stdClass Object ( [id] => 7108 [title] => Sorella bellezza [alias] => sorella-bellezza [introtext] =>Commenti - In Italia ha generato Economia e Civiltà, difendiamola e torniamo a produrla
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/03/2013
Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà.
[fulltext] =>Il Made in Italy, di ieri e di oggi, lo hanno fatto artigiani lavoratori formati dalla bellezza, cresciuti in mezzo alle nostre cattedrali, piazze, valli, mari e montagne. Gli input delle nostre economie non sono stati soltanto le materie prime, il capitale e il lavoro: nelle filiere produttive sono entrati anche Dante, Pinocchio, Fellini, storie, paesaggi, affreschi, chiese. Bellezza che è diventata anche design, auto, scarpe, abiti, cibo.
Quando andiamo in Umbria o in Sicilia per turismo eno-gastronomico, non 'consumiamo' soltanto alloggio, cibo e vino, stiamo 'mangiando e bevendo' anche bellezza, accumulata in millenni di cultura e di paesaggio (nel prezzo dei beni ci sono componenti che l’imprenditore vende, ma che non son suoi: le tasse sono anche questo). Siamo stati capaci di creare valore economico finché siamo stati capaci di generare valore aggiunto in bellezza, fin quando l’abbiamo saputa raccontare, e poi tradurla anche in prodotti, in beni, in economia, benessere. Oggi stiamo consumando bellezza, ma non siamo capaci di riprodurla, se non in quantità minima. Dobbiamo tornare a produrre bellezza, se vogliamo tornare a produrre beni e lavoro. Ma la bellezza non si pianifica nelle business school né nei tavoli politici: nasce, fiorisce, dalla gratuità, da quella charis / grazia che è radice anche di bellezza (grazioso), e quindi dall’amore dei luoghi, delle città, dei territori.
La bellezza è poi essenziale, sebbene oggi meno evidente, per una buona scuola e buone università, che sperimentano carestie non solo di risorse economiche e finanziarie, ma anche di bellezza. Per la formazione del carattere dei bambini e dei giovani dovremmo usare i luoghi più belli della città, oggi catturati dalle banche e dalle rendite, mentre gli studenti sono confinati in edifici sempre meno curati, spesso in un vero stato di degrado. Non so come si possa insegnare, incontrare e conoscere Socrate, Pitagora e Leopardi in luoghi brutti.
Chi lavora nelle scuole sa – se vede bene – che le aule, le pareti, i giardini parlano e insegnano, sono 'colleghi' parlanti linguaggi non verbali, ma vivi come i nostri. Questo lo sanno molto bene i bambini, perché lo hanno imparato dalle fiabe e dai cartoni, dove anche i grilli, gli animali e le piante parlano, e dove le case hanno occhi e sanno sorridere. Anche per questo motivo i bambini non sono adulti con qualcosa in meno, perché hanno anche qualcosa in più degli adulti, che si perde crescendo. Senza questa consapevolezza è impossibile una vera reciprocità bambino-adulto. Ma se pochi minuti dopo aver letto un testo di Ungaretti, cercando di far vivere e sperimentare qualcosa del mistero della poesia (la poesia o la si vive e sente nella carne, o è esercizio inutile, se non dannoso), gli alunni e gli studenti fanno ricreazione in luoghi sciatti e degradati, quell’esercizio di libertà e di verità si disperde. Così il giorno dopo l’insegnante-Sisifo, deve ripartire da zero, o quasi. Non c’è scuola buona che non sia anche bella.
Ma se c’è un luogo dove il bisogno di bellezza è ancora più urgente, questo è il mondo delle povertà. Nelle società passate, i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, abitati dal popolo, quindi anche dai poveri. È stupefacente pensare che gli affreschi di Giotto e di Caravaggio adornavano anche, e soprattutto, i luoghi dei poveri, quelli della gente semplice, umile, analfabeta: il giogo duro delle loro vite brevi e piene di stenti era reso più leggero anche dal dono dell’arte di artisti e di mecenati, che con la bellezza restituivano e condividevano parte della loro ricchezza.
Certo, in quelle società c’erano ancora molto lusso e molta ricchezza privata non condivisa con tutti né tantomeno con i poveri. Ma oggi, nonostante rivoluzione francese e democrazia, la ricchezza condivisa sotto forma di bellezza è ancora minore, perché la ricchezza che nasce dalla finanza finisce nei paradisi fiscali, o in residenze e beni di consumo privatissimi e invisibili. Le ville dei super-ricchi non abbelliscono alcuna città, perché la gente non le vede più, tantomeno le 'abita': sono ricchezze incivili, perché non sono nelle e per le città. Così quei lussi e quegli sfarzi non sono più autenticamente bellezza, e neanche per chi li possiede, perché la bellezza per essere tale ha bisogno dello sguardo dell’altro, e dello sguardo del povero. «Sposata hai una pena di non provar gioia alcuna che non sia di tutti»: c’è qualcosa di universale in questo bel verso di Davide Maria Turoldo. «Nella mia cooperativa – mi raccontava un imprenditore civile – voglio avere ottimi parrucchieri, perché – aggiungeva – se una signora anziana che si è fratturata un femore non si risente bella, non guarisce, e può lasciarsi morire».
La bellezza vera è terapeutica: si può morire, o non guarire, anche per la bruttezza dei luoghi. Accogliere e aiutare persone povere in luoghi belli dà loro quella forza in più per fare il primo passo per riprendere il cammino, perché la bellezza risveglia la nostra parte migliore. Questa bellezza non è un bene di lusso, è un bene di prima necessità, che coabita con la sobrietà e la povertà. Riportiamo allora la bellezza nelle città, nelle imprese, nelle scuole, altrimenti ci mancherà la forza spirituale e simbolica per ricominciare.
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Commenti - In Italia ha generato Economia e Civiltà, difendiamola e torniamo a produrla
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/03/2013
Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/03/2013
Abbiamo un vitale bisogno di riscoprire la virtù dell’ospitalità. Soprattutto nei confronti dei giovani, che stanno diventando ogni giorno di più i primi stranieri in una società di adulti che non capiscono, che non dà loro spazio, che li ha indebitati senza chiedere loro il consenso, e che vedono degradare i loro luoghi, la scuola soprattutto.Il mondo è cambiato troppo velocemente, e se persino noi adulti avvertiamo con chiarezza la fine di un sistema, non è difficile immaginare quanto distante e strano apparirà questo nostro vecchio mondo ad un ventenne, ad una quindicenne. Ci sono generazioni che invecchiano prima di altre, è la storia a dircelo. La nostra è una di queste.
[fulltext] =>“Si, funziona, ma non dà i soldi”, ha esclamato ieri un ragazzo di circa 10 anni in una metro di Roma, con l’intenzione di correggere la mamma che aveva risposto con un secco “no” ad un signore che le aveva domandato: “funziona il bancomat?”. In realtà avevano ragione sia la madre che il bambino, perché ciascuno guardava diversamente la stessa macchina: strumento per avere contanti (mamma), touch-screen colorato con tanti pulsanti (bambino).
Dialoghi simili, e civilmente molto più rilevanti, stanno diventando troppo frequenti nel mondo della scuola e del lavoro, dove si fa fatica ad intendersi, a parlarsi, a stimarsi. A dirci senza troppa filosofia che i giovani sono estranei e stranieri nella loro terra è quel 43% di disoccupazione giovanile, un numero che non dovrebbe farci dormire la notte; e invece dormiamo, perché ormai assuefatti ai numeri negativi, ma ancor più perché ci stiamo dimenticando che ogni giovane non è figlio soltanto dei suoi genitori, ma è figlio di tutti.
C’era forse qualcosa di questa figliolanza (e di questa fraternità) universale alla radice della regola aurea dell’ospitalità che ritroviamo alle radici della nostra storia, una ospitalità che portava a considerare l’ospite/straniero come sacro, e quindi da onorare con l’offerta di doni. Le grandi civiltà avevano intuito che non c’è nessuna persona che sia veramente estranea né straniera. Ce lo suggerisce anche la giustamente famosa frase di Terenzio: “Sono uomo. E ritengo che nulla di ciò che è umano mi è estraneo”.
In ogni essere umano, e in un certo senso anche in ogni realtà della creazione, vive e rivive qualcosa di me, e di me in loro, come se nel genoma di ogni essere vivente ci fosse una traccia di tutti gli altri. Credo che Francesco volesse dirci, con altra bellezza e forza, qualcosa del genere con il suo “Cantico delle creature”. La natura più profonda della norma dell’ospitalità non è allora l’altruismo, è la reciprocità: “Ricordati, anche tu eri straniero” (Esodo). Dobbiamo essere ospitali con lo straniero (che si trova in quanto straniero in una condizione di fragilità e di vulnerabilità), anche perché lo siamo stati noi, i nostri nonni, e perché lo potranno essere i nostri figli. È condizione dell’umano. È questa ospitalità-reciprocità di cui si sente la mancanza nella nostra cultura; e la sentono soprattutto i giovani perché, insieme con gli anziani, sono quelli che ne hanno un estremo bisogno per vivere bene, e, sempre più, per vivere e basta.
Invece quando oggi un giovane si incontra con il mondo del lavoro fa troppe volte l’esperienza di Ulisse con Polifemo, il ciclope che in Omero rappresenta l’immagine della inciviltà, proprio perché praticava l’anti-accoglienza: invece di offrire doni ai suoi ospiti, li divorava. Invece del pane, la pietra; non l’uovo, ma lo scorpione. Stiamo vedendo troppi giovani divorati da anni di non-lavoro, da un ozio non scelto e non meritato che mangia giorno dopo giorno il loro capitale umano acquisito studiando, e quello non rinnovabile della giovinezza. E altrettanti giovani divorati da un lavoro sbagliato, quello imposto da quelle grandi imprese, banche, società di consulenza capitalistiche che assumono giovani senza la gratuità dell’ospitalità: li usano, li spremono, non danno loro il tempo di crescere bene, obblighi senza doni. Li divorano un po’ alla volta.
E i “fortunati” che riescono ad accedere a questi lavori-caverne, si ritrovano con enormi massi che ostruiscono l’uscita. Il masso più pesante è la crisi che stiamo vivendo, che li porta ad accettare, o a non lasciare “all’apparir del vero”, lavori sbagliati perché devono vivere, per fame. Così diventa normale che le grandi imprese, a posto dei “doni ospitali”, facciano firmare contratti capestro dove il giovane, come “contro-dono” all’impresa che gli paga il master, si impegna a restare in quella impresa per un certo numero di anni. Pratiche servili, quasi roba da schiavi.
Sono certo che da tali master-capestro non potrà mai fiorire l’umanità delle persone, che ha bisogno sempre dell’acqua della libertà e della luce della gratuità. Ma nell’economia complessa di oggi e di domani, senza persone libere e “fiorite in umanità”, non arrivano più neanche la crescita e i profitti dell’impresa. Occorre allora rilanciare una nuova cultura dell’ospitalità lavorativa, dove le imprese investano veramente nei primi anni di lavoro dei giovani che ricevono, e reimparino a donare. E in questi giorni in cui si parla molto, e in molti casi opportunamente, di ‘salario di cittadinanza’, non dobbiamo mai dimenticare che il primo dono che la società civile e le istituzioni devono fare ai loro giovani è il dono del lavoro, mettendoli nelle condizioni, a partire da migliori studi, di poter lavorare, e possibilmente di lavorare bene.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/03/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/03/2013
In Svizzera oggi si sta svolgendo un referendum per porre un freno alle remunerazioni dei manager delle società quotate in borsa. È questa una felice occasione per riaprire anche da noi il tema delle remunerazioni dei cosiddetti “top manager”, e su quello, ancora più importante perché radice del primo, della democrazia economica. Ma l’Italia? L’Europa? Una ragione di questa assenza, o, speriamo, ritardo, è l’incapacità dell’Europa, tanto più dell’Italia, di proporre nei decenni passati una diversa cultura economica e di impresa.
[fulltext] =>Oggi le business school sono tutte uguali: ad Harvard, Nairobi, San Paolo, Berlino, Pechino, Milano si insegnano le stesse cose, si utilizzano gli stessi libri di testo, a volte persino le stesse slides scaricabili in rete. Ho visto fare corsi di ‘responsabilità sociale d’impresa’ in classi dove dirigenti di cooperative sedevano accanto a manager di fondi di investimento speculativi, poiché, si diceva, “business is business”. E così non stupisce, ma rattrista soltanto, che si stiano progressivamente avvicinando tra di loro la cultura e gli stipendi delle grandi cooperative e quelli delle imprese capitalistiche, un avvicinamento che farà senz’altro rivoltare nella tomba i fondatori del movimento cooperativo, che avevano immaginato e realizzato imprese diverse anche perché capaci di tradurre i principi di fraternità e uguaglianza in busta paga, e non solo nei preamboli degli statuti.
Eppure l’Europa e l’Italia avevano, e un po’ ce l’hanno ancora, un altro modo di fare impresa e di fare società, un altro ‘spirito del capitalismo’, che si chiamano in Germania ‘economia sociale di mercato’, in Francia ‘economia sociale’, in Italia ‘economia civile’, in Spagna e in Portogallo ‘economia solidaria’. Una cooperativa sociale non è una istituzione filantropica (charity), ma una faccenda di reciprocità e di inclusione produttiva, è un “fare con” prima di essere un “fare per”. Una fondazione bancaria non è una foundation americana, e le piccole e medie imprese di natura famigliare, l’asse portante della nostra economia, non hanno né la cultura né gli strumenti della corporation anonima, anche se tante di queste nostre imprese si sono smarrite per inseguire quei modelli estranei. In Italia avevamo anche la gloriosa tradizione della Economia aziendale, oggi purtroppo in via d’estinzione, che era un felice tentativo di tradurre il modello comunitario e relazionale italiano in cultura organizzativa, dove lo scopo dell’azienda non era la massimizzazione del profitto, ma l’equilibrio tra tutte le componenti di una istituzione, e il cui principio fondante era “il soddisfacimento dei bisogni umani” (Gino Zappa, 1927).
La crisi economica è anche frutto di una cultura manageriale che si è rivelata inadeguata, certamente per una legislazione insufficiente e sbagliata, ma anche per una forma mentis che inizia nelle università di economia e poi continua nei master; una formazione sbagliata che è anche alla base della giustificazione di quei stipendi da superstar. Gli attuali curricula economici sono, in tutto il mondo, sempre più depurati da tutte le dimensioni umanistiche e storiche, illudendosi che riducendo il pensiero economico a numeri, tabelle, grafici e algoritmi (e sempre più semplici), si possa formare della gente capace di pensare, di creatività, di innovazione vera, o di coordinare le persone e il loro mistero antropologico e spirituale, che restano tali anche quando lavorano. Eppure i futuri lavori nasceranno, certamente in Italia, da cultura, arte, turismo, relazioni, e per far bene questi mestieri è molto utile conoscere la storia, la cultura o l’arte, e forse più delle tecniche di bilancio, di valutazione e controllo.
C’è allora bisogno di riaprire un dibattito pubblico su questi temi cruciali, che non possono essere lasciati agli “addetti ai lavori”: lo abbiamo fatto negli anni passati, e i risultati sono sotto gli occhi tutti. La cultura democratica moderna ha posto al centro la politica e il governo dello Stato: ottimo. Ma il mondo è molto cambiato, e oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che il buongoverno passa anche, e sempre più, per il buongoverno dei mercati, delle imprese e delle organizzazioni. Di Parlamento ce n’è uno (in Italia), ma i consigli di amministrazione di banche e imprese sono decine di migliaia: la qualità della nostra vita, della nostra dignità e libertà dipende anche da questi, e non possiamo continuare a ignorarlo. La democrazia economica sarà la sfida del XXI secolo, se vogliamo evitare di ridurre l’area democratica a settori sempre meno rilevanti per la vita della gente, a sentirci sovrani il giorno delle elezioni e tutti gli altri giorni sudditi di tanti regnanti non democratici. Il XX secolo ha creato e ha mantenuto saldo il confine tra gli ambiti di azione della democrazia e quelli retti da altri principi non democratici.
Tra gli ambiti non democratici quello delle imprese capitalistiche era ed è il più importante e rilevante. La nuova era dei beni comuni ci costringe a ripensare profondamente il confine della democrazia, se non vogliamo perderla, o costringerla in una regione asfittica, un giorno forse irrilevante. Il mercato e le imprese non sono faccende private: non lo sono mai state (si pensi ai sindacati dei lavoratori e di chi fa impresa). Questa crisi, però, ci ha detto con estrema forza e chiarezza che anche l’economia, la finanza e il mercato sono veramente ‘cosa pubblica’, con le sue delizie e con le sue croci, di cui abbiamo il dovere e il diritto di occuparci, non fosse altro perché siamo noi a pagare tutte le conseguenze del loro malgoverno. Occorre allora inventare nuovi strumenti di democrazia economica, che non possono essere gli stessi della democrazia politica. E occorre pensarli e su scala globale. Ma occorre farlo presto, è troppo importante.
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Commenti - Necessaria più democrazia
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/03/2013
In Svizzera oggi si sta svolgendo un referendum per porre un freno alle remunerazioni dei manager delle società quotate in borsa. È questa una felice occasione per riaprire anche da noi il tema delle remunerazioni dei cosiddetti “top manager”, e su quello, ancora più importante perché radice del primo, della democrazia economica. Ma l’Italia? L’Europa? Una ragione di questa assenza, o, speriamo, ritardo, è l’incapacità dell’Europa, tanto più dell’Italia, di proporre nei decenni passati una diversa cultura economica e di impresa.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/02/2013
Per poter veramente ripartire, abbiamo bisogno anche di una mappa. Nella seconda metà del Quattrocento, erano molti i marinai che volevano tentare l’esplorazione dell’Oceano verso occidente. Dovevano attraversare un mare inesplorato, per il quale non potevano evidentemente esistere carte nautiche; eppure quei navigatori, per partire, avevano bisogno di una mappa. I marinai non partono senza una mappa del mare. Cristoforo Colombo decise di partire non solo quando trovò il finanziamento dell’impresa (come tutti gli imprenditori), ma anche, e soprattutto, quando riuscì a procurarsi una mappa dell’Oceano.
[fulltext] =>Gliela offrì il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli, grande umanista, astronomo, mercante di spezie (anche per questo gli interessava una via più breve per le Indie). Questo fondatore della geografia moderna e osservatore di comete, ebbe (forse) una corrispondenza con Colombo, e con ogni probabilità gli fece arrivare una sua carta nautica, una mappa dell’oceano fino alle Indie. Una carta necessariamente imprecisa e incompleta, ma decisiva perché Colombo potesse osare una delle azioni più straordinarie della storia umana. Dal Pozzo Toscanelli non era un navigatore, forse non era mai uscito dall’Italia, ma componeva le sue mappe sulla base dei racconti dei viaggiatori, con i quali intratteneva a Firenze lunghe conversazioni, popolate di fatti veri e fantastici (tra cui il leggendario regno di prete Gianni). Quel mondo nuovo – ogni mondo nuovo – fu prima desiderato, sognato, quasi visto, e solo dopo raggiunto. Quella mappa nacque dunque dall’ascolto delle avventure di marinai portoghesi, veneziani, spagnoli, che dicevano di aver “visto”, forse per fenomeni di fata morgana, delle terre emerse a occidente, più a ovest delle isole già note. La mappa e l’impresa di Colombo furono certo il frutto di due geni, ma anche il frutto di una straordinaria sinergia di teoria, spirito, arti, mestieri, scienza, economia, di Firenze e di Lisbona, dell’Italia e dell’Europa.
La nostra economia, e la nostra civiltà, si trovano oggi in una situazione simile a quella di Colombo; ma questa volta salpare verso un mare sconosciuto non è una scelta ma un’urgente necessità, perché se non prendiamo il largo ci aspettano solo decenni di declino e di incattivimento delle relazioni sociali. E non ci manca solo il coraggio civile, spirituale e politico di Colombo e dei suoi ufficiali e marinai, né solo la fecondità civile ed economica dell’Italia e dell’Europa del Quattrocento. Ci manca anche un Paolo dal Pozzo Toscanelli, capace di scriverci una nuova mappa. E ci manca perché coloro che potrebbero scriverla (economisti, politici, intellettuali …), non sono più capaci di ascoltare le storie dei marinai, i racconti dei viaggiatori, le storie della nostra gente viva e vera. L’uomo medievale e rinascimentale sapeva bene, come ci ha ricordato anche Cesare Pavese, che “i migliori poemi sono quelli raccontati dai marinai illetterati sul castello di prora” (Introduzione a Mobydick), ma noi l’abbiamo dimenticato.
Se invece ricominciassimo ad ascoltare le nostre storie, potremmo cercare di delineare almeno alcune prime coordinate di questa mappa mancante. Una prima coordinata è la vocazione più vera e profonda della nostra gente italiana ed europea: la comunità. I tessuti comunitari delle nostre città si sono troppo impoveriti: ci serve un progetto etico, politico e civile per ricomporlo, rigenerarlo, in non pochi casi reinventarlo. La solitudine sta diventando una nuova epidemia, che come la peste di Manzoni è a modo suo democratica, perché colpisce il povero Tonio ma anche Don Rodrigo, il malvagio Griso ma anche il santo Fra Cristoforo – oggi i più malati di solitudine sono top manager e banchieri, anche quando circondati di adulatori e nuovi servi con master.
La seconda coordinata è una nuova scuola. Sono sempre più colpito da quanta professionalità resiste nelle nostre scuole, soprattutto in quelle elementari e materne, dove professionisti continuano a insegnare per vocazione e fedeltà al proprio (bellissimo) mestiere, ma non so ancora per quanto. Il nuovo governo – se riusciremo ad averlo – se vuole salvare veramente l’Italia, dovrà mettere mano ad una riforma radicale della nostra scuola e dell’Università, con una speciale attenzione al Sud.
La terza coordinata riguarda la povertà. La miseria e l’esclusione in Italia e in Europa stanno aumentando, perché crescono le forme di povertà cattiva, molte delle quali si assommano nelle stesse persone. Ce ne accorgeremmo subito se lo chiedessimo alla gente, invece di sprecare denaro pubblico per dannosi sondaggi pre-elettorali. Nel passato siamo stati capaci di rispondere alle tante povertà che abbiamo conosciuto grazie ad un’alleanza tra le istituzioni e i carismi. Senza i carismi le nuove povertà non si vedono, o si vedono troppo tardi, quando la malattia è già avanzata. Ci sarebbero voluti occhi carismatici, come quelli di Don Benzi, per capire qualche anno fa che si stava annidando un virus di scommesse e di giochi, che avrebbe presto prodotto la febbre della finanza speculativa e quella delle sale giochi (due febbri ugualmente gravi, non dimentichiamolo). Nuovi e antichi carismi che oggi potrebbero portarci, sull’esempio di Don Benzi, sulle strade a raccogliere ragazzi e anziani consumati dalle slot machines, casalinghe dipendenti da gratta-e-vinci, per salvarli e salvarci, anche a fronte ad una totale assenza delle istituzioni.
Ci serve allora urgentemente una mappa. E se non la disegniamo ad un certo punto si dovrà necessariamente partire, e il viaggio non sarà buono. O forse siamo già salpati, senza mappa né meta, e stiamo vagando in balìa di Sirene e Ciclopi. Ma possiamo sempre tentare di scriverla a bordo, se appena terminata questa triste stagione elettorale, faremo silenzio civile, e reimpareremo ad ascoltarci, a sentire l’anima, il sangue e la carne della nostra gente. È solo partendo da lì che potremo trovare una nuova terra.
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Siamo come Colombo prima del suo viaggio verso il mondo nuovo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/02/2013
Per poter veramente ripartire, abbiamo bisogno anche di una mappa. Nella seconda metà del Quattrocento, erano molti i marinai che volevano tentare l’esplorazione dell’Oceano verso occidente. Dovevano attraversare un mare inesplorato, per il quale non potevano evidentemente esistere carte nautiche; eppure quei navigatori, per partire, avevano bisogno di una mappa. I marinai non partono senza una mappa del mare. Cristoforo Colombo decise di partire non solo quando trovò il finanziamento dell’impresa (come tutti gli imprenditori), ma anche, e soprattutto, quando riuscì a procurarsi una mappa dell’Oceano.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/02/2013
La quaresima ha anche una natura civile, che ci si svela subito se leggiamo le sue parole alla luce di questa fase cruciale della nostra vita pubblica. Parole che si articolano e vanno a formare un vero e proprio messaggio di cambiamento di rotta, di conversione. La prima parola è pentimento, una parola estranea alla nostra cultura, eppure fondamentale per poter ricominciare davvero dopo ogni crisi personale e collettiva. Dopo aver fatto errori, soprattutto se gravi e collettivi, per poter ricominciare e ripartire spediti nel viaggio c’è bisogno, prima, di pentirsi, perché se manca la coscienza di aver sbagliato, non si riesce a ritrovare la strada per riprendere il cammino.
[fulltext] =>La prima espressione di ogni pentimento è provare dolore, rincrescimento e rammarico per aver fatto cose non buone, che hanno procurato del male a se stessi e soprattutto agli altri. Di cose non buone, e gravi, ne abbiamo viste tante in questi anni di crisi, e ne stiamo vedendo ancora troppe. Ma non si vedono né intravvedono pentimenti nei leader della finanza speculativa, nella cultura del top management di grandi aziende e banche, né tantomeno nella nostra classe politica. Senza pentimenti civili, accompagnati come in tutti i pentimenti veri da qualche gesto, non avremo la forza di ripartire.
Per questi errori e peccati civili ed economici, i (necessarissimi) processi nelle aule dei tribunali non possono esaurire i riti di pentimento, scuse e magari di riconciliazione. Quando un manager di una grande banca o azienda commette dei reati, c’è bisogno di qualcosa di più della sentenza dei tribunali (quando arriva): ci sarebbe bisogno che queste istituzioni che hanno tradito fiducia e speranze di azionisti e dell’intero Paese sapessero pentirsi, chiedere scusa e perdono alla gente. La riparazione e la restituzione del codice civile e penale sono troppo povere per questi reati che feriscono i codici simbolici ed etici delle comunità.
La seconda parola è umiltà. Una virtù fondamentale per la buona vita, una parola totalmente fuori corso in una cultura che premia gli “io” ipertrofici, e non ha più occhi per apprezzare la virtù dell’umiltà. Umiltà viene da terra, da quell’humus che è radice ad un tempo di umiltà (humilitas) e di uomo (homo), una ricchezza semantica che si ritrova anche nella lingua ebraica, dove uomo e terra sono chiamati adam e adamah. L’umiltà è una delle parole fondanti l’umano, perché ci dice che le cose grandi nella vita sono tali perché piccole, perché sono un di meno, un diminuire, perché sono polvere e terra.
Questo antico legame umiltà-uomo-terra ci ricorda che l’umiltà è virtù quando nasce dall’aver toccato polvere, terra, cenere: si diventa veramente umili, e veramente uomini, quando si cade, si sente la terra e la polvere, e poi ci si rialza. È questa l’umiltà di Giobbe, ma anche quella di chi lavora e conosce la terra, quella di chi, di fronte ad una montagna o ad un sasso, fa l’esperienza della propria infinita piccolezza, e da quel contatto con la terra riscopre anche la propria dignità infinita. Non ci si umilia da soli (questo è narcisismo), ma sono gli altri, la vita, la terra e la povere ad umiliarci, che poi possono farci ricominciare migliori il cammino. I fallimenti, individuali, economici, politici, di questi anni possono diventare un’occasione per migliorare, ma occorre, prima, voler fare l’esperienza dell’umiltà, che è del tutto assente da tutti i programmi, le promesse e soprattutto dai toni di questi tristi giorni pre-elettorali.
La terza parola è digiuno. Il nostro secolo ha l’ossessione delle diete, ma non conosce più il digiuno, perché il digiuno non è faccenda di calorie o di dimagrimenti, ma ha a che fare con un altro cardine della buona vita: la temperanza. Il digiuno è educazione dei desideri, delle passioni, del cuore, dello spirito, dell’intelligenza. Il digiuno e la temperanza per essere apprezzati e poi coltivati hanno bisogno di persone capaci di vedere dei valori in cose che si chiamano limite, moderazione, sobrietà. In realtà se guardiamo bene la nostra gente, oltre gli spettacoli televisivi, ci accorgiamo che sono sempre più le persone che vivono vite temperate, che attribuiscono valore al limite (nell’uso delle risorse, del tempo, del lavoro, dei profitti, nel consumo …), che moderano i propri bisogni, che li arricchiscono diminuendoli. Ne incontro tanti, e ogni giorno di più, ma non se ne parla nella sfera pubblica, perché non fanno audience né portano voti.
La civiltà che ci ha preceduto era scandita dai digiuni, perché l’asprezza della vita era sostenibile solo educando passioni, intelligenza e volontà: la povertà può diventare, ed è diventata, vita buona e degna solo se accompagnata dai digiuni, che moltiplicano il valore del poco cibo e della festa dei poveri. È anche la mancanza della cultura della quaresima che sta decretando da noi la morte del carnevale (e il boom di Halloween, che è il suo opposto), che è vissuto finché lo precedevano e attendevano i digiuni di cibo e di festa. Il digiuno, infine, alimenta e rafforza, non riduce, la voglia di vivere, la generatività della vita: non a caso la grande filosofia greca aveva indicato in Penia (indigenza, mancanza) il genitore di Eros. Ogni creatività, dall’arte alla famiglia all’impresa, richiede il desiderio di ciò che non si ha o non si è ancora. La radice di ogni vera crisi è lo spegnersi del desiderio del non ancora.
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La cultura cristiana della quaresima e la sua natura civile
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/02/2013
La quaresima ha anche una natura civile, che ci si svela subito se leggiamo le sue parole alla luce di questa fase cruciale della nostra vita pubblica. Parole che si articolano e vanno a formare un vero e proprio messaggio di cambiamento di rotta, di conversione. La prima parola è pentimento, una parola estranea alla nostra cultura, eppure fondamentale per poter ricominciare davvero dopo ogni crisi personale e collettiva. Dopo aver fatto errori, soprattutto se gravi e collettivi, per poter ricominciare e ripartire spediti nel viaggio c’è bisogno, prima, di pentirsi, perché se manca la coscienza di aver sbagliato, non si riesce a ritrovare la strada per riprendere il cammino.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/02/2013
Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei giovani. Nella società tradizionale la sua assenza era buona, per la presenza pervasiva del lavoro in tutto il resto della vita di ragazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai mestieri e dalle professioni, a partire dai giocattoli che riproducevano, per i piccoli, i lavori dei grandi. La scuola, allora, era un utile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).
[fulltext] =>Oggi ci troviamo nella situazione opposta. Il lavoro è sempre meno presente nella cultura delle nostre città, e nei giochi dei bambini, perché il suo posto lo hanno occupato la finanza, i rapporti mediati dalla rete, e soprattutto il consumo. Il tour in un supermercato, intronizzati sui carrelli della spesa, è la prima esperienza 'economica' dei nostri bambini. Manca l’amicizia tra giovani e il lavoro negli anni cruciali della formazione, e così quando poi devono iniziare a trovare o a inventarsi un lavoro, sono prima disorientati, poi spesso disoccupati.
Ma sarebbe troppo difficile permettere che i nostri studenti, durante le scuole superiori (almeno negli ultimi anni), possano svolgere forme di attività lavorativa alcune ore alla settimana, o nei lunghi mesi estivi di non-scuola? Il vero ostacolo, più forte dei problemi organizzativi o della sicurezza (l’insicurezza massima oggi si trova nei cortili dei nostri licei) va rintracciata nell’idea, ancora molto radicata, che il lavoro manuale non si addica alla formazione del carattere, perché la buona educazione si fa con la letteratura, la storia, la matematica, e non in una bottega di un artigiano, in uno studio tecnico, in una fabbrica, tantomeno in una fattoria agricola. Non ci siamo ancora liberati, nonostante San Benedetto e l’Umanesimo civile, dell’idea volgare che il lavoro manuale è impuro, adatto a servi e schiavi. L’inimicizia tra lavoro e giovani continua poi nell’Università, quando il lavoro resta ancora esperienza molto marginale, e troppo sullo sfondo. Molti studenti universitari oggi fanno 'lavoretti' per mantenersi, ma pochi iniziano da studenti il mestiere che vorrebbero fare dopo la laurea. Nei decenni passati, quando l’economia correva e cresceva (forse troppo), poteva avere un senso studiare fino a 24-25 anni, e iniziare a lavorare dopo la laurea. Ma oggi, con una economia bloccata (e che lo resterà ancora per un bel po’), se un giovane si ferma quattro o più anni preparandosi per lavorare domani, è fin troppo probabile che l’economia e la società non avranno nel frattempo creato le condizioni perché quel lavoro domani esista veramente.
Un significato vero di economie e società in recessione è anche questo: la generazione presente non crea opportunità di lavoro per i giovani, ma le distrugge. In altre parole, se oggi un giovane non entra nel mondo del lavoro durante gli anni della formazione universitaria, rischia di non entrarci mai, o di entrarci tardi e a condizioni troppo sfavorevoli, perché mentre lei o lui studiano senza già lavorare, nessun altro sta creando opportunità di lavoro per loro. Occorre allora fare in modo che gli anni di studio nell’università non siano solo preparazione al lavoro che arriverà (forse) dopo, ma siano già lavoro, non 'lavoretti' ma vero lavoro mentre si studia.
Tutto ciò significa, me ne rendo conto, andare contro la tendenza in atto negli ultimi decenni di ridurre e formattare i percorsi di studio, perché si considera la formazione come una sorta di merce che si paga oggi per lavorare meglio domani. Dobbiamo, invece, immaginare corsi di studio molto più flessibili, che affianchino, non sostituiscano, il lavoro, e che possano durare anche molti anni, perché l’obiettivo non è il pezzo di carta, ma la conoscenza e l’apprendimento, che sono alimentati anche dal lavoro, soprattutto in una società complessa come la nostra.
Ogni lavoro si impara facendolo, non a scuola, tantomeno nelle business school e con i loro master. Tutto ciò ha importanti conseguenze anche per il mondo del lavoro. Mia madre ha dovuto terminare i suoi studi alla quinta elementare, ma quei cinque anni di scuola sono cresciuti con lei, sono stati un patrimonio custodito gelosamente e fatto fruttare, e hanno accompagnato e formato la vita sua e di noi figli. Oggi invece molti dati dicono che il mondo del lavoro distrugge in pochi anni buona parte del capitale di conoscenze con cui una persona termina gli studi. Si è molto più ignoranti dopo dieci anni di lavoro che al termine dell’università, perché abbiamo costruito una civiltà del lavoro che considera gli studi come strumenti che si acquisiscono in una fase determinata della vita (giovinezza), in vista di un mondo del lavoro (adulto) che è altra cosa rispetto alla scuola e agli studi.
Tutto ciò è particolarmente vero nelle grandi imprese, che prendono bravi neolaureati, li immettono in ritmi di lavoro impossibili, non lasciano loro tempo e spazi per coltivare la loro umanità né fuori, né, tantomeno, dentro l’impresa, producendo così persone a una sola dimensione, e che anche quando studiano lo fanno per aggiornarsi e per aumentare la performance, perdendo così la cosa più vera dello studio: la gratuità. Dobbiamo riumanizzare i luoghi del lavoro postmoderni, riempiendoli di cultura, di arte, di bellezza, di gratuità, ambienti dove le persone possano fiorire in tutte le dimensioni mentre lavorano, e possano trovare il tempo per studiare cose belle e difficili anche a 40 o 50 anni, e così non si arrivi alla pensione sfiniti e persino ignoranti. Ma occorre portare più lavoro negli studi, e più studio nel lavoro.
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Nelle nostre vite, nello stesso tempo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/02/2013
Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei giovani. Nella società tradizionale la sua assenza era buona, per la presenza pervasiva del lavoro in tutto il resto della vita di ragazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai mestieri e dalle professioni, a partire dai giocattoli che riproducevano, per i piccoli, i lavori dei grandi. La scuola, allora, era un utile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/02/2013
Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio.
[fulltext] =>Siena, infatti, fu una delle capitali del grande movimento dei Monti di Pietà, un vasto movimento popolare animato dai frati francescani. Il suo ispiratore indiscusso fu San Bernardino da Siena, le cui ‘Prediche volgari’ (popolari), pronunciate ai suoi concittadini, costituirono una vera e propria summa per quella lotta alla miseria che generò, pochi decenni dopo Bernardino, l’azione dei tanti fondatori dei Monti. A Siena il Monte nacque per iniziativa del Comune, ma l’eco della figura e delle parole infuocate di Bernardino contro usurai e avari nei venerdì di quaresima di ogni anno, furono decisive per la fondazione di quella banca pubblica, a servizio dei cittadini senesi. Se Lorenzetti avesse dipinto la sua Allegoria dopo il 1472 avrebbe certamente collocato il Monte sulla parete del Buon Governo, perché la banca e la finanza civili sono state e sono istituzioni essenziali per il benvivere sociale.
L’asse delle allegorie del Buono e del Cattivo governo è la dialettica virtù-vizi, che si trovano nella stessa sala, le une di fronte agli altri, a ricordarci, con la forza del simbolo e dell’arte, che l’albero delle virtù è lo stesso albero su cui crescono i vizi, e per questo occorre essere sempre vigilanti nella vita privata e pubblica, in modo da scoprire per tempo quando una virtù si sta tramutando in vizio. L’affresco ci mostra un Buon governo che è il frutto, il figlio, della pratica delle virtù cardinali, un elenco che mi piace riportare in questa fase della nostra vita pubblica: Giustizia, Prudenza, Temperanza, Fortezza, parole da scrivere sempre con l’iniziale maiuscola. Gli effetti del buongoverno sono la prosperità e la concordia, e soprattutto lo sviluppo della laboriosità, dell’artigianato, del commercio, dell’edilizia, degli studi, della festa, dell’arte, dell’agricoltura, dei matrimoni, che popolano le scene del Lorenzetti.
Di fronte agli affreschi sul buongoverno e i suoi effetti, troviamo quelle del Cattivo governo, con al centro la tirannide, e sopra di essa i grandi vizi civili. Il primo è, non a caso, l’avarizia, una sorta di arpia con in mano un lungo uncino per arpionare avidamente il denaro della gente. Ai piedi dell’edificio dei vizi troviamo la Giustizia, pestata e umiliata, con le mani legate. Questa giustizia vinta e soggiogata è legata con una corda tenuta da un solo individuo, mentre nell’affresco del Buon Governo la corda che lega il sovrano alla città è tenuta da tutti i cittadini assieme. In latino fides significava, infatti, sia fiducia che corda, a dire che la reciproca confidenza tra i cittadini è il primo legame sociale della civil convivenza, un legame che diventa il laccio del cacciatore in mancanza di Buon governo.
Non occorrono altre “parole” di queste di Lorenzetti per commentare le cronache di questi giorni. A noi però, nell’era della finanza speculativa, manca il vocabolario giusto, perché l’ideologia dominante ha trasformato l’avarizia (far del denaro il fine, non più un mezzo) da vizio capitale a virtù pubblica, a valore su cui si sono scelti amministratori privati e pubblici, valutati bilanci, approvati licenziamenti, assegnati premi Nobel, fissati stipendi e bonus. E mancandoci le parole adatte, succede che dopo tutto quanto è accaduto in questi ultimi anni continuiamo a pensare che la crisi del Monte dei Paschi sia un’eccezione, un episodio triste che dipende da incompetenza e corruzione, o magari dalla sfortuna.
In realtà basterebbe usare l’antico linguaggio delle virtù e dei vizi, e capiremmo che abbiamo a che fare con un vizio antico, l’avarizia, che però non è più solo vizio individuale, bensì un vizio di sistema, che ha trasformato in questi ultimi decenni troppe banche da istituzioni per il bene civile in imprese speculative, smarrendo così la propria identità e vocazione. Che ci siano pure banche speculative (non troppe), e se falliscono non si salvino con soldi pubblici; ma proteggiamo, anche con adeguate leggi che ancora mancano, le banche commerciali, la banca e la finanza popolare, territoriale e civile, che rischia di essere totalmente fagocitata dall’uncino arpionante. Ho visto alcuni miei amici di Siena profondamenti affranti e addolorati dalle vicende del Monte.
Poche città al mondo (se ce ne sono) hanno, come Siena, un legame così profondo con una banca, che viene solo dopo (se non accanto) a quello con il Palio. Questo è il modello italiano, una cultura complessa e ricca, dove anche le banche sono (state?) pezzi di vita, di cuore, di passioni e di amore civile. Il rammarico per la crisi del Monte nasce allora, per i senesi e per noi, dal prendere definitivamente atto di un tradimento, che si è consumato ormai da tempo, che tocca radici e identità. Gli esseri umani, gli italiani senz’altro, gioiscono e soffrono anche per le piazze e i monumenti delle proprie città; e qualche volta anche per le loro banche, e non solo perché temono per la sorte dei propri risparmi, ma perché i nostri beni e il nostro bene sono più grandi di quelli della nostra casa, e inglobano anche beni e simboli pubblici. E perché il nostro vero patrimonio è più grande del conto corrente e proprietà personali. Per questo le crisi delle istituzioni e la distruzione dei beni pubblici ci impoveriscono, e molto. Il nuovo CDA del Monte per le prime riunioni chieda in prestito la sala del Palazzo Pubblico di Siena: quella buona estetica potrà servire l’etica, e con essa l’economia.
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Commenti - L'autentica lezione senese
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/02/2013
Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/01/2013
La "ludopatia" prima di essere malattia da gioco è malattia del gioco. Per curare la patologia da gioco è allora necessario riscoprire la sua fisiologia, ritrovando il giusto rapporto con questa dimensione essenziale della vita. Giocare ha la stessa radice di giocondo, giubilare e anche di giovare e giovamento, perché il buon giocare fa bene al corpo e all’anima. È tra le esperienze umane più universali ed essenziali, e conserva una sua dimensione di mistero (perché anche gli animali giocano o sembrano giocare?).
[fulltext] =>Quando in una famiglia e comunità non si sa più giocare, lì sono sempre in profonda crisi le buone relazioni. E come tutte le grandi parole dell’umano anche il gioco è ambivalente, perché può pervertirsi nel suo opposto, soprattutto nelle lunghe solitudini.
Durante l’infanzia il gioco è quasi tutto, e consente ai bambini di affrontare la loro complessa età, e anche le grandi ferite – mi ha sempre colpito e sorpreso vedere che dopo i funerali, mentre gli adulti continuano (giustamente) a piangere, i bambini riprendono a giocare, aiutando così tutti a ricominciare. Il buon gioco non termina con la fine dell’infanzia o della giovinezza, perché per gli adulti, e per i vecchi, il gioco non è meno essenziale che per i bambini. Quando un adulto riesce, con grande lavoro e fatica, a non perdere la capacità di giocare si ritrova con una risorsa morale in più, particolarmente preziosa quando si passano momenti difficili e di prova, poiché il gioco rende il giogo della vita più leggero e soave.
Lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo classico saggio Homo Ludens (l’uomo che gioca) scrive che «la civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco». Non solo, i momenti fondativi delle civiltà sono legate al gioco (il libro dei Proverbi [cap. 8] ci fa intuire una dimensione di gioco presente anche nella Creazione; e credo che Gesù sapesse giocare, altrimenti non avrebbe attratto i bambini), ma saper giocare è essenziale per scienziati, scrittori, imprenditori, studiosi, la cui creatività è profondamente legata al gioco da bambino e da adulto, e alla fantasia che il buon gioco alimenta e ricrea (in questo senso il buon gioco è anche ri-creazione).
Mi piace molto che la filosofa americana Martha Nussbaum abbia posto il gioco tra le «dieci capacità fondamentali» che ogni persona dovrebbe avere per poter svolgere una vita buona. Oggi gli studiosi delle cosiddette "motivazioni intrinseche", così importanti per il benessere delle persone, anche di quello lavorativo, quando vogliono indicare il tipo puro di attività a motivazione intrinseca ricorrono al gioco, in particolare al gioco dei bambini, poiché qui l’unica motivazione è interna (intrinseca) all’attività stessa: la prima ricompensa del gioco è il giocare. Chi sa giocare bene sa anche ben lavorare, tanto che non è errato dire che il gioco è il lavoro del bambino, e che alcune dimensioni del lavoro sono il gioco degli adulti, che quando mancano rendono il lavoro alienante.
Il buon gioco ha bisogno di compagnia, perché la sua natura più vera è il suo essere relazione, un bene relazionale. È vero che i bambini sanno giocare anche da soli, ma quelle bambole e quei balocchi sono per loro vivi, come sono vive e vere le fiabe e i loro personaggi. Non so se da bambino mi hanno amato di più i personaggi delle mie favole e racconti o i miei vicini di casa: entrambi certamente, ma il villaggio che fa crescere bene il bambino è popolato anche da giocattoli e fiabe, che non sono meno vivi degli abitanti della casa e della scuola; e così in loro, e in noi, rivive l’uomo antico che chiamava per nome piante e pietre, perché più capace di noi di vedervi la stessa vita che muove il mondo.
Oggi, però, dobbiamo essere preoccupati per il troppo tempo che i nostri bambini dedicano al gioco solitario. Il giocare con fratelli, sorelle e compagni è la prima grande palestra dove ci si allena alla gestione dei conflitti, delle delusioni e soprattutto della cooperazione. Il mondo dell’impresa usa ancora un patrimonio di cooperazione che le persone della mia generazione, e di quelle precedenti alla mia, hanno costruito anche giocando assieme da bambini e da giovani. Non è raro osservare oggi bambini seduti nello stesso luogo, persino nello stesso divano, ciascuno alle prese con il proprio giochetto elettronico, smartphone o tablet, senza nessuna interazione con i vicini: quale capacità di cooperazione avranno questi futuri lavoratori? Ci sono attività che cambiano natura, normalmente in meglio, quando vengono svolte assieme agli altri: il gioco è una di queste, ma anche il guardare un film o il cibarsi: ci sono tante solitudini dietro i disordini alimentari. È la solitudine infelice ciò che più mi colpisce quando entro per un caffè in certi bar: uomini, e tante, troppe, donne, ognuna accanto all’altro a sfregare schede o a gettare via soldi nelle macchinette, senza una parola tra di loro, tutti consumati, mangiati, da quei giochi cattivi.
C’è allora un estremo bisogno di riportare il gioco alla sua natura di bene relazionale, di incontro, di festa. Bisogna preservare, tornare a far nascere o inventare ex novo dei "luoghi del gioco buono" nei locali delle nostre associazioni, nelle parrocchie, nelle famiglie. Luoghi dove il trovarsi insieme per giocare rafforza i legami, cura le ferite delle solitudini, è antidoto alla 'cultura del solitario'. Ci sono già strumenti – tra cui il Wecoop, un gioco da tavolo comunitario inventato dalla Cooperazione sarda assieme all’Università di Cagliari – che andrebbero imitati e moltiplicati. L’azzardo pericoloso del cattivo gioco si combatte con buone leggi, ma anche con il buon gioco. E se rimpariamo l’alfabeto del giocare, rimpareremo anche a lavorare. A lavorare insieme.
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Un gran lavoro oltre le solitudini
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/01/2013
La "ludopatia" prima di essere malattia da gioco è malattia del gioco. Per curare la patologia da gioco è allora necessario riscoprire la sua fisiologia, ritrovando il giusto rapporto con questa dimensione essenziale della vita. Giocare ha la stessa radice di giocondo, giubilare e anche di giovare e giovamento, perché il buon giocare fa bene al corpo e all’anima. È tra le esperienze umane più universali ed essenziali, e conserva una sua dimensione di mistero (perché anche gli animali giocano o sembrano giocare?).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/01/2013
C'è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pagare all'era della globalizzazione dei mercati e della finanza. Prima della rivoluzione industriale donne, uomini, bambini e anziani lavoravano tutti o quasi (tranne i redditieri e i nobili), perché era il solo modo per sopravvivere date quelle condizioni naturali e tecniche. Una quasi piena occupazione, ma non certo una condizione ideale né desiderabile, data la quasi assenza di diritti, libertà, istruzione, salute e longevità (i nostalgici del mondo pre-moderno dovrebbero ricordare questi dati, ogni tanto). [fulltext] =>
Negli ultimi due secoli le grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno moltiplicato la ricchezza prodotta, creando molto lavoro industriale e, grazie agli altissimi livelli di produttività, molto lavoro nel settore pubblico e dei servizi. Questo mondo sta di fatto tramontando, certamente in buona parte dell'Europa, poiché l'industria non crea più lavoro, alcuni prodotti sono ormai saturi (vedi dati auto), e la crisi della produzione industriale fa sì che non si generino più risorse per la creazione di lavoro nel settore pubblico.
La domanda cruciale, che di tanto in tanto torna, e non a caso, su queste pagine, allora diventa: come creare lavoro in Italia e in Europa, e quindi a far ripartire lo sviluppo, in uno scenario così radicalmente e velocemente mutato? Una prima via è accettare il declino, ma non ci piace. Una seconda strada, che ci piace ancora meno, è rassegnarsi all'idea che circa un quarto, o forse un terzo di persone in età attiva non lavorino (quelle meno abili, i vinti che restano per via) e soppravvivano grazie ad una sorta di social card, da finanziare con le imposte dei più ricchi o magari con le entrate di lotterie e giochi. Ma esiste invece una terza buona strada? Abbiamo il dovere etico di provare almeno ad immaginarne qualche brano o sentiero, e per evitare che le nostre parole restino solo utopie (non luoghi), occorre iniziare da luoghi, realtà che "già" esistono, sebbene "non ancora" rilevanti al punto di assurgere a nuovo modello o sistema.
Un primo brano essenziale da ridisegnare per poter immaginare una strada di nuovo lavoro e sviluppo è un radicale cambiamento nel settore del credito. Non si creerà mai nuovo lavoro oggi in Italia e in Europa se non sblocchiamo il sistema finanziario e bancario. I risparmi esistono ancora, e nel nostro Paese sono molti; ma "che fine fanno?", dove vengono investiti?. C'è tanta liquidità che oggi finisce nei luoghi sbagliati, ad alimentare rendite finanziarie e di posizione che non creano lavoro, ma normalmente lo distruggono, mentre troppo spesso finanziano criminalità e guerre (investimenti che hanno sempre reso molto). Dobbiamo invece creare dei nuovi meccanismi che orientino i risparmi dei cittadini verso buoni progetti capaci di lavoro e di futuro.
Nella fase attuale, la finanza e le banche tradizionali non sono più fattori di innovazione e di sviluppo, perché troppo drogate da decenni di finanza facile e sbagliata, e perché tendono a proteggere interessi costituiti e rendite. Chi oggi ha un buon progetto veramente innovativo (nei settori dell'ambiente, dell'energia, cultura, arte, turismo, cura, cibo, abitare ...) trova quasi sempre le porte chiuse del credito. E ciò non stupisce, perché dalla storia e dalla teoria sappiamo che nelle fasi di cambio di paradigma, la finanza tradizionale non ha le categorie culturali per capire i progetti imprenditoriali veramente innovativi, quelli cioè capaci di far partire un nuovo ciclo economico. Ci troviamo, per usare le parole del grande economista austriaco J.A. Schumpeter, in una fase di blocco, in uno "stato stazionario", che può essere spezzato solo da innovazioni vere e di sistema, capaci cioè di creare nuova vera ricchezza, e nuovo lavoro. Ma il punto cruciale, come ci ricorda sempre Schumpeter, è che nelle moderne economie nessuna vera innovazione può partire senza banchieri innovatori, istituzioni e persone dotate di una nuova mentalità e nuovi occhi capaci di vedere le potenzialità di reddito in quei progetti che oggi possono dare una svolta ad una situazione veramente difficile. Nei tempi di gravi crisi l'elemento cruciale non è tanto la diminuzione della ricchezza, ma la sua accumulazione nelle mani sbagliate: "La ricchezza bene acquistata e bene usata è un grande dono di Dio; ma ne' ricchi è troppo pericolo" (San Bernardino da Siena, 1427).
Una esperienza piccola ma esemplare è quella del "crouwd funding" (finanziamento di massa), un fenomeno in rapida crescita anche in Italia (sebbene partito solo pochi anni fa), che, con un forte utilizzo del web, mette assieme progetti imprenditoriali e gruppi di cittadini, che possono finanziarlo se vi vedono elementi di novità. Sono nuove forme di finanziamento popolare, che orienta risparmio privato verso nuovi processi produttivi, un denaro che finché resta confinato ai soli strumenti tradizionali finisce per alimentare solo rendite.
Se saremo capaci di mettere a sistema queste nuove forme di finanza civile, dando vita non a dieci ma a decine di migliaia di progetti di finanza popolare, con adeguati interventi politici e legislativi, dando vita ad alleanze con le nostre antiche istituzioni finanziarie a vocazione sociale e popolare (una vocazione che oggi va rilanciata con coraggio e creatività), potremmo fare qualcosa di decisivo. E così emuleremo, creativamente, i francescani dei Monti di Pietà, i fondatori delle migliaia di casse rurali tra Otto e Novecento, delle casse di risparmio, delle mutue, istituzioni nate nei tempi di crisi, quando c'è un bisogno vitale di finanza civile, la sola capace di rimettere in moto la macchina economica, e così ricreare lavoro e rafforzare la democrazia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/01/2013
C'è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pagare all'era della globalizzazione dei mercati e della finanza. Prima della rivoluzione industriale donne, uomini, bambini e anziani lavoravano tutti o quasi (tranne i redditieri e i nobili), perché era il solo modo per sopravvivere date quelle condizioni naturali e tecniche. Una quasi piena occupazione, ma non certo una condizione ideale né desiderabile, data la quasi assenza di diritti, libertà, istruzione, salute e longevità (i nostalgici del mondo pre-moderno dovrebbero ricordare questi dati, ogni tanto). [jcfields] => Array ( ) [type] => intro [oddeven] => item-odd )
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire 13/01/2013
Il 2013 è il trecentesimo anniversario della nascita dell’economista e filosofo Antonio Genovesi, nato a Castiglione (Salerno) il 1 novembre del 1713. Un autore che ha cose molto importanti da dire all’Italia di oggi, e di domani. Genovesi è uno dei fondatori della moderna scienza economica. Il primo cattedratico di economia nella storia, a Napoli nel 1754.
[fulltext] =>Le sue Lezioni di commercio ossia di economia civile (1765) furono molto influenti in Italia, conosciute e tradotte in Europa e oltre. Genovesi visse e operò nella stessa epoca di Adam Smith, il filosofo scozzese al quale normalmente si riconosce la paternità dell’economia moderna. I due si assomigliavano molto. Entrambi furono prima filosofi e poi economisti, entrambi moderni e quindi critici del mondo feudale, e convinti che il mercato avrebbe contribuito decisamente alla costruzione di un mondo più egualitario e libero. Eppure l’Economia Civile di Genovesi non è soltanto la versione meridiana e povera della Political Economy d’oltremanica. L’Economia civile ha tratti di originalità, e su più fronti.
Innanzitutto diverso era il contesto culturale. Smith opera in una cultura calvinista (insegnava ai futuri leader della chiesa scozzese), Genovesi era abate, e nella Napoli illuminista e borbonica. Smith è profondamente legato alla scuola filosofica, Genovesi era un erede dell’umanesimo classico di Aristotele e di San Tommaso, e di Vico, ma anche di autori moderni francesi (Cartesio) e inglesi (Locke).
Queste differenze culturali si tradussero anche in una diversa economia. Per Smith il protagonista del nuovo mondo è l’individuo, magari virtuoso, prudente e guidato da un interesse illuminato (self-interest). Smith, e dopo di lui l’economia come oggi la conosciamo in tutto il mondo, nell’immaginare le azioni economiche partiva da una idea di uomo parsimoniosa, capace di guardare e cercare i propri interessi. Il bene comune, la ricchezza e il benessere delle nazioni per Smith non è mestiere dei singoli individui, i quali è bene che non pensino al bene comune quando agiscono nei mercati: “non ho mai visto fare niente di buono da chi si prefiggeva di operare per il bene comune” (1776). Parole realistiche, ma certamente pessimiste e un po’ ciniche, che affidano ogni istanza di bene comune alla ‘mano invisibile’ e impersonale dei mercati, e uno po’ alla mano visibile del Governo.
Genovesi non ha una visione ingenua dell’essere umano. Era un esperto, non meno di Smith, di sentimenti e di passioni umane (vi aveva anche dedicato un trattato, la Diceosina, nel 1766, che è uno dei primi libri dove si parla di diritti fondamentali dell’uomo, con importanti riferimenti anche agli animali), ma era newtonianamente convinto che la persona fosse un equilibrio di due tipi di forze, quelle “concentrive” (auto-interessate) e quelle “diffusive” (pro-sociali), entrambe primitive e sempre presenti. Per Genovesi il soggetto è dunque persona, una realtà costitutivamente relazionale, fatta per reciprocità. Da qui la sua idea di mercato come “mutua assistenza”, una intuizione originale che oggi sta vivendo una nuova giovinezza, e non solo in Italia.
Il messaggio di Genovesi è più attuale oggi che nel Settecento, quando prevalse l’Economia Politica di Smith, e si eclissò l’Economia civile di Genovesi. Sono, infatti, molte, e tutte rilevanti, le parole che l’economista napoletano ci invia per l’oggi dell’Italia. La prima è pubblica felicità: mai come in questi tempi ci stiamo accorgendo che la felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza cercata contro gli altri produce malessere per tutti.
La seconda è contenuta nella stessa espressione Economia civile: l’economia se non è civile è semplicemente incivile, mai eticamente neutrale, perché attività umana. Se l’impresa crea posti di lavoro, rispetta l’ambiente, lavoratori, società, migliora beni e servizi, è civile; se non lo fa è incivile, non c’è terza possibilità. Infine, il terzo messaggio ha a che fare con l’Italia, e con il suo modello economico e sociale. Genovesi è una delle più belle espressioni della tradizione italiana e meridiana, che ci ricorda che esiste una nostra eccellenza che non nasce dall’imitazione di altri modelli e umanesimi nordici o americani, ma dal mettere in moto, e a reddito, il genio italiano frutto di secoli di meticciato, di incroci e incontri tra popoli, culture, campanili, frati, monache, artisti, mercanti, mari, valli e montagne. Gli eredi migliori di Genovesi sono il mondo della cooperazione, i distretti del “made in Italy”, la finanza etica, il turismo sostenibile e la buona agricoltura, e tutte quelle esperienze civili capaci di mettere a sistema e a reddito relazioni, gratuità, storia, di generare valore dai valori.
Il 2013 è un anno cruciale per l’Italia, e per l’Europa. L’anniversario di Genovesi, e i suoi messaggi di Economia civile, non potevano arrivare in un momento migliore. Saremo capaci di farli fruttare?
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Iniziative – Fra Napoli, Roma e Milano
Per celebrare la figura di Antonio Genovesi, e rendere presente il suo messaggio all’Italia di oggi, l’Istituto Luigi Sturzo, l’Istituto Universitario Sophia e l’Università di Milano-Bicocca, con la collaborazione delle BCC, la Fondazione con il Sud, Eupolis regione Lombardia e il Banco di Napoli, promuovono una serie di iniziative dedicate ad Antonio Genovesi. L’anno genovesiano vuole essere l’occasione di riscoprire e valorizzare le radici di una tradizione economica che, per la ricchezza dei propri fondamenti antropologici, ha ancora molto da dire all’economia di oggi. Nell’ambito dei diversi incontri scientifici interverranno, tra gli altri, Stefano Zamagni, Mauro Magatti, Luigino Bruni e Pier Luigi Porta. Il progetto prevede anche la pubblicazione di una nuova edizione delle Lezioni di Economia Civile di A. Genovesi, per i tipi di Vita e Pensiero.
Principali Appuntamenti:
8 Marzo - Inaugurazione ‘Anno genovesiano’, Castiglione del Genovesi (SA), convegno nei luoghi natii.
9 Marzo - « Antonio Genovesi: Economic and Civil Perspective 300 Years Later », Napoli, Convegno Internazionale, Sede centrale del Banco di Napoli
4-5 Giugno - « Public Happiness », Roma, Convegno Internazionale, Università Angelicum
6 Giugno - « Ragioni e sentimenti civili per un’economia ed una politica dal volto umano: la lezione di Antonio Genovesi », Roma, Convegno Internazionale, Istituto L. Sturzo e LUMSA
14 novembre - « Antonio Genovesi maestro degli economisti lombardi nell’età dell’Illuminismo », Milano, Convegno Internazionale, Istituto Lombardo - Accademia di scienze e lettere
Per iscrizioni e prenotazioni ai vari eventi: francesca.daldegan@gmail.com
Per altre informazioni, tra cui il programma del primo convegno a Napoli, www.sturzo.it (progetto Genovesi)
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2013
Una parola chiave di questo nostro tempo economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", una frase che arriva prima o poi in ogni dibattito televisivo. Una parola tra le poche capace di raccogliere il consenso di (quasi) tutti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e meritorietà (preferendo la demo-crazia alla merito- crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giustificare il proprio. E sarebbe una accusa assolutamente opportuna se chi mette in discussione la meritocrazia lo facesse per sostenere la causa dell’incompetente, del privilegiato, del raccomandato, o del protetto.
[fulltext] =>Ma contrapporre merito a demerito, e quindi lodare il primo e biasimare il secondo, non è un’operazione utile, perché banale. Il discorso diventa invece rilevante non appena proviamo ad arricchirlo.
Innanzitutto, va ricordato che il tema del merito è molto antico e complesso, al punto che ha generato infinite discussioni, anche teologiche. È stato al centro di un trattato dell’economista Melchiorre Gioia, che nel 1818 così apriva il suo Del merito e delle ricompense: «Le idee che nella mente degli uomini corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse». In realtà oggi «non tutti sanno», e troppi hanno dimenticato questa vecchia e profonda verità, e chi invoca la meritocrazia pensa che il merito sia qualcosa di unidimensionale, e tutto sommato semplice da individuare, pesare e usare come criterio per le buone scelte. Ci sono senz’altro ambiti nei quali il merito è immediato, quelli dove si cercano competenze tecniche molto specifiche e rare, dalla ricerca scientifica alla cucina giapponese. Nell’economia e nelle organizzazioni, però, il merito è qualcosa di complesso e per nulla semplice da individuare.
Immaginiamo una piccola o media impresa (per esempio industriale) che ha di fronte tre candidati per un solo posto di dirigente nell’area del personale. Il primo, Andrea, vorrebbe rientrare in Italia dopo otto anni di lavoro all’estero come direttore del personale in una grande azienda. Tra i candidati ha il migliore curriculum tecnico, coronato da un master in 'risorse umane' presso una prestigiosa università di Londra. Il secondo, Bruno, non ha il master, è più giovane di Andrea, ha comunque una laurea in economia col massimo dei voti, e ha lavorato cinque anni come responsabile in una cooperativa sociale, ottenendo ottime referenze per il suo talento relazionale e di coordinamento del lavoro di gruppo. Infine Catia, coetanea di Bruno, è sposata, ha tre bambini, si è laureata a pieni voti in psicologia del lavoro, ma con due anni di ritardo perché ha terminato gli studi mentre arrivava il primo figlio. Ha una breve esperienza lavorativa nel mondo della cooperazione in una grande organizzazione dove ha coordinato progetti complessi, e così sa molto bene l’inglese (più di Andrea e Bruno).
Chi dei tre è più meritevole di essere assunto? O quantomeno di arrivare al secondo stadio della selezione? Questo esercizio comparativo è molto comune nelle grandi organizzazioni, o quando le imprese medio-piccole affidano la selezione del personale ad agenzie esterne. Un primo sguardo di buon senso a questi tre curricula dovrebbe innanzitutto dirci che abbiamo di fronte tre persone tutte meritevoli, ma meritevoli per ragioni diverse. Nell’attuale cultura d’impresa, però, i meriti che vengono visti e premiati sono sempre più quelli di Andrea, molto meno quelli di Bruno e di Catia. Nessun intelligente selezionatore nega che i meriti siano molti, ma poi, per la cultura dominante nel mondo del business, li pesa e ordina, ritenendone alcuni più rilevanti di altri. Anche perché i meriti tecnici e i titoli si prestano a essere facilmente tradotti in quantità, e così sembrano oggettivi e quindi equi. Invece i meriti relazionali e qualitativi sono difficili da ordinare oggettivamente, e soprattutto sono stati e sono spesso utilizzati come scuse per mascherare assunzioni di amici e parenti; sono meriti che si prestano di più anche all’abuso, ma non per questo meno importanti, anche in termini di fatturato e di sviluppo dell’impresa.
Si commette così l’errore grave di dimenticare che un master, le tecniche, il know how, si possono acquistare sul mercato, ma alcuni talenti relazionali e qualitativi, il know why, sono legati alla nostra storia, frutto di scelte e di investimenti lunghi e costosi, che nessun mercato può vendere. Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un analfabetismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come 'scusa', 'perdonami', parole che quando mancano bloccano le imprese come e più del razionamento del credito. Il cosiddetto 'capitale umano' è la prima risorsa di ogni impresa, ma è un capitale plurale, fatto di molte dimensioni e competenze.
Molte donne, soprattutto mamme, sviluppano, per natura e per necessità, capacità di gestire la complessità (figli, famiglia, genitori, parenti, lavoro, rapporti sociali …), capacità che hanno anche un grande valore organizzativo ed economico, se opportunamente viste e valorizzate, come ormai mette in luce anche la ricerca scientifica sui danni economici dovuti alla discriminazione delle donne nei luoghi decisionali. La crisi economica è il risultato non solo del demerito, ma anche, e soprattutto, di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD, ma rivelatisi demeritevoli in relazioni, etica, umanità.
C’è bisogno di una ridiscussione pubblica di che cosa sia il merito e della sua natura plurale. Altrimenti continueremo ad avere troppe persone meritevoli che restano fuori dalle mura della città del lavoro. Alcuni vi restano perché sopravanzati da immeritevoli protetti e raccomandati; ma molti altri e molte altre perché hanno meriti che la nostra economia e società non sa vedere e riconoscere. Due ingiustizie, una più importante dell’altra, ma la seconda più grave perché non è neanche percepita come tale.
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Pluralità del capitale umano
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/01/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2013
Per avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.
[fulltext] =>La metafora più potente, anche per la sua lunga storia, è quella economica, che porta a leggere la dinamica politica come la competizione nei mercati.
C’è una lunga tradizione di pensiero che ha visto la politica sulla falsariga del mercato, e non sempre con risultati negativi o incivili. Joseph Schumpeter, negli anni quaranta del secolo scorso, scopriva con tristezza e profeticamente che i politici altro non sono se non ‘mercanti di voti’. Da quella intuizione è poi scaturita tutta una teoria politica “competitiva” dove i diversi partiti lottano tra di loro per conquistare il voto dell’elettore al fine di raggiungere il potere. I partiti sarebbero così nulla di sostanzialmente diverso dalle imprese, poiché le imprese (capitalistiche) massimizzano i profitti economici e i partiti massimizzano i profitti politici (voti).
Dietro questo approccio economico-competitivo alla politica (il ‘mercato politico’) si cela l’idea-ideologia che il mercato sia il principale luogo e strumento di libertà e di eguaglianza, e che lo è tanto più quanto più alimenta la concorrenza. Questa visione “competitiva” della democrazia è molto complessa quando si esce dall’astratto e ci si cala dentro la prassi politica, anche perché, a differenza dei mercati ‘civili’, le coalizioni tra partiti una volta raggiunto il potere lo possono usare a proprio vantaggio, scaricando, almeno in buona misura, i costi sulle minoranze meno dotate di voce politica. Questa logica diventa poi devastante se chi la pratica ha in mente un’idea errata di mercato, come è, purtroppo, quella che domina da qualche decennio in Italia, e sempre più in un mondo governato dalla finanza speculativa “a somma zero”.
L’idea di competizione economica che possiamo evincere dalle azioni e dalle parole di molti leader politici, sarebbe soltanto bizzarra se non fosse anche tragica. Un’idea che avrebbe fatto rabbrividire anche gli economisti classici fin da Adam Smith, per non parlare dei massimi teorici della democrazia, da Mill a John Rawls. Il mercato viene infatti immaginato come il luogo dove l’impresa Rossi ha come scopo battere l’impresa concorrente Bianchi. Qui la competizione, il cum-petere, diventa un cercare (petere) insieme (cum) di vincere la stessa gara, ma non implica alcuna azione congiunta, nessuna forma intenzionale di cooperazione. È questa un’idea deformata sia di competizione sia di mercato, poiché il buon mercato, o “la civil concorrenza”, nelle parole di Carlo Cattaneo, è esattamente l’opposto: l’impresa Rossi non ha come scopo “battere” l’impresa Bianchi, ma soddisfare al meglio i bisogni dei consumatori; e se l’impresa Bianchi è meno capace di Rossi di soddisfare quei bisogni, o migliora o esce dal mercato. È questa la natura più profonda della competizione di mercato, che è quindi una faccenda cooperativa, un’azione congiunta. Quindi, se qualcuno ama usare la categoria di competizione per descrivere la dinamica politica, che almeno si orienti verso la sua versione migliore, più profonda e civile.
In realtà, quando nei mercati e nella politica gli attori non hanno più l’energia morale e l’entusiasmo civile di guardare avanti e insieme nella stessa direzione, di proporre qualcosa di importante ascoltando e parlando con i cittadini, si guarda “accanto”, e così rischia di prevalere uno sguardo miope e orizzontale orientato a battere il con-corrente, il rivale e l’avversario. E questo è un segnale di malessere etico e antropologico profondo, malattia da curare con fermezza. La concezione odierna, ed errata, del ‘mercato politico’ allora non è altro che un segnale (forse il maggior segnale, come già percepiva Schumpeter) che si è logorato un modo di stare al mondo e di cooperare.
Dobbiamo saper immaginare una nuova stagione esplicitamente cooperativa, se vogliamo veramente arrestare quel declino già da tempo iniziato, che è molto più profondo del debito e del PIL. Una strada che insieme ad altri intravvedo è dare vita, una volta chiusa questa fase elettorale, ad un processo condiviso e cooperativo, analogo a quello che ha ispirato la Costituzione repubblicana, frutto di una ritrovata concordia che riuscì a trasformare le macerie della guerra in un nuovo Patto civile.
I giorni che ci separano dalle elezioni possono solo essere l’inizio, un primo passo, di un lungo processo per il quale sarà necessario il contributo delle migliori donne, uomini e giovani della società civile, verso nuove sintesi. Un primo passo, affinché sia un buon passo, richiede però fin da ora la capacità di coltivare le ragioni della concordia e del consenso, un cercare insieme. Occorre avere il coraggio di mettere in primo piano l’immaginazione e la proiezione verso il futuro da costruire, anziché esaurire tutte le energie nell’affanno di garantire il controllo del presente.
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Commenti - All'Italia (e al mondo) servono visioni e scelte di «Civil Concorrenza»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2013
Per avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/01/2013
«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).
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Ma soprattutto nel Paese c’è un sentire comune disincantato che a troppi non fa più credere che ci possano essere ancora cittadini, tanto meno politici, motivati anche dal bene comune e non soltanto da interessi privati. Il pan-mercatismo di questi decenni ha anche alzato il "cinismo medio", convincendo tanti di noi che la logica degli interessi sia la sola vera e realistica, e che tutto il resto è solo chiacchiere.
Sono molti gli economisti che hanno usato e usano categorie e logiche economiche (cioè dei mercati) per spiegare praticamente tutto, dal perché gli ordini religiosi fanno indossare ai loro membri abiti e pronunziare professioni solenni (per alzare le «barriere all’uscita», come accade nelle industrie), ai comportamenti dei politici e degli elettori.
I primi economisti che tra Otto e Novecento applicarono la logica economica alla politica furono italiani. Tra questi Maffeo Pantaleoni, che sosteneva che le scelte di politica economica e fiscale dipendono «dall’intelligenza media» presente nel Parlamento. Amilcare Puviani, poi, con la sua "Teoria dell’illusione finanziaria" riteneva che il sistema fiscale di un Paese è accettato dalla masse sulla base di una duplice illusione: che la pressione tributaria sia minore di quella reale e che il gettito sia usato per scopi di bene comune, e non per gli interessi privati della classe dominante. Vilfredo Pareto, l’economista italiano più geniale di sempre, continuò questa tradizione, aggiungendovi l’importante elemento che gli esseri umani sono mossi normalmente da passioni e da interessi, ma hanno l’invincibile tendenza a dare una «vernice» logica alle loro azioni. Nel caso dei politici, la «vernice» è il bene comune o l’ideale, mentre la reale motivazione è il potere.
Questo approccio economico alla politica è oggi dominante e pervasivo, eppure coglie soltanto alcune dimensioni delle realtà, ma non tutte, e spesso lascia fuori l’essenziale, tra cui il fatto stesso del voto popolare (è noto che per la teoria economica ufficiale l’elettore "razionale" non dovrebbe votare). Sono convinto che tranne pochissime eccezioni (una di queste è Albert Otto Hirschman, recentemente scomparso), gli economisti non fanno un buon servizio al bene comune quando trattano la politica come un mercato. Anzi, commettono un errore grave e gravido di conseguenze. L’umanesimo dell’interesse (forse) funziona quando debbo scegliere l’auto o un biglietto aereo, meno per il posto di lavoro, molto poco e male per le scelte dove sono in gioco dimensioni simboliche ed etiche, come quelle politiche. Qualche settimana fa una mia collega mi ha detto: «Io appartengo alla classe agiata americana, e avrei tutto l’interesse economico a votare un programma conservatore. Ma non lo faccio, scegliendo di andare contro i miei interessi». L’economia dominante fa una estrema fatica a capire questo tipo di scelte, che invece sono molte e cruciali soprattutto nei momenti di crisi.
Oggi sono molti i cittadini che vanno oltre il loro interesse economico continuando a tenere aperta un’impresa per non licenziare, a pagare tutte le tasse sapendo di essere quasi gli unici a farlo, a credere e a investire nella politica e ad andare a votare per amore civile, nonostante tutto. L’Italia ha già avuto dei momenti felici nei quali la politica, a tutti i livelli, è stata qualcosa di più e di diverso dalla ricerca di interessi privati di elettori ed eletti.
Gli uomini, e ancor più le donne, sono capaci di agire anche per interessi più grandi di quelli privati, negarlo significherebbe negare l’umanità e la dignità della persona. I decenni dai quali stiamo (forse) uscendo hanno minato la virtù della speranza di poter cambiare: ma è da questa speranza, che a livello antropologico, e quindi politico, possiamo e dobbiamo ricominciare. Imboccando la strada della buona politica, che dipende certamente dalla «intelligenza media» del Parlamento prossimo venturo, ma dipende anche, e oggi soprattutto, dalla sua «moralità media».
Le molte "trappole di povertà" nelle quali siamo caduti, soprattutto in alcune regioni del Sud, non si spezzano se non ridando forza profetica e fiducia in se stessa alla politica. Da qui ripartiranno anche lavoro e buona economia. Un’economia non è solo quella che oggi domina nel mondo e il mondo. L’Italia prima di Pantaleoni e Pareto, ha avuto Dragonetti e Genovesi, che hanno pensato e tentato una Economia Civile fondata sulla reciprocità e la pubblica felicità. Il 2013 è anche il 300° anniversario della nascita di Antonio Genovesi (ne parleremo a dovere su queste pagine), ed è un’occasione per riappropriarci di una economia amica della politica e del bene comune.
Lavoriamo (e scegliamo con i nostri stili di vita e il nostro voto) per essere all’altezza di questo passaggio e lasciamo a Genovesi stesso (da una lettera del 1765) la parola: «Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza».
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Commenti - «Politica». ritrovi la morale e se stessa
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/01/2013
«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).
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Commenti - Questo tempo per capire la preziosa «liturgia» delle relazioni
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/12/2012
Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...
[fulltext] =>Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.
I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.
Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.
Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.
Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.
Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.
Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.
1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.
2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.
3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la conpresenza di chi dona e di chi riceve.
È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.
I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.
Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del condono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.
Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.
Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.
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di Luigino Bruni
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