stdClass Object ( [id] => 6816 [title] => Attenti al merito [alias] => attenti-al-merito [introtext] =>Commenti - Pluralità del capitale umano
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2013
Una parola chiave di questo nostro tempo economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", una frase che arriva prima o poi in ogni dibattito televisivo. Una parola tra le poche capace di raccogliere il consenso di (quasi) tutti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e meritorietà (preferendo la demo-crazia alla merito- crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giustificare il proprio. E sarebbe una accusa assolutamente opportuna se chi mette in discussione la meritocrazia lo facesse per sostenere la causa dell’incompetente, del privilegiato, del raccomandato, o del protetto.
[fulltext] =>Ma contrapporre merito a demerito, e quindi lodare il primo e biasimare il secondo, non è un’operazione utile, perché banale. Il discorso diventa invece rilevante non appena proviamo ad arricchirlo.
Innanzitutto, va ricordato che il tema del merito è molto antico e complesso, al punto che ha generato infinite discussioni, anche teologiche. È stato al centro di un trattato dell’economista Melchiorre Gioia, che nel 1818 così apriva il suo Del merito e delle ricompense: «Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse». In realtà oggi «non tutti sanno», e troppi hanno dimenticato questa vecchia e profonda verità, e chi invoca la meritocrazia pensa che il merito sia qualcosa di unidimensionale, e tutto sommato semplice da individuare, pesare e usare come criterio per le buone scelte. Ci sono senz’altro ambiti nei quali il merito è immediato, quelli dove si cercano competenze tecniche molto specifiche e rare, dalla ricerca scientifica alla cucina giapponese. Nell’economia e nelle organizzazioni, però, il merito è qualcosa di complesso e per nulla semplice da individuare.
Immaginiamo una piccola o media impresa (per esempio industriale) che ha di fronte tre candidati per un solo posto di dirigente nell’area del personale. Il primo, Andrea, vorrebbe rientrare in Italia dopo otto anni di lavoro all’estero come direttore del personale in una grande azienda. Tra i candidati ha il migliore curriculum tecnico, coronato da un master in 'risorse umane' presso una prestigiosa università di Londra. Il secondo, Bruno, non ha il master, è più giovane di Andrea, ha comunque una laurea in economia col massimo dei voti, e ha lavorato cinque anni come responsabile in una cooperativa sociale, ottenendo ottime referenze per il suo talento relazionale e di coordinamento del lavoro di gruppo. Infine Catia, coetanea di Bruno, è sposata, ha tre bambini, si è laureata a pieni voti in psicologia del lavoro, ma con due anni di ritardo perché ha terminato gli studi mentre arrivava il primo figlio. Ha una breve esperienza lavorativa nel mondo della cooperazione in una grande organizzazione dove ha coordinato progetti complessi, e così sa molto bene l’inglese (più di Andrea e Bruno).
Chi dei tre è più meritevole di essere assunto? O quantomeno di arrivare al secondo stadio della selezione? Questo esercizio comparativo è molto comune nelle grandi organizzazioni, o quando le imprese medio-piccole affidano la selezione del personale ad agenzie esterne. Un primo sguardo di buon senso a questi tre curricula dovrebbe innanzitutto dirci che abbiamo di fronte tre persone tutte meritevoli, ma meritevoli per ragioni diverse. Nell’attuale cultura d’impresa, però, i meriti che vengono visti e premiati sono sempre più quelli di Andrea, molto meno quelli di Bruno e di Catia. Nessun intelligente selezionatore nega che i meriti siano molti, ma poi, per la cultura dominante nel mondo del business, li pesa e ordina, ritenendone alcuni più rilevanti di altri. Anche perché i meriti tecnici e i titoli si prestano a essere facilmente tradotti in quantità, e così sembrano oggettivi e quindi equi. Invece i meriti relazionali e qualitativi sono difficili da ordinare oggettivamente, e soprattutto sono stati e sono spesso utilizzati come scuse per mascherare assunzioni di amici e parenti; sono meriti che si prestano di più anche all’abuso, ma non per questo meno importanti, anche in termini di fatturato e di sviluppo dell’impresa.
Si commette così l’errore grave di dimenticare che un master, le tecniche, il know how, si possono acquistare sul mercato, ma alcuni talenti relazionali e qualitativi, il know why, sono legati alla nostra storia, frutto di scelte e di investimenti lunghi e costosi, che nessun mercato può vendere. Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un analfabetismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come 'scusa', 'perdonami', parole che quando mancano bloccano le imprese come e più del razionamento del credito. Il cosiddetto 'capitale umano' è la prima risorsa di ogni impresa, ma è un capitale plurale, fatto di molte dimensioni e competenze.
Molte donne, soprattutto mamme, sviluppano, per natura e per necessità, capacità di gestire la complessità (figli, famiglia, genitori, parenti, lavoro, rapporti sociali …), capacità che hanno anche un grande valore organizzativo ed economico, se opportunamente viste e valorizzate, come ormai mette in luce anche la ricerca scientifica sui danni economici dovuti alla discriminazione delle donne nei luoghi decisionali. La crisi economica è il risultato non solo del demerito, ma anche, e soprattutto, di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD, ma rivelatisi demeritevoli in relazioni, etica, umanità.
C’è bisogno di una ridiscussione pubblica di che cosa sia il merito e della sua natura plurale. Altrimenti continueremo ad avere troppe persone meritevoli che restano fuori dalle mura della città del lavoro. Alcuni vi restano perché sopravanzati da immeritevoli protetti e raccomandati; ma molti altri e molte altre perché hanno meriti che la nostra economia e società non sa vedere e riconoscere. Due ingiustizie, una più importante dell’altra, ma la seconda più grave perché non è neanche percepita come tale.
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Pluralità del capitale umano
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2013
Per avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.
[fulltext] =>La metafora più potente, anche per la sua lunga storia, è quella economica, che porta a leggere la dinamica politica come la competizione nei mercati.
C’è una lunga tradizione di pensiero che ha visto la politica sulla falsariga del mercato, e non sempre con risultati negativi o incivili. Joseph Schumpeter, negli anni quaranta del secolo scorso, scopriva con tristezza e profeticamente che i politici altro non sono se non ‘mercanti di voti’. Da quella intuizione è poi scaturita tutta una teoria politica “competitiva” dove i diversi partiti lottano tra di loro per conquistare il voto dell’elettore al fine di raggiungere il potere. I partiti sarebbero così nulla di sostanzialmente diverso dalle imprese, poiché le imprese (capitalistiche) massimizzano i profitti economici e i partiti massimizzano i profitti politici (voti).
Dietro questo approccio economico-competitivo alla politica (il ‘mercato politico’) si cela l’idea-ideologia che il mercato sia il principale luogo e strumento di libertà e di eguaglianza, e che lo è tanto più quanto più alimenta la concorrenza. Questa visione “competitiva” della democrazia è molto complessa quando si esce dall’astratto e ci si cala dentro la prassi politica, anche perché, a differenza dei mercati ‘civili’, le coalizioni tra partiti una volta raggiunto il potere lo possono usare a proprio vantaggio, scaricando, almeno in buona misura, i costi sulle minoranze meno dotate di voce politica. Questa logica diventa poi devastante se chi la pratica ha in mente un’idea errata di mercato, come è, purtroppo, quella che domina da qualche decennio in Italia, e sempre più in un mondo governato dalla finanza speculativa “a somma zero”.
L’idea di competizione economica che possiamo evincere dalle azioni e dalle parole di molti leader politici, sarebbe soltanto bizzarra se non fosse anche tragica. Un’idea che avrebbe fatto rabbrividire anche gli economisti classici fin da Adam Smith, per non parlare dei massimi teorici della democrazia, da Mill a John Rawls. Il mercato viene infatti immaginato come il luogo dove l’impresa Rossi ha come scopo battere l’impresa concorrente Bianchi. Qui la competizione, il cum-petere, diventa un cercare (petere) insieme (cum) di vincere la stessa gara, ma non implica alcuna azione congiunta, nessuna forma intenzionale di cooperazione. È questa un’idea deformata sia di competizione sia di mercato, poiché il buon mercato, o “la civil concorrenza”, nelle parole di Carlo Cattaneo, è esattamente l’opposto: l’impresa Rossi non ha come scopo “battere” l’impresa Bianchi, ma soddisfare al meglio i bisogni dei consumatori; e se l’impresa Bianchi è meno capace di Rossi di soddisfare quei bisogni, o migliora o esce dal mercato. È questa la natura più profonda della competizione di mercato, che è quindi una faccenda cooperativa, un’azione congiunta. Quindi, se qualcuno ama usare la categoria di competizione per descrivere la dinamica politica, che almeno si orienti verso la sua versione migliore, più profonda e civile.
In realtà, quando nei mercati e nella politica gli attori non hanno più l’energia morale e l’entusiasmo civile di guardare avanti e insieme nella stessa direzione, di proporre qualcosa di importante ascoltando e parlando con i cittadini, si guarda “accanto”, e così rischia di prevalere uno sguardo miope e orizzontale orientato a battere il con-corrente, il rivale e l’avversario. E questo è un segnale di malessere etico e antropologico profondo, malattia da curare con fermezza. La concezione odierna, ed errata, del ‘mercato politico’ allora non è altro che un segnale (forse il maggior segnale, come già percepiva Schumpeter) che si è logorato un modo di stare al mondo e di cooperare.
Dobbiamo saper immaginare una nuova stagione esplicitamente cooperativa, se vogliamo veramente arrestare quel declino già da tempo iniziato, che è molto più profondo del debito e del PIL. Una strada che insieme ad altri intravvedo è dare vita, una volta chiusa questa fase elettorale, ad un processo condiviso e cooperativo, analogo a quello che ha ispirato la Costituzione repubblicana, frutto di una ritrovata concordia che riuscì a trasformare le macerie della guerra in un nuovo Patto civile.
I giorni che ci separano dalle elezioni possono solo essere l’inizio, un primo passo, di un lungo processo per il quale sarà necessario il contributo delle migliori donne, uomini e giovani della società civile, verso nuove sintesi. Un primo passo, affinché sia un buon passo, richiede però fin da ora la capacità di coltivare le ragioni della concordia e del consenso, un cercare insieme. Occorre avere il coraggio di mettere in primo piano l’immaginazione e la proiezione verso il futuro da costruire, anziché esaurire tutte le energie nell’affanno di garantire il controllo del presente.
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Commenti - All'Italia (e al mondo) servono visioni e scelte di «Civil Concorrenza»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2013
Per avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/01/2013
«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).
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Ma soprattutto nel Paese c’è un sentire comune disincantato che a troppi non fa più credere che ci possano essere ancora cittadini, tanto meno politici, motivati anche dal bene comune e non soltanto da interessi privati. Il pan-mercatismo di questi decenni ha anche alzato il "cinismo medio", convincendo tanti di noi che la logica degli interessi sia la sola vera e realistica, e che tutto il resto è solo chiacchiere.
Sono molti gli economisti che hanno usato e usano categorie e logiche economiche (cioè dei mercati) per spiegare praticamente tutto, dal perché gli ordini religiosi fanno indossare ai loro membri abiti e pronunziare professioni solenni (per alzare le «barriere all’uscita», come accade nelle industrie), ai comportamenti dei politici e degli elettori.
I primi economisti che tra Otto e Novecento applicarono la logica economica alla politica furono italiani. Tra questi Maffeo Pantaleoni, che sosteneva che le scelte di politica economica e fiscale dipendono «dall’intelligenza media» presente nel Parlamento. Amilcare Puviani, poi, con la sua "Teoria dell’illusione finanziaria" riteneva che il sistema fiscale di un Paese è accettato dalla masse sulla base di una duplice illusione: che la pressione tributaria sia minore di quella reale e che il gettito sia usato per scopi di bene comune, e non per gli interessi privati della classe dominante. Vilfredo Pareto, l’economista italiano più geniale di sempre, continuò questa tradizione, aggiungendovi l’importante elemento che gli esseri umani sono mossi normalmente da passioni e da interessi, ma hanno l’invincibile tendenza a dare una «vernice» logica alle loro azioni. Nel caso dei politici, la «vernice» è il bene comune o l’ideale, mentre la reale motivazione è il potere.
Questo approccio economico alla politica è oggi dominante e pervasivo, eppure coglie soltanto alcune dimensioni delle realtà, ma non tutte, e spesso lascia fuori l’essenziale, tra cui il fatto stesso del voto popolare (è noto che per la teoria economica ufficiale l’elettore "razionale" non dovrebbe votare). Sono convinto che tranne pochissime eccezioni (una di queste è Albert Otto Hirschman, recentemente scomparso), gli economisti non fanno un buon servizio al bene comune quando trattano la politica come un mercato. Anzi, commettono un errore grave e gravido di conseguenze. L’umanesimo dell’interesse (forse) funziona quando debbo scegliere l’auto o un biglietto aereo, meno per il posto di lavoro, molto poco e male per le scelte dove sono in gioco dimensioni simboliche ed etiche, come quelle politiche. Qualche settimana fa una mia collega mi ha detto: «Io appartengo alla classe agiata americana, e avrei tutto l’interesse economico a votare un programma conservatore. Ma non lo faccio, scegliendo di andare contro i miei interessi». L’economia dominante fa una estrema fatica a capire questo tipo di scelte, che invece sono molte e cruciali soprattutto nei momenti di crisi.
Oggi sono molti i cittadini che vanno oltre il loro interesse economico continuando a tenere aperta un’impresa per non licenziare, a pagare tutte le tasse sapendo di essere quasi gli unici a farlo, a credere e a investire nella politica e ad andare a votare per amore civile, nonostante tutto. L’Italia ha già avuto dei momenti felici nei quali la politica, a tutti i livelli, è stata qualcosa di più e di diverso dalla ricerca di interessi privati di elettori ed eletti.
Gli uomini, e ancor più le donne, sono capaci di agire anche per interessi più grandi di quelli privati, negarlo significherebbe negare l’umanità e la dignità della persona. I decenni dai quali stiamo (forse) uscendo hanno minato la virtù della speranza di poter cambiare: ma è da questa speranza, che a livello antropologico, e quindi politico, possiamo e dobbiamo ricominciare. Imboccando la strada della buona politica, che dipende certamente dalla «intelligenza media» del Parlamento prossimo venturo, ma dipende anche, e oggi soprattutto, dalla sua «moralità media».
Le molte "trappole di povertà" nelle quali siamo caduti, soprattutto in alcune regioni del Sud, non si spezzano se non ridando forza profetica e fiducia in se stessa alla politica. Da qui ripartiranno anche lavoro e buona economia. Un’economia non è solo quella che oggi domina nel mondo e il mondo. L’Italia prima di Pantaleoni e Pareto, ha avuto Dragonetti e Genovesi, che hanno pensato e tentato una Economia Civile fondata sulla reciprocità e la pubblica felicità. Il 2013 è anche il 300° anniversario della nascita di Antonio Genovesi (ne parleremo a dovere su queste pagine), ed è un’occasione per riappropriarci di una economia amica della politica e del bene comune.
Lavoriamo (e scegliamo con i nostri stili di vita e il nostro voto) per essere all’altezza di questo passaggio e lasciamo a Genovesi stesso (da una lettera del 1765) la parola: «Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza».
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Commenti - «Politica». ritrovi la morale e se stessa
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/01/2013
«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).
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Commenti - Questo tempo per capire la preziosa «liturgia» delle relazioni
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2012
Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...
[fulltext] =>Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.
I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.
Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.
Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.
Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.
Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.
Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.
1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.
2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.
3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la conpresenza di chi dona e di chi riceve.
È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.
I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.
Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del condono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.
Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.
Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2012
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2012
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[fulltext] =>Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.
I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.
Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.
Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.
Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.
Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.
Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.
1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.
2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.
3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la conpresenza di chi dona e di chi riceve.
È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.
I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.
Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del condono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.
Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.
Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2012
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Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/12/2012
Tornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto quanto poco ormai si canti nelle nostre città, comunità, famiglie. Ma soprattutto, diversamente da quanto accade in quei popoli più giovani, da noi cantano poco gli adulti e i vecchi; e quando non cantano i 'grandi' è cosa grave, perché un vecchio felice, 'lieto', è un messaggio di speranza e di vita lanciato a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vanno aiutati a voler crescere anche con l’esercizio della letizia degli adulti. Ecco allora l’importanza, anche civile, del 'siate sempre lieti'.
[fulltext] =>Ma come si può essere lieti nei tempi della crisi? Per intuirlo occorre innanzitutto ricordare che la letizia non è una parola arcaica, ma attualissima: è parola del futuro, se sarà migliore. Non è solo l’allegria, tantomeno il piacere, non è il merry (allegro, ebbro), un aggettivo associato, nel mondo di lingua inglese, indissolubilmente a Christmas (Natale di Cristo). La letitia ha molto a che fare con le relazioni: non possiamo farci lieti da soli, occorre che qualcuno ci faccia lieti, che facciamo lieti gli altri, che ci facciamo lieti l’un l’altro. Anche per questa sua natura di gratuità e di reciprocità la letizia sta scomparendo dal nostro vocabolario, perché letizia non è parola della società dei consumi, dei giochi e della finanza. Non si è lieti quando si entra in un centro commerciale, né quando si strofinano compulsivamente 'gratta e vinci' o quando si fanno grandi profitti con rendite e con speculazioni. Per queste esperienze o emozioni la parola letizia non calza, sarebbe troppo stonata, anche perché non è una emozione.
Per provare la vera letizia occorre ricevere la notizia di un nuovo posto di lavoro, della guarigione di un famigliare, di una diagnosi positiva, occorre tornare verso casa dopo un lungo viaggio sapendo che qualcuno ti aspetta e si sta preparando per accoglierci e fare festa. C’è bisogno di laurearsi dopo mille sacrifici, di riconciliarsi e riabbracciarsi dopo anni di conflitti, di attendere o stupirsi per un bambino che sta per nascere. Chi non conosce queste esperienze non ha bisogno della parola letizia, può accontentarsi di divertimento, intrattenimento, piacere, happiness. La letizia è dunque una parola fondamentale dei tempi delle crisi, di ogni tipo, perché fiorisce da relazioni buone, e le rende feconde, fertili, generative. Anche per questa ragione la letizia ha la stessa radice (laetus) di letame, è ciò che feconda e fa portare frutto, che fa nascere i fiori. La letizia è come il concime nei campi: perché arrivino buoni e abbondanti frutti non basta arare il campo (lavoro e talento), c’è anche bisogno di quella joie de vivre (laetus), individuale e collettiva, che rende fecondo il lavoro. La letizia rende fertili perché per generare imprese, lavoro, progetti, famiglia, vita, c’è un bisogno essenziale di esser lieti. L’imprenditore genera lavoro e ricchezza finché resta un po’ 'garzoncello scherzoso', e smette di innovare quando perde questa letizia.
La creatività, dall’economia all’arte, è quasi sempre il frutto di adulti che, con grande fatica, hanno custodito in loro il fanciullo. La letizia è una virtù, che, come ogni virtù, va coltivata e accudita per tutta la vita. La «perfetta letizia», poi, nasce da ferite amate, in sé e negli altri, e che così diventano benedizioni, per sé o, più comunemente, per gli altri. Infine, per poter conoscere la letizia occorre essere poveri. È ai poveri che arriva il «lieto annuncio», perché la povertà scelta, che non è quindi né l’indigenza né la miseria, è la pre-condizione che consente di esser lieti. Oggi in Italia e in Occidente ci sono molti, troppi indigenti, miseri, esclusi dalla vita economica e sociale (perché disoccupati, ad esempio), ma ci sono sempre meno poveri, nel senso più alto, vero (e troppo dimenticato) del termine. È la povertà di cui parla, l’economista iraniano Majid Rahnema, che in un suo bellissimo libro (che sarebbe da regalare in questi tempi di Natale) ci mostra una «miseria» che «scaccia la povertà», cioè di una povertà cattiva (quella non scelta e subìta) che rende molto difficile, se non impossibile, vivere la virtù-beatitudine della povertà scelta. Quando si vive una vita di miseria, quando non si hanno i mezzi per vivere e far vivere i propri cari in modo dignitoso, non si può scegliere liberamente una vita povera. La povertà buona e scelta, la sola che porta letizia, si chiama sobrietà, gratuità, condivisione, e nasce dalla consapevolezza spirituale ed etica che i beni che abbiamo diventano ben-essere solo se e quando condivisi, e non trattati come sostituti dei rapporti con gli altri.
Le famiglie lo sanno molto bene. Chi non conosce questa povertà scelta e conviviale, non è lieto perché non è capace di distinguere la letizia dal piacere, la festa dal divertimento, la povertà dalla miseria. Il Natale è festa vera solo per questi poveri. Rimpariamo, allora, ad augurarci 'Lieto Natale'.
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Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/12/2012
Tornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto quanto poco ormai si canti nelle nostre città, comunità, famiglie. Ma soprattutto, diversamente da quanto accade in quei popoli più giovani, da noi cantano poco gli adulti e i vecchi; e quando non cantano i 'grandi' è cosa grave, perché un vecchio felice, 'lieto', è un messaggio di speranza e di vita lanciato a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vanno aiutati a voler crescere anche con l’esercizio della letizia degli adulti. Ecco allora l’importanza, anche civile, del 'siate sempre lieti'.
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Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/12/2012
Sarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi.
[fulltext] =>Sarà per questo e per molto altro ancora, ma questo è un tempo di avvento segnato anche dalle lacrime. Eppure si può, e si deve, sperare in una nuova mietitura, anche in questa nostra Italia: «Chi semina nel pianto, mieterà nella gioia». Chissà quante lacrime del lavoro di uomini, e soprattutto di donne, hanno generato le preghiere, i canti, le grida che sono state raccolte e custodite da quel salmo, e da tanti altri. Le lacrime fanno parte del lavoro, sono companatico quotidiano del pasto, tanto che se il lavoro non conosce le lacrime, cioè il sudore e la fatica, è probabile che non sia lavoro ma qualcos’altro, non certo migliore. Faticare quando si lavora è semplicemente parte della condizione umana.
Ecco perché chi non fa l’esperienza della fatica del lavoro, perché vive di rendite e di privilegi, è privato o si priva per auto-inganno di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della condizione umana. Chi lavora sa che ha iniziato veramente a lavorare non tanto quando ha ricevuto la prima busta paga, ma il giorno in cui ha fatto la prima esperienza della fatica, della durezza, delle difficoltà del lavorare, superandole. Se ci si arresta prima della soglia della fatica non si entra nel territorio del lavoro, e quindi non si raccolgono i suoi frutti migliori, poiché la felicitas non è assenza di sofferenza e di fatica, ma loro salario. Nonostante la cultura utilitaristica ci voglia convincere che l’obiettivo delle buone società è 'minimizzare le pene' e 'massimizzare i piaceri', in realtà esistono delle 'buone pene' e dei 'cattivi piaceri'.
Le buone pene sono quelle che nascono dalla coltivazione delle virtù e dal lavoro, i cattivi piaceri sono la maggior parte di quelle che oggi ci vengono mostrate come facili felicità edonistiche senza fatica.
Ogni eccellenza, nella scienza e nello sport, nell’arte e nell’amore, richiede in certi momenti decisivi le 'lacrime'. Una cultura che non stima e valorizza la fatica del lavoro, non può capire e apprezzare neanche i veri raccolti, e li confonde con quelli falsi (come quei troppi profitti che trasudano di ingiustizia, di saccheggi di ambiente e di vite umane). Ma non tutte le fatiche e le lacrime del lavoro sono buone. Non sono buone, anzi sono pessime, quelle dei servi e degli schiavi, e tutte quelle che non sono accompagnate dalla speranza del raccolto. Quando non si vede un 'bambino' al termine del 'travaglio'. Sono molto cattive le lacrime versate da quei lavoratori e lavoratrici – e sono ancora troppi milioni nel mondo – che faticano senza diritti, sicurezza, salubrità, rispetto e dignità. O quelle dei tanti che il lavoro non ce l’hanno perché l’hanno perso, o perché, esperienza forse peggiore, il lavoro non l’hanno mai avuto; sofferenza che aumenta nei giorni di festa, perché quando manca il lavoro la festa fa più male della feria.
Le lacrime senza pane e senza sale (senza salario...) sono lacrime e basta. Quell’antico canto del lavoro ci dice però ancora qualcosa di molto importante: per sperare di ottenere il raccolto non basta piangere, occorre seminare mentre si piange. Se penso ai giovani, agli studenti, seminare nelle lacrime significa studiare bene, e studiare cose difficili. Il mondo universitario in questi ultimi due decenni di profonda crisi etica ha prodotto troppi corsi di laurea senza (o con poche) lacrime, presentati e scelti perché facili, che hanno generato e generano pochi 'raccolti', e troppi disoccupati. Un giovane si forma studiando cose difficili, soprattutto studiando bene, e studiando di più nei tempi di crisi, come reciprocità nei confronti della comunità che gli consente di studiare nonostante gli scarsi mezzi. Gli studi sul benessere soggettivo delle persone dicono ormai con estrema chiarezza che una delle principali determinanti della felicità (e delle depressioni) è sentirsi competenti nel proprio mestiere, e la competenza richiede disciplina, e lacrime, soprattutto da giovani.
Anche nel mondo dell’economia sono tanti i seminatori, tra i quali quegli imprenditori che stanno investendo in tempi di crisi, che soffrono ma che vivono la sofferenza come esperienza feconda, come molla per innovare e camminare con piede più spedito, magari insieme ad altri. Ma perché la fatica del lavoratore e dell’imprenditore portino alla gioia del raccolto, un ruolo essenziale lo svolgono le istituzioni. Il processo che va dal lavoro al raccolto non è mai una faccenda privata, ma sempre sociale, collettiva, politica: noi possiamo e dobbiamo seminare con serietà e impegno, ma controlliamo solo in parte la gioia del raccolto, che dipende anche da tutti coloro ai quali siamo direttamente o indirettamente legati. E così troppe semine nelle lacrime non conoscono il canto della mietitura. In Italia va ricostruita la cinghia di trasmissione che lega le semine ai raccolti.
Un indicatore della qualità civile e morale di un Paese dovrebbe essere il rapporto fra i raccolti che arrivano nei granai e le buone fatiche del lavoro: «Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni».
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Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"
Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/12/2012
Sarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi.
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Commenti - Questo tempo e la crisi
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/12/2012
L’Avvento – ogni avvento, e ogni vera attesa di salvezza – è una esperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nessuna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioiosa e dolorosa assieme.
[fulltext] =>Una salvezza che occorre prima volere per poi desiderarla. La nostra è crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e manca perché non abbiamo, collettivamente, occhi capaci di vederla o, quantomeno, di intravvederla. Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessario il desiderio dell’alba, e saperne riconoscere i segni. In questi anni si annunciano troppe 'albe', perché ognuno vede i segni della propria alba laddove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la individua nella ripresa del Pil, e spera di vederne i primi segnali nella ripresa dei consumi (la malattia che diventa cura), altri in una ecumenica, ma piuttosto vaga, 'economia sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per affidare anche la cosa pubblica a imprese for-profit, realtà finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però abbastanza forti e cariche simbolicamente per muovere le passioni umane alte, e quindi per aggregare attorno a esse grandi azioni collettive e popolari. E così più scorre il tempo, più lontana appare - ed è - la fine della notte. Una economia dell’attesa oggi dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e 'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civile, rendono illusione ogni attesa.
La prima di queste parole è virtù, in particolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata, accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de Mandeville, trecento anni fa, ci ha raccontato 'La favola delle api', dove la conversione dell’alveare vizioso (ma opulento) in virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi creano sviluppo, perché se la gente non ama lusso, comodità, edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.
Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.
Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli mediopiccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese.
L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.
Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire
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Commenti - Questo tempo e la crisi
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/12/2012
L’Avvento – ogni avvento, e ogni vera attesa di salvezza – è una esperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nessuna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioiosa e dolorosa assieme.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/11/2012
Finalmente, anche in Italia, il sistema fiscale ha accolto il principio del cosiddetto 'contrasto di interessi'. Si arriverà così a dedurre stabilmente dalle imposte alcune spese che i cittadini sostengono per l’acquisto di beni e servizi. Chiedere la fattura o la ricevuta a meccanici ed elettricisti non dovrà più essere un atto quasi eroico del cittadino onesto.
[fulltext] =>Introdurre la deduzione, con modalità adeguate, di queste fatture e ricevute è importante anche per i tanti rapporti ordinari e abituali con meccanici, idraulici, altri artigiani e professionisti delle nostre città. Quando l’elettricista o la parrucchiera non sono sconosciuti ma amici – cosa molto comune nelle piccole città e paesi italiani – il richiedere ricevute e scontrini non è sempre facile, perché, a causa di una cultura radicata nel nostro Paese e in molti altri Paesi latini (sulle cui ragioni ci sarebbe molto da dire), viene non raramente percepito come un’inutile vessazione nei confronti di un amico.
Sono queste le tante 'trappole di povertà' sociale, di cui è piena l’Italia, e che una buona legge può contribuire a spezzare. Se, infatti, il mio elettrauto sa che io posso scaricare (e con un’aliquota adeguata) quella ricevuta, se non è un vero disonesto (continuo ostinatamente a pensare che siano pochi i disonesti veri), sarà per me più semplice chiederla, e per lui emetterla. Ci sono, allora, molte ragioni per gioire di questa proposta che dovrebbe anche aumentare il gettito fiscale. In questa fase iniziale, però, possono essere utili 'avvertimenti per l’uso', perché le ricevute non sono tutte uguali.
Il centro di questo discorso è, e deve poter essere con chiarezza, la famiglia, in particolare le famiglie giovani con figli a carico. Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che la famiglia – in termini esclusivamente economici – non è soltanto un’agenzia di consumo e di redistribuzione del reddito, non è mai stato solo questo: la famiglia è sempre stata, e resta, anche una fondamentale istituzione di produzione di beni e servizi. Il problema campale è che la nostra cultura economica e sociale non vede, per la mancanza di occhiali giusti, l’enorme produzione di beni e servizi che accade dentro le mura domestiche. Le ragioni sono molte, non ultima l’associare la sfera domestica alla donna e al 'dono', e la sfera pubblica all’uomo e al 'mercato'. Il Pil, ad esempio, non vede e quindi non riporta la produzione di beni e servizi domestici (dal cibo alla educazione alla cura), e questo è ormai ben noto; ma non vede e non riporta neanche il valore economico della trasformazione di beni e servizi che avviene dentro casa.
Far sì che una scatola di pelati, un pacco di pasta, cipolla, spezie e carne macinata diventino un pasto servito in tavola e, magari, consumato assieme, è un processo di creazione di alto valore aggiunto economico – basta andare ogni tanto a ristorante per averne una prima stima. Ma questo valore, e questi valori, non entrano nell’economia che conta; e così non contano per le scelte pubbliche, perché associati alla famiglia, a sua volta considerata come faccenda privata, quindi di solo consumo e al massimo di risparmio. Ma c’è di più. La famiglia produce anche capitali sempre più importanti e essenziali per l’economia. Non mi riferisco al solo capitale 'umano' (i lavoratori), che senza la manutenzione delle emozioni e delle relazioni famigliari sarebbero, e spesso sono, lavoratori di bassa qualità (sono curioso di vedere tra qualche anno quali lavoratori usciranno dalle nostre famiglie infragilite...). Ci sono anche i capitali relazionali e sociali, prodotti in gran parte dalle famiglie, e che gli studi mostrano come fattori essenziali di sviluppo economico e sociale.
Quindi, molte delle spese che una famiglia sostiene non sono troppo diverse da quelle di altre 'imprese civili'; certo lo scopo della famiglia non è il profitto né la sua natura è commerciale, ma in questo sono in compagnia di molte altre istituzioni di rilevanza economica (da tante scuole alle Ong). Due ultime note a piè di pagina. Non dovremmo chiamare questa buona legge 'contrasto' o 'conflitto' di interesse, di contrasti e conflitti veri ne abbiamo già troppi in Italia e nel mondo. Quando un cittadino chiede una ricevuta e quando un professionista la emette, non c’è alcun vero contrasto e nessun conflitto di interessi, ma mutua convenienza e interesse ( inter-esse, cioè stare- tra). Perché se un’impresa paga tasse eque e possibili, cresce meglio e in modo sostenibile (il 'nero' condanna a restare bonsai, a meno che non si tratti dei 'grandi neri' della criminalità). Infine, mentre facciamo emergere il 'nero' – che so? – di meccanici e idraulici non dimentichiamoci che – al di là degli scontrini, delle ricevute e delle fatture – la stragrande maggioranza della ricchezza, e delle non-tasse, transitano nei mercati finanziari. In quei paradisi fiscali di pochi che rendono la vita di molti troppo simile a purgatori fiscali, se non a veri e propri inferni; compresa la vita dei tanti meccanici, artigiani e professionisti onesti.
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Il «contrasto di interessi» fiscale
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 25/11/2012
Finalmente, anche in Italia, il sistema fiscale ha accolto il principio del cosiddetto 'contrasto di interessi'. Si arriverà così a dedurre stabilmente dalle imposte alcune spese che i cittadini sostengono per l’acquisto di beni e servizi. Chiedere la fattura o la ricevuta a meccanici ed elettricisti non dovrà più essere un atto quasi eroico del cittadino onesto.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/11/2012
Le grandi crisi – e la nostra lo è – sono momenti di cambiamento di paradigma. La crisi degli anni Trenta del Novecento produsse la rivoluzione keynesiana, ma l’affermazione di quel nuovo paradigma fu preceduta da un lungo periodo di confusione metodologica, che scompaginò tesi consolidate da secoli.
[fulltext] =>Lo stesso Keynes divenne keynesiano, abbandonando le proprie precedenti teorie. Durante le epoche di passaggio, i confini tra i precedenti paradigmi si confondono, i tradizionali dogmi diventano opinabili, le certezze si tramutano in incertezze. Oggi sta accadendo qualcosa del genere, e le classiche distinzioni tra politiche economiche di destra e di sinistra sfumano, in certi casi si ribaltano, si confondono. Ciò è particolarmente evidente in tema di diseguaglianza e libero mercato. La visione tradizionale era molto polarizzata. Il pensiero socialista associava l’espandersi del libero mercato all’aumento della diseguaglianza, il pensiero liberale tollerava di più le diseguaglianze perché dava la priorità alle libertà individuali.
Questa visione tradizionale e speculare è saltata, e oggi vediamo autori liberali teorizzare che l’espansione del libero mercato riduce la diseguaglianza, e intellettuali che si definiscono di sinistra diventare paladini delle liberalizzazioni. E così anche all’interno degli stessi schieramenti politici si ritrovano candidati che esprimono tesi radicalmente diverse su questo punto decisivo della democrazia e della economia attuali.
Per uscire da questa sorte di 'notte del pensiero' sarebbe necessario specificare di quale mercato si sta parlando. I mercati non sono tutti uguali, perché sono il frutto di progetti politici e civili. C’è un mercato che ha ridotto e continua a ridurre le disuguaglianze, e c’è un mercato che le ha fatte crescere e che continua a incrementarle. Il primo lo chiamiamo civile, il secondo capitalistico. E in Europa convivono all’interno degli stessi Paesi, Italia compresa.
Il mercato della cooperazione, dell’impresa sociale, della finanza etica, dei distretti del 'Made in Italy', è stato e in parte è ancora un grande strumento di civiltà, che ha al tempo stesso ridotto la diseguaglianza e aumentato le libertà individuali. L’altro mercato, quello capitalistico, in certe brevi e felici fasi della storia dell’Occidente è stato anche alleato del mercato civile (si pensi, ad esempio, all’Italia del miracolo economico), ma nella fase attuale di capitalismo finanziario sta aumentando le disuguaglianze e riducendo le libertà sostanziali di troppe persone, soprattutto delle più povere e fragili.
Come mostrava a fine Ottocento l’economista italiano Maffeo Pantaleoni, a differenza delle corse di cavalli o di atletica, nella 'corsa del mercato' non esistono soltanto i forti e i deboli, perché chi nel mercato vince oggi, domani parte più avanti nella linea di partenza, poiché le posizioni finali influenzano anche le posizioni iniziali. Ecco perché un mercato senza un pubblico che ogni tanto ri-allinei le posizioni iniziali (ad esempio con il Patto Fiscale di cui su 'Avvenire' si è molto scritto), non è luogo di libertà, ma di iniquità. C’è, poi, un altro elemento da tener ben presente quando si parla di mercato senza aggettivi qualificativi.
Quando ero studente, il programma che introduceva il Tg1 delle 20 si intitolava 'Almanacco del giorno dopo', e vi si alternavano storia, cultura, etologia. Oggi quella fascia oraria è coperta da giochi e 'pacchi', autentiche liturgie alla dea fortuna. Il libero mercato si basa sui gusti dei consumatori (l’audience è una applicazione di questa logica): è questa la sua grande forza, che però, se non accompagnato da altro, diventa anche grande debolezza. Affinché il mercato non diventi una gara al ribasso su tutti i fronti, c’è un vitale bisogno di forti investimenti nella scuola e nella cultura, che offrano ai cittadini strumenti per esercitare coscienza critica e vera libertà di scelta.
Il mercato, perché sia veramente civile e luogo di libertà, ha bisogno di cittadini che siano nelle condizioni di poter effettuare scelte informate.
Se oggi le imprese che investono in settori come arte, cultura, giustizia, ma anche cibo biologico e energie bio-sostenibili, non sono accompagnate dalla società civile e dallo Stato che offrono educazione e formazione adeguata a partire dalle scuole, sono condannate a partire troppo indietro nella 'corsa' del mercato. In Italia, ad esempio, l’educazione musicale, alimentare, ambientale, al consumo dei bambini e degli adulti è nulla o tragicamente troppo insufficiente, e se non sappiamo distinguere tra una canzone pop e una sinfonia di Beethoven, o tra un caffè del commercio equo e un caffè che costa poco perché prodotto sfruttando i lavoratori, persino lo 'sviluppo' dei mercati peggiora tutti e tutto. Se vogliamo dar vita a un mercato che aumenti sia le libertà sia l’uguaglianza, investiamo di più nella scuola e nella cultura, e cambiamo programmi scolastici. Ma, soprattutto, a chi parla di mercato, politici compresi, chiediamo sempre di quale mercato parlano e quale mercato vogliono; perché i mercati sono molti, e non tutti sono buoni.
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A proposito di vera e civile «libertà»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/11/2012
Le grandi crisi – e la nostra lo è – sono momenti di cambiamento di paradigma. La crisi degli anni Trenta del Novecento produsse la rivoluzione keynesiana, ma l’affermazione di quel nuovo paradigma fu preceduta da un lungo periodo di confusione metodologica, che scompaginò tesi consolidate da secoli.
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stdClass Object ( [id] => 6369 [title] => La regola aurea [alias] => la-regola-aurea [introtext] =>Commenti - Compratori di povertà e opere civili
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/11/2012
L’ oro, nella storia di tutte le civiltà, è sempre stato più di un metallo. Il suo simbolismo è tra i più ricchi e profondi, e si intreccia anche con i linguaggi religiosi e con quelli di molti miti fondativi delle comunità, a partire dal matrimonio.
[fulltext] =>Per questo, vendere gli ori di famiglia è sempre un atto qualitativamente diverso dal vendere altre merci, poiché quegli ori raccontano storie familiari, eredità, e soprattutto doni. Ed è quasi sempre un atto doloroso, perché quel (poco) denaro che viene dato in contraccambio è infinitamente più povero e triste di tutta la ricchezza relazionale, e quindi simbolica, che si celava sotto quelle catenine, quei bracciali, quegli anelli.
Ecco perché se andiamo a vedere chi sono coloro che si rivolgono ai compro oro, nella quasi totalità si tratta di poveri e disperati, persone sulla cui indigenza e disperazione prosperano mercanti per profitto, quando non vere e proprie reti criminali, come è venuto alla luce col blitz di ieri della Guardia di finanza, che con oltre 250 perquisizioni in tutta Italia ha sequestrato beni per più di 160 milioni di euro. E così il più nobile e ricco dei metalli sigilla l’atto, a volte estremo, dei meno ricchi delle nostre società. Oggi, come ieri.
La vendita degli ori è atto e fatto antichissimo, come antichissima è l’esperienza antropologica del cadere in disgrazia, a volta senza colpa. Se andassimo a incontrare e a farci raccontare le storie di questi venditori di oro, troveremmo disoccupati, imprenditori indebitati per la crisi, magari pensionati e pensionate soli con un reddito troppo basso per vivere e curarsi; e chissà quanto altro ancora. Fino a pochi decenni fa, quando ancora il nostro Paese era capace di tradurre in istituzioni la sua identità cristiana e comunitaria, a raccogliere questa offerta disperata di ori erano i Monti dei Pegni, o i Monti di Pietà, istituzioni nate a partire dal secondo Quattrocento, dapprima nell’Italia centrale (i primi ad Ascoli, Spoleto, Perugia), e poi in tutta l’Italia e in altri Paesi europei. Furono inventati dai francescani, i quali, amanti veri di 'madonna povertà' e dei poveri, capirono carismaticamente che se un povero che vive una fase di grave difficoltà economica si rivolge al 'mercato for profit', finisce nella grande maggioranza dei casi per peggiorare, e di molto, la sua condizione.
Gli scambi effettuati in oggettivo stato di necessità sono immorali e sbagliati, come ci suggerisce anche una delle letture del grande racconto biblico della vendita di Esau della sua primogenitura per fame (il 'piatto di lenticchie'). Lo scopo di quegli antichi Monti era 'la cura della povertà', poiché le banche non prestavano (e continuano a non prestare) ai poveri, e questo vuoto finiva per colmarlo l’usura. La presenza dei francescani, e poi nel corso dei secoli di molti altri carismi, era essenziale: una garanzia etica ed economica che chi accoglieva quegli ori e quei pegni non avrebbe usato la sua condizione di potere e di asimmetria contro quei poveri, ma per loro e per il Bene comune.
I Monti dei Pegni si sono estinti, non solo per una normativa del credito sempre più complessa, e sempre meno capace di capire i poveri e le loro esigenze; ma anche perché sono venuti meno i carismi civili, persone e istituzioni che sentivano di investire rispondendo in modo creativo alle stesse 'domande' che avevano originato i Monti di Pietà. Oggi, anche per la crisi che stiamo vivendo e che colpisce di più i più poveri, è urgente che il civile faccia di più anche sul fronte dell’accesso al credito dei poveri. Il microcredito moderno, ripartito con Muhammad Yunus in Bangladesh, ha tentato qualcosa del genere, quando ha reso bancabili i poveri senza le classiche garanzie bancarie, grazie a vere innovazioni civili, e quindi finanziarie ed economiche.
In Italia, e in generale in Occidente, non c’è ancora una risposta economico- finanziaria adeguata alle esigenze dei veri poveri, che non può venire in questo momento dallo Stato, ma dalla gente e dalla società civile. Occorrono nuovi 'francescani', nuovi carismi civili che inventino istituzioni che, analogamente agli antichi Monti dei pegni, siano delle innovazioni economiche, non solo assistenza. I Monti di Pietà furono, soprattutto nella prima fase, innovazioni importanti per lo sviluppo economico dell’Italia moderna, perché inclusero gli esclusi.
Il mercato svolge veramente la sua funzione civile, e la sua vocazione umanizzante, quando include chi è ancora 'fuori' per un mutuo vantaggio (di chi include e di chi è incluso): la regola d’oro di ogni vera economia civile non è la filantropia unilaterale, ma la reciprocità, anche produttiva. Se non saremo capaci di dar vita, qui ed ora, a queste istituzioni di economia civile, continueremo a lasciare i poveri e i disperati nelle mani dei cercatori di ori e sempre più spesso dell’illegalità, e non saremo all’altezza dei tanti nostri concittadini che in tempi di crisi non si lamentarono, ma diedero vita ad opere veramente innovative perché inclusive, quelle che oggi mancano all’Italia.
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Compratori di povertà e opere civili
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/11/2012
L’ oro, nella storia di tutte le civiltà, è sempre stato più di un metallo. Il suo simbolismo è tra i più ricchi e profondi, e si intreccia anche con i linguaggi religiosi e con quelli di molti miti fondativi delle comunità, a partire dal matrimonio.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/11/2012
I dati della crisi, che continuano ad alimentare i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e concordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei problemi, alcuni molto seri. Una spia di colore rosso fuoco si è accesa ormai da tempo, e sarebbe ora di fermarsi per fare qualche intervento serio al motore: è la spia del lavoro. Eppure in un momento alto della nostra storia politica e civile, lo abbiamo posto come pietra angolare della legge fondamentale degli italiani.
[fulltext] =>Sono molti i significati del primo articolo della nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». In ogni patto, le prime parole che si pronunciano sono quelle più dense di contenuti simbolici e ideali. Si sarebbero potute scrivere in quel posto speciale altre parole alte, come libertà, giustizia, uguaglianza o persino fraternità; invece in quell’incipit del patto fondativo della nuova società italiana fu inserita la parola lavoro.
Una parola umile ma forte, associata da sempre alla fatica e al sudore, e persino considerata nell’antichità come attività confacente allo schiavo, perché troppo infima: «Ignobili e abietti, poi, sono i guadagni di tutti quei mercenari che vendono, non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio... Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestiere volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bottega » (Cicerone, De Officiis).
Parole pesanti, che certamente erano parte della formazione classica di molti di quei padri costituenti, che però furono capaci di guardare soprattutto alla loro gente e così, pace per Cicerone o Aristotele, videro la tanta nobiltà che c’era «nelle botteghe». E così scrissero la parola lavoro come il primo sostantivo dell’Italia post-fascista – una scelta doppiamente coraggiosa, se si pensa alla retorica del lavoro che aveva caratterizzato il Ventennio. Nella semantica di quel lavoro c’era la vicenda storica dell’Italia contemporanea, dove la democrazia stava avanzando proprio grazie al grande movimento di lavoratori, uomini e (poche) donne, che divennero veramente cittadini quando, abbandonando lo status di servi in una campagna ancora per tanti versi sostanzialmente feudale, divennero lavoratori nelle fabbriche, nelle officine, nelle scuole, negli uffici e nelle cooperative.
Non tutto il lavoro fonda la Repubblica, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi. Ma nelle parole dell’articolo 1, c’era e c’è anche l’esperienza di tanti che per amore della democrazia e dei suoi valori, il lavoro l’avevano perso, perché combattuti ed emarginati dal fascismo. Il primo strumento che ogni potere anti-democratico ha per togliere la dignità e la libertà è cancellare il lavoro. Furono tanti, troppi, gli italiani e gli europei che dovettero chiudere fabbriche, tipografie, uffici, cattedre, per non piegarsi alle richieste anti-democratiche e illiberali del regime. Molti di quegli uomini furono poi tra i padri costituenti, e in quella originale e felice formulazione del primo articolo, cercarono di raccontare anche queste storie di amore civile. E nel far questo hanno creato la più bella equazione della nostra storia repubblicana, quella che pone l’eguaglianza tra democrazia e lavoro: la Repubblica è democratica perché fondata sul lavoro, altrimenti la Repubblica si fonda su rendite e privilegi, e quindi non è democratica. Non è facile, oggi, leggere seriamente quell’articolo, e al contempo restare passivi in una Italia e in una Europa che, da una parte, lasciano troppi milioni di persone fuori dalla "città del lavoro", e dall’altra fanno troppo poco di fronte a nuove forme di schiavitù e servitù.
Quell’articolo quindi, ci può offrire una chiave di lettura potente per comprendere meglio che cosa sta effettivamente accadendo. Ci dovrebbe far capire che la lotta alla disoccupazione deve avere lo stesso posto che occupa il lavoro nella nostra Costituzione: il primo. Non si può barattare il lavoro con i profitti né, tantomeno, con le rendite, perché quando il lavoro della persona umana è negato è in profonda crisi prima di tutto la democrazia. C’è poi un secondo messaggio molto attuale che ci arriva dall’articolo 1 e dalle sue semantiche (oggi, forse, troppo lontane): lavorare non è l’esperienza del servo e dello schiavo. Una tesi che ci chiama a una profonda riflessione quando constatiamo che il capitalismo senza regole e senza misura sta creando nuove forme di schiavitù e di servitù nei livelli più alti e più bassi del mondo del lavoro.
Delle dilaganti e anche inedite forme di schiavitù-servitù di operai e precari nel mondo si parla abbastanza; si parla invece troppo poco delle nuove forme di schiavitù di coloro che vengono considerati privilegiati: dirigenti e impiegati di medio e alto livello nelle grandi imprese multinazionali, che vengono pagati assai bene nei "nuovi mercati", ma che di fatto rinunciano più o meno consapevolmente, a crescenti fette di libertà, di tempo, di festa, di famiglia... La rossa spia del lavoro continua allora a lampeggiare: prendiamola tutti più sul serio, fermiamoci, per poi ripartire nella giusta direzione.
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Commenti - Saggezza di ieri, nodo di oggi
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/11/2012
I dati della crisi, che continuano ad alimentare i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e concordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei problemi, alcuni molto seri. Una spia di colore rosso fuoco si è accesa ormai da tempo, e sarebbe ora di fermarsi per fare qualche intervento serio al motore: è la spia del lavoro. Eppure in un momento alto della nostra storia politica e civile, lo abbiamo posto come pietra angolare della legge fondamentale degli italiani.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2012
I "new normal", i nuovi normali: così l’America chiama quella parte dell’ex ceto medio che a causa della crisi sta cambiando stile di vita, facendo cose che pochi anni fa sarebbero state considerate anormali o tipiche della classe più povera. Fra questi nuovi comportamenti 'normali' non ci sono solo riduzioni del consumo di beni e servizi che fino o poco fa erano considerati ormai assodati e di fatto indispensabili, ma ci sono anche nuove pratiche di condivisione, in rapido aumento nella società americana e un po’ in tutto l’occidente in crisi.
[fulltext] =>Tra queste c’è anche il grande sviluppo delle Banche del tempo, quella importante innovazione (che risale a ben prima della crisi), che consiste nel dar vita a una rete di scambi nei quali la moneta, cioè l’unità di conto e di calcolo delle equivalenze, non è il denaro ma il tempo: l’offerta, ad esempio, di un’ora di giardinaggio diventa un credito di un’ora di un’altra attività della stessa durata, sulla base di norme di reciprocità sia diretta che indiretta (dove il credito o il debito di A verso B può essere ricambiato anche da C).
Nelle vere banche del tempo si riporta l’economia alla sua natura originaria di incontro fra persone, dove lo scambio di merci e di servizi è sussidiario ai beni relazionali, che oggi sono sempre più inquinati da mercati troppo anonimi e spersonalizzati. Le banche del tempo sono presenti anche sul nostro territorio, normalmente promosse da associazioni della società civile, quasi sempre all’interno di tessuti con orditi molto articolati, che in certi casi stanno prendendo la forma di veri e propri sistemi di scambio e di sviluppo locale, con reti di gruppi di acquisto solidale (Gas), cooperative, pubbliche amministrazioni lungimiranti, banche territoriali, molte associazioni, Caritas, ecc.
Così in molti territori, le antiche tradizioni di virtù civili e di mestieri oggi vivono una nuova primavera, con in più un significativo protagonismo di donne e di anziani. Sono questi segnali positivi della crisi, che se estesi su più larga scala e sostenuti da buona politica, potrebbero far sì che diventino di nuovo 'normali' prassi comunitarie e solidali che hanno fondato la nostra cultura occidentale e cristiana, e che nell’era dell’opulenza e dello spreco insostenibile sono state in larga parte distrutte. Dietro questo crescente fenomeno delle banche del tempo si deve allora intravedere un processo di portata più generale e più strutturale, che potrebbe offrire elementi capaci di produrre cambiamenti di vasta portata all’interno del nostro modello economico capitalistico.
Ma per comprendere la sfida che si nasconde dietro queste apparentemente semplici e ancora poco conosciute esperienze, bisogna guardare più in profondità. Anzitutto alla diseguaglianza crescente, che va però anche vista da una prospettiva non abbastanza sottolineata, e quindi molto sottovalutata. È la tendenza radicale in atto nel nostro sistema capitalistico a un progressivo allargamento dell’area coperta dagli scambi monetari. È ormai considerato 'normale', in America (ma non solo lì), pagare un extra nei teatri e musei al fine di saltare la coda; oppure pagare (e qui per fortuna solo in America) gli studenti al fine di incentivarne la performance scolastica; per non parlare della ormai normale penetrazione della logica monetaria nella sanità, nella cultura, e persino nella famiglia, dove sta diventando normale incentivare i ragazzi pagandoli per i lavori di casa.
Senza entrare in questioni etiche fondamentali relative all’allargamento dell’uso della moneta in questi ambiti del civile (siamo sicuri che evitare una coda in un teatro, in un ospedale o in un aeroporto perché si è più ricchi sia compatibile con la democrazia?), c’è una conseguenza diretta di tutto ciò nella vita quotidiana delle persone, soprattutto dei nuovi e antichi poveri e dei nuovi normali. Se la moneta copre sempre più bisogni, se cioè devo pagare per ottenere beni e servizi che una volta erano offerti dalle comunità (cura, educazione, scuola, sanità...), una tanto evidente quanto taciuta conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di vita e dell’esclusione sociale di chi quella moneta non ce l’ha o ne ha troppo poca. Per questo in un mondo che oltre ad essere diseguale nel reddito aumenta il ricorso alla moneta per sempre nuove attività, alcune delle quali essenziali per vivere, la vita dei più poveri diventa tremendamente dura.
È qui allora che si capisce il significato civile ed economico di questi movimenti di reciprocità non mercantile come le banche del tempo e dintorni. Un modo efficace per combattere la mancanza di reddito è ridurre il ricorso alla moneta per ottenere beni e servizi. Se fossimo capaci di organizzare la nostra vita quotidiana sfruttando di più il principio di reciprocità, metterlo più a sistema, potremmo gestire una parte significativa di servizi di cura, di assistenza ma anche di mestieri e competenze, senza ricorrere allo strumento monetario. Anche perché molti dei nuovi 'normali' sono nella condizione, perché giovani, donne e anziani, di avere meno reddito ma più tempo e spesso competenze non richieste oggi dal mercato del lavoro ma molto utili alla gente. Perché allora non far ripartire in Italia una nuova stagione di sistemi locali di scambio basati sul principio di reciprocità? Come cittadini ci riapproprieremo di pezzi importanti di vita associata, di democrazia e quindi di libertà, e metteremmo in moto creatività, innovazione, protagonismo, lavoro, nuova fiducia e capitali civili la cui mancanza è la vera povertà dell’Italia di oggi.
Sarebbe una stagione simile alla nascita del movimento cooperativo di fine ottocento, quando in tempo di profonda crisi industriale e rurale, l’Italia seppe dar vita ad un vero miracolo economico-civile, creando decine di migliaia di nuove imprese in tutto il Paese. Occorrerebbe però anche una politica lungimirante che, ad esempio, non veda queste transazioni come forme di evasione fiscale ma come una espressione del principio di sussidiarietà, di cui tanti parlano ma pochi concretizzano. Da questa crisi sicuramente uscirà una nuova 'normalità': oggi ci troviamo di fronte ad un bivio epocale tra una nuova normalità fatta di miseria per tanti e super privilegi per pochi, e una nuova normalità con maggiore condivisione, democrazia e opportunità per tutti.
Dobbiamo allora operare e sperare affinché si imbocchi questa seconda direzione.
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Commenti - Nuova normalità: la crisi spinge a rivalutare la condivisione di beni e servizi.
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/10/2012
I "new normal", i nuovi normali: così l’America chiama quella parte dell’ex ceto medio che a causa della crisi sta cambiando stile di vita, facendo cose che pochi anni fa sarebbero state considerate anormali o tipiche della classe più povera. Fra questi nuovi comportamenti 'normali' non ci sono solo riduzioni del consumo di beni e servizi che fino o poco fa erano considerati ormai assodati e di fatto indispensabili, ma ci sono anche nuove pratiche di condivisione, in rapido aumento nella società americana e un po’ in tutto l’occidente in crisi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/10/2012
È ormai evidente che logiche dominanti in Europa influenzano potentemente l’Italia e che ormai anche nel nostro Paese si fatica a conoscere e riconoscere una realtà che è ricchezza e fonte di ricchezza per tutti: l’economia sociale e civile. Su di essa non incombe soltanto il grave (ben 7 punti) aumento dell’Iva per le cooperative sociali (la principale innovazione economico-sociale italiana, e probabilmente continentale, degli ultimi vent’anni).
[fulltext] =>C’è anche la recente approvazione della 'borsa delle scommesse' e l’imminente legalizzazione delle slot machine online, che rappresentano un segnale ancora più grave, poiché proprio queste normative radicalmente 'incivili' finiscono per ingrossare le fila di quel disagio sociale che poi arriva alla cooperazione sociale che deve occuparsene con sempre meno risorse.
È in questo contesto di incomprensione nei confronti del sociale e dell’economia civile che va anche inquadrato il tema dell’Imu sulle strutture del mondo non profit e delle istituzioni religiose, di cui si è molto parlato, ma di cui è forse bene parlare ancora e più a proposito.
Via Tuscolana, Roma. Una comunità di salesiane, circa 20 suore, porta avanti da decenni una scuola elementare e materna. Molte sorelle, alcune ottantenni, lavorano come volontarie nella scuola, assistendo i bambini negli intervalli, o rispondendo al centralino. Ho visto personalmente genitori che il giorno in cui si aprono le iscrizioni, arrivano la sera prima e pernottano di fronte alla scuola per non restar esclusi dai pochi posti a disposizione. Perché questa comunità continua a portare avanti questa scuola? Per due principali ragioni: per rispondere a un bisogno urgente e vitale del territorio, e perché per le salesiane le opere educative non sono un accidens, ma parte essenziale della loro vocazione e del loro carisma. Quando quelle suore da giovani hanno risposto a una vocazione, si sono donate anche ai giovani e alla loro educazione.
L’Italia, almeno la sua parte migliore, l’hanno edificata anche, e in determinati momenti storici, soprattutto i carismi religiosi. Assieme, in una certa misura, a quelli laici. Quando lo Stato Italiano non c’era ancora, o le sue istituzioni erano inesistenti o troppo fragili, Cottolengo, Don Bosco, Don Orione, Scalabrini, Francesca Cabrini, hanno curato e amato le tante forme di povertà e di esclusione del loro tempo, rendendo la società italiana più civile e la vita di tanti, poveri e meno poveri, possibile. Le loro strutture e le loro case sono diventate dei veri beni pubblici, come e più di fontane, parchi, teatri, musei. E in molti casi lo sono ancora, costituendo un patrimonio del nostro Paese. Centinaia di migliaia di bambini, ragazzi e giovani oggi sono ancora educati e amati da opere nascenti dai carismi.
Solo uno sguardo distratto può chiamare 'attività commerciale' la scuola di un ordine religioso o la mensa attivata in una parrocchia: sono espressione diretta e immediata del carisma. E sono attività diverse da quella for profit non perché e quando 'non fanno utili' (come recitano i testi normativi circolati in questi giorni), perché il fare o non fare utile non può essere il criterio per capire queste realtà, e per capire le tante realtà religiose e laiche (culturali, ricreative, sportive …) che gestiscono attività che hanno anche una dimensione commerciale.
Ecco perché dietro progetti (e polemiche) sull’allargamento della tassazione sugli immobili agli 'enti non commerciali' (oggi parliamo di Imu, ieri di Ici) si nasconde molto di più di una faccenda 'cattolica' (e qui bisognerebbe ragionare su quanto male fa all’Italia leggere ogni cosa in chiave ideologica pro o contro la Chiesa!): è una questione che riguarda anche e soprattutto la vocazione civile ed economica del Paese, la nostra storia e la nostra cultura.
C’è poi il dato concreto che molte di queste opere carismatiche si muovono da anni sul filo della sopravvivenza: ricevono somme irrisorie dagli enti pubblici, e sopravvivono per la tanta gratuità che riescono ad attivare. Far pagare l’Imu per gli immobili di queste e di tante altre scuole e opere 'comunitarie' significa, di fatto, non capire il valore di tali realtà, non stimarle, e rendere la loro vita molto difficile, in certi casi insostenibile. Con quali conseguenze?
Si renderà più facile la dismissione o svendita di queste strutture, magari a speculatori, che raddoppieranno le rette, impoveriranno ancora le famiglie e impoveriranno anche la cultura e la storia dei nostri territori. È questo che si vuole? È davvero questo che l’Europa imporrebbe al patrio governo su richiesta di un manipolo di politici che hanno fatto ricorso contro l’Italia perché colpevole di 'aiuti di Stato' alle attività non profit?
Nell’attuale straordinaria fase politica e di governo continua purtroppo e, di fatto, si sviluppa una tradizione vecchia ormai di decenni, che non ha occhiali per 'vedere' il civile italiano (che non è quello inglese né quello Usa). Non a caso il primo taglio della spending review è stata la chiusura dell’Agenzia per le onlus, e l’ultimo (speriamo) è picconare le opere del 'civile', e quindi i poveri. Non si tratta di 'equità' (trattare la Chiesa e le sue opere come tutti), si tratta di avere o non avere una idea di Italia, una idea della fisiologia del malato da curare. Perché la più grande ingiustizia è trattare allo stesso modo realtà diverse: non distinguere tra il significato civile ed economico di una business school e una scuola di Don Orione o un asilo tenuto in piedi da una parrocchia.
Si agitano mediaticamente le note e abusate storie dei 'bed e breakfast' di proprietà di ordini religiosi ma gestiti con modalità imprenditoriali e, spesso, da soggetti for profit (che infatti, anche con la legge attualmente vigente, devono pagare Imu e ogni altra imposta), e non ci si rende conto che con gli interventi normativi oggettivamente contro il non profit saranno proprio le attività for profit che aumenteranno. Pagheranno tutti l’Imu anche quelli che operano senza fini di lucro, ma i cittadini pagheranno un prezzo molto più alto, e il nostro Paese finirà per perdere l’apporto di realtà secolari.
Tutto per una radicale rivalsa ideologica abbinata alla voglia di fare un po’ di cassa; una cassa che, diversamente dalla Francia, non si ha la forza politica di fare aumentando di 20 punti percentuali l’Irpef dei super-ricchi, continuando così a chiedere di più ai poveri e alla sempre più impoverita classe media. Lo spettacolo di corruzione e immoralità di questi giorni si cura alimentando gli anticorpi, immettendo cellule sane nel corpo italiano gravemente malato, anche per avere emarginato i carismi dalla vita civile. Non sarà l’allargamento del mercato for profit a salvare l’Italia.
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Commenti - Economia sociale, opere dei carismi.
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/10/2012
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