stdClass Object ( [id] => 7880 [title] => Fortezza (oltre la crisi) [alias] => fortezza-oltre-la-crisi [introtext] =>Commenti - Le virtù da ritrovare e vivere/4
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/09/2013
Se c’è una virtù particolarmente preziosa nei tempi delle crisi, questa è la fortezza. È la capacità di continuare a vivere e resistere nelle lunghe e dure avversità. Una forza spirituale e morale alla quale le generazioni passate attribuivano un’enorme importanza, al punto di chiamarla virtù cardinale.
La fortezza consente di non lasciarsi andare quando ci sarebbero tutte le condizioni per farlo.
[fulltext] =>È la fortezza che ci fa resistere nella ricerca della giustizia in contesti corrotti; che ci fa continuare a pagare le tasse quando troppi non lo fanno; a rispettare gli altri quando non si è rispettati; ad essere non violenti in ambienti violenti.
Che ci mantiene temperanti anche quando siamo immersi nell’intemperanza, che ci fa resistere per anni in un posto di lavoro sbagliato, che ci fa restare in famiglie e comunità anche quando tutti e tutto, tranne la nostra anima, ci dicono di andarcene.
Essa è una virtù accanto alle altre, ma, come e più delle altre virtù cardinali, è anche una dimensione o pre-condizione per poter vivere tutte le altre virtù quando si agisce in contesti difficili, e quando le condizioni difficili durano per molto tempo. È una virtù ancella di tutte le virtù, perché ci fa andare avanti in assenza di reciprocità. Per questo una bella parola che oggi racchiude molti dei significati della fortezza è resilienza, che dice anche la capacità che ha la persona di non mollare, di restare aggrappato alla parete, di non scivolare giù nei vari pendii di cui è fatta la vita personale e civile. Per questa ragione la fortezza è stata – ed è – la salvezza soprattutto dei poveri, che grazie a questa virtù riescono tante volte a compensare l’ingiusta mancanza di risorse, di diritti, di libertà, di rispetto, e a non morire. Li fa resistere durante le lunghe carestie, nelle interminabili assenze di mariti e figli emigrati o dispersi nelle tante guerre (esiste un rapporto speciale tra la fortezza e le donne). Dà ai tanti Edmond Dantès della storia e del presente, la forza di sperare anche quando rinchiusi in carceri per decenni solo perché poveri.
Pure la fortezza conosce la logica paradossale di ogni virtù. Ci sono, infatti, dei momenti decisivi della vita quando la fortezza deve sapersi tramutare in debolezza per essere veramente virtuosa. L'accettazione docile di una sventura, di una malattia grave, di un fallimento, di una vedovanza, o la riconciliazione con quell’ultima tappa della vita quando qualcuno (o una voce dentro) ci dice che è giunta la nostra ora. La dignità e la forza morale in questi momenti di debolezza-virtuosa dipendono decisamente da quanta fortezza abbiamo saputo accumulare durante l’intera esistenza.
La fortezza è poi essenziale per resistere e vincere le tentazioni, una parola questa che è uscita dall’orizzonte delle nostre città perché troppo vera per essere capita dalla nostra inciviltà dei consumi e delle scommesse in finanza e nei giochi. E invece le tentazioni ci sono, e saperle riconoscere e superare significa non perdersi nella vita. È la fortezza che fa rifiutare donazioni da imprese immorali, che non fa vendere per speculare una buona impresa familiare che racchiude generazioni di amore e di dolore, che fa capaci di non assecondare un innamoramento sbagliato e ritornare, fedeli, a casa.
L’economia è un brano di vita, e per questo ha bisogno anche della fortezza perché sia vita buona. Ci sono però due ambiti nei quali la fortezza svolge un ruolo essenziale. Il primo riguarda direttamente la vita e la vocazione dell’imprenditore. Anche se tanta gente pensa – e purtroppo scrive anche – esattamente il contrario, l’economia di mercato non è un sistema che ricompensa regolarmente il merito né il talento, o che lo ricompensa meglio di altri sistemi (lo sport, le società scientifiche, la famiglia …). Nella dinamica di mercato non esiste un rapporto certo tra il comportamento virtuoso dell’imprenditore (innovazioni, lealtà, correttezza, legalità …) e il suo successo sul mercato. Questo rapporto spesso c’è, ma può non esserci. I risultati di un’impresa dipendono da innumerevoli circostanze, che possono mutare indipendentemente dal controllo e dal merito dell’imprenditore o dell’imprenditrice. E così può accadere che sforzi meritevoli restino senza ricompensa, e che il premio vada a chi ha meno merito o talento. La sventura può colpire – e ogni tanto colpisce – anche il giusto, anche il virtuoso imprenditore, soprattutto nei tempi della crisi. La coltivazione della virtù della fortezza lo può salvare, lo può aiutare a non arrendersi, e a rilanciare la corsa.
Il secondo ambito è invece tutto interno alle organizzazioni. Quando un’impresa attraversa periodi di vera crisi, soprattutto quelle che coinvolgono le motivazioni profonde delle persone, il suo superamento dipende dalla presenza in questi luoghi di un numero sufficiente di persone con una sufficiente resilienza. Se, infatti, non c’è qualcuno (almeno uno) che andando oltre la logica degli incentivi continua a resistere e a lottare senza badare ad orari e spreco di risorse, le crisi aziendali non si superano. L’arte del governo di un’impresa consiste in massima parte nel saper attrarre persone con alti valori di resilienza, nel non lasciarli andar via, e nel far sì che la resilienza-fortezza aumenti nel corso dell’esperienza lavorativa. La fortezza, infatti, ha bisogno di essere costantemente alimentata, perché se è vero che si impara ad essere forti praticando la fortezza, è ancor più vero che essendo una ‘virtù di durata’, la fortezza è particolarmente soggetta al rischio di esaurimento. Un segnale inequivocabile che la fortezza sta finendo (o è finita) è la comune frase: “non ne vale più la pena”, che dice il non riuscire più a vedere un valore nel travaglio della resistenza. È dunque molto importante non considerare mai la fortezza degli altri (né la nostra) come un tratto immodificabile o come uno stock, perché può appassire e anche morire se la persona non la coltiva (con la vita interiore, con la poesia, con la preghiera …), e se gli altri che la circondano non la rafforzano con espressioni di stima, di condivisione, di apprezzamento, di riconoscenza. Si riesce a resistere a lungo in condizioni di grande difficoltà se non si è soli, in compagnia della virtù degli altri e della propria interiorità abitata.
Infine, la fortezza è indispensabile per conservare la gioia, la letizia e l’allegrezza del vivere in condizione di perduranti difficoltà, malattie, tradimenti. Una delle cose più sublimi al mondo è l’esistenza di persone capaci di gioia vera in condizioni oggettive di grande avversità. Questo tipo di gioia-virtuosa è un inno alla vita, un bene comune che arricchisce tutti coloro che ne sono contagiati. Le qualità della fortezza necessarie per conservare la gioia non sono meno preziose e potenti di quelle che fanno sopportare le difficoltà e il dolore. È questa gioia il sacramento dell’autenticità di ogni virtù, una gioia fragile e forte, che rende il giogo delle lunghe avversità più leggero, persino soave.
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Le virtù da ritrovare e vivere/4
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/09/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/08/2013
Tra il ben-vivere, la buona economia e la virtù della prudenza c’è sempre stata una profonda amicizia. Ma ciò che è stato, ed è, veramente importante è sapere riconoscere la prudenza non virtuosa, e quell’imprudenza che può dirsi virtù.
L’aurora della modernità è stata attraversata dal dibattito sui meccanismi, per alcuni provvidenziali, per orientare al benessere sociale non solo le scarse virtù, ma anche e soprattutto gli abbondanti vizi delle persone reali, i vizi dell’<uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società> (Vico, “La scienza nuova”, 1744).
[fulltext] =>In questo contesto Adam Smith dimostrò, convincendo molti, che lo sviluppo e la ricchezza delle nazioni non nascevano dal vizio dell’avarizia né dalla passione triste dell’egoismo, ma dalla virtù cardinale della prudenza, <la cura dei beni, del rango e della reputazione dell’individuo> (Smith, “Teoria dei Sentimenti Morali”, 1759). È dunque prudente il buon padre (o madre) di famiglia che si prende cura del proprio patrimonio, ne fa manutenzione, lo fa crescere, che dona l’auto al figlio maggiorenne e gli dice: <Mi raccomando: abbine cura>. Tutto questo è senz’altro virtù, è bene individuale e bene comune. E se guardiamo nella nostra storia ci accorgiamo che la virtù della prudenza la ritroviamo alla radice della nostra civiltà contadina e artigiana, dove ci si educava al buon uso dei beni, alla manutenzione delle poche cose, e a far crescere prudentemente patrimoni, sogni e progetti di vita. Una storia che ci ricorda che i comportamenti viziosi contro la prudenza sono lo spreco, l’incuria, la stoltezza di chi sperpera i propri beni (o quelli dei genitori), e ci deve riportare alla mente che il nostro benessere dipende anche, e spesso soprattutto, dalla virtù dei nostri concittadini, da come e se il vicino di casa cura il proprio giardino e paga le tasse, dalla virtù dei clienti o da quelle della pubblica amministrazione.
Quel primo ottimismo illuminista della trasformazione delle prudenze degli individui in virtù pubblica, è durato poco – sebbene ancora qualcuno continui, ideologicamente o ingenuamente, ad invocarlo. Basta soltanto leggere i romanzi di Giovanni Verga per accorgerci che lo scenario era già radicalmente cambiato. I vizi privati lasciavano già troppi <vinti> lungo la <fiumana del progresso>, e la Provvidenza era diventata il barcone naufragato di Patron ‘Ntoni. Quella sperata, e coralmente invocata, economia di mercato armoniosa e mutuamente vantaggiosa stava infatti diventando il capitalismo. Le sue strutture di potere stavano ricreando nuove forme di feudalismo, nuove diseguaglianze, nuove rendite, nuovi nobili contraddistinti da un diverso, ma non meno efficace, sangue blu. In particolare, ci siamo accorti – e ci accorgiamo sempre di più – che i processi più importanti dell’economia si svolgono dentro le istituzioni, nelle organizzazioni (e tra queste lo Stato), nelle banche, nelle imprese, dove la prudenza e le virtù dei singoli non producono vita buona se si attuano all’interno di rapporti di potere asimmetrici che rafforzano le diseguaglianze di ogni tipo.
Ecco allora che lo scenario cambia radicalmente, e alla persona prudente non è soltanto chiesto di orientare secondo virtù la propria vita e quella della propria famiglia, ma di agire per far sì che cambino leggi, strutture, sistemi di governance delle imprese e dei tanti beni comuni. E così si inizia a scrivere un nuovo-antico capitolo morale di cruciale rilevanza: se una persona virtuosa vive dentro istituzioni viziose, per poter vivere veramente la virtù della prudenza deve saper agire anche in modo imprudente. Se vuole essere veramente virtuoso e prudente, deve saper mettere in secondo piano la cura di sé, dei propri interessi, dei propri patrimoni, persino dei propri affetti. Se chi vuole e deve denunciare manifeste ingiustizie e non-verità, di fronte a ricatti e ritorsioni “prudentemente” si tace, non vive quella dimensione della prudenza che chiamiamo virtù. Certo, qualche bravo filosofo potrebbe sostenere che dovremmo allargare il concetto di prudenza fino a farci rientrare un sé meta-individuale e anche i beni spirituali o persino ultraterreni. Personalmente preferisco invece pensare che per capire il valore e la logica delle virtù occorre prendere sul serio la loro natura paradossale. La virtù è veramente virtuosa quando muore e si apre a un “oltre” più grande, in un rapporto nuovo con le altre virtù e non si arrende alle pseudo-virtù del “politicamente corretto”. Così la prudenza è giusta quando è capace di farsi imprudente, la fortezza è prudente quando sa diventare debolezza mite, e ogni virtù si compie quando fiorisce in agape, dove regna una giustizia può portare a dare il salario giornaliero a chi, incolpevolmente, ha lavorato soltanto l’ultima ora. Fuori da questo orizzonte, il comportamento in sé prudente perde contatto dalla virtù, come chi parcheggia in seconda fila e, “prudentemente”, torce lo specchietto verso la portiera. Se, infatti, non prendiamo sul serio questo paradosso cruciale e (almeno per me) formidabile, la virtù finisce per trasformarsi nel più grande vizio, perché diventa esercizio egoistico teso alla perfezione individuale, dimenticando l’altro.
È l’agape il compimento di ogni azione morale, perché non è mai definita e compiuta all’interno di nessun orizzonte di legge, neanche di quella delle virtù, che l’agape chiama a trascendersi per diventare (paradossalmente) se stesse. Se oggi chi ha a che fare con le tante periferie morali e antropologiche del mondo non tocca e ogni tanto oltrepassa il confine della giustizia tracciato dalle leggi della città, non può essere veramente giusto. Se quando, quella notte, bussò Alì alla porta del mio amico parroco siciliano, questi si fosse prudentemente fermato sulla soglia della nostra giustizia e non lo avesse accolto nella sua casa (pensando alle conseguenze penali che avrebbe avuto, e che poi ebbe), non sarebbe stato veramente virtuoso. Una dinamica paradossale che conosce chi lavora nelle comunità di recupero, nei carceri minorili, e i tanti che continuano a rischiare carriera, beni, fatturati, posti di lavoro, fallimenti dell’impresa.
Non è chiesto a tutti in ogni momento di vivere questa dimensione paradossale della virtù. Ma se non rispondiamo quando l’appello arriva, compromettiamo la qualità etica e spirituale della nostra esistenza, perché non sono atti straordinari di pochi eroi, ma azioni di cui siamo tutti potenzialmente capaci. Questa virtù-oltre-la-virtù è il lievito che eleva il pane di una vita già virtuosa, e le dà la forza per spostare montagne. Gandhi non avrebbe liberato l’India se non fosse stato virtuosamente imprudente, né Francesco ci avrebbe insegnato la fraternità se prudentemente non avesse baciato il lebbroso, né tante donne e clochard sarebbero stati liberate e richiamati alla vita se non avessero incontrato sulla strada persone agapicamente imprudenti che hanno voluto e saputo abbracciarli, senza accontentarsi della solidarietà immune che sta riempiendo la nostra economia e, purtroppo, anche una parte del nostro non profit. Il territorio delle virtù – e quindi dell’umano – si estende e si umanizza ogni volta che qualcuno ha l’imprudenza di superare i confini assegnati alle virtù, pagando di persona, e quasi sempre senza sconti. Imprudenze benedette, che spingono avanti la civiltà, e rendono il mondo un luogo degno e bello in cui vivere.
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Le virtù da ritrovare e vivere/3
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/08/2013
Tra il ben-vivere, la buona economia e la virtù della prudenza c’è sempre stata una profonda amicizia. Ma ciò che è stato, ed è, veramente importante è sapere riconoscere la prudenza non virtuosa, e quell’imprudenza che può dirsi virtù.
L’aurora della modernità è stata attraversata dal dibattito sui meccanismi, per alcuni provvidenziali, per orientare al benessere sociale non solo le scarse virtù, ma anche e soprattutto gli abbondanti vizi delle persone reali, i vizi dell’<uomo qual è, per farne buoni usi nell’umana società> (Vico, “La scienza nuova”, 1744).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/08/2013
C’è un forte contrasto tra il profondo senso di giustizia che tutti, anche i malvagi, ci ritroviamo dentro, e il mondo che ci appare come uno spettacolo di generalizzata ingiustizia. <L’uomo nasce libero, ed è ovunque in catene> (J.J. Rousseau). Per molte ingiustizie i tribunali e gli avvocati non bastano, per alcune non servono, perché gli aspetti legali, commutativi e compensabili coprono solo una piccola parte del territorio della giustizia, la cui estensione coincide con quella dell’intera vita in comune.
[fulltext] =>Un modo sbagliato di rispondere alla domanda di giustizia è la tendenza, oggi in veloce aumento, a “giuridicizzare” l’intera vita sociale, codificando possibilmente ogni relazione interpersonale, trasformando tutti i rapporti umani in contratti.
Una tendenza-tentazione che invece di aumentare la giustizia sta bloccando scuole, condomini, ospedali in trappole di sfiducia reciproca, poiché molti rapporti umani si snaturano quando vengono contrattualizzati.
La grande lezione sulla giustizia dell’umanesimo europeo era invece diversa. Innanzitutto ha chiamato anche la giustizia virtù cardinale, dicendoci così che essa è prima di tutto il frutto di un esercizio continuo della persona. Prima di essere invocata come principio, la giustizia va praticata, vissuta, cercata, coltivata, come le altri grandi virtù dell’esistenza. La giustizia della città è generata dalla giustizia dei cittadini, come aveva simbolicamente espresso la cultura greca facendo nascere Dike, la dea della giustizia della polis, dalla madre Themis, la dea di quella Giustizia che viene prima di ogni sistema giuridico storico e concreto, e che rende giusto chi la segue. Per questo Themis può anche entrare in conflitto con Dike, come nella grande tragedia di Antigone, la quale in nome di una giustizia più grande, seppellisce contro la giustizia della polis il fratello morto Polinice. Anche gli scribi e i farisei avevano la loro giustizia, e in base a quella hanno condannato il Cristo. Nessuna invocazione della giustizia è giusta se proviene da cittadini ingiusti che usano la giustizia-Dike contro la Giustizia-Themis, magari per opprimere i poveri e i giusti, e sempre a loro vantaggio. Se infatti mancano cittadini amanti e praticanti della virtù della giustizia, le leggi che essi produrranno non potranno che essere ingiuste, e tanto più ingiuste quanto più democratica è la forma di governo – è infatti la necessità di cittadini virtuosi la principale fragilità delle democrazie, come ben sapevano Montesquieu o Filangieri. Al tempo stesso, le leggi giuste rafforzano, premiandole, le virtù civili dei cittadini.
Per questa ragione le declinazioni della virtù della giustizia sono aperte e volutamente vaghe: ci invitano a riconoscere e a dare a “ciascuno il proprio” senza però dirci come misurare quel proprio, né chi debba misurarlo. E anche se la giustizia-Dike è chiamata a dare contenuto e limite al “proprio” di ciascuno, è ancor più vero che l’indeterminatezza della virtù della giustizia è espressione del suo essere un rapporto tra persone. Riconosciamo e diamo all’altro il giusto che gli spetta, se e quando tra di noi esiste una comune appartenenza, perché, in un senso vero, l’altro mi interessa e mi riguarda, è terza persona solo perché, a un livello più profondo, è seconda (un “tu”). E mentre la giustizia-Dike può accontentarsi di dare a ciascuno il suo, la virtù della giustizia va oltre il calcolo del proprio. Il cristianesimo ci ha detto che la differenza tra la sua giustizia e la giustizia degli scribi e dei farisei si chiama agape, che non inizia quando finisce la giustizia, ma ne è compimento e forma.
L’economia non ha mai preso sul serio il tema della giustizia, se si eccettuano l’economista e filosofo indiano Amartya Sen, e pochi altri. Per l’ideologia-religione capitalistica la giustizia fa parte dei vincoli da rispettare, non appartiene agli obiettivi da raggiungere. Giustizia è sinonimo, nella migliore delle ipotesi, di rispetto forzoso delle leggi sul lavoro, sull’ambiente o sulla sicurezza, o di pagare le tasse. Tutti vincoli vissuti come limite all’unico vero obiettivo dell’impresa capitalistica: la massimizzazione del profitto o, più propriamente e più gravemente, della rendita. Ma in principio non era così. Il “giusto prezzo” è stato uno dei grandi temi dell’economia medioevale, e Antonio Genovesi parallelamente al suo trattato di economia (“Lezioni di economia civile”), aveva scritto nel 1766 la “Diceosina”, ossia un trattato sulla giustizia, che era l’anima della sua intera produzione economica ed etica. La giustizia che conosce – quando la conosce – il nostro capitalismo è simile a quella degli scribi e dei farisei, quella dei vincoli e del rispetto formale e cultuale delle leggi. La domanda sulla giustizia riguarda e giudica l’intero sistema capitalistico attuale, una domanda che però da troppo tempo abbiamo accantonato, soprattutto per una crisi di pensiero critico.
Non si tratta semplicemente di denunciare (giustamente) come ingiusti singoli fenomeni del capitalismo (dai vergognosi stipendi e pensioni di molti alti dirigenti pubblici e privati ai paradisi fiscali, dalle speculazioni che non creano ma distruggono il lavoro alle multinazionali delle scommesse che affamano i poveri con la connivenza delle istituzioni, …), bensì di prendere atto che esiste una inimicizia molto profonda e radicale tra il nostro capitalismo-finanziario e la virtù cardinale della giustizia. Ciò non significa negare che ci sono tante persone che praticano ogni giorno la virtù della giustizia nella vita economica, ma soltanto riconoscere che un sistema fondato sulla ricerca del massimo tornaconto dei proprietari delle grandi banche, delle assicurazioni e delle imprese multinazionali, è in conflitto, come sistema etico, con le esigenze della virtù della giustizia. La giustizia di questo capitalismo non va confrontata, per giudicarla, con quella ancora minore del feudalesimo, ma con quella che potevamo realizzare se non avessimo tradito la vocazione sociale e civile dell’Europa, per seguire le sirene del consumismo e della finanza speculativa. E questo capitalismo che continua a produrre rendite e privilegi per pochissimi, e disoccupazione e marginalità per tantissimi, che scrive leggi che rafforzano quei privilegi e disallineano sempre più i punti di partenza a svantaggio dei deboli e dei poveri, non può avere la giustizia dalla sua parte – deve accontentarsi dell’efficienza, quando ci riesce.
Se volessimo superare questo modello di sviluppo e imboccare decisamente la via della giustizia, dovremmo avere un coraggio civile e una forza di pensiero pari almeno a quelli che generarono il movimento cooperativo europeo, che all’alba del capitalismo aveva tentato un’altra via al mercato e all’impresa, e per questo metteva in discussione i diritti di proprietà, la distribuzione del reddito (un tema ormai uscito dai libri di economia), il potere, l’uguaglianza delle opportunità tra i soggetti economici, senza negare né la libertà né il mercato. La storia del Novecento ha invece prodotto un capitalismo, che è essenzialmente l’immagine in controluce dei nostri vizi e delle nostre, poche, virtù – e per questo può essere sempre cambiato e fatto evolvere in altro, se lo vogliamo.
Lo spettacolo dell’ingiustizia e dell’iniquità continua a dominare la scena di questo mondo. Tanti sono ormai assuefatti ai privilegi e i comfort ingiusti dell’attuale capitalismo, e lo alimentano con le loro scelte quotidiane. Altri, ancora troppo pochi, continuano a pensare e a dire che molte grandi ingiustizie manifeste possono essere eliminate dalla nostra società, e agiscono di conseguenza, come possono. E così continuano, testardamente, ad “avere fame e sete della giustizia”, e, ogni tanto, a sentirsi chiamare “beati”.
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Le virtù da ritrovare e vivere/2
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/08/2013
C’è un forte contrasto tra il profondo senso di giustizia che tutti, anche i malvagi, ci ritroviamo dentro, e il mondo che ci appare come uno spettacolo di generalizzata ingiustizia. <L’uomo nasce libero, ed è ovunque in catene> (J.J. Rousseau). Per molte ingiustizie i tribunali e gli avvocati non bastano, per alcune non servono, perché gli aspetti legali, commutativi e compensabili coprono solo una piccola parte del territorio della giustizia, la cui estensione coincide con quella dell’intera vita in comune.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l' 11/08/2013
La temperanza è una parola che sta uscendo dal nostro vocabolario civile. Da quello economico è uscita già da molto tempo, per lasciare spazio al suo opposto. La usiamo ormai per le matite, per il clima, per le scale musicali o per il clavicembalo di Bach. Cose anche importanti, ma che non mettiamo al centro della nostra vita civile né del patto sociale.
[fulltext] =>Insieme alla temperanza è l’intero lessico dell’etica delle virtù che inclina a scomparire dalla grammatica della vita in comune, e le conseguenze politiche, civili ed economiche di questa eclissi sono tristemente ormai note a tutti.
La nostra civiltà (almeno quella occidentale) rischia di non comprendere più il messaggio di vita buona contenuto nell’etica delle virtù. E ciò dipende da diverse ragioni, da due in modo particolare.
La prima è la scomparsa della categoria di educazione del carattere, a cominciare dall’educazione dei nostri bambini. Ciò che è naturale e spontaneo diventa immediatamente buono, senza bisogno di correggere e orientare comportamenti o inclinazioni spontanei, ma non buoni. Conosco genitori che in nome di non specificate teorie pedagogiche neo-roussoniane lasciano tranquillamente che i loro figli non li chiamino mamma o babbo, ma Luisa e Marco. "Viene loro naturale", argomentano di fronte alle mie perplessità, "perché forzarli?!". L’etica della virtù vive invece di una tensione dinamica tra natura (tutti siamo capaci di virtù) e cultura (c’e però bisogno di esercizio, disciplina e volontà per diventare ciò che già potenzialmente siamo). Per questo grandi coltivatori - spesso anche inconsapevoli - dell’etica delle virtù sono i veri atleti e i veri scienziati. La seconda ragione è il non saper più riconoscere anche un valore nell’esperienza del limite. E se non si è capaci di vedere la positività del limite è impossibile capire e apprezzare le virtù, in particolare quella della temperanza, che consiste proprio nel valorizzare il limite che, come la siepe sul leopardiano colle dell’Infinito, mentre esclude l’orizzonte apre gli «interminati spazi al di là da quella». Forse la scrittura su tavolette di argilla nacque in Mesopotamia perché un messaggero del signore di Uruk non riusciva a parlare.
Di temperanza non si parla più, ma molti, moltissimi, sono in mezzo a noi i cattivi frutti della sua carestia: dalla distruzione dell’ambiente agli stili di vita dei nuovi ricchi e potenti, da come parliamo, scriviamo email, fino alle tragedie famigliari e alle infinite infelicità troppo spesso causate da uomini e donne non più educati al dominio di sé e al controllo delle proprie passioni, cioè alla temperanza.
La temperanza è stata anche una grande virtù economica delle generazioni passate. Essa ha orientato il consumo e soprattutto ha generato quel risparmio che ha consentito lo sviluppo economico del secondo dopoguerra. Una virtù che informava anche la vita degli imprenditori (non dei redditieri, che non mi stancherò mai di distinguere dagli imprenditori e di individuare nel loro proliferare la prima malattia di ogni società decadente), che pur conoscendo l’abbondanza, educavano i propri figli e se stessi al buon uso delle cose e a una certa sobrietà che poteva non umiliare i poveri. La virtù della temperanza mi porta a non consumare oggi una parte di reddito per averlo a disposizione, io e la mia famiglia, domani, e per permettere che altri miei concittadini possano usare per investimenti quella ricchezza durante la mia astinenza. È significativo che la teoria economica classica utilizzasse la stessa parola "astinenza" per giustificare il risparmio, e anche per il digiuno e per la castità, a ricordarci che questi tre fenomeni erano tutti figli di Madonna temperanza.
La nostra cultura economica che poggia sul maggior consumo possibile qui e ora, meglio se a debito, ha invece bisogno del vizio dell’intemperanza (intreccio di avarizia e gola) per potersi auto-alimentare. La natura della virtù della temperanza si comprende se pensiamo che viene sviluppata in un mondo caratterizzato dalla scarsità assoluta di risorse. È bene non abusare dei beni, poiché ciò che io consumo come superfluo è quanto manca all’altro come necessario. Tutto l’insegnamento dei Padri della Chiesa sull’uso dei beni e sulla povertà va letto e compreso in questo contesto di risorse limitate e di rapporti economici come "giochi a somma zero". Come va anche inserita in questo orizzonte di scarsità l’etica contadina imperniata sulla virtù della temperanza, compresa quella sua tipica fioritura che fu il movimento delle casse rurali, soprattutto nel Nord-Est italiano (non è certamente un caso che il Trentino Alto Adige sia oggi all’ultimo posto in Italia per quota di popolazione vittima di quella grave mancanza di temperanza che si chiama azzardo!).
Nel Novecento, con la seconda rivoluzione industriale, pensammo che fosse terminata l’era della scarsità e fossimo approdati nell’eden della infinita riproducibilità dei beni. E si iniziò a guardare il mondo come un luogo di risorse potenzialmente illimitate. Da qui il declino della temperanza come virtù. Peccato che questa stagione dell’illimitatezza sia durata poco più di un baleno, perché prima l’ambiente, poi le energie e l’acqua, e quindi il deterioramento dei capitali civili, relazionali e spirituali ci hanno via via mostrato altri limiti non meno stringenti e gravi di quelli dell’età della scarsità di merci private e di abbondanza di capitali collettivi. Infatti oggi i nuovi limiti sono soprattutto limiti sociali e globali, per i quali sarebbe necessaria un’immediata riscoperta della virtù della temperanza, che andrebbe posta a nuova virtù sociale ed economica.
È ormai improcrastinabile una interiorizzazione del valore del limite, e soltanto una nuova etica delle virtù può farlo, poiché ogni interiorizzazione richiede il saper attribuire un valore intrinseco alle cose al di sopra del calcolo utilitaristico costi-benefici che oggi domina ogni ambito della nostra cultura. Ma mentre ieri esisteva un chiaro rapporto tra la mia temperanza e il mio benessere personale e il nostro bene comune, oggi nell’era della complessità questo nesso si è offuscato. Non è più immediato associare l’uso dell’aria condizionata nella mia abitazione all’aumento della temperatura nelle nostre città (e al successivo ulteriore aumento di uso di aria condizionata, in spirali da cupi scenari futuri). La sola razionalità economica non aiuta in questa presa di coscienza (anzi ci fa sprofondare), perché ci sarebbe bisogno del registro logico della virtù che ci porta a fare una azione perché ne abbiamo interiorizzato il suo valore intrinseco. Se quindi non de-mercantizziamo la nostra società, se cioè non liberiamo dalla logica dei prezzi e degli incentivi importanti aree di vita civile oggi da essi occupate e colonizzate, capiremo sempre meno il valore della sobrietà, dell’astinenza, del controllo di sé, e sempre meno lo capiranno i nostri bambini.
Infine, ieri come oggi, senza temperanza non c’è condivisione dei beni, non c’è la gioia della comunione. Se non ci educhiamo continuamente a delimitare i confini dell’io, condivideremo con gli altri soltanto le briciole di pasti intemperati. Ma così non sperimentiamo la vera fraternità, che è il frutto di scelte costose di chi sa ridurre le ragioni e le regioni del "proprio", per edificare quelle del "nostro", e quelle di tutti.
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Le virtù da ritrovare e vivere
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l' 11/08/2013
La temperanza è una parola che sta uscendo dal nostro vocabolario civile. Da quello economico è uscita già da molto tempo, per lasciare spazio al suo opposto. La usiamo ormai per le matite, per il clima, per le scale musicali o per il clavicembalo di Bach. Cose anche importanti, ma che non mettiamo al centro della nostra vita civile né del patto sociale.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/08/2013
Uno dei paradossi al centro del nostro sistema economico-sociale è la pacifica convivenza tra il radicale rifiuto di padroni e di controlli nella sfera politica e l’altrettanto radicale accettazione di altri padroni e controlli nelle imprese e nelle organizzazioni. Abbiamo fatto e facciamo lotte e rivoluzioni contro tiranni e dittatori, ma non appena lasciamo la piazza e varchiamo i cancelli dell’impresa deponiamo sull’attaccapanni il nostro vestito di cittadino democratico e docilmente indossiamo i panni del suddito regolato e controllato.
[fulltext] =>Questo paradosso dipende in buona parte dagli equivoci attorno al termine incentivo, che sta diventando il principale strumento del culto capitalista, una parola magica che tanti invocano, e a tutti i livelli, al punto di poter parlare di una vera e propria "ideologia dell’incentivo" che sta occupando la nostra vita.
Incentivo è in realtà una parola antica. Durante il medioevo l’incentivus (da incinere, cantare e incantare) era lo strumento a fiato, il flauto in genere, al cui suono dovevano accordarsi gli strumenti e le voci del coro. Il flauto è anche lo strumento dell’incantatore di serpenti, che ammaliati da quel dolce suono, vanno docili dove il suono li conduce. L’uso dell’incentivus si è poi esteso dal flauto alla tromba che incitava e ritmava la corsa dei soldati in battaglia. L’incentivo è dunque ciò che sprona, che rende solleciti, che ci spinge ad azioni ardite, che ci incanta col suo suono e ci fa andare dove il suonatore vuole portarci. L’incentivo si presenta come un contratto libero, e per questo affascina. L’impresa capitalistica ci propone uno schema retributivo o di carriera, e noi lavoratori "liberamente" lo accettiamo. Lo scopo, come dice l’antica radice, è accordare i vari membri dell’impresa, fare cioè in modo che il comportamento del dipendente si allinei con l’obiettivo della proprietà dell’impresa, e in mancanza di questo accordo gli obiettivi e le azioni sarebbero naturalmente divergenti, discordanti e scordati.
Per capire la natura dell’ideologia dell’incentivo occorre però guardare la sua storia, che non origina dalla tradizione della scienza economica, ma nasce all’interno delle teorie scientifiche del management. Queste si svilupparono negli Usa a partire dagli anni Venti, quindi tra le due guerre mondiali e in presenza di fascismi, totalitarismi e collettivismi. Una fase di pessimismo civile e antropologicoche, come per Machiavelli e Hobbes, generò una teoria basata su un’idea pessimistica e parsimoniosa della natura umana. All’inizio la logica dell’incentivo fu introdotta tra forti polemiche e discussioni etiche, che però tacquero presto. Durante la guerra fredda il controllo delle persone tramite l’incentivo apparve infatti come una forma di vaccino contro una malattia che appariva molto più grave. Controllo e pianificazione dentro le organizzazioni furono la piccola dose di veleno ingerita per proteggersi dal possibile virus mortale della pianificazione e del controllo totali del sistema illiberale che si stava affermando dall’altra parte del mondo. Così le rinunce alla libertà e all’uguaglianza dentro le imprese apparvero un male necessario per tenere in piedi il sistema capitalistico e la democrazia. Si difese la democrazia politica sacrificando quella economica. Libertà nel sociale e pianificazione nell’impresa. Oggi i sistemi collettivistici appartengono alla storia, eppure quel vaccino continua a essere iniettato nei nostri corpi, e a operare ben oltre l’ambito della grande impresa industriale per la quale era stato pensato all’inizio.
Il principale, grande e nocivo effetto collaterale dell’ideologia dell’incentivo è realizzare un regno di relazioni umane in cui non esiste più nulla che abbia un valore intrinseco, qualcosa che valga prima del calcolo costi-benefici. C’è poi un secondo elemento cruciale, che si chiama potere. L’allineamento prodotto dall’incentivo non è reciproco. La parte potente fissa gli obiettivi e disegna lo schema d’incentivo, e alla parte debole è solo chiesto di allinearsi tramite il canto magico dell’incantatore. L’incentivo è dunque offerto da chi ha potere a chi il potere non ha, per controllarne le azioni, le motivazioni, la libertà. La natura dell’incentivo è consentire la gestione unilaterale del potere, non la reciprocità tra uguali; ed è il controllo, non la libertà, la sua funzione. Il sindacato, ad esempio, non può capire molte ragioni della sua attuale crisi e non ritroverà la sua vocazione se non legge il mondo del lavoro all’interno di questa nuova ideologia.
Infine la cultura dell’incentivo riduce la complessità antropologica e spirituale della persona. La grande cultura classica sapeva che le motivazioni umane sono molte e non riconducibili a un unico metro di misura, tantomeno quello monetario. E sapeva anche che usare il denaro per motivare la gente tende nel tempo inevitabilmente a ridurre le motivazioni intrinseche, e quindi a impoverire di molto le organizzazioni, la società e le persone, che hanno un valore infinito anche perché sappiamo trovare più forme di valore nelle cose e in noi stessi. Per ben intonare le persone dentro le organizzazioni e renderle con-cordi, occorrerebbero invece molti strumenti, tra cui certamente il flauto dell’incentivo, ma solo in accordo con il violino della stima, l’oboe della philia, la viola della riconoscenza. Perché se a suonare è un solo strumento, nei luoghi del lavoro si perdono biodiversità, creatività, gratuità, eccedenza e libertà, e si finisce per tirar fuori dalle persone le note meno squillanti e melodie poco originali e tristi.
Sappiamo bene quanto nella vita quotidiana delle famiglie e della società civile sia necessaria la multidimensionalità degli incentivi e degli ancora più importanti premi (che a differenza degli incentivi riconoscono la virtù, non la creano artificialmente né la controllano). Ma commettiamo l’errore di pensare che nelle imprese gli altri valori non contino, perché troppo alti per sprecarli nel volgare mondo dell’economia. Se così fosse, non si spiegherebbe la storia e il presente di tanta economia cooperativa, sociale e civile, né l’azione di quei molti imprenditori e lavoratori italiani ed europei che, figli e figlie di un’altra cultura economica, spirituale e civile, in questi anni stanno andando avanti reagendo per istinto alla logica degli incentivi, e che ancora resistono a consulenti, banche, istituzioni, che li leggono con gli occhiali dell’ideologia dell’incentivo, e così vorrebbero curarli.
Tutti nel corso della vita abbiamo fatto scelte, dalle piccole e ordinarie a quelle decisive, andando oltre e contro la logica dell’incentivo, preferendo il meno di denaro e di carriera al di più espresso in altri valori. E lo abbiamo fatto, e in tanti continuiamo a farlo, non per eroicità ma per dignità, e per fedeltà a quella parte non-in-vendita che ci abita tutti nel profondo. Nelle pagine della vita di ogni persona e di ogni organizzazione ci sono molte parole scritte con inchiostro simpatico, che la fredda logica dell’incentivo non vede, perché servirebbe il calore degli altri registri relazionali. Ma se queste frasi restano invisibili, non siamo capaci né di raccontare che cosa accade davvero nel mondo del lavoro, né tantomeno di migliorarlo.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/07/2013
Perché sempre più gente corre nei parchi, pedala lungo le strade, fa ginnastica ballando gioiosamente in gruppo sulle spiagge? Per diverse buone ragioni, ma è certo che il nostro corpo non ha ancora capito che il mondo è cambiato – almeno in molte parti del pianeta –, e continua a renderci piacevoli cibi grassi e calorici, e meno attraenti verdure e cibi magri. E si capisce bene, se pensiamo che per un centinaio di migliaia di anni (se vogliamo limitarci al giovane homo sapiens) abbiamo vissuto in un ambiente povero di calorie essenziali per cacciare, riscaldarsi, fuggire dai predatori, sopravvivere.
[fulltext] =>I tempi di cambiamento dell’organismo umano sono molto più lunghi dei mutamenti sociali e culturali. E così, se oggi vogliamo vivere bene dobbiamo correggere i segnali naturali del corpo con attività che consumano quelle calorie che assumiamo in eccesso, cambiando artificialmente stili alimentari, sottoponendoci a diete decennali che ormai assorbono molte risorse individuali e sociali.
Anche il nostro corpo economico-sociale mangia e beve troppe cose che gli fanno male, troppi grassi e zuccheri e pochissime verdure, ma non ha iniziato a correre né a fare diete. I nostri genitori e nonni sono stati gli ultimi eredi di un mondo caratterizzato dalla scarsità assoluta, in cui costante era la minaccia delle carestie e della fame. Così quando in quella cultura si rappresentava il benessere, i suoi simboli erano l’abbondanza, il grasso e soprattutto l’aumento delle cose, in numero e dimensioni, per i singoli (casa, auto...) e per le comunità (dai campanili ai grattacieli).
L’arte, anche quella sacra, rappresentava le persone ricche o sante in sovrappeso. Le canzoni, la religione, il lavoro, i miti erano espressione di un "già" di scarsità e di un "non ancora" di abbondanza, e l’etica era necessariamente tutta costruita sull’accontentarsi e apprezzare il poco. In quella cultura non c’era festa senza eccesso di cibo, di vestiti e di spreco vistoso. Si celebrava così il dove si voleva andare, si alimentavano i sogni di benessere dei poveri, che si sentivano almeno in quei giorno (quasi) come i ricchi. E quei sogni hanno spinto avanti il mondo, perché erano sogni veri e potenti. Se non sappiamo ascoltare l’eco di questa cultura, non capiamo, ad esempio, le nostre nevrosi nei confronti del cibo, o perché continuiamo ad accumulare cose e vestiti negli armadi (qualcuno ha stimato che in un’abitazione media si possono superare i 30.000 oggetti). Questa cultura, però, non associava soltanto il benessere all’abbondanza; lo legava anche alla diminuzione delle relazioni sociali, perché troppo intrecciate con rapporti ineguali e gerarchici, soprattutto per i poveri e per le donne.
Da qui nasce anche la cultura dell’appartamento, che divenne il sogno della giovane coppia che finalmente si emancipava da famiglie patriarcali popolate da troppi padroni, e si costruiva il proprio nido, appartato, nell’intimità dell’agognata libertà da quelle relazioni. Lo sviluppo dei mercati è stato anche visto – e non a torto – come una liberazione da relazioni comunitarie stringenti, da legami che a volte venivano percepiti come lacci. «Che torto ti ho fatto perché tu mi abbia abbandonato? Forse che quell’altro lavora meglio di me», scriveva Luigi Einaudi descrivendo il dialogo tra un ciabattino e un suo compaesano che aveva cambiato negozio (Lezioni di politica sociale, 1949). Siamo stati educati nel paradigma del "buono" associato al "grasso", del benessere legato al molto, del meglio sinonimo del "di più", della crescita misurata con l’aumento delle cose possedute individualmente o come famiglia. Questo abbiamo augurato ai nostri figli. Oggi l’ambiente non sostiene più questo umanesimo della quantità, e, d’altro canto, quei beni relazionali che ieri erano abbondanti al punto da percepirli come dei mali – e a volte lo erano realmente – stanno diventando i beni più scarsi, ricercati, preziosi.
Tanti darebbero interi patrimoni per un incontro di vera gratuità, (e non di rado li dilapidiamo anche per la gratuità finta, tanto la bramiamo). Tuttavia, i codici simbolici e comunicativi della politica, dell’economia, dei media, della pubblicità (anche di quella rivolta ai bambini, tutta centrata sul cibo e sulle cose) sono ancora quelli del vecchio mondo, e ci spingono al consumo di "cose" e ad auto-produrre solitudine. E, come logica conseguenza di questo rapporto squilibrato, non facciamo abbastanza per lo scandalo epocale della troppa gente che ancora vive malissimo e muore di fame. Dovremmo aggiornare presto il nostro vocabolario della vita buona, a partire dalla scuola. Non dico di non studiare più Verga, Rabelais o Dickens, né abbandonare le fiabe classiche legate al mondo della mancanza di merci e di cibo. Dovremmo però affiancare altre immagini e simboli a questi grandi "luoghi" educativi, che associno in modo non banale e buonista il benessere alle relazioni, alla crescita in gratuità e in libertà. Li troveremmo anche nei classici, ma dobbiamo lavorare di più per inventarne di nuovi, e non vivere di rendita anche in campo educativo e culturale.
Qualcosa si vede già, ma non è sufficiente. Ci servono molte più storie sulla ricchezza delle relazioni, che abbiano la forza di quelle che nei tempi della scarsità e della fame ci facevano sentire i sapori delle salsicce e vedere il luccichio dei gioielli. Servono altri Paesi della cuccagna, ma capaci come quelli di farci sognare, desiderare. Il nostro tempo parla molto di relazioni, ma non abbiamo ancora scritto nuovi miti e grandi narrative capaci di commuovere i cuori e muovere i passi all’azione individuale e collettiva. Eppure è fin troppo evidente che l’Europa, soprattutto quella del Sud, ritroverà la sua via al ben-essere e al ben vivere, anche economico, se riscriveremo l’immaginario collettivo del benessere. E anche di quello del cibo, se è vero che niente come il mangiare dice la qualità delle relazioni in una famiglia e in una comunità – il primo segnale della povertà relazionale del nostro tempo è la cultura del panino solitario (vedremo se all’Expo2015 sapremo mettere la relazione al centro del "nutrire il pianeta").
L’Europa può farcela, perché ha una straordinaria storia di successi civili ed economici nati da comunità reali, da territori fertili, da gente che sapendosi incontrare nella diversità ha saputo inventare democrazia e mercati. E se vuole può reinventarli anche oggi. Il portafoglio più importante non è mai stato, né è, quello dei titoli, ma quello dei nostri rapporti, soprattutto durante le crisi. «Un artista non è mai povero», esclamava Babette al termine del suo meraviglioso pranzo. In realtà l’arte di Babette non era soltanto quella culinaria, era anche l’arte delle relazioni. I beni, anche quelli economici, sono importanti, ma diventano benessere solo nella convivialità, quando le merci sono veicolo di incontri, ponti e non muri. Parliamo allora meno dei beni che consumiamo e più di noi, alziamo gli occhi da vivande e oggetti e incrociamo quelli degli altri.
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La vecchia idea del benessere, la nuova realtà
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/07/2013
Perché sempre più gente corre nei parchi, pedala lungo le strade, fa ginnastica ballando gioiosamente in gruppo sulle spiagge? Per diverse buone ragioni, ma è certo che il nostro corpo non ha ancora capito che il mondo è cambiato – almeno in molte parti del pianeta –, e continua a renderci piacevoli cibi grassi e calorici, e meno attraenti verdure e cibi magri. E si capisce bene, se pensiamo che per un centinaio di migliaia di anni (se vogliamo limitarci al giovane homo sapiens) abbiamo vissuto in un ambiente povero di calorie essenziali per cacciare, riscaldarsi, fuggire dai predatori, sopravvivere.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/07/2013
Dovremmo approfittare di questo tempo duro per riflettere, più in profondità e più assieme, sulla natura di quell’attività umana fondativa e fondamentale che chiamiamo lavoro. A questo scopo, ipotizziamo, con un esperimento mentale, che una colonia di nostri concittadini si trasferisca in un’isola deserta per abitarla. Una volta approdati e sistemati capirebbero presto che per far crescere e sviluppare le loro famiglie e il villaggio è opportuno passare da un’economia 'domestica' di auto-produzione a una economia 'politica' di scambio, dove ognuno si adoperi affinché ciò che sa fare sia utile agli altri, e orientare così a proprio vantaggio il lavoro degli altri abitanti.
[fulltext] =>Se poi tra quegli abitanti ci fossero delle persone con abilità che non incontrano i bisogni degli altri, queste persone dovrebbero essere capaci di convincere qualcuno dell’utilità delle cose che sanno fare. E se non ci riuscissero, dovrebbero presto imparare a fare altri mestieri, per non finire tra i mendicanti e dipendere dalle elemosine - «Solo il mendicante – ci ricordava Adam Smith – sceglie di dipendere principalmente dalla benevolenza dei suoi concittadini» (La ricchezza delle nazioni, 1776).
Questo semplice esperimento può, allora, rivelarci tre verità a un tempo fondamentali e trascurate: che i beni diventano ricchezza e ben-essere grazie al nostro lavoro; che lavorare, in una economia di mercato, è essenzialmente una faccenda di reciprocità; che un sistema economico si inceppa quando si interrompe questa catena di reciprocità lavorativa. Nel corso della storia ci sono statialtri sistemi per organizzare la vita in comune di piccole e grandi comunità. La più antica è la gerarchia sacrale, mentre le più rilevanti su larga scala sono state le varie forme di economia pianificata collettivista del Novecento. Tra le alternative al mercato (che io chiamo civile) c’è anche il recente capitalismo finanziario globale, che non si è fondato sulla reciprocità dei bisogni ma sull’avidità e sulle rendite (la rendita è una deviazione dal principio del buon mercato, proprio perché nega la reciprocità dei bisogni).
C’è poi un’altra possibilità, di gran lunga più affascinante, che torna spesso in ambienti culturali critici della modernità e del mercato. Questa visione 'romantica' non accetta che siano il lavoro e i bisogni reciproci a orientare le attività da svolgere nell’'isola', perché – a dire di chi la coltiva – sarebbe più dignitoso ed etico che ciascuno svolgesse l’attività che ama senza dipendere dagli altri nel mercato, e che lo 'Stato' offrisse a tutti un giusto salario (senza spiegare con quali redditi, e prodotti da chi).
Che cosa accadrebbe nell’'isola' se si affermasse questa visione? Si creerebbe senz’altro un eccesso di attività in sé piacevoli perché arrecano una ricompensa intrinseca a chi le pratica per vocazione e passione. L’elenco di queste attività è semplice da fare: l’osservazione degli astri, la scrittura di gialli, la collezione di farfalle, studiare economia, ecc. Al tempo stesso, ci ritroveremmo in una comunità dove mancherebbero molti mestieri non particolarmente piacevoli, ma molto utili a tutti: spazzini, manutentori delle fogne, minatori, becchini, ecc. Una società dove le persone non si incontrerebbero tra di loro, perché troppo occupati a coltivare, narcisisticamente, i propri interessi. I due elenchi si allungano di molto se, lasciata quella ipotetica isola, ci spostiamo nelle nostre città complesse, dove tante persone svolgono lavori che non trovano molto piacevoli (o non abbastanza per svolgerli otto ore al giorno, per decenni), ma che sono utili agli altri, e spesso indispensabili al ben vivere della nostra società. In questa lunga fase di crisi del lavoro, che durerà ancora molti anni, dobbiamo tener ben presente che la natura più vera del lavoro è la reciprocità, l’incontro di bisogni. Il lavoro ci lega gli uni agli altri, è il principale cemento della società, persino quando questa reciprocità convive con asimmetrie di potere, denaro, responsabilità – anche se queste asimmetrie sono sempre una minaccia alla durata e dignità di ogni reciprocità. Lavorare è un’ottima cura di ogni forma di narcisismo, perché ci spinge a metterci nei panni degli altri, e a chiederci: «Che cosa di ciò che so fare, o che potrei fare, interessa anche gli altri?».
Una virtù che aiuta a vivere bene in una economia di mercato è l’empatia, il saper anticipare e intuire i bisogni e i desideri degli altri, e cercare di soddisfarli. Il mercato civile è un meccanismo sociale attraverso il quale ci scambiamo beni e servizi che non verrebbero all’esistenza se ciascuno seguisse soltanto le proprie aspirazioni e vocazioni e il piacere individuale.
È anche da questa prospettiva che si può cogliere il significato più proprio della parola interesse. L’interesse è certamente ciò che mi interessa, ma è anche ciò che interessa agli altri, è la relazione che sta tra di noi (inter-esse) e che ci consente di incontrarci. Il secondo messaggio riguarda il rischio di non reciprocità lavorativa che s’insinua spesso nelle nostre imprese e organizzazioni. La vera reciprocità nella vita civile e nel lavoro non è semplice, richiede sempre creatività e impegno in tutte le parti coinvolte. Così accade che, per evitare questa fatica, si cerchino e imbocchino scorciatoie. Pensiamo, ad esempio, a quelle comunità premoderne dove le attività di cura erano assegnate alle donne che le dovevano svolgere per 'vocazione', una vocazione che consisteva nel servire tutta la vita altri (maschi soprattutto), i quali pensavano che i propri bisogni di cura e di accudimento fossero soddisfatti dalla vocazione di mogli, figlie, sorelle o suore. È un enorme miglioramento in umanità e dignità che molte di queste attività di cura passino oggi per il mercato (possibilmente civile e non capitalistico), un mercato che in questi casi può diventare un prezioso alleato della reciprocità – anche questo è sussidiarietà.
Non cercare e non arrivare alla reciprocità nel lavoro è sempre una scelta parziale e sbagliata. Un mio amico cooperatore sociale si recò un giorno nel carcere della sua città per iniziare lì un’esperienza lavorativa con dei giovani. «Trovai il lavoro delle barbies», mi disse. Quei ragazzi facevano lavori finti, perché svolgevano attività senza reciprocità, ideate allo scopo di tenerli occupati, e quindi dei non-lavori utili a nessuno, tantomeno a loro. «Non devo darmi pace finché questi giovani non si sentiranno utili alla nostra città», continuò. E così mise tutta la sua passione e il suo ingegno per trovare un lavoro vero per quei ragazzi, attività che fossero un’autentica esperienza di reciprocità.
E ci riuscì, come ci riescono tanti imprenditori sociali e civili, anche in questa età di crisi, che innovano veramente perché e quando non si accontentano dell’inclusione produttiva ma vogliano e cercano la reciprocità, dove tutti danno e tutti ricevono. Sono convinto che la nostra crisi dipenda anche dall’aver creato nei decenni passati troppi 'lavori' – e non solo nel settore pubblico – che si sono arrestati prima della reciprocità, per insufficiente creatività e impegno da parte di imprenditori, lavoratori, e istituzioni. Eppure, ci sono poche esperienze umane più dolorose di quella di sentirsi fuori dall’intreccio di reciprocità di cui è intessuta la vita in comune. La pensione è spesso una esperienza molto dolorosa se chi lascia il lavoro non continua a sentirsi, in altri modi, utile ai propri concittadini. Ritrovarsi disoccupato è tragico non solo perché si perde lo stipendio, ma perché si esce da questa rete di reciprocità, «la legge del Moderatore del mondo, che ci comanda di ingegnarci di essere gli uni utili agli altri» (Antonio Genovesi, 1767). Dalle crisi economiche e sociali si esce riattivando la reciprocità lavorativa. E per farlo occorre saper guardare il mondo che ci circonda anche con gli occhi degli altri.
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La regola aurea della «reciprocità»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/07/2013
Dovremmo approfittare di questo tempo duro per riflettere, più in profondità e più assieme, sulla natura di quell’attività umana fondativa e fondamentale che chiamiamo lavoro. A questo scopo, ipotizziamo, con un esperimento mentale, che una colonia di nostri concittadini si trasferisca in un’isola deserta per abitarla. Una volta approdati e sistemati capirebbero presto che per far crescere e sviluppare le loro famiglie e il villaggio è opportuno passare da un’economia 'domestica' di auto-produzione a una economia 'politica' di scambio, dove ognuno si adoperi affinché ciò che sa fare sia utile agli altri, e orientare così a proprio vantaggio il lavoro degli altri abitanti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/07/2013
La stima è un bene sempre più scarso nelle nostre società, e quindi sempre più prezioso. La ‘domanda’ di stima cresce, ma non c’è sufficiente ‘offerta’, poiché siamo tutti intenti a cercarla e non abbiamo tempo e risorse per offrirla agli altri che, come noi, la cercano, la desiderano, la agognano. Avremmo bisogno di molta più stima di quella che riusciamo ad offrire, come ci ricordano nel libro L’economia della stima l’economista Geoffrey Brennan e il filosofo Philip Pettit. [fulltext] => La carestia di stima è una espressione di un tipico fallimento della nostra società di mercato, dove cresce lo spazio dei mercati e, come conseguenza, diventano drammaticamente scarsi i beni che non si possono comprare, beni che sono spesso quelli davvero essenziali per una buona vita individuale e sociale. Siamo così caduti in una carestia generalizzata di beni liberi non di mercato, e tra questi la stima.
La stima vera non è una merce. Ma il mercato capitalistico conosce la fame di stima non soddisfatta che c’è nel mondo, e cerca di offrire merci sostitute della stima. Queste merci sono soprattutto i ‘beni posizionali’, quelle merci che acquistiamo anche per soddisfare il nostro bisogno di attenzione, riconoscimento, di distinzione e persino stima da parte degli altri.
La ricerca dei beni posizionali è esistita in tutte le società, ma oggi questi beni stanno invadendo le nostre società individualiste e solitarie, dove mancando linguaggi più ricchi per dire chi siamo agli altri, la principale lingua che ci resta è quella del consumo vistoso. Il grande fascino che esercitano su di noi le merci dipende anche dal fatto che noi ‘parliamo’ con le cose che possediamo (e che non possediamo), una lingua che usiamo tanto più quanto più ci sentiamo analfabeti di altri linguaggi, salvo poi scoprire – quando lo scopriamo – che le cose che riusciamo a raccontarci con questa lingua sono troppo poche e povere, e mai quelle decisive per la nostra felicità. La lingua delle merci rischia di diventare il nuovo esperanto di persone sole in cerca di stima e di felicità nei modi e nei luoghi sbagliati.
La stima non è facile da individuare perché si trova spesso mescolata con altri sentimenti umani, tra i quali il riconoscimento, il fascino, il rispetto, l’attrazione, e soprattutto l’ammirazione. La stima ha però i suoi tratti distintivi e peculiari.
Innanzitutto la stima è faccenda di gratuità, non solo perché non può essere comprata né venduta, ma perché può solo essere donata liberamente e sinceramente. La sincerità, infatti, è essenziale: se colui al quale esprimo la mia stima percepisce o pensa che gli sto dicendo la mia stima solo per farlo felice o, magari, per pietà, la gioia della stima vera si tramuta nel suo opposto. L’esigenza di verità prevale sul bisogno di stima. Un meccanismo relazionale di cui sono consapevoli educatori e insegnanti. Se, infatti, uno studente legge un apprezzamento di un docente come non sincero, quella “stima” produce l’effetto di scoraggiamento e di riduzione di auto-stima. La stima finta si chiama anche adulazione (di cui sono inondati i potenti, che sono grandi indigenti di stima), ma può essere anche il risultato di scorciatoie prese per non aver voluto investire il tempo necessario per scoprire le ragioni della vera stima.
La stima ha poi bisogno della parola, meglio se orale e senza mediazioni. La stima va detta, va pronunciata. Non è un “I like”. Anche per questo la stima, a differenza dell’ammirazione, nasce solo tra persone legate da un rapporto personale. Posso ammirare un grande atleta o uno scrittore, ma perché si passi dall’ammirazione alla stima occorre che inizi un rapporto personale tra noi, è necessario che parliamo.
La stima, diversamente dal fascino o dall’attrazione che possono nascere anche da aspetti estetici o particolari doni (bellezza fisica, intelligenza …), sorge solo per ragioni morali. Non si stima l’altro per i suoi occhi verdi, ma per la sua virtù. Si può essere attratti o affascinati da un aspetto specifico di una persona (es. un talento), ma la stima è sempre un giudizio globale e sintetico sulla persona intera (e per questo la desideriamo tanto). E per questa sua natura globale, la stima è un processo, un cammino accidentato e fragile. La stima si origina sempre da un primo incontro, quando siamo colpiti da un aspetto dell’altro (onestà, bontà, rettitudine …). Ma la conoscenza e la frequentazione della persona che stimo può rivelarmi altre dimensioni del suo carattere che non meritano la mia stima, fino ad arrivare nel tempo alla triste e comune frase “non lo stimo più”, una frase tristissima e spesso fatale quando viene pronunciata nei confronti del proprio coniuge, dopo anni di matrimonio, di stima, di esercizio di “amarsi e onorarsi”. È a questo punto che inizia, se lo vogliamo e ne abbiamo le risorse morali e spirituali, l’ascetica della stima, quel processo doloroso, luogo ma anche sublime di ritrovare nuove ragioni per tornare a stimare una persona che non si stima più, e dal quale magari non si sente più stimata – essendo un bene relazionale, la stima è profondamente intrecciata con la reciprocità (“gareggiate nello stimarvi a vicenda”), che complica e arricchisce tutto il processo – la stima di chi non si stima, ad esempio, non genera alcuna gioia. Anche per questa ragione la stima vera è sempre dono, e per-dono.
Infine, la poca stima che esiste nel mondo dipende anche, e forse soprattutto, dalla scarsità di persone capaci di trovare ragioni di stimabilità negli altri. Molte persone che ci appaiono non meritevoli di stima in realtà se fossero viste con gli occhi giusti rivelerebbero almeno un aspetto di verità, bontà e bellezza, che potrebbe diventare una via di accesso alla stima. Ma questi “occhi”, questi sguardi profondi nell’anima degli altri, sono troppo rari nella nostra società. Noi sappiamo, o quantomeno intuiamo, di avere in noi qualcosa di stimabile, e ci sentiamo vittima di una vera e propria ingiustizia quando gli altri non si accorgono del bello che abbiamo e che siamo. La sensazione di non essere stimati abbastanza, perché non conosciuti e riconosciuti veramente, è tra quelle più profonde, dolorose e durature dell’esistenza. Ho avuto il dono di avere per amici alcune persone che hanno stimato delle cose belle in me ancor prima che io stesso mi accorgessi della loro presenza: la loro stima le hanno fatte fiorire e maturare. Questa stima profonda ha la capacità di trasformare i ‘non ancora’ in ‘già’. Una delle funzioni preziose che hanno i carismi nella storia è generare persone portatrici di questi sguardi capaci di far affiorare la stimabilità in tante persone che non si stimano, e quindi non stimano gli altri e la vita. Nelle persone ci sono troppe dimensioni di bellezza, verità e bontà che appassiscono e muoiono perché non trovano occhi capaci di vederle, amarle, e farle risorgere.
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Un bene scarso e prezioso: la stima
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/07/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/07/2013
Per capire che cosa veramente si cela dietro le crescenti resistenze alla chiusura domenicale dei negozi, dobbiamo avere il coraggio di fare seriamente i conti con la natura antropologica e cultuale del nostro capitalismo. Il filosofo Walter Benjamin nel 1921 scriveva che «nel capitalismo bisogna scorgervi una religione, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccupazioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. (…) In Occidente, il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo » (Il Capitalismo come religione, 1921). E con capacità profetica aggiungeva: «In futuro ne avremo una visione complessiva».
[fulltext] =>Infatti, la natura religiosa del capitalismo è oggi molto più evidente che negli anni Venti, se pensiamo quanto sono diventanti esigui i territori della vita non in vendita. Una religione pagana e di solo culto, che cerca di prendere il posto del cristianesimo (non di qualsiasi religione), anche perché è dall’umanesimo ebraico-cristiano che è stato generato. La modernità, allora, non sarebbe una de-sacralizzazione o disincanto del mondo, ma l’affermazione di una nuova religione, o la trasformazione dello spirito cristiano nello 'spirito' del capitalismo. Una tesi forte, inevitabilmente controversa, ma che coglie senza dubbio una dimensione fondamentale del nostro tempo, colta anche dal genio filosofico di Antonio Rosmini quando il capitalismo era ancora ai suoi albori.
Gli intrecci tra cristianesimo e capitalismo sono profondi fin dalle loro origini. Il capitalismo prende il proprio lessico dalla Bibbia (fede-fiducia, credito-credere...), e gli stessi evangelisti usano il linguaggio economico del loro tempo per comporre similitudini e parabole. E non capiamo Medioevo, Riforma e Modernità senza le tante intersezioni tra grazia e denaro. Ma solo in epoca recente il capitalismo ha rivelato pienamente la sua natura di religione pagana. Non c’è soltanto la devozione alla dea fortuna, divinità suprema della legione di 'giochi' che sta possedendo nuove categorie di poveri. Non ci sono soltanto i centri commerciali disegnati a forma di tempio, né solo la cultura di quelle società di multi-level marketing che iniziano col segno della croce le loro sedute in cerca di nuovi fedeli del loro prodotto-feticcio, e neanche soltanto la creazione di un sistema finanziario basato sulla sola fede senza più alcun rapporto con l’economia reale.
Questa nuova religione ci promette, ci offre, molto di più: una pseudo-eternità, un surrogato della vita eterna. La mia auto in quanto singolo prodotto invecchia e si deteriora, ma, se ho il denaro o credito, posso acquistarne immediatamente un’altra nuova, vincendo così la morte. Fino all’apoteosi della chirurgia estetica, l’elisir dell’(illusione) dell’eterna giovinezza. Come ogni religione pagana celebra il piacere e la giovinezza, e così non vuol vedere e nasconde la morte (anche dentro l’idea orgogliosa di quell’autodeterminazione che si fa eutanasia e suicidio assistito). La nasconde perché troppo vera per essere da essa capita: chi incrocia più un funerale lungo le nostre strade? Chi vede più i bambini attorno al capezzale di un nonno defunto? Così da idolatria, malattia di ogni civiltà religiosa, il culto del denaro si è trasformato con il capitalismo in una vera e propria religione, con propri sacerdoti, chiese, incensi, liturgie e santi, con un culto feriale a orario continuato, un’adorazione perpetua che non si interrompe né di sabato, né di venerdì, né tantomeno di domenica. È quindi una pia illusione pensare che la cultura capitalista possa rispettare il riposo domenicale: in quella religione non c’è domenica, perché ogni giorno è il giorno del culto. Non c’è coabitazione tra la cultura della domenica e la cultura del capitalismo.
I capitalismi, però, non sono tutti uguali – o almeno non lo erano fino ad epoca recente. L’Europa, in particolare, ha generato una sua propria via al capitalismo, che è stato l’approdo di un modo di intendere l’economia e la società, nato anche dal cuore dei carismi monastici, francescani, domenicani. La Riforma e la Controriforma hanno inferto una profonda ferita a quell’economia di mercato che aveva fatto grandi e bellissime Firenze, Venezia, Lisbona.
La lunga storia europea, con la sua grande esperienza di società diverse e meticce, è stata capace di dar vita ad un capitalismo sociale o, come preferisco dire, a una economia di mercato civile che ha consentito i miracoli economici, la fioritura del movimento cooperativo (la più grande esperienza di economia di mercato non capitalistico della storia), il grande progetto di un’Europa unita, e la realizzazione di uno Stato sociale e comunitario che il mondo civile ci invidiava. Il nostro capitalismo è stato diverso, non dimentichiamolo oggi nell’età della globalizzazione, perché era basato su una idea di mercato solidale e comunitario. Se il nostro capitalismo civile fosse ancora vivo, non dovrebbero esistere società di giochi e scommesse 'legali' che 'donano' un volgarissimo 0,0001% degli enormi profitti a fondazioni per la cura delle dipendenze dall’azzardo da loro create. Come non dovrebbero esistere fondazioni ed enti pubblici che accettano queste elemosine, disoneste e mortifere. E non dovrebbero esistere cittadini europei che assistono silenti a questi sacrifici umani ai nuovi dei pagani. E invece esistono e proliferano, complici i governi, anche per mancanza di forza politica, per assenza di pensiero profondo, e per la latitanza di una società civile matura e responsabile. Le Chiese, in particolare la Chiesa cattolica, nel Ventesimo Secolo avevano individuato il nemico della fede nei grandi sistemi collettivisti, e sono state protagoniste nel crollo di quei muri. E mentre la polvere di quel crollo si alzava, la voce del Papa non mancò di avvertire che un’altra forza presuntuosa e 'selvaggia' continuava a minacciare l’uomo e la donna del nostro tempo.
Non c’è, però, ancora la consapevolezza diffusa del pericolo non meno devastante e anti-cristiano del capitalismo finanziario, che, anche per la nostra distrazione, sta dominando e paganizzando il mondo. L’uomo del capitalismo non può essere evangelizzato, perché ha già il suo vangelo, che chiede molto meno del Vangelo di Gesù.
La buona battaglia per salvare la domenica, anche come giorno liberato dalla cultura del mono-mercato, ha senso se è segno di una rinascita di un pensiero politico ed economico diversi, che metta in discussione i dogmi e i tabù del culto dei mercati. Le radici cristiane e umanistiche dell’Europa non possono essere invocate solo per riconoscere da dove veniamo, dovrebbero anche indicarci dove dobbiamo andare. E sono negate e osteggiate proprio perché segno di contraddizione, perché risorse morali utili per tracciare una rotta alternativa rispetto a quella che si vuole imporre. L’impero del capitalismo finanziario e della sua religione è destinato, come tutti gli imperi della storia, a crollare, e sono molti i segni che dicono che il suo crollo non è distante. Dobbiamo sentire forte la responsabilità di agire e reagire subito per far sì che tra due-tre decenni i nostri nipoti crescano liberati dai totem e i tabù che hanno occupato il nostro tempo e persino le nostre anime.
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Capitalismo finanziario e antidoti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/07/2013
Per capire che cosa veramente si cela dietro le crescenti resistenze alla chiusura domenicale dei negozi, dobbiamo avere il coraggio di fare seriamente i conti con la natura antropologica e cultuale del nostro capitalismo. Il filosofo Walter Benjamin nel 1921 scriveva che «nel capitalismo bisogna scorgervi una religione, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccupazioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. (…) In Occidente, il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo » (Il Capitalismo come religione, 1921). E con capacità profetica aggiungeva: «In futuro ne avremo una visione complessiva».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/06/2013
C’è una nota che accomuna molte forme di malessere non inevitabile che affliggono la nostra società: l’urgenza di rieducare le nostre passioni e i nostri sentimenti. Una passione da rieducare presto è l’invidia, tra le più devastanti in ogni cultura, molto pericolosa nei tempi di crisi. Le culture del passato, a differenza della nostra, conoscevano i disastri prodotti dall’invidia non curata e gestita, e così avevano sviluppato un’etica idonea ad orientarla al bene o quanto meno ad arginarla.
[fulltext] =>La regola d’oro – ‘fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te’ – può anche essere letta come una cura preventiva dell’invidia. Non a caso è posta dalla Bibbia al centro della prima fraternità-fratricidio di Caino. La nostra civiltà, però, fa molta fatica a capire l’invidia. La confonde con un’idea errata di competizione (battere gli altri), la quale viene addirittura presentata come l’unica strada per orientare al bene comune la natura invidiosa della persona.
Non la vediamo dietro alle crescenti invocazioni della meritocrazia, cioè del merito nostro e del demerito (o “fortuna”) degli altri. Non la riconosciamo dietro denunce e querele, e così non facciamo regole per bloccare sul nascere troppi processi evidentemente ‘invidiosi’, che assorbono immense energie morali ed economiche di cittadini e tribunali. Non la smascheriamo nella corsa al “consumo posizionale”, che ci fa indebitare per raggiungere i livelli di consumo di colleghi e vicini e di casa, un’invidia sociale che la pubblicità tende ad amplificare e il mercato a sfruttare per vendere le sue merci, aumentando il Pil e l’infelicità – eliminare la componente ‘invidiosa’ del Pil sarebbe un primo passaggio verso una misurazione del benessere reale di un Paese.
Eppure l’invidia è molto semplice da individuare: è soffrire per il bene altrui, gioire per il suo male, e poi agire per creare quel male o ridurre quel bene. In tedesco esiste una parola (Schadenfreude) che esprime esattamente quel sentimento di compiacimento che può nascere in noi quando qualcuno ci comunica una brutta notizia che lo riguarda.
Perché però si cada nel vizio, e spesso dal vizio si passi al danno e persino al reato, occorre che la passione generi azioni. Non è il semplice “desiderio” della “roba d’altri” a violare il comandamento. Ce lo suggerisce anche il significato del verbo ebraico hamad: nel Decalogo lo traduciamo con “desiderare”, ma la sua semantica indica l’atteggiamento di chi delibera di agire per ottenere ciò che desidera (male). In realtà, se un sentimento o un pensiero cattivo non viene combattuto sul nascere, prima o poi si traduce anche in opere, parole, omissioni.
Nell’invidia esiste poi un fondamentale meccanismo di reciprocità negativa. Poiché so che tu stai provando invidia per il mio successo, anche io, se sono invidioso, provo un piacere subdolo a raccontarti le mie vittorie (e a tacerti le mie sventure). E così si generano spirali di mali relazionali, di cui siamo ogni giorno spettatori e protagonisti, circoli viziosi spezzati solo dalla presenza di persone magnanime. La presenza di persone magnanime è un grande dono per una comunità, perché, essendo anti-invidiose, moltiplicano le gioie e riducono i dolori. Ma non si diventa magnanimi senza una profonda vita spirituale e quindi un costante esercizio dell’agape – sia l’eros che la philia possono produrre invidia, solo l’agape è per natura anti-invidiosa. La famiglia è, o dovrebbe essere, il principale luogo dove si svolge il gioco di specchi virtuoso dell’anti-invidia. Una delle più grandi forme di povertà del nostro tempo è quella che vivono i tanti che non hanno persone anti-invidiose con cui condividere le grandi sventure e le grandi gioie dell’esistenza.
L’invidia, come già ricordava Aristotele, si sviluppa solo verso i nostri pari. Da studenti non si è invidiosi dei professori, ma dei compagni. Non si invidiava l’imperatore, né il padrone. Verso i ‘superiori’ scattano altri sentimenti: rabbia, ammirazione, l’imitazione e magari la speranza di diventare un giorno come loro. Non si invidiano i genitori, ma i fratelli. Un segnale inequivocabile di invidia è la sindrome dell’ “anche se …”, quella nota negativa con cui l’invidioso termina ogni apprezzamento (“è un’ottima persona, anche se …”). Le società castali, dalle civiltà antiche alle grandi imprese capitalistiche, sono anche un tentativo di limitare lo sviluppo dell’invidia. L’ideale di ogni società gerarchica perfetta è la costruzione di organizzazioni sociali dove i pari siano il meno possibile, e ognuno abbia solo superiori e inferiori. Gli esseri umani fanno fatica non tanto a comandare o ubbidire, ma a rapportarsi positivamente con i pari. Le società globalizzate e più ugualitarie aumentano moltissimo il numero dei pari, e quindi la possibilità dell’invidia.
Ma non dobbiamo dimenticare che quando ci confrontiamo con chi sentiamo migliori di noi, insieme alla possibile invidia sorge spesso anche la stima e il desiderio di cooperazione. Quando un mio pari ottiene un miglioramento e siamo in un contesto statico, dove la ‘torta’ è data ed è una sola, quel suo vantaggio può facilmente tradursi in un mio svantaggio, in un “gioco a somma zero” (dove i guadagni dell’uno sono uguali alle perdite dell’altro). E qui scattano il sentimento e spesso le azioni, dell’invidia.
Ma in realtà le relazioni sociali che sono oggettivamente un “gioco a somma zero” sono soltanto una piccola minoranza. La vita in comune, quando funziona, è invece una grande fabbrica cooperativa, un insieme di relazioni di mutuo vantaggio per crescere insieme. L’invidia coltivata ci fa allora perdere molte occasioni di mutuo vantaggio, perché ci porta a leggere soggettivamente il mondo come un luogo di continuo confronto rivale e distruttivo con gli altri, e non come un insieme di opportunità di reciprocità. Ecco perché molto spesso l’invidia è una scorciatoia sbagliata in un rapporto nel quale non siamo stati capaci di vedere e trovare una buona reciprocità. L’invidia può essere una stima che non giunge a maturazione per insufficiente magnanimità.
Nei tempi di crisi si accentua la tendenza a leggere i rapporti con gli altri in termini rivali e invidiosi, come ‘giochi a somma zero’. Le crisi alimentano le invidie e da queste sono alimentate. È quindi in questi tempi che l’educazione all’anti-invidia, alla magnanimità, alla stima dei nostri pari è particolarmente preziosa, cominciando come sempre dalla famiglia e dalla scuola per arrivare alle istituzioni (sistema fiscale, schemi d’incentivi nelle imprese …), che non devono generare il loglio dell’invidia ma il buon grano della cooperazione.
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L'invidia male dei tempi di crisi
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 30/06/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/06/2013
L’annuncio del G8 di lanciare una guerra ai ‘paradisi fiscali’, e le proteste dei brasiliani per la Coppa del mondo di calcio, sono fatti profondamente legati tra di loro. Il “grande” calcio ha perso contatto con il buon gioco. Tra il mercato delle multinazionali dello sport e la partita di calcio nel campetto c’è sempre meno in comune, come c’è sempre meno contatto etico tra il mio comprare pane al mercato e le dinamiche dei grandi mercati internazionali dei cereali. Non si tratta più – come fino pochi decenni fa – di differenze di grado, bensì di natura, una trasformazione profonda cui ha contribuito, e non poco, l’avvento del capitalismo finanziario.
[fulltext] =>È anche (non solo) questa trasformazione di natura di un calcio preda dei grandi interessi economici, che porta molti brasiliani a protestare in questi giorni contro l’organizzazione della Coppa. Quei brasiliani stanno allora cercando di dire qualcosa di molto importante al loro governo: investiamo le risorse nell’istruzione dei giovani, nella sanità, nella sicurezza, e quindi nella lotta alla diseguaglianza, la loro vera piaga, che la Coppa (2014) e le Olimpiadi (2016) non curano di certo.
Non si crea panem con i circenses, soprattutto quando i circenses (giochi) sono, ieri come oggi, strumenti in mano agli imperatori. E che quando creano pane quel pane non è buono, perché non arriva ai poveri ma va ad alimentare i banchetti degli sponsor e degli epuloni che costruiscono gli stadi. Il calcio non va usato come il nuovo oppio dei poveri e dei giovani, come a volte è accaduto, e non solo in Brasile. Servono, chiediamoci, nuovi stadi di calcio al Brasile, dove in molte sue regioni mancano ancora buoni ospedali, buone scuole e università? E servirebbero a chi? E servivano, e a chi, al Sudafrica (oggi in profonda crisi economica, dopo una breve primavera pre-2010)? Che cosa ci ha portato Italia ’90, oltre ad appalti corrotti e alla distrazione dalle vicende epocali di quel periodo storico? Per non parlare di Atene 2004. Ma, in generale, perché servono gli stadi a questo calcio capitalistico se mentre li costruisce con soldi pubblici svende lo sport alle multinazionali dei media, che fanno di tutto per venderci la partita in Tv sul divano e da soli, trasformando così lo sport da bene relazionale in merce?
Molte delle multinazionali che sponsorizzano i grandi eventi sportivi brasiliani e di tutto il mondo, sono utilizzatori di quei paradisi fiscali ai quali l’ultimo G8 ha (ri)promesso lotta senza quartiere. Le dichiarazione di guerra ai ‘paradisi’ sono uno dei rituali dei meeting dei grandi, o meglio, dei potenti della terra. Quella del G20 di Londra del 2 aprile 2009 fu una delle più solenni, annunciata come battaglia finale e decisiva alle operazioni offshore. Offshore, cioè azioni che avvengono a largo, nei mari, dove nessuno ci vede e i grandi mostri marini “guizzano e brulicano nelle acque” (Genesi), il regno di Leviathan e di Moby Dick.
Ma l’eden del capitalismo finanziario dai mari ha inondato anche i contenenti, fino alle Alpi. In Europa ci sono troppi stati, principati, repubbliche, isole, dove le imprese ottengono “incentivi” fiscali non troppo diversi da quelli offerti dalle famigerate isole Cayman. I loro abitanti sono moltissime imprese multinazionali, società finanziarie, banche, che con la mano impura pongono la sede legale nei paradisi, e con quella pura producono ‘bilanci sociali’ patinati, e magari generose fondazioni filantropiche con l’1% di quei profitti sbagliati. Lo scorso anno smisi di acquistare un prodotto alimentare, che pure mi piaceva molto, dopo un convegno a Montecarlo in cui scoprii che quella nostra impresa aveva lì la sede fiscale. Dovremmo avere il coraggio di riconoscere che il nostro capitalismo finanziario ha un bisogno vitale dei paradisi fiscali. L’offerta di tasse paradisiache è la risposta alla forte domanda di banche, fondi, imprese e cittadini. Una quota impressionante del commercio internazionale, circa la metà, ricorre direttamente o indirettamente ai paradisi fiscali. Quasi tutte le grandi imprese, per non parlare delle banche o dei fondi d’investimento, hanno interi dipartimenti dedicati all’ottimizzazione fiscale (espressione suggestiva), e pagano milioni di euro a consulenti tributari per trovare il prodotto fiscale migliore sui mercati/mari globali.
La politica mondiale, anche se credesse in quanto dichiara, non ha la forza per gestire questo capitalismo, per domare il Leviathan. I paradisi fiscali non sono allora un’anomalia del nostro sistema. Finché la cultura del capitalismo finanziario resterà basata sulla massimizzazione dei profitti a brevissimo termine, i paradisi fiscali saranno organici al sistema. Se volessimo veramente eliminarli dovremmo fare cose molto serie e radicali, a cominciare con stili di vita non consumistici e solidali che andrebbero inseriti nei programmi di ogni scuola, passando per la regolamentazione bancaria che invece stanno andando nella direzione opposta (es. Basilea 3), per arrivare a qualche segnale di dietro-marcia nel processo di globalizzazione ridando più poteri ai territori. In mancanza di cose serie e quindi impopolari, i nostri leader con le loro dichiarazioni continuano a comportarsi come quel mio amico che alla fine di cene con ogni sorta di grassi e dolci prendeva sempre il caffè con il dolcificante perché voleva “iniziare una dieta”. I processi seri di cambiamento s’interrogano sulle cause, e da lì partono.
Oggi, anche se è scomodo dirlo, i paradisi fiscali sono l’altra faccia, quella meno presentabile, degli smartphone, delle beauty farm, del turismo esotico, e di molte merci che di questo capitalismo piacciono tanto. Molte civiltà del passato hanno avuto i loro paradisi fiscali, quei luoghi fuori dal controllo civile, dove ci si permettevano operazioni di compensazione umana ed etica delle mille ingiustizie di ogni età. Schiavi, servi, colonie, guerre. Ma, non dimentichiamolo, ogni civiltà ha anche lottato per eliminare i grandi mostri che sguizzano nei mari. Ha voluto e sognato un mondo diverso, e ha saputo sperare: “Il Signore, visiterà Leviathan, il serpente guizzante, Leviathan, il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro che è nel mare” (Isaia).
Oggi li chiamano “paradisi”, ma restano sempre luoghi popolati dai mostri marini non meno disumani di quelli delle civiltà passate. Non dimentichiamo che tra le vittime degli abitanti dell’offshore ci sono le piccole e medie imprese che non hanno ‘santi’ in quei paradisi, perché non hanno né la cultura (grazie a Dio) né i soldi per quelle operazioni, ma che si trovano spesso a competere con quelle imprese paradisiache. Perdono mercati, chiudono, e perdiamo lavoro. Prendiamo allora sul serio le proteste civili dei brasiliani, e non smettiamo di sdegnarci per questo capitalismo che ha bisogno degli abitanti dell’offshore. E agiamo, a tutti i livelli, per cambiarlo.
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Sfida all’offshore: dura e necessaria
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/06/2013
L’annuncio del G8 di lanciare una guerra ai ‘paradisi fiscali’, e le proteste dei brasiliani per la Coppa del mondo di calcio, sono fatti profondamente legati tra di loro. Il “grande” calcio ha perso contatto con il buon gioco. Tra il mercato delle multinazionali dello sport e la partita di calcio nel campetto c’è sempre meno in comune, come c’è sempre meno contatto etico tra il mio comprare pane al mercato e le dinamiche dei grandi mercati internazionali dei cereali. Non si tratta più – come fino pochi decenni fa – di differenze di grado, bensì di natura, una trasformazione profonda cui ha contribuito, e non poco, l’avvento del capitalismo finanziario.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/06/2013
Il tema di ordine generale dedicato a una frase tratta da “La rete della vita” del fisico austriaco Fritjof Capra offre molti spunti per ragionare sul significato di termini come competizione e cooperazione. La cooperazione è la regola aura della vita. Il libro della natura ci racconta soprattutto storie di organismi che operano insieme (co-operano) in vista di un mutuo vantaggio. Ma se guardiamo le migliori teorie della biologia evolutiva del secondo Novecento, ritroviamo modelli che combinano elementi di cooperazione con altri di competizione.
[fulltext] =>Ci sono, infatti, due errori da evitare in tema di evoluzione. Il primo consiste nell’identificare la cooperazione con l’altruismo.Le pratiche cooperative in molti casi hanno bisogno anche di comportamenti altruisti da parte di uno o più individui (dall’anatra che aumenta il rischio di essere predata quando lancia un grido di allarme allo stormo per l’arrivo di un falco, all’uomo che si getta nel fiume per salvare qualcun altro che sta annegando). Ma la regola generale della cooperazione non è il sacrificio unilaterale ma il mutuo vantaggio, la reciprocità, la mutualità. Ciò è particolarmente vero nella cooperazione (intenzionale) umana, dalla famiglia alle imprese, dove il cooperare è ‘un gioco a somma positivo’, da cui si esce, in genere, con un mutuo vantaggio.
Il secondo errore da non commettere – verso cui potrebbe condurre la conclusione della frase di Capra – è leggere la cooperazione come l’antitesi della competizione. Competere, come è noto, proviene dal latino “cum-petere”, cercare insieme, un concetto che ricorda molto da vicino la cooperazione. Pensiamo allo sport o al mercato. Non cooperiamo solo all’interno di una squadra: si coopera anche con i concorrenti in una gara di atletica, perché il confronto con gli altri, l’emulazione dei più bravi, migliora i record, e mi fa crescere. Ciò è ancora più vero per il mercato, che è prima di tutto una grande rete cooperativa, che vive anche di ‘civil concorrenza’, come amavano dire gli economisti italiani dei secoli scorsi. Certo, se nello sport ci si dopa e se nel mercato si evadono le tasse, la competizione diventa l’anti-cooperazione e produce ‘male comune’. Come esiste una cattiva cooperazione, quelle delle mafie o dei cartelli tra imprese. Ma qui parliamo di malattie, non della fisiologia delle cose. Un buon sistema sociale sa leggere la competizione come alleata della cooperazione.
Il tema di argomento generale: Fritjof Capra ('La rete della vità) afferma: "Tutti gli organismi macroscopici, compresi noi stessi, sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a lungo andare falliscono. Alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto ad altri individui che sanno come cooperare e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività. Di fatto, dalla creazione delle prime cellule nucleate, l'evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di co-evoluzione sempre più intricatì." Il candidato interpreti questa affermazione alla luce dei suoi studi e delle sue esperienze di vita
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/06/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/06/2013
Quando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, TNS-sofres). Il 68% dei francesi, ad esempio, dice che tra il 2008 e il 2012 la qualità della loro vita lavorativa è degradata. Una percentuale che arriva al 75% per i lavoratori compresi tra i 35 e i 49 anni. C’è, infatti, una sofferenza tipica dei lavoratori di mezza età, quelli che non sono né all’inizio né alla fine della carriera.
[fulltext] =>Le motivazioni nel lavoro crescono con noi. Quando si inizia un lavoro, soprattutto da giovani, le motivazioni sono in genere forti. Dopo venti anni che si lavora nella stessa organizzazione, magari nello stesso ufficio, quelle prime motivazioni tendono a perdere forza, e all’entusiasmo dei primi anni subentrano stanchezza e non di rado cinismo, se non si è capaci di trovare nuove motivazioni, magari più profonde e alte delle prime, certamente diverse. Ciò è vero - lo dicono quegli stessi dati - soprattutto per i dipendenti pubblici e per gli impiegati di medio livello.
Basta guardarsi attorno, o dentro, per vedere quanta insoddisfazione c’è nei nostri luoghi di lavoro, soprattutto nelle persone di mezz’età. Non a caso gli studi sulla felicità mostrano un andamento ad “U” in rapporto all’età: il minimo di felicità si raggiunge attorno ai 45 anni – poi la felicità riprende a risalire, se si hanno salute e buone relazioni.
Ciò che è certo è che abbiamo costruito organizzazioni e regole di governo che ignorano, o trascurano troppo, le diverse età della vita, dimenticando che tra Maria lavoratrice ventenne e Maria sessantenne c’è poco in comune. Noi cresciamo, evolviamo, ma la nostra impresa non cresce e non cambia con noi e come noi. Ecco allora che nel ‘mezzo del cammin’ ci ritroviamo spesso in crisi profonde, che vanno ben oltre la sola dimensione professionale – il lavoro è vita.
Il mondo dell’ impresa investe troppo poco nella cura delle relazioni umane. Anzi, la cultura relazionale interna alle imprese, private e pubbliche, è troppo spesso basata sulla sfiducia e su un pessimismo antropologico che ci ha convinti che la gente lavora solo quando è controllata o incentivata. Così troppa gente sta male a lavoro – quando daremo vita ad un indicatore nazionale di benessere e malessere lavorativo? -, e spendiamo sempre più tempo e denaro in ricerca di benessere, spesso illusorio, fuori dal lavoro (wellness, spa), in fuga dal malessere lavorativo. È questo un umanesimo saggio e sostenibile? Non sarebbe socialmente più intelligente aumentare il benessere, e quindi la qualità delle relazioni, mentre si lavora?
In questo cambiamento di paradigma potrebbero venirci incontro, ad esempio, la storia e la cultura delle istituzioni carismatiche che sono, guarda caso, le istituzioni più longeve dell’Occidente – la vita media di una abbazia benedettina europea è di circa cinque secoli. La loro durata dipende anche da regole di governance, che ne hanno consentito, e ne consentono, la lunga e buona vita. Ci sono alcuni strumenti di tali comunità carismatiche che dovrebbero essere imitati, con opportune mediazioni, anche dalle imprese, poiché hanno una portata antropologica universale.
Prendiamo, per un esempio, la pratica del colloquio periodico tra ogni membro della comunità e il proprio diretto responsabile, strumento cruciale per la cura relazionale di quelle comunità. Ci sono molte imprese dove i dipendenti vanno in pensione senza aver mai avuto un vero colloquio personale con il proprio dirigente. Conosco, invece, alcune imprese e cooperative dove tali pratiche esistono, sebbene siano ancora rare e saltuarie.
Il colloquio lavoratore/responsabile – che non va confuso con il ‘coaching’, molto di moda - ha invece un’importanza cruciale, soprattutto oggi. Ci sono molti benefici, individuali e organizzativi, che produrrebbe la pratica sistematica del colloquio (due volte l’anno?).
Innanzitutto, il colloquio crea uno spazio idoneo nel quale esprimere le proteste, le sofferenze, i dissensi, i disagi. Se mancano questi spazi si generano fiumi di chiacchiere, di pettegolezzi, debiti e crediti psicologici, che alimentano divisioni e possono diventare dei propri e veri cancri organizzativi. Le mormorazioni di biblica memoria non sono sempre e soltanto frutto di persone maldicenti e pettegole; possono anche essere il prodotto di una istituzione che non prevede nessun strumento per orientare costruttivamente le proteste, le critiche e i disagi delle persone, e anche per ringraziare, atto fondamentale in ogni comunità, anche lavorativa.
Ci sono responsabili e manager che pensavano di aver ringraziato un lavoratore perché gli avevano inviato un “grazie” o un “bravo” incrociandolo lungo le scale, magari parlando al telefonino. Parole come “grazie”, “scusa”, “bravo” sono preziose solo se usate con parsimonia.
Infine, la pratica del colloquio aumenta quella “philia” necessaria ad ogni organizzazione, perché, se ben fatto, il colloquio non è uno strumento della gerarchia ma della fraternità – entrambi parliamo e ascoltiamo, doniamo e riceviamo. E non raramente anche un lavoratore può aiutare un responsabile a vedersi con l’occhio dei suoi dipendenti, un dono immenso quando lo si riceve, e lo si sa e vuol ricevere. L’errore più grave che può fare un responsabile durante un colloquio e respingere le critiche, oppure dare risposte sbrigative (“ma non hai capito …”, “ti mancano elementi …”, “ti spiego …”).
L’efficacia di un colloquio non sta tanto nelle risposte che si ottengono, ma nella possibilità di esprimere un disagio, una critica, e trovare nell’altro qualcuno che le sa accogliere, e che sa ascoltare – quanto dovremmo investire nell’arte dell’ascolto vero!
Uno dei compiti più importanti di un responsabile è accogliere le critiche: incassarle, elaborarle, e mai rinviarle al mittente. Il diritto allo sfogo è un diritto del lavoratore. E l’ascolto dello sfogo è un dovere dei manager. Per questo occorrono i luoghi e i momenti, investimenti in tempo e adeguata preparazione, anche etica, in entrambe le parti. Non è certo facile fare un buon colloquio: ma ci si può impegnare, esercitarsi, imparare dagli errori – i frutti sono copiosi.
Infine, ci sono due colloqui particolarmente importanti per un lavoratore: il primo e l’ultimo. Il primo dovrebbe essere quello nel quale al neo-assunto si dona la tradizione dell’impresa, la storia dei suoi fondatori, comprese le passioni umane, e a volte gli ideali, che l’hanno generata. E dove si ascoltano le aspirazioni e le passioni del nuovo lavoratore, e magari lo si presenta a tutta la comunità aziendale in un momento di festa.
Non meno decisivo è l’ultimo colloquio quando si lascia un lavoro in cui si sono trascorsi gli anni migliori della vita. Un “grazie” o uno “scusami” detti in quell’ultimo ‘incontro’ possono dar senso e qualità spirituale ad un momento di passaggio tra i più delicati dell’esistenza. Imitiamo i carismi, maestri di umanità, se vogliamo aumentare la qualità delle relazioni nelle nostre organizzazioni. Ce n’è un urgente bisogno.
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L’importanza delle relazioni umane nelle imprese
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/06/2013
Quando un Paese non crea lavoro, soffre anche chi il lavoro ce l’ha. Il benessere lavorativo è in diminuzione, soprattutto nell’Europa del Sud (Ipsos, TNS-sofres). Il 68% dei francesi, ad esempio, dice che tra il 2008 e il 2012 la qualità della loro vita lavorativa è degradata. Una percentuale che arriva al 75% per i lavoratori compresi tra i 35 e i 49 anni. C’è, infatti, una sofferenza tipica dei lavoratori di mezza età, quelli che non sono né all’inizio né alla fine della carriera.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/06/2013
Nelle imprese sta aumentando la gerarchia. Quando la nave rischia di affondare - si dice - bisogna mettere da parte le pratiche partecipative e ridare il comando al capitano con gli ufficiali pronti ad eseguire i suoi ordini. La gerarchia nelle imprese è un grande tema della democrazia. John S. Mill, più di un secolo e mezzo fa denunciava la persistenza di due realtà feudali al cuore della democrazia moderna. Queste erano la famiglia, dove il rapporto tra il marito e la moglie era del tipo padrone-servo, e l’impresa capitalistica, basata sul principio gerarchico, eredità del mondo antico. Così Mill proponeva il voto e il lavoro alle donne per superare la famiglia feudale, e la diffusione delle cooperative per democratizzare le imprese. Dopo oltre un secolo e mezzo, nella famiglia, soprattutto nelle culture occidentali, l’uguaglianza uomo-donna è sempre più sostanziale (meno nelle imprese e nelle istituzioni), grazie anche alla partecipazione politica ed economica delle donne.
[fulltext] =>Le imprese capitalistiche, però, restano ancora troppo ancorate al principio gerarchico. E così ci ritroviamo ancora con una delle principali istituzioni della democrazia moderna, l’impresa, basata proprio, e sempre più, su quel principio antico (la gerarchia tra diseguali) che la modernità voleva combattere. È questo uno dei tanti paradossi del mondo contemporaneo, che noi accettiamo senza troppi problemi e discussioni pubbliche, e che il movimento cooperativo aveva cercato di superare portando democrazia nelle imprese (nel consumo e nel risparmio).
Questo ritorno di gerarchia deve invece preoccuparci, perché le imprese, e tutte le organizzazioni, vivono e crescono bene quando sanno abbinare al principio gerarchico altri principi co-essenziali. Uno di questi è quello che Aristotele chiamava philia, una parola che oggi possiamo tradurre, più o meno, con amicizia o reciprocità non contrattuale. Un’impresa non funziona quando le relazioni si appiattiscono sul solo registro gerarchico, perché le manca l’altra colonna di ogni organizzazione, e cioè il sentirsi parte di un destino comune e di un bene comune da raggiungere assieme. Se in un’impresa non scatta anche questa dimensione orizzontale, che coinvolge tutti i membri dell’impresa, quella istituzione potrà anche fare profitti e pagare salari, ma non sarà mai un luogo dove la gente vive bene e fiorisce in umanità. Anche le relazioni aziendali sono relazioni sociali, nelle quali attiviamo non solo il registro del puro calcolo degli interessi, ma tutte le nostre emozioni, passioni, speranze, amore. Così quando manca la philia tra tutti, nelle imprese mancano l’entusiasmo e la gratuità; e senza entusiasmo e gratuità non si innova né si esce dalle crisi.
Va poi ricordato che la gerarchia, che è uno dei principi più primitivi, nasce per garantire e gestire l’immunità e quindi la separazione tra puro e impuro. Il bisogno di immunità dagli “impuri” è fondamentale per comprendere ogni forma di gerarchia, da quelle arcaiche a quella delle imprese capitalistiche, dove tra i top manager e gli operai dei reparti non c’è alcun vero contatto. Ma se le imprese non compensano l’immunitas della gerarchia con la communitas della reciprocità, diventano alla lunga dei luoghi invivibili, e non di rado disumani.
Le nostre imprese hanno prodotto e producono ancora buona vita insieme a buoni prodotti perché l’imprenditore era, ed è, anche un lavoratore accanto agli altri, spesso artigiano e quindi gomito a gomito con i suoi dipendenti, loro compagno di pane e di strada. È anche vero che in certi momenti e in certe funzioni l’imprenditore, o il manager, è diverso dai suoi operai – nel prendere una decisione strategica, nel fare un rimprovero, nelle responsabilità, nei doveri, nei guadagni, e nelle perdite. Ma molte altre volte è uno o una di loro, con lo stesso destino e compito etico: far vivere e crescere un’impresa, comunità, famiglie, sogni.
È questa la vera solidarietà dell’impresa, che, quando c’è, ne fa un brano di vita autentica e buona: imprenditori, dirigenti, impiegati, lavoratori, tutti diversi e tutti uguali, ordinati dalla gerarchia e dai contratti ma prima legati reciprocamente da philia e da patti, spesso impliciti ma non meno importanti dei comandi e dei contratti. Quando la comunità aziendale non sente, in alcuni fondamentali momenti, il manager o l’imprenditore come uno di loro perché non fa mai l’esperienza dell’uguaglianza con tutti, l’impresa non riesce a tirar fuori da ogni persona il meglio. Né riesce a generare felicità vera, che nasce da rapporti tra uguali, da incontri “occhi negli occhi”, come fu, ed è, quello pieno di stupore e di gioia tra l’uomo (Adam) e la donna (Eva). Ecco perché la mancanza di gioia e di festa è sempre un primo segnale che in un’impresa, e in qualsiasi organizzazione, sta scomparendo la philia per lasciar spazio ai soli rapporti formali e gerarchici.
Le feste aziendali veramente utili, e per questo troppo rare, sono quelle dove anche i “capi” si lasciano prendere in giro, mangiano e bevono con e come tutti. Se manca questa uguaglianza nella festa, anche i brindisi natalizi finiscono per rafforzare le distanze, le gerarchie, le immunità. Quando la nave affonda la sola gerarchia sembra essere più efficace. Ma chi ha vissuto vere crisi sulle vere navi, nelle comunità e nelle imprese, sa invece che se durante i tempi ordinari non si investe in philia e in reciprocità, si è forse più efficienti nella gestione delle piccole crisi, ma si affonda veramente nelle grandi, quando ti serve l’anima e il cuore delle persone, e non li hai. Ti servirebbe la forza dei patti, e ti ritrovi invece con la debolezza dei soli contratti e degli organigrammi di carta. La philia che sembra più debole – perché più prossima e “contaminata” – del nudo comando, è in realtà più forte e resiliente nei momenti nei quali serve quella tipica forza morale collettiva che nasce dalla consapevolezza e dall’esperienza quotidiana della mutua fragilità e vulnerabilità.
Una forza invisibile che conoscevano bene i contadini e le donne nelle società di ieri (ma anche di oggi). Quando alla gerarchia si affianca la philia, la gerarchia non è più la stessa: si trasforma, si umanizza, si fraternizza, sembra perdere forza mentre in realtà l’acquista - purché la philia non sia solo faccenda di retorica e di pacche sulle spalle, ma diventi prassi aziendale, governance, regole del gioco, e anche politiche salariali eque e diverse, come ci insegna ancora oggi Adriano Olivetti. Un dirigente che sa farsi prossimo e solidale con i suoi compagni di viaggio non è meno forte di chi tiene le distanze non contaminandosi. Ma queste capacità e questi talenti non si imparano nelle business school del capitalismo, dove, anzi, vengono biasimate e avvilite, perché considerati “perdenti”. La betulla non è meno forte del pino - chiedetelo al vento di tempesta. In questa stagione di passaggio e di burrasca dell’economia e della vita civile, ci serve un nuovo investimento in relazioni umane e in una cultura organizzativa. Ci serve la forza della betulla.
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di Luigino Bruni
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