale errore da evitare è dividere la comunità dei lavoratori. La vera arte di chi deve gestire una crisi difficile in una impresa sta nel non dividere, nel tenere compatta tutta la comunità di lavoro, creare un clima simile a quello che vivono i marinai che stanno affrontando una tempesta. Ma per far questo occorre che scatti una logica del «noi» e non solo la logica dell’«io», che è possibile se i manager sono capaci di far sentire ogni lavoratore come il centro della soluzione, trattarlo come se tutto dipendesse da lei o da lui. Arte rara e difficilissima, soprattutto nel nostro capitalismo finanziario. Ognuno di noi è un intreccio di motivazioni, di interessi, di vizi e di virtù. È la cultura organizzativa, soprattutto nei tempi di crisi, con un ruolo chiave dei manager, che favorisce l’emergere nel posto di lavoro della nostra parte migliore o di quella peggiore. Ogni buon processo di coinvolgimento dei lavoratori è sempre molto rischioso, e ha bisogno di occhi giusti e buoni, della capacità di guardare i lavoratori, tutti i lavoratori, come qualcosa di positivo e di bello, e non come fannulloni e opportunisti. Se l’imprenditore, il manager o magari le stesse organizzazioni sindacali partono dall’ipotesi che i lavoratori sono solo lavativi e opportunisti, è certo che troveranno conferma alle loro ipotesi, anche solo perché creeranno un clima di sfiducia e di negatività che estrarrà dalle persone la loro parte meno cooperativa e più egoistica. La prima ricchezza di ogni impresa e di ogni organizzazione sono le persone, le loro competenze, le loro energie morali, il loro cuore. Le crisi si superano quando si hanno la saggezza e il coraggio di ripartire da questa antica, grande e trascurata verità.

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Regole per affrontare le difficoltà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/04/2015

Sono ormai in tanti a parlare di ripresa dell’economia e del Pil, come se il Pil fosse capace di parlare da solo di cose buone. La realtà vera della nostra economia dice che le imprese soffrono e continueranno a soffrire a lungo, e con esse il mondo del lavoro. E non soffrono e chiudono soltanto per mancanza di mercati e di vendite. Una causa comune di sofferenza e di fallimento si trova, infatti, in alcuni tipici errori nella gestione dei lavoratori durante le crisi. Quando si attraversano fasi difficili e lunghe, infatti, commettiamo più facilmente molti errori gravi nelle relazioni tra classe dirigente e lavoratori.

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Crisi aziendali, serve il «noi» per ripartire

Crisi aziendali, serve il «noi» per ripartire

Regole per affrontare le difficoltà di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 15/04/2015 Sono ormai in tanti a parlare di ripresa dell’economia e del Pil, come se il Pil fosse capace di parlare da solo di cose buone. La realtà vera della nostra economia dice che le imprese soffrono e continueran...
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Editoriali - La piaga dell’azzardo, le sue conseguenze, una strana intesa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/10/2014

Slot machineLe dimensioni e la gravità dell’azzardo in Italia non possono più lasciarci indifferenti. L’azzardo distrugge la nostra economia, i nostri anziani, i nostri poveri, sta rubando l’anima del nostro Paese. Persino Poste Italiane offre ormai sistematicamente gratta-e-vinci ai clienti, fatto gravissimo in sé, ma reso ancora più vergognoso dalla presenza in quegli uffici di moltissimi pensionati, le prime vittime di questa peste antica e nuova. Triste approdo per un’azienda preziosa, nata per stare dalla parte della gente, che ci ha portato a casa le lettere d’amore, degli amici emigranti per fame di lavoro, dei figli al fronte... Analogo spettacolo d’inciviltà lo ritroviamo in troppe aree di sosta organizzate delle nostre autostrade, dove – mentre danno il resto del caffè o incassano il dovuto per il carburante – ci offrono anche i "grattini".

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E potremmo continuare con i dati e le vicende che le inchieste di "Avvenire" offrono, da anni e quasi giornalmente, all’attenzione e alla riflessione dei lettori. Vox clamantis in deserto, nel "deserto" informativo e di denuncia di tanti, troppi, altri media.

C’è poi una grave responsabilità da parte dei Governi e dei Parlamenti degli ultimi vent’anni, che ha generato la condizione difficile in cui si sono trovati nel passato e, purtroppo, si ritrovano ancora oggi coloro che operano nelle istituzioni e hanno le idee chiare sul fenomeno, ma non riescono a far alzare i necessari argini all’avanzata del "deserto" dell’azzardo. Qualcosa è stato fatto, la "ludopatia", cioè il gioco d’azzardo compulsivo, è stata finalmente riconosciuta per il male che, ma l’interesse e l’irresponsabilità di potenti lobby, spalleggiate da altrettanto potenti burocrati, ha prevalso sinora su una politica debole, incapace di emanare e consolidare regole di buon senso. La situazione attuale è, infatti, il frutto velenoso di un progetto che mira intenzionalmente a "scavare" ricchezza dentro la povertà e di una politica esitante o complice che ancora ritiene, o si lascia convincere, che sia possibile rispondere alla crisi economica del nostro Paese lucrando sulla disperazione di persone e famiglie.

Le slot machine nei bar sono state introdotte poco più di venti anni fa e sono dilagate in questo decennio: prima non c’erano, come non ci sono nei Paesi davvero civili. Insieme alle slot sono arrivati i gratta-e-vinci che hanno affiancato fino a sostituire di fatto le lotterie nazionali. Le scommesse sportive hanno preso il posto del totocalcio, il superenalotto del lotto. E abbiamo dovuto assistere alla folle scelta di co-finanziare la ricostruzione dell’Aquila con una "nuova generazione" di slot, pensando di curare il tanto dolore prodotto dal terremoto con altrettanto dolore dei poveri.

Dietro l’invasione dell’azzardo c’è, però e soprattutto, l’atteggiamento miope e immorale di uno Stato che ha deciso di appaltare e regolare la gestione dell’azzardo non attraverso enti pubblici o realtà senza scopo di lucro, ma affidandola a imprese multinazionali private che, dovendo per loro natura intrinseca massimizzare i profitti, hanno iniziato a incentivare i cosiddetti "giochi", a inventare sempre nuove forme di azzardo, a costruire slot machine razionalmente pensate per adescare e produrre dipendenza. E così, per la prima volta nella storia, siamo stati capaci di compiere l’assurdità più grande: consegnare la gestione di un ambito di forte fragilità a imprese for-profit, che sono tanto più felici quanto più aumenta la dipendenza dei "clienti", essendo il malato patologico d’azzardo il cliente perfetto, fonte di profitti sicuri e crescenti. Se questa è la logica, c’è da chiedersi quando affideremo alle imprese del narco-traffico la gestione delle comunità di recupero di tossicodipendenti…

La domanda davvero cruciale è però un’altra: nel vuoto gravissimo delle istituzioni, dove sono i cittadini? Che fine hanno fatto le associazioni di genitori? Ci si può accontentare di farisaiche campagne per il "gioco responsabile" (dove il termine azzardo non compare neanche per sbaglio)? Perché quando in un quartiere viene aperta una nuova "sala giochi" le famiglie non iniziano una protesta a oltranza, addirittura uno sciopero della fame collettivo? Chi difende e lotta oggi per questi poveri? La Chiesa italiana, con lo stesso presidente della Cei, cardinale Bagnasco, ha parlato forte e chiaro in diverse occasioni. Il movimento SlotMob, che germina dal basso, continua a coinvolgere cittadini e amministratori locali e ieri a Foligno, 66° città della serie, è tornato a "premiare" gli esercizi «liberi dalle slot». Ma è ancora troppo poco, anche perché parallelamente all’azione di una parte importante della Chiesa e della società civile, ci sono altre realtà (civili ed ecclesiali) che mostrano ambiguità e incoerenze.

C’è, infatti, tutto un non-profit, laico e cattolico che accetta denari dalle aziende dell’azzardo. Lottomatica, Sisal, Snai e altre imprese della confindustriale Sistema Gioco Italia finanziano attività di diverse associazioni a finalità sociale. I produttori di dipendenze mettono a libro paga le "buone" organizzazioni del non-profit perché si occupino dei malati da loro generati: Erode che finanzia asili nido. Una logica che sembra emergere purtroppo anche dall’accordo siglato ieri da Sistema Gioco Italia, che l’ha annunciato con trionfante soddisfazione, e da don Armando Zappolini, presidente del Cnca e referente della Campagna "Mettiamoci in gioco" (realtà a cui partecipano associazioni e movimenti di diversa ispirazione, sindacati e l’Associazione dei Comuni italiani). Un’intesa per un serrato «dialogo» addirittura basato sulla cancellazione ideologica del termine "azzardo" dal lessico dei dialoganti. Zappolini ha dichiarato ad "Avvenire" che si tratta soltanto di un tentativo di saggiare seriamente le intenzioni degli imprenditori del settore. Sulla base dei precedenti, da saggiare c’è ben poco... È sin d’ora certo, invece, che certe ambigue compiacenze sono molto gravi, perché realizzano collusioni con quelle che continuano a dimostrarsi – in termini cristiani – vere e proprie «strutture di peccato». Per questo nessuno può chiudere la bocca al movimento di contrasto all’azzardo e nessuno può illudersi di frenarlo con l’invito a una partita a dadi.

I dadi sono presenti sulla scena della Passione, e sono dalla parte della morte e dei carnefici, non da quella di Cristo e della vita. Oggi l’azzardo continua ad accompagnare la passione di tante, troppe, persone e famiglie. Fino a quando?

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Editoriali - La piaga dell’azzardo, le sue conseguenze, una strana intesa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/10/2014

Slot machineLe dimensioni e la gravità dell’azzardo in Italia non possono più lasciarci indifferenti. L’azzardo distrugge la nostra economia, i nostri anziani, i nostri poveri, sta rubando l’anima del nostro Paese. Persino Poste Italiane offre ormai sistematicamente gratta-e-vinci ai clienti, fatto gravissimo in sé, ma reso ancora più vergognoso dalla presenza in quegli uffici di moltissimi pensionati, le prime vittime di questa peste antica e nuova. Triste approdo per un’azienda preziosa, nata per stare dalla parte della gente, che ci ha portato a casa le lettere d’amore, degli amici emigranti per fame di lavoro, dei figli al fronte... Analogo spettacolo d’inciviltà lo ritroviamo in troppe aree di sosta organizzate delle nostre autostrade, dove – mentre danno il resto del caffè o incassano il dovuto per il carburante – ci offrono anche i "grattini".

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Le lobby non riusciranno a cucirci la bocca

Le lobby non riusciranno a cucirci la bocca

Editoriali - La piaga dell’azzardo, le sue conseguenze, una strana intesa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 17/10/2014 Le dimensioni e la gravità dell’azzardo in Italia non possono più lasciarci indifferenti. L’azzardo distrugge la nostra economia, i nostri anziani, i nostri poveri, sta ...
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Intervista alla filosofa della politica canadese Jennifer Nedelsky

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 4/10/2014

Icare 300 ridLa filosofa della politica Jennifer Nedelsky, canadese, docente all’Università di Toronto, è una delle voci più innovative nel dibattito sui temi della cura, dei diritti e delle relazioni sociali, ed è convinta che nella nostra epoca ci sia una grande priorità che, invece e purtroppo, resta molto sullo sfondo della vita delle democrazie: il profondo ripensamento del rapporto tra lavoro e cura, e quindi tra uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri. Un tema essenziale in un mondo con sempre più vecchi e con vecchi che, grazie a Dio, vivono sempre di più. Senza una svolta collettiva e seria nella cultura della cura in rapporto alla cultura del lavoro, è la democrazia e l’uguaglianza tra le persone che vengono sostanzialmente negate. La conosco da qualche anno (per questo nel colloquio che segue ho tradotto l’inglese "you" con "tu") e l’ho incontrata in Italia all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (Firenze). Le ho fatto alcune domande su temi che credo dovrebbero essere posti, oggi, al centro dell’agenda politica e civile del nostro Paese.

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Perché, secondo te, c’è qualcosa di sbagliato nell’acquistare servizi di cura sul mercato, nell’usare la moneta perché persone più ricche possano "comprare" assistenza da persone più povere? In fondo il positivo del mercato è proprio l’incontro tra persone diverse con "beni" diversi che possono scambiare per un mutuo vantaggio.

«Io non sono contraria in assoluto al "mercato della cura". Il mio sistema permetterebbe di comprare una certa quota di cura, perché nella mia visione le persone, per esempio le donne, avrebbero più tempo libero per i loro figli e anche per lavorare. La mia proposta è che ogni persona debba donare tempo per la cura di se stessi e degli altri. Ciò che differenzia il mio approccio da altri (penso a chi propone un salario per le casalinghe) è che vorrei che tutti i cittadini adulti (uomini e donne, di ogni ceto e classe sociale) si dedicassero ad attività di cura gratuite (cioè non retribuite), vorrei che si occupassero della cura di se stessi invece di "comprare" sul mercato qualcuno che lo faccia per loro, e vorrei che si occupassero anche della cura della propria famiglia, dei propri genitori, e anche delle proprie comunità di appartenenza. Almeno per 12 ore alla settimana».

Non dimentichiamo, poi, che dietro al "mercato della cura" c’è anche una questione di potere tra persone e regioni del mondo, dove chi è più ricco delega lavori che non ama fare ai più poveri. Le democrazie hanno lottano per secoli per ridurre o eliminare la possibilità di pochi potenti di disporre delle persone povere: oggi stiamo reintroducendo qualcosa di simile, in un "neo-feudalesimo" dove il denaro ha preso il posto del sangue blu, svolgendo la stessa funzione di dominio sulle persone. Torniamo alle "tue" ore di cura: le 12 ore sarebbe spese in famiglia, ma, mi pare di capire, anche fuori di casa.

«Sì, penso e parlo di qualsiasi tipo di cura. Se in un dato momento della tua vita hai importanti responsabilità (verso bambini, genitori anziani…) magari in quegli anni la tua cura sarà donata esclusivamente (o quasi) nell’ambito della famiglia. Ma quando questi obblighi finiscono, sei libero di occuparti di cura all’interno del cerchio più largo della comunità di cui fai parte».

Vorresti che questa "cura per tutti" diventasse obbligatoria?

«Ogni norma è obbligatoria, anche se le forme di enforcement, di applicazione, variano in base al tipo di norma. Ciò che ritengo molto importante è che la norma che io propongo ("cura part-time per tutti e lavoro part-time per tutti") non sia imposta dall’alto dallo Stato e dalla sua legge, ma diventi efficace in seguito ai potenti meccanismi di stima e di biasimo sociale. Faccio un esempio, e non lo scelgo a caso: a causa delle norme sociali oggi vigenti a proposito del rapporto uomo-donna, le donne fanno un enorme quantità di lavoro non pagato dentro casa, e questo solo a causa di norme sociali molto efficaci e fondamentali nella nostra vita. Questo dimostra che tutte le norme "obbligano" non solo quelle di legge. Faccio un altro esempio: se oggi un uomo sulla trentina partecipa a un party e dice che non ha mai lavorato né intende cercarsi un lavoro, afferma qualcosa che raccoglie un forte biasimo sociale, mentre solo uno o due secoli fa una tale condizione sociale era segno di nobiltà e di stima (e invidia) sociale. Io desidero un mondo dove se sei una persona (uomo o donna) e partecipi a un party e nel presentarti dici "Non ho mai svolto lavori di cura né per me né per gli altri", finisci semplicemente per vergognarti perché vieni biasimato dagli altri. E lo stesso dovrebbe accaderti se dici: "Non ho tempo per cucinare, per stirare né per occuparmi dei miei genitori né della mia comunità perché ho un lavoro troppo importante che mi occupa totalmente". Dovremmo presto arrivare a dire che queste vite di "solo lavoro e niente cura" sono vite socialmente immature, da non meritare la nostra stima. E quindi superarle come abbiamo superato l’idea di nobiltà associata alla rendita e al non-lavoro».

Mi pare evidente che un tale cambiamento culturale deve partire non solo dalla famiglia, ma anche dalla scuola.

«Sì, sto riflettendo molto sulla scuola. Sono convinta, per esempio che, prima di laurearsi, un/a giovane dovrebbe essere capace di pianificare il menu settimanale, conoscere i suoi costi, sapere dove fare le spese e come cucinare le merci che compra. Ogni persona adulta dovrebbe saper fare queste cose, e non affidarle né soltanto al mercato né soltanto alle donne, anche perché nessuno ha il diritto di pensare che ci siano altri che possano fare queste cose al suo posto».

Nei tuoi libri tu proponi alcuni importanti cambiamenti nel posto di lavoro.

«Certamente. Io penso che si siano due principali aspetti profondamente intrecciati. Il primo riguarda l’uguaglianza tra i sessi. Noi stiamo vivendo in una fase di grande stress delle famiglie. Ma c’è qualcosa che non è sottolineato abbastanza: i policy makers [potremmo tradurre "gli interlocutori istituzionali del cittadino", ndr] sono, in genere, persone che non hanno fatto né fanno lavori di cura. Sono in genere ignoranti…».

…viene da dire perché sono ricchi o perché sono maschi, o entrambi.

«…sono ignoranti su queste dimensioni fondamentali della vita umana. Così fissano le politiche di cura e di welfare senza averne esperienza quotidiana. Allora dobbiamo eliminare o ridurre il "gap" tra chi vive concretamente la cura e chi legifera su di essa, e quindi riaggiustare sia i luoghi di lavoro sia le norme attorno alla cura. Per quanto riguarda il lavoro, io vorrei che nessuno lavorasse per più di trenta ore alla settimana. E per la cura, che nessun adulto facesse meno di 12 ore di cura la settimana. Tutti devono donare cura, e nessuno deve stare a casa disoccupato, e tutti devono avere un lavoro pagato, che anche se lavoro part-time deve significare "buon" lavoro (tutti i diritti, salari appropriati, ecc.). Per questo l’espressione "part-time" va rivista, non deve essere intesa come la si intende oggi, ma come un nuovo modo di vivere il lavoro, un nuovo "lavoro full time" per tutti, insieme alla cura. Ma, lo ripeto, io credo in un cambiamento culturale. Se tu dici a qualcuno: "Il mio lavoro di medico o di ingegnere è veramente importante e devo lavorare 80 ore la settimana", la gente dovrebbe dire: "Non sei un buon dottore né un buon ingegnere". Il troppo lavoro (e la non cura) dovrebbe passare dall’essere considerato un elemento di stima a essere visto come un fattore di biasimo».

È come dire che ci sarebbe bisogno di un cambiamento dell’idea di "stima sociale", che dovrebbe diventare un concetto molto più ampio della stima professionale. Dovremmo stimare lavoratori che sono anche persone capaci di fare altro oltre al lavoro, in particolare di prendersi cura di sé e degli altri. Condivido in pieno. Ma non credi che ci siano dei lavori che per natura richiedono molto impegno e molte ore di lavoro per raggiungere l’eccellenza (medicina, scienza, politica, sacerdoti, sport …)?

«Il mio sistema consente di poter sviluppare l’eccellenza, assolutamente. Se sei uno scienziato e stai conducendo un esperimento complesso, puoi e devi lavorare anche 12 ore in un giorno e 90 in una settimana. Ci sono molti lavori che richiedono periodi molto intensi. Ma dopo devi recuperare, e prendere giorni liberi. Le mie trenta ore sono una media indicativa di lungo periodo. Ma nessuno deve poter dire: "Il mio lavoro è molto importante, e qualcun altro deve lavare i miei calzini"».

La tua è dunque una critica all’attuale capitalismo?

«Sì e no. Io vorrei che il mio sistema fosse applicato subito, non solo in una ipotetica società diversa. Sono certamente preoccupata con il nostro capitalismo finanziario, soprattutto per la sua ineguaglianza. Pensiamo al gap crescente tra i salari nelle nostre grandi imprese, un fallimento economico, ma anche politico e morale. Non è stato sempre così. Il capitalismo ha conosciuto salari molto più bassi dei top-manager, e c’era più democrazia. Quindi introducendo 12 ore la settimana gratuite per tutti, sarebbe anche un’efficace via per aumentare la democrazia e l’uguaglianza vera tra le persone.
Ma dobbiamo essere coscienti che il nostro capitalismo sta andando oggi nella direzione opposta: negli Usa le ore di lavoro settimanali sono ormai 47-48 in media. Io vorrei un cambiamento culturale nella famiglia, nelle imprese, nella politica. Ma subito, cominciando ora a educarci a una diversa idea di eccellenza, dove l’eccellenza si allarghi alla nostra capacità di amare, di prenderci cura degli altri. Invece di dire: "Sei un dottore eccellente", iniziare a dire: "Sei una persona eccellente, perché oltre a lavorare ti occupi di te stesso e della tua comunità". Eccellenza nella vita, e non solo nel lavoro.»

È come se tu ci invitassi a cercare una nuova fioritura umana "relazionale".

«Sì, è una nuova idea di "successo" o di "fioritura umana" quella di cui abbiamo bisogno, dove il lavoro e il denaro siano ridimensionati, e i criteri di successo siano molti. Ma non voglio abbandonare il lavoro: io amo il mio lavoro, e spero che sempre più persone possano lavorare seguendo la propria vocazione, e, insieme, avere tempo per fare le tante altre cose che amano».

 

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Intervista alla filosofa della politica canadese Jennifer Nedelsky

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 4/10/2014

Icare 300 ridLa filosofa della politica Jennifer Nedelsky, canadese, docente all’Università di Toronto, è una delle voci più innovative nel dibattito sui temi della cura, dei diritti e delle relazioni sociali, ed è convinta che nella nostra epoca ci sia una grande priorità che, invece e purtroppo, resta molto sullo sfondo della vita delle democrazie: il profondo ripensamento del rapporto tra lavoro e cura, e quindi tra uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri. Un tema essenziale in un mondo con sempre più vecchi e con vecchi che, grazie a Dio, vivono sempre di più. Senza una svolta collettiva e seria nella cultura della cura in rapporto alla cultura del lavoro, è la democrazia e l’uguaglianza tra le persone che vengono sostanzialmente negate. La conosco da qualche anno (per questo nel colloquio che segue ho tradotto l’inglese "you" con "tu") e l’ho incontrata in Italia all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (Firenze). Le ho fatto alcune domande su temi che credo dovrebbero essere posti, oggi, al centro dell’agenda politica e civile del nostro Paese.

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I care, il segreto del successo

I care, il segreto del successo

Intervista alla filosofa della politica canadese Jennifer Nedelsky di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 4/10/2014 La filosofa della politica Jennifer Nedelsky, canadese, docente all’Università di Toronto, è una delle voci più innovative nel dibattito sui temi della cura, dei diritti e delle...
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Commenti - Ciò che più serve alla Scuola italiana

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/09/2014

Interrogazione a scuolaIl nostro sistema scuola soffre molto se confrontato con agli altri Paesi economicamente più avanzati, ma nel suo insieme sta progressivamente migliorando. Sono queste le due coordinate dell’analisi che emerge dal rapporto OCSE, “Uno sguardo sulla scuola 2014”, reso noto ieri. E deve essere all’interno di queste coordinate che deve inserirsi la necessaria riforma della scuola annunciata dal nostro Governo.

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Alcune cose emerse dai dati le sapevamo già: che siamo all’interno dei paesi OCSE tra i peggiori per abbandono scolastico, per l’occupazione dei giovani al termine del loro percorso formativo, e per gli investimenti nell’istruzione. Altre le immaginavamo, come la diminuzione, tra il 2008 e il 2012, dell’12% della spesa pubblica per l’istruzione, che passata dal 9.4% all’8.6; o che le retribuzioni degli insegnanti con 15 anni di esperienza sono diminuite del 4,5% tra il 2005 e il 2012 per tutti i livelli d’insegnamento. Altri dati ce li aspettavamo di meno.Tra questi che il 62% dei nuovi laureati è donna, rispetto a una percentuale di laureate del 56% nel 2000, e che in Italia nel 2011 le donne sono il 40% dei laureati in ingegneria, a fronte del 22% in Germania e del 23% in Gran Bretagna. Altro dato positivo è che quota dei 25-34enni non diplomati è diminuita, tra il 2000 e il 2012, dal 41 al 28%, e quella dei laureati è raddoppiata (22%).

Guardando poi oltre i dati, o facendo qualche piccolo calcolo, scopriamo che nonostante i forti tagli alla spesa per la scuola, dare la possibilità ad un bambino di raggiungere dopo 13 anni il  diploma costa al nostro Stato 91.532,38 euro (32.780,77 per gli anni della scuola primaria, 19.987,42 per quella media, e 38.764,19 per la scuola superiore). Se a questa cifra aggiungiamo poi la scuola materna, l’università e la spesa che le famiglie sostengono per far studiare un figlio, arriveremmo vicino ai 200.000 euro – per fermarci soltanto agli aspetti monetari di questi costi-investimenti. È bene ricordare ogni tanto queste cifre, che ci dicono innanzitutto che un/a giovane è un patrimonio della nostra società, un’alta forma di bene comune, a cui tutta la comunità politica di un paese contribuisce (non fosse altro con le tasse). Cifre che poi ci dicono, almeno in parte, quante risorse pubbliche vanno sprecate quando i  ragazzi e i giovani abbondonano gli studi o vanno a lavorare all’estero (anche se ogni figlio è sempre figlio del mondo). L’abbandono scolastico, dove l’Italia mostra dati molto preoccupanti soprattutto nelle regioni del sud, non è solo una piaga sociale, un handicap per giovani, famiglie, comunità, ma è anche uno gettar via parti consistenti di ricchezze nazionali, patrimoni umani ed economici.

Questo rapporto OCSE, quindi, arriva in un momento molto propizio per offrire importanti elementi alla Riforma della scuola appena avviata. Perché ci può dire o suggerire molte cose. La priorità della scuola italiana sono le strutture. Gli studenti, gli insegnanti, il personale amministrativo (troppo trascurato anche dai dibattiti), lavorerebbero molto meglio e con migliori risultati se potessero lavorare in ambienti con migliori strutture, infrastrutture, materiali, risorse. E’ strutturale il primo ‘incentivo’ di cui ha bisogno la nostra scuola, un incentivo comune che non aumenta il ‘frame’ competitivo dentro le nostre scuole ma favorisce la cooperazione tra tutti. La scuola non ha bisogno di una èlite di professori incentivati con denaro (pubblico) e una media che così finisce per demotivarsi ancora di più (lo dicono molti studi sperimentali su cooperazione e competizione nei luoghi di lavoro), ma di investimenti strutturali che mettano gli insegnanti e tutti gli attori del sistema scuola nelle condizioni di poter lavorare bene e insieme (non dimentichiamo mai che la scuola è il ‘gioco cooperativo’ per eccellenza). È così che una docente o un impiegato danno il meglio di sé. L’Italia non ha docenti né personale amministrativo peggiore o più pigro degli altri Paesi (i dati sulla conoscenza matematica degli adulti italiani sono, ad esempio, molto buoni). La scuola italiana ha bisogno di investimenti che mettano gli ‘abitanti’ della scuola nelle condizioni oggettive e strutturali di poter lavorare veramente, e così consentire ai docenti di poter fare bene quel mestiere che hanno scelto quasi sempre seguendo una vocazione e una passione, e che rischiano di perdere anche per la disistima nei loro confronti, che una riforma che parla molto di incentivi individuali finisce, magari senza volerlo, per alimentare. Il primo atto della riforma della scuola non può che partire dalla stima e dalla dignità dei docenti che abbiamo. E poi investire e lavorare insieme.

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Commenti - Ciò che più serve alla Scuola italiana

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/09/2014

Interrogazione a scuolaIl nostro sistema scuola soffre molto se confrontato con agli altri Paesi economicamente più avanzati, ma nel suo insieme sta progressivamente migliorando. Sono queste le due coordinate dell’analisi che emerge dal rapporto OCSE, “Uno sguardo sulla scuola 2014”, reso noto ieri. E deve essere all’interno di queste coordinate che deve inserirsi la necessaria riforma della scuola annunciata dal nostro Governo.

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L’incentivo strutturale

L’incentivo strutturale

Commenti - Ciò che più serve alla Scuola italiana di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 10/09/2014 Il nostro sistema scuola soffre molto se confrontato con agli altri Paesi economicamente più avanzati, ma nel suo insieme sta progressivamente migliorando. Sono queste le due coordinate dell’an...
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Commenti - Vecchi mali accresciuti dalla crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/07/2014

Usura rid«In parallelo con l’intensificarsi della crisi economica è stata osservata una maggiore diffusione del fenomeno dell’usura, testimoniata da segnalazioni di operazioni sospette raddoppiate nel 2013 rispetto all’anno precedente». Ci sono documenti, come questo appena pubblicato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, che ogni cittadino responsabile e maturo dovrebbe leggere, meditare, e quindi agire di conseguenza. L’usura è una malattia tipica di ogni società monetaria, poiché è il fenomeno visibile dei rapporti di forza e di potere che si nascondono sotto l’apparente neutralità della moneta. L’esistenza della moneta produce molti benefici, ma genera anche alti costi, che crescono di intensità e rilevanza con l’estendersi dell’area coperta dalla moneta all’interno della società.

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Quindi l’usura cresce insieme alla commercializzazione delle relazioni sociali, e, come ci dice anche la Banca d’Italia, cresce nei momenti di crisi, quando aumenta la domanda di moneta di chi si trova ai margini o al di fuori dei circuiti ufficiali del credito. Nessun sistema sociale ha prodotto tanta usura quanto il nostro capitalismo finanziario, dove potendo con la moneta comprare quasi tutto, la moneta diventa quasi tutto, e si è disposti a fare quasi tutto pur di averla. L’usura è allora un indicatore eloquente e infallibile di quante "scorie" il nostro capitalismo produce e non riesce a riciclare, ma anche dell’incapacità delle banche e dei circuiti legali e buoni del credito di rispondere alla domanda di moneta che proviene dalle periferie dell’impero (che quindi si orienta "altrove"). Ma è anche un segnale di quanto dolore si nasconde dietro le crisi di tante imprese e le promesse ingannatrici di lusso facile per i poveri.

Sarebbe interessante ed estremamente utile "aprire" questi dati e leggere le storie che si celano al di sotto di essi. Vi troveremmo una umanità molto varia: penultime spiagge di imprenditori in crisi, troppe persone fragili cadute nel giro scellerato del gioco d’azzardo, dei gratta-e-vinci, e nelle tante trappole di quel credito facile offerto da ambigue agenzie che rovinano le famiglie più vulnerabili promettendo consumi insostenibili – è la corruzione legale, non solo quella illegale, la grande malattia del nostro sistema.

Non dobbiamo, infatti, dimenticare che le vittime dell’usura sono i poveri: lo sono sempre stati, ma oggi lo sono di più. Per questa ragione risulta particolarmente utile rileggere un’originale traduzione del noto passaggio del Vangelo di Luca (6,35), scritta da Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di economia civile: «Prestate senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza metterli in disperazione (mutuum date, neminem desperare facientes)" (1766). Genovesi, erede e innovatore della grande visione classica della moneta, ammetteva in genere prestito a interesse, ma poneva una chiara eccezione: «posto che non sieno poveri». In realtà, anche se Genovesi non poteva immaginarlo, il capitalismo è diventato nei secoli un sistema che presta a usura soprattutto, se non soltanto, ai poveri, mettendoli sempre più in disperazione. Ai poveri di denaro, ma ancor prima ai poveri di relazioni, che vengono catturati e poi stritolati dalla piovra degli usurai dopo che sono stati isolati: finché ci sono persone amiche che ci ascoltano, consigliano, proteggono, non finiamo nelle maglie dell’usura. L’usura prima isola, poi fa sentire con le spalle al muro e senza vie di uscita, e infine agisce distruggendo.

Che fare? La cura dell’usura, di questa malattia dell’economia monetaria, non è mai venuta dalle banche private e dalla loro ricerca di rendite. Alcune cure sono arrivate dalle istituzioni che, sotto la spinta dei cittadini, hanno scritto e migliorato le leggi anti-usura; ma, soprattutto, le cure radicali sono arrivate da banche diverse, da istituzioni finanziarie nate con finalità più grandi delle rendite e dei profitti. La tradizione sociale e solidale della banca è fiorita quando nella seconda metà del Quattrocento, in piena crisi sociale dovuta anche al boom dei mercati e dell’usura, i francescani minori (Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano, Marco da Montegallo …) inventarono i Monti di Pietà, una delle più grandi innovazioni finanziarie ed economiche dell’Europa. E lo fecero come espressione di charitas, di amore civile per la loro gente che chiedeva pane e buon credito. Di fronte a una grave crisi, quei cristiani e amici dell’uomo non scrissero solo trattati né fecero conferenze: furono capaci di generare opere, istituzioni, banche. Se oggi vogliamo ridurre l’usura dobbiamo continuare a agire sulle istituzioni e chiedere, come cittadini, leggi migliori e dalla parte dei più fragili. Ma, soprattutto, le associazioni e i movimenti della società civile dovrebbero far nascere nuove istituzioni finanziarie, fondi di micro-finanza, nuove banche.

Il nostro sistema economico e finanziario non è nelle condizioni per auto-rigenerarsi, lo vediamo tutti i giorni. Lo stesso rapporto Banca Italia ci dice che le segnalazioni per riciclaggio di denaro sono aumentate di sei volte dal 2007 a oggi. Troppe imprese fondate da ex-artigiani praticanti di virtù civili sono passate in mano a speculatori, e tante banche tradizionali ormai rispondono a manager messi lì da una proprietà che mira alla massimizzazioni di rendite, guidati da algoritmi troppo lontani dalla gente. C’è un grande e crescente bisogno di opere di bene comune. Segnali positivi ci sono, ma non riusciamo ancora a interpretarli, e non siamo capaci di fare di queste voci un coro.

Senza nuove opere di bene comune continueremo a commentare i rapporti sull’usura e sulla corruzione, a deprimerci, ad aspettare passivi e co-responsabili il prossimo triste rapporto, o a illuderci per 'riprese' promesse dai nuovi indovini. E i poveri continueranno a essere messi in disperazione.

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Commenti - Vecchi mali accresciuti dalla crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/07/2014

Usura rid«In parallelo con l’intensificarsi della crisi economica è stata osservata una maggiore diffusione del fenomeno dell’usura, testimoniata da segnalazioni di operazioni sospette raddoppiate nel 2013 rispetto all’anno precedente». Ci sono documenti, come questo appena pubblicato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, che ogni cittadino responsabile e maturo dovrebbe leggere, meditare, e quindi agire di conseguenza. L’usura è una malattia tipica di ogni società monetaria, poiché è il fenomeno visibile dei rapporti di forza e di potere che si nascondono sotto l’apparente neutralità della moneta. L’esistenza della moneta produce molti benefici, ma genera anche alti costi, che crescono di intensità e rilevanza con l’estendersi dell’area coperta dalla moneta all’interno della società.

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Necessaria è la cura

Necessaria è la cura

Commenti - Vecchi mali accresciuti dalla crisi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 10/07/2014 «In parallelo con l’intensificarsi della crisi economica è stata osservata una maggiore diffusione del fenomeno dell’usura, testimoniata da segnalazioni di operazioni sospette raddoppiate nel 2013...
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Commenti - La Rai si liberi e ci liberi dall’azzardo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire del 25/06/2014

Rai spot Mondiali ridQuando un Paese e una cultura sono in crisi – e qui in Italia lo siamo – emette contemporaneamente molti segnali, tutti concordi. Magari perde malamente anche la possibilità di continuare a giocare un mondiale di calcio e ne incolpa soprattutto l’arbitro. Ma, soprattutto, perde entusiasmo e speranza, perde voglia di futuro, non crea e distrugge posti di lavoro "buoni" e ne aumenta di "cattivi", perde fiducia nelle istituzioni, aumenta la corruzione a tutti i livelli, non genera bambini, ha paura della vecchiaia e della morte... Un segnale che ha accompagnato sempre quelle crisi che si presentano principalmente come crisi etiche, è l’aumento dei maghi e del gioco malato, cioè dell’azzardo. Il ciclo economico-civile di un popolo è accompagnato – con segno inverso – dal ciclo dei culti alla dea fortuna.

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La nostra epoca non fa eccezione, ed è proprio il segnale del boom dell’azzardo che ci dice con una particolare forza che la "crisi" che stiamo vivendo è prima di tutto una crisi etica. Perché dietro ogni ricorso alla dea fortuna c’è un rinnegamento della virtù, e della felicitas publica, che la cultura greco-romana e l’umanesimo cristiano hanno sempre legato alle virtù e alla loro coltivazione costosa. Virtù batte fortuna: con questa grande idea e prassi siamo usciti dalle ere delle superstizioni ed entrati in quella nella civiltà.

L’Italia in crisi è la terza economia al mondo come giro d’affari legati all’azzardo. È un dato terribile, che non dovrebbe farci dormire se pensiamo ai tanti effetti, tutti negativi, di questa classifica. Mentre le multinazionali dell’azzardo e delle scommesse sportive – sono le stesse, autentici mercanti di poveri e di fragilità – non si danno e non ci danno tregua per aumentare i loro enormi profitti, c’è tutta una società civile che lavora, lotta, parla, scrive, agisce, educa, previene, dando vita a una vera e propria resistenza civile. Accanto a questa Italia civile e virtuosa che lavora, non si rassegna e – a ragione – s’indigna, ce n’è però un’altra, molto più potente e con molti maggiori mezzi, che distrugge di notte quanto quella prima Italia costruisce di giorno.

I signori dell’azzardo sono tra questi. E accanto alle forze che alimentano la cultura del "gioco malato" – è triste riconoscerlo, e spiace doverlo sottolineare ancora una volta – c’è purtroppo anche la Rai, che in particolar modo durante questi mondiali ha venduto ingenti spazi pubblicitari a società di scommesse e di giochi d’azzardo. E così mentre milioni di giovani, e moltissimi minori, guardano appassionati lo sport dei loro sogni (e della loro delusione di tifosi), il servizio pubblico radiotelevisivo che vive anche grazie al nostro canone, commette molti errori allo stesso tempo, e tutti gravi. Innanzitutto, associa lo sport alle scommesse e all’azzardo, che sono invece la sua malattia. Lo sport è faccenda di disciplina, di rigore, di impegno, di virtù insomma (non dimentichiamo che la parola greca aretè, che noi traduciamo "virtù", significava eccellenza), dove i risultati arrivano con la fatica e con il merito: l’azzardo è l’esatto opposto di questo. Poi, rinnega la sua funzione di servizio pubblico, quando incita al consumo di un "male" economico, che produce immensi costi sociali e umani che aumentano il nostro debito pubblico. Mette, quindi, sullo stesso piano i prodotti delle aziende che fanno bella l’Italia e il mondo con la loro qualità e le imprese dell’azzardo che fanno profitti sulla pelle delle persone fragili. E infine – ma potremo continuare – non sta dalla parte delle famiglie che soffrono sempre più per la diffusione crescente di questa malattia perniciosa e subdola.

La nostra età sarà ricordata anche per l’invenzione dei gratta-e-vinci e delle slot machine, ma, soprattutto, per aver affidato la gestione del cinico affare di cui essi sono parte a delle multinazionali "for-profit". Una scelta scellerata, analoga a quella di chi decidesse di affidare la gestione delle comunità di recupero dei tossicodipendenti a produttori e monopolisti della droga, o di far curare i dipendenti dall’alcol a strutture guidate da aziende di superalcolici. Fino a pochi decenni fa i "monti dei pegni" erano gestiti da religiosi (in particolar modo dai francescani), che non facevano profitti con chi, disperato, vendeva l’oro di famiglia. Un Parlamento e un Governo veramente dalla parte della famiglie, oggi, dovrebbero imporre che le società che gestiscono l’azzardo siano senza scopo di lucro, gestite da chi accompagna con pietas queste persone in difficoltà, e non ne incentivano invece i "consumi", facendo soldi (e tantissimi) sulla loro rovina umana ed economica.

Ma non si tratta solo di azzardo patologico: ogni euro inserito in una macchinetta o speso in un gratta-e-vinci o scommesso online alimenta una economia sbagliata, e – non dimentichiamolo – viene sottratto alla buona economia, che ne avrebbe tanto bisogno.

Venerdì prossimo molti di coloro che partecipano al movimento SlotMob andranno a Viale Mazzini e busseranno alle porte della Rai per consegnare in modo festoso e serio una lettera ai dirigenti del servizio pubblico radiotelevisivo. Chiederanno, proprio come torniamo a fare ora da queste colonne, da cittadini, una svolta nella politica commerciale della Rai, perché quella che permette certe scelte non è degna dell’Italia, e non è degna della principale "azienda culturale" del Paese, nostro prezioso bene comune. La Rai che abbiamo conosciuto, che a tratti ritroviamo e che sempre amiamo, quella di cui c’è bisogno, non è la Rai che affitta se stessa ai signori dell’azzardo.

 

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Commenti - La Rai si liberi e ci liberi dall’azzardo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire del 25/06/2014

Rai spot Mondiali ridQuando un Paese e una cultura sono in crisi – e qui in Italia lo siamo – emette contemporaneamente molti segnali, tutti concordi. Magari perde malamente anche la possibilità di continuare a giocare un mondiale di calcio e ne incolpa soprattutto l’arbitro. Ma, soprattutto, perde entusiasmo e speranza, perde voglia di futuro, non crea e distrugge posti di lavoro "buoni" e ne aumenta di "cattivi", perde fiducia nelle istituzioni, aumenta la corruzione a tutti i livelli, non genera bambini, ha paura della vecchiaia e della morte... Un segnale che ha accompagnato sempre quelle crisi che si presentano principalmente come crisi etiche, è l’aumento dei maghi e del gioco malato, cioè dell’azzardo. Il ciclo economico-civile di un popolo è accompagnato – con segno inverso – dal ciclo dei culti alla dea fortuna.

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Virtù batta fortuna

Virtù batta fortuna

Commenti - La Rai si liberi e ci liberi dall’azzardo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire del 25/06/2014 Quando un Paese e una cultura sono in crisi – e qui in Italia lo siamo – emette contemporaneamente molti segnali, tutti concordi. Magari perde malamente anche la possibilità di continuare a...