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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 09/10/2018
[fulltext] =>Il primo e radicale problema di chi scrive, legifera e si occupa di povertà è l’incompetenza, perché non essendo in genere poveri non possediamo quella conoscenza specifica che ha soltanto chi è dentro una condizione di povertà. I discorsi e le azioni sulle povertà sono spesso inefficaci, se non dannosi, perché la mancanza di competenza li rende astratti. Non è certamente un caso che due tra i maggiori studiosi della povertà, Muhammad Yunus (premio Nobel per la pace) e Amartya Sen (premio Nobel per l’economia) sono originari rispettivamente del Bangladesh e dell’India, ed entrambi vengono da esperienze di contatto con le povertà vere e si sono sporcati le mani per contribuire a far nascere istituzioni e progetti per alleviare le povertà (la Grameen Bank e l’Indice di Sviluppo Umano delle Nazioni Unite). Per capire e operare nelle povertà il buon senso non basta e spesso produce molti danni. Dobbiamo invece lavorare molto, facendo di tutto per acquisire, con lo studio e la frequentazione delle persone che si vorrebbero aiutare, le competenze che non si hanno, ma che si devono avere.
La prima cosa che si inizia a capire quando si lasciano la scrivania e i set televisivi e si entra nella concretezza delle povertà, è l’inadeguatezza di una delle idee più radicate della sociologia del XX secolo, la cosiddetta "piramide di Maslow", che è troppo astratta per essere vera. Pensare, infatti, che le persone abbiano bisogni ordinati da una gerarchia piramidale, dove alla base ci sono i bisogni fisiologici (fame, sete, caldo e freddo…) e solo una volta soddisfatti questi possiamo permetterci il lusso di passare ai bisogni di ordine superiore (sicurezza e protezione), poi a quelli di appartenenza quindi ai bisogni di stima. E, infine, una volta saziati, riscaldati e stimati possiamo finalmente dedicarci al lusso dei bisogni di auto-realizzazione, che occupano il vertice della piramide. Come se le persone non morissero anche per mancanza di stima e di senso, o se l’attesa di una nipote che viene a visitarci ogni sera in ospedale ci nutrisse meno della minestrina. Questa antica teoria (del 1954) ha subito molte critiche, sviluppi, rettifiche, ma l’idea che ci siano bisogni primari ed essenziali legati al corpo, al coprirsi, al tetto, e solo dopo tutti gli altri più "alti", è ancora molto radicata nelle politiche pubbliche e nella cultura media della popolazione. E così la ritroviamo, implicita, anche nel dibattito sul reddito di cittadinanza di questi giorni in Italia (e non solo).
Quando ero bambino il reddito di mio padre (commerciante ambulante di polli e galline) è stato per molti anni minore degli equivalenti 780 euro di cui si parla oggi, e nessuno sapeva se ogni mese sarebbero arrivati a casa, dove ad attenderli c’era mia mamma e noi quattro figli. Ma nei compleanni e per la Befana i nostri regali dovevano essere belli come quelli dei nostri compagni di scuola più ricchi. Mio padre rinunciava anche ad alcuni beni primari, ma per quei giocattoli non faceva economia, perché non voleva che ci vergognassimo a scuola. In gioco c’erano la dignità sua e nostra. I miei nonni contadini e le loro sette figlie non erano certo benestanti, ma nelle feste importanti bisognava alzarsi da tavola lasciando vino e cibo avanzati. Quei pranzi eccessivi non erano meno essenziali delle patate e del pane di ogni giorno, perché erano momenti decisivi dove si ricreavano e accudivano quei legami sociali che stringevano tra di loro i membri della comunità, e impedivano che precipitassero tutti nei giorni difficili, quando alla mancanza dei beni primari supplivano questi altri beni altrettanto primari. Durante un periodo di studio all’estero, non avevo abbastanza soldi per permettermi un quotidiano (italiano) e il treno. Mi procurai da un amico una bicicletta, risparmiavo il costo del biglietto del treno e quei due franchi mi consentirono di leggere articoli che sono la radice di quelli che ho scritto molti anni dopo, e di quello che sto scrivendo ora.
La teoria della povertà di Amartya Sen si basa su un assioma fondamentale, una sorta di pietra angolare del suo edificio scientifico: la povertà è l’impossibilità che ha una persona di poter svolgere la vita che amerebbe vivere. La povertà è dunque una carestia di libertà effettiva, perché la mancanza di quelle che lui chiama capabilities (capacità di fare e di essere) diventa un ostacolo spesso insuperabile per fare la vita che vorremmo fare.
E una delle capacità fondamentali consiste, per Sen, nel poter uscire in pubblico senza vergognarsi (di sé e dei giocattoli dei propri bambini). Una delle idee economico-sociali più rivoluzionarie e umanistiche dell’ultimo secolo.
Il primo messaggio, serio e preoccupante, di questa visione competente della povertà riguarda la difficoltà di aumentare le libertà con il denaro. Alcuni, in genere la maggior parte, di questi ostacoli sono infatti conseguenza della mancanza non di reddito, ma di capabilities, che sono una sorta di bene capitale (stock), una assenza che si è creata negli anni, spesso già dall’infanzia. È l’assenza di capitali che genera anche la mancanza di reddito, che è solo un effetto. Questi beni capitali sono istruzione, salute, famiglia, comunità, talenti lavorativi, reti sociali, che per essere "curati" richiederebbero interventi strutturali, in "conto capitale", e quindi molto tempo, volontà politica e un coinvolgimento serio della società civile. Se quindi le persone non useranno il reddito che giungerà dal Governo per rafforzare o creare alcuni di questi capitali, quei soldi non ridurranno la povertà, perché le persone resteranno povere con un po’ di consumi in più. E il primo bene capitale da cui una persona può ricominciare si chiama ancora con un antico, bellissimo, nome: lavoro.
Ma c’è anche un secondo messaggio. Se questi 780 euro (al massimo) non diventeranno anche una maggiore libertà di comprare libri, giornali, di fare festa, un viaggio, di comprare un giocattolo bello per un bambino, un braccialetto più carino per la fidanzata, una cena esagerata con gli amici più cari per dire che finalmente stiamo cambiando vita, e che abbiamo ricominciato a sperare..., quei redditi non ridurranno nessuna povertà, o ne ridurranno gli aspetti meno importanti.
Tutti sappiamo, o dovremmo sapere, che per la stessa natura "capitale" di molte forme di povertà, il rischio che i soldi del reddito di cittadinanza finiscano in luoghi sbagliati è molto alto; e per questa ragione dobbiamo fare di tutto per eliminare e ridurre alcuni di questi luoghi sbagliati (in primis l’azzardo, dove il governo ha ben iniziato e deve andare fino in fondo togliendo le slot machine dai bar e tabacchi, e riducendo drasticamente i gratta-e-vinci che ormai si trovano ovunque). Ma se è vero che la povertà è mancanza di libertà, allora non offendiamo la libertà con liste di "beni primari" scritte a tavolino, o con controllori che dovrebbero dirci se un libro o un giocattolo sono troppo costosi perché un "povero" se li possa permettere. Il primo "reddito" di cui i molti poveri del nostro Paese hanno bisogno è un segnale di fiducia e di dignità. Di sentirsi dire che sono poveri ma prima sono persone adulte, e possono decidere, anche loro, se è più primario un vestito o un regalo per chi amano.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/09/2018
Pubblichiamo uno stralcio del libro di Luigino Bruni "Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto" edito da Giunti (pagine 160, euro 16,00), che è da oggi in libreria. Viene pubblicato nella nuova collana 'Terra futura' (che Giunti realizza in collaborazione con Slow Food editore e l’Università di scienze gastronomiche) che per ora conta altri tre titoli tutti in uscita lo stesso giorno.
Mircea Eliade, il grande antropologo romeno, nel suo classico saggio Il sacro e il profano , scriveva: «L’uomo moderno ha desacralizzato il suo mondo e ha deciso di vivere un’esistenza profana. Basterà constatare il fatto che la desacralizzazione caratterizza l’esperienza totale dell’uomo non religioso delle società moderne». Se Eliade fosse vissuto oggi, molto probabilmente non avrebbe scritto questa frase, perché si sarebbe accorto che il capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo, sebbene in un modo tutto nuovo e diverso dal mondo sacro di cui parlava Eliade. E, quasi certamente, la neo-sacralizzazione del nostro tempo Eliade e i suoi colleghi del Novecento l’avrebbero chiamata neo-idolatria.
[fulltext] =>Questo saggio analizza e discute alcune delle dimensioni del nuovo spirito dell’economia del nostro tempo. Un’economia che continuo a chiamare capitalismo, in mancanza di una parola sintetica più efficace, ben consapevole che tra quanto chiamiamo oggi capitalismo e quello che abbiamo conosciuto nei due secoli precedenti, ci sono molte differenze, alcune così radicali (per esempio la finanza e la rivoluzione del web ) da renderci molto complicata la scelta di usare la stessa parola. Esso è quindi una riflessione su ciò che non vediamo (gli spiriti sono invisibili), che non vogliamo vedere o che il sistema non ci fa vedere, ma di cui subiamo le conseguenze soprattutto in termini di gioia di vivere, il cui calo sembra essere una nota dominante del nostro capitalismo.
La dimensione religioso-sacrale del capitalismo non è cosa nuova. Prima che Max Weber o Karl Marx ce lo dicessero chiaramente, e ciascuno a modo suo, all’inizio dell’Ottocento il francese Claude-Henri de Saint-Simon immaginò e realizzò una vera e propria religione degli imprenditori, dei capitalisti e della scienza, che ebbe un notevole successo e adepti in tutta Europa. In una famosa lettera nel 1803, Saint-Simon scriveva: «La notte scorsa ho udito queste parole: 'Roma rinuncerà alla pretesa di essere il centro della mia chiesa; il papa, i cardinali, i vescovi e i preti cesseranno di parlare in mio nome… Sappi che Io ho fatto sedere Newton al mio fianco e gli ho affidato la direzione dell’intelligenza umana e la guida degli abitanti di tutti i pianeti… Ogni consiglio farà costruire un tempio che ospiterà un mausoleo in onore di Newton… Ogni fedele che risiede a meno di un giorno di cammino dal tempio scenderà una volta all’anno nel mausoleo di Newton. […] Nei dintorni del tempio saranno costruiti laboratori, officine, e un collegio. Ogni lusso sarà riservato al tempio…'».
La nuova religione di Saint-Simon era universale e laica; i sommi sacerdoti erano gli scienziati, gli ingegneri, gli industriali. Da Marx fu annoverato tra gli autori utopici. Ma, in realtà, se leggiamo bene le sue idee e il suo movimento, dovremmo dire che più che di utopia si trattava di una sorta di strana profezia, se pensiamo a cosa è diventato oggi quel capitalismo che il filosofo francese osservava nella prima fase del suo sviluppo. Con alcune differenze però: l’alleanza tra tecnica e capitale, al tempo di Saint-Simon ancora incipiente, oggi si è potenziata e radicalizzata, ma non sono stati gli ingegneri e i produttori a diventarne i sacerdoti. Il loro posto lo hanno preso i finanzieri e soprattutto i manager, e al centro del tempio non c’è il dio-produttore ma il dio-consumatore. Niente più dell’ideologia del business sta infatti dominando il nostro tempo.
Un’ideologia prodotta e generata nelle business school di tutto il mondo, che conosce un enorme successo perché non si presenta come un’ideologia o religione (qual è), ma come una tecnica, e quindi di portata universale. Gli stessi strumenti del management si applicano a Dallas e a Nairobi, a Milano e in Siberia, perché le tecniche non sono dipendenti dalla cultura e dal carattere dei popoli: un’automobile o una lavastoviglie funzionano allo stesso modo in tutto il mondo, con qualche attenzione per le gomme e per il liquido antigelo. Così gli stessi strumenti di management dovrebbero funzionare allo stesso modo per le multinazionali capitalistiche e per le comunità di suore, perché, si dice, sono tutte aziende e in quanto tali sono tutte uguali. Sotto l’universalismo della tecnica si veicola allora una visione del mondo, dell’individuo, delle relazioni sociali.
Una visione che, come tutte le religioni, ha i suoi dogmi. I principali si chiamano meritocrazia e incentivi. Con la meritocrazia, ad esempio, si legittima la diseguaglianza, perché i talenti non sono interpretati come dono ma come merito individuale. Un dogma da cui deriva la sempre più pervasiva idea che i poveri sono demeritevoli e quindi colpevoli, e in quanto tali non abbiamo nessun obbligo morale di soccorrerli: al massimo possiamo pagare qualche Ong perché se ne occupi in modo che non ci diano troppo fastidio. Questo libro è dunque un dialogo sulla natura religiosa e idolatrica del capitalismo del nostro tempo. Ho scelto di trattare temi complessi con uno stile non specialistico, senza appesantire il testo con note e citazioni di opere (che comunque si trovano elencate in bibliografia), facendo mio il metodo di Antonio Genovesi, fondatore dell’Economia civile, che diceva: «Scriverò dunque come penso, e parlerò come tra noi si parla, perché amo di essere inteso, non ammirato».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/09/2018
Pubblichiamo uno stralcio del libro di Luigino Bruni "Capitalismo infelice. Vita umana e religione del profitto" edito da Giunti (pagine 160, euro 16,00), che è da oggi in libreria. Viene pubblicato nella nuova collana 'Terra futura' (che Giunti realizza in collaborazione con Slow Food editore e l’Università di scienze gastronomiche) che per ora conta altri tre titoli tutti in uscita lo stesso giorno.
Mircea Eliade, il grande antropologo romeno, nel suo classico saggio Il sacro e il profano , scriveva: «L’uomo moderno ha desacralizzato il suo mondo e ha deciso di vivere un’esistenza profana. Basterà constatare il fatto che la desacralizzazione caratterizza l’esperienza totale dell’uomo non religioso delle società moderne». Se Eliade fosse vissuto oggi, molto probabilmente non avrebbe scritto questa frase, perché si sarebbe accorto che il capitalismo del XXI secolo sta risacralizzando il mondo, sebbene in un modo tutto nuovo e diverso dal mondo sacro di cui parlava Eliade. E, quasi certamente, la neo-sacralizzazione del nostro tempo Eliade e i suoi colleghi del Novecento l’avrebbero chiamata neo-idolatria.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/08/2018
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa (oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono la funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
[fulltext] =>La famiglia, infatti, è il principale luogo dove apprendiamo, per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini, quella che Pavel Florensky chiamava ’l’arte della gratuità’. E lì che soprattutto da bambini impariamo anche a lavorare, perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità. La nostra cultura, però, associata la gratuità al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata, al prezzo zero (San Francesco ci ha invece detto che la gratuità è un prezzo infinito: non si può né comprare né vendere perché è impagabile). In realtà la gratuità è qualcosa di molto serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in veritate, che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis, e per questo quell’amore diverso non era né solo eros né solo philia (amicizia). La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose non per usarli utilitaristicamente a proprio vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità e nel loro mistero, rispettarli e servirli. Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La gratuità ci salva così dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, ci impedisce di mangiare gli altri e noi stessi. E’ ciò che distingue la preghiera dalla magia, la fede dall’idolatria, che ci salva dal narcisismo, che è la grande malattia di massa del nostro tempo, per assenza di gratuità.
Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica dell’incentivo che oggi vige ovunque. Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco, e se usato deve essere usato come un premio o riconoscimento dell’azione ben fatta per ragioni intrinseche, e mai usato come prezzo. Uno dei compiti tipici della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto, un’etica che nasce proprio dal principio di gratuità. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro diventa il 'perché' si fanno e non si fanno compiti e lavoretti di casa, quei bambini da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori, perché il lavoro ben fatto di domani poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi anni di vita, e soprattutto a casa.
L’assenza del principio di gratuità nell’economia dipende anche, e molto, dall’assenza dello sguardo femminile. La casa, l’oikos, è sempre stato il luogo abitato e governato dalle donne. Ma , paradossalmente, l’economia è stata, e continua ad essere, una faccenda tutta giocata sul registro maschile. Anche i maschi hanno sempre avuto a che fare con la casa, e molto. Il loro sguardo si è però concentrato sul provvedere i mezzi per il sostentamento, sul lavoro esterno, sui beni, sul denaro. E quando l’economia è uscita dalla vita domestica ed è diventata politica, sociale e civile, lo sguardo e il genio femminile è rimasto dentro casa, e quello maschile è rimasta la sola prospettiva della prassi e soprattutto della teoria economica e manageriale. Le donne guardano alla casa e all’economia vedendo prima di tutto il nesso di rapporti umani che si svolge in esse. I primi beni che vedono sono quelli relazionali e i beni comuni, e dentro a questi vedono anche i beni economici. Non è certo un caso che l’Economia di comunione sia nata da uno sguardo di una donna (Chiara Lubich), né che la prima teorica dei beni comuni è stata Katherine Coman (nel 1911), e che Elinor Ostrom sia stata insignita (unica donna finora) del premio Nobel in economia proprio per il suo lavoro sui beni comuni. E ci sono due donne (Martha Nussbaum e Carol Uhlaner) all’origine della teoria dei beni relazionali. Quando manca lo sguardo femminile sull’economia, le sole relazioni viste sono quelle strumentali, dove non è la relazione ad essere il bene, ma dove i rapporti umani e con la natura sono mezzi usati per procurarsi i beni.
Se lo sguardo e il genio femminile della oikos-casa fossero stati presenti nella fondazione teorica dell’economia moderna, avremmo avuto una economia più attenta alle relazioni, alla redistribuzione del reddito, all’ambiente e forse alla comunione. È, infatti, la comunione una grande parola che dalla famiglia può passare all’economia di oggi. E qui si apre un discorso specifico per i cristiani. La chiesa oggi è chiamata ad essere sempre più profezia, se vuole salvarsi e salvare. La profezia è anche una parola della famiglia. La maggior parte dei profeti biblici erano sposati, e molte parole e gesti profetici della bibbia sono parole di donne. Isaia chiamò suo figlio Seariasùb, che significa 'un resto tornerà', che è uno dei grandi messaggi della sua profezia. Non trovò modo migliore per lanciare quel suo messaggio profetico di farlo diventare il nome del figlio. Ogni figlio è un messaggio profetico, perché dice con il solo suo esserci che la terra avrà ancora un futuro, e che potrà essere migliore del presente. La profezia della famiglia oggi, per essere credibile, deve prendere la forma dei figli e la forma dell’economia, e quindi della condivisione, dell’accoglienza e della comunione. Perché sia i figli che l’economia non sono altro che la vita ordinaria di tutti e di ciascuno, che è il solo luogo dove la profezia si nutre e cresce.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/08/2018
Economia è una parola greca che rimanda direttamente alla casa (oikos nomos, regole per gestire la casa), quindi alla famiglia. Eppure l’economia moderna, e ancor più quella contemporanea, si è pensata come un ambito retto da principi diversi, distinti e per molti versi opposti ai principi e ai valori che hanno sempre retto e continuano a reggere la famiglia. Un principio fondante la famiglia, forse il primo e quello sottostante gli altri, è quello di gratuità, che è quanto è di più distante dall’economia capitalistica, che conosce surrogati della gratuità (sconti, filantropia, saldi) che svolgono la funzione di immunizzare i mercati dalla gratuità vera.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/05/2018
Esiste una amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa, che il cardinale Bassetti ha usato ieri nel suo appello alle forze politiche e sociali in questo momento gravemente critico per l’Italia, ma che tanti magari fanno fatica a intendere. Ma questa amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune c’è davvero. Siamo la patria di Tommaso d’Aquino, e siamo anche la terra della tradizione della “Pubblica felicità”, il nome che l’economia moderna prese in Italia nel Settecento. Mentre gli americani avevano messo al centro del loro umanesimo il diritto individuale alla “Ricerca della felicità” (Pursuit of happiness) e gli inglesi sceglievano “La ricchezza delle nazioni” (Wealth of Nations), noi italiani mettevamo al centro del programma della modernità la natura pubblica della felicità.
[fulltext] =>In quella espressione ci sono tante cose preziose, oggi più attuali di ieri. Innanzitutto, essa ci dice che la dimensione più importante della nostra felicità è un qualcosa di pubblico, di condiviso, da cui dipendono anche i suoi aspetti individuali. Quando viene minacciata la pace o si incrina la concordia civile, anche le ordinarie private felicità di ciascuno di noi entrano in crisi e si abbuiano – lo stiamo vedendo in questi giorni.
Oggi gli studi empirici sulla felicità ci dicono che la maggior parte dei beni dai quali dipende la felicità individuale sono beni pubblici e beni comuni: il lavoro, la sicurezza, la vita famigliare, l’amicizia, l’inquinamento, il traffico, l’ambiente, la fiducia nelle istituzioni (e molto meno da: divani, tv, telefonini, case comode o automobili). Ciò che chiamiamo felicità dipende, dunque, in piccola parte da noi, e moltissimo dagli altri.
Per comprendere cosa sia il Bene comune, per una volta ci viene in aiuto l’economia, in particolare la “teoria dei beni comuni” (commons). I beni comuni sono quei beni che usiamo insieme (parchi, atmosfera, oceani, la terra …). Il Bene comune (con la B maiuscola) può anche essere visto e compreso come una particolare specie di bene comune (con la b minuscola). La scienza economica conosce la cosiddetta tragedia dei beni comuni, da cui emerge un messaggio chiaro e impegnativo: se ciascuno degli utilizzatori di un bene comune (un pascolo in montagna, un parco, l’ozono nell’atmosfera, un’impresa…) è animato soltanto dalla ricerca del proprio interesse privato, il bene comune viene distrutto, sebbene nessuno dei soggetti lo volesse. Per conservare e custodire un bene comune, invece, tra le persone deve scattare una logica diversa, che qualcuno chiama “logica del noi”, e così far diventare quel “bene di nessuno” un “bene di tutti”. Salviamo i beni comuni e il Bene comune quando riusciamo a vedere un valore più grande degli interessi privati, e una volta che abbiano visto riusciamo a decidere di fermarci, per esempio a fermarci prima che l’erba del pascolo finisca.
Ma – e sta qui il problema – durante le crisi è proprio la consapevolezza del “noi” che scompare, perché gli “io” diventano talmente ipertrofici da impedire di vedere il “noi”. Così l’erba del pascolo finisce, tutti stanno peggio, e non resta nulla per nessuno, né per oggi né per domani. E non si torna indietro (è molto difficile ricostituire un bene comune), perché si sono distrutte le relazioni di fiducia su cui si basava il buon uso di quel bene comune.
Il Bene comune, ancora più radicalmente dei beni comuni, è un bene fatto di rapporti, è una forma speciale di bene relazionale, perché sono le relazioni tra le persone a costituire il bene. Nel Bene comune non accade come nelle merci, dove anche se litighiamo con il fornaio possiamo sempre mangiare quel pane che ci ha venduto. Perché quando si spezzano le relazioni, non resta più niente da “mangiare”, e il Bene comune si trasforma in male comune. Come succede nell’amicizia e in famiglia: quando si litiga durante la cena, passa l’appetito e si chiude lo stomaco.
Peppone e Don Camillo sono un vero mito fondativo del nostro Paese, perché la concorrenza politica tra di loro era fondata su una concordia civile più profonda. Erano diversissimi, ma prima, e a un livello più vero, erano uguali, perché erano cittadini, perché erano umani. E così bisticciavano, si sfottevano, ma poi andavano insieme a difendere Brescello quando il grande fiume rischiava di esondare. Le comunità e gli Stati capaci di futuro sono quelli dove si è stati capaci di coltivare e custodire una amicizia civile che fonda e sostiene le competizioni economiche e politiche, quell’amicizia civile che l’illuminismo ha voluto chiamare fraternità. Quando l’amicizia civile si spezza, i popoli declinano, e si resta in balìa dei grandi fiumi della finanza e dei poteri forti.
Anche le istituzioni, nazionali e internazionali, anche l’Unione Europea, sono forme di beni comuni, sottoposti alla possibilità della tragedia, e quindi a essere distrutti, se ciascuno agisce solo per curare quelli che gli appaiono come i propri interessi. Le generazioni passate erano più capaci di vedere le ragioni del “noi” sottostanti a quelle degli “io”, anche per le esperienze ancora molto vive dei grandi dolori generati dall’assolutizzazione degli interessi di parte. Noi dobbiamo reimparare, e farlo presto, a vedere il Bene comune e le sue ragioni diverse.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/05/2018
Esiste una amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune, questa espressione che sentiamo risuonare, che sta nel cuore della Dottrina sociale della Chiesa, che il cardinale Bassetti ha usato ieri nel suo appello alle forze politiche e sociali in questo momento gravemente critico per l’Italia, ma che tanti magari fanno fatica a intendere. Ma questa amicizia naturale tra l’Italia e il Bene comune c’è davvero. Siamo la patria di Tommaso d’Aquino, e siamo anche la terra della tradizione della “Pubblica felicità”, il nome che l’economia moderna prese in Italia nel Settecento. Mentre gli americani avevano messo al centro del loro umanesimo il diritto individuale alla “Ricerca della felicità” (Pursuit of happiness) e gli inglesi sceglievano “La ricchezza delle nazioni” (Wealth of Nations), noi italiani mettevamo al centro del programma della modernità la natura pubblica della felicità.
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di Marco Girardo
pubblicato su Avvenire il 22/05/2018
Finché sulla terra ci sarà un idolo, avremo ancora bisogno di profeti. E dagli idoli la nostra società post-capitalistica appiattita sul feticismo del consumare – un culto con milioni di totem, oggi pure virtuali e personalizzati – è quasi divorata. L’umanesimo biblico che Luigino Bruni continua a esplorare in chiave sociale, economica e antropologica rappresenta anzitutto un antidoto all’idolatria. Ma non si svela pienamente trascurando i profeti: «Ci resta soprattutto precluso senza Isaia», afferma l’economista marchigiano, con il quale conversiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, Dialoghi della notte e dell’aurora (Edb, euro 240, pagine 20,00), raccolta delle riflessioni ispirate dai testi biblici e pubblicate da Avvenire la domenica.
[fulltext] =>Isaia è una cima massima del genio umano, continua Bruni: «Grazie a lui possiamo capire Cristo: i Vangeli sono stati scritti sul retro del rotolo di Isaia, e se lo dimentichiamo li trasformiamo in una raccolta di testi morali o una collezione di miracoli ». Del resto, conveniamo, più che aver ereditato una cultura atea, oggi – come temeva Karl Barth – siamo banalmente regrediti in un mondo strapieno di feticci.
La tradizione profetica affonda le sue radici nella conoscenza sapienziale, processo in cui non si attiva il logos, ma il cuore. Isaia, di tale tradizione, esalta l’universalità, l’inclusività, la spinta anti-ideologica e ancor prima la bellezza. Nell’arte ad esempio, dice Bruni, «c’è una dimensione profetica che permette di cogliere un dato empirico della profezia: si tratta di un dono oggettivo, universale, di un bene comune globale che abbraccia anche gli ultimi, gli scartati rendendo loro giustizia nel richiamare i re e le istituzioni alla limitazione del potere». Anche per la psicoanalisi la dignità dell’arte è tale solo se non evita l’incontro del reale con il trauma e con le cicatrici del dolore.
Il primo compito del profeta dunque – di Isaia, come di Quèlet – è liberare il campo dall’idea errata di Dio quale potere sommo, affamato di sacrifici, che agisce dentro la logica contabile del dare e dell’avere: «Le offerte al tempio e ai suoi commerci, i sacrifici, sono una strada sbagliata. La strada giusta è un’altra: quella della giustizia e quindi dell’azione a favore dei poveri». In tal senso, rileva l’economista, la voce profetica di papa Francesco è paradigmatica: in un mondo distratto, molto distratto, meno capace di ascoltare, di riconoscere l’Altro, i profeti continuano a esserci e hanno un valore infinito. Ma la mentalità contabile nell’era del capitalismo tecno-finanziario è sorretta e potenziata da quella che oggi identifichiamo come “razionalità digitale” e che Isaia riconobbe quale idolo della Babilonia degli astronomi e degli astrologi, degli “scienziati” e “tecnici” dell’epoca. Bruni: «L’errore più grave che il profeta vi riconobbe è la mancata conoscenza della precarietà del proprio successo e potere». E quindi l’emergere del delirio di onnipotenza – o volontà di potenza – che le impediva di pensare alla fine. Uno dei contributi, preziosissimo, dei profeti consta proprio nella capacità di vedere in tempo il punto critico e quindi l’avvicinarsi della cosiddetta «maledizione delle risorse» (materiali e intellettuali) che scatta ogni qual volta le ricchezze di ieri diventano un ostacolo alla creazione del raccolto di domani. Il paradigma dello sviluppo sostenibile denuncia esattamente il medesimo limite, quello che tecnici, futurologi e sondaggisti non riescono purtroppo a scorgere.
Le culture contemporanee, sempre più uniformi, sono del resto schiacciate sull’eterno presente, sintonizzate sull’istante e in virtù di ciò oramai incapaci di concepire il futuro. In tal senso la contrazione dei tempi – e quindi capacità di visione – della politica è impressionante. Quando in una comunità, ricorda Bruni, in un popolo, in una civiltà, in ciascuno di noi «si appanna la profezia, la giovinezza è nostalgia, l’invecchiamento maledizione e la vita adulta non arriva mai». La profezia interpreta pertanto un ruolo ancor più importante, oggi, spostando il confine: «Non sulla differenza sacro-profano, sulla distinzione tra templum e tempus, dove Kairos domina Kronos; non è più lo spazio, cioè, a dividere sacro e profano, ma la parola a curvare il tempo e sovvertire l’ordine». Nel mondo delle fake news la Bibbia ci ricorda il potere della parola, capace di «creare» dal nulla, «come nel momento in cui due sposi dicono sì davanti a un sacerdote». Le parole dei profeti sono «sommamente generative », per Bruni, essendo i virgolettati di Dio: «Con Isaia la parola buca il tempo, la parola diventa il tempio». Si fa tempio soprattutto la notte, nel tempo di crisi, perché essendo i profeti stessi uomini e donne dell’insuccesso, «la loro parola e la loro esistenza ci donano una mappa etica e spirituale per orientarci nell’ora del fallimento ». E, dunque, per intercettare come sentinelle i primi lucori dell’alba.
Nella società attuale, prima delle luci del futuro, è già difficile cogliere la differenza. Anche per questo proliferano i falsi profeti, «negazione della notte o negazione dell’alba». Nell’Espulsione dell’Altro il filosofo Byun Chul Han stigmatizza «la violenza dell’Uguale », violenza invisibile. La proliferazione dell’Uguale, aggiunge, si presenta come crescita, ma da un certo punto in poi, «la produzione non è più produttiva, bensì distruttiva, l’informazione non è più informativa, bensì de-formativa, la comunicazione non è più comunicativa, bensì cumulativa ». E perde significato. Isaia ci insegna a smascherare l’omologazione del falso profeta: «Che è ruffiano, dà ragione al potente, dice quello che vuole il potente. E a-teo subalterno al potere. Il problema dei falsi profeti è che alle volte lo diventano in presunta buona fede, quando iniziano ad ascoltare la propria voce» e non più quella eccedente dell’Altro. Così diventano retori e sofisti: «Accade nella politica che cede il passo al populismo, accade anche dentro la Chiesa». L’idolatria del resto non è esterna alla religione. È la sua principale malattia auto-immune, che essa stessa genera quando perde contatto con la profezia.
La profezia, poi, è sempre inclusiva. Apre le porte ai gentili. In Isaia, continua Bruni «c’è il tema immenso dell’universalismo della salvezza. Per questo senza i profeti avremo solo dinamiche tribali. La visione (éskatos) di Isaia è quella di una nuova Gerusalemme in cui tutti i popoli fanno festa e celebrano insieme». La direzione in cui va il mondo è diametralmente opposta, constata amaramente Zygmunt Bauman (Retropia) richiamando le analisi di Michael Walzer: «Se mai gli Stati diventassero dei grossi vicinati – come accade nell’attuale fase di globalizzazione digitale accompagnata dal divorzio tra politica e potere – è probabile che i vicinati diventerebbero dei piccoli Stati e che i loro membri si organizzerebbero per difendere la politica locale e la loro cultura dagli estranei». Incombente è dunque la dinamica di un mondo che si arrocca come effetto di una globalizzazione che ha finito per aumentare le disuguaglianze, dagli Stati Uniti all’Europa. Senza dimensione profetica, ricorda Bruni, non avremmo probabilmente avuto l’Unione Europea e non a caso per De Gasperi, Schuman e Adenauer - tre cattolici, tre uomini di frontiera, tre perseguitati dalle dittature nazifasciste - è in corso la causa di beatificazione.
Pertiene infine alla profezia la dimensione della gratuità, regola prima della grammatica sociale. «Il profeta è l’immagine di qualcuno che serve una parola non propria, anche scomoda, sempre gratuita». Non un regalo, dentro una logica commerciale di «dare e avere», una logica debitoria, ma un dono inserito in una prospettiva relazionale: «Isaia parla alle persone guardandole negli occhi, conoscendole. La parola è un bene relazionale, sta sempre dentro la relazione». La profezia nel tempo dei social media è pertanto un richiamo allo sguardo dritto negli occhi. Per evitare, ancora con Byun-Chul Han, che l’ordine digitale, ontologicamente solipsistico, provochi una progressiva scomparsa della realtà generata invece dall’incontro.
IL CORSO DI ECONOMIA BIBLICA
Al libro del Profeta Isaia, dal 14 al 16 giugno, sarà dedicato il “Terzo corso di Economia Biblica” tenuto da Luigino Bruni presso il Polo Lionello Bonfanti di Loppiano (Figline e Incisa Valdarno, Firenze). Sono previste agevolazioni nel caso di giovani (fino a 30 compiuti) e piccoli gruppi (dalla terza persona). Per i docenti e i dirigenti scolastici, la Scuola di Economia Civile è ente accreditato dal Miur per la formazione del personale del comparto scuola. La presentazione del libro Dialoghi della notte e dell’aurora avverrà invece domani al Festival Biblico di Vicenza.
Sul Corso di Economia Biblica: vedi volantino - Per maggiori informazioni - iscriviti qui
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pubblicato su Avvenire il 22/05/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/5/2018
«Le tematiche economiche e finanziarie, mai come oggi, attirano la nostra attenzione, a motivo del crescente influsso esercitato dai mercati sul benessere materiale di buona parte dell’umanità». Così inizia il documento 'Oeconomicae et pecuniariae quaestiones - Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario'. L’economia e la finanza sono sempre state faccende decisive per la vita della gente. La ricchezza e la povertà, i risparmi, le banche e il lavoro hanno rappresentato in ogni epoca le coordinate dentro le quali avvenivano molte delle cose più importanti della vita.
[fulltext] =>Perché allora, la Chiesa cattolica sente che «mai come oggi » l’economia e la finanza sono importanti e decisive per il benessere umano? Perché la crescente assenza della politica dalla vita economica e finanziaria, sta lasciando alle imprese e alle banche il governo delle nostre società globalizzate. C’è molta, troppa economia nel paesaggio del nostro mondo, e la logica del business sta diventando la logica dell’intera vita sociale dei popoli. Importante è che questo documento su economia e finanza sia emanato, di concerto, dalla Congregazione per la dottrina della fede e dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Ciò dice che anche l’economia e la finanza hanno a che fare direttamente con l’attuazione e attualizzazione della fede cristiana, che imprese e banche sono anche faccende teologiche. Dice che una vita individuale e collettiva fedele al Vangelo oggi non può fare a meno di confrontarsi con la fede, e che la fede non può fare a meno di confrontarsi con l’economia e con la finanza, che sono luoghi spirituali e teologici.
Sono molti i punti del testo che meriterebbero una profonda analisi. Innanzitutto è importante che il documento parli di finanza e offra moniti e avvertimenti su questo specifico settore, quando oggi molti parlano della crisi finanziaria come di qualcosa che appartiene al passato. In realtà a dieci anni dalla crisi tutto sembra continuare esattamente come prima del 2007. I prodotti finanziari sempre più innovativi e 'creativi', le regolamentazioni rimaste (quasi) le stesse, e, soprattutto, la logica e la scelta dei risparmiatori continua a essere troppo orientata alla massimizzazione della rendita finanziaria. Significativa è l’enfasi che il documento pone sulla responsabilità civile e sociale dei cittadini consumatori e risparmiatori.
Per troppo tempo abbiamo detto e pensato che i responsabili della crisi finanziaria fossero soltanto le istituzioni e le banche, dimenticando l’altra faccia della verità: che se c’è stata e c’è un’offerta di finanza altamente speculativa e spregiudicata è perché dall’altra parte c’è stata e c’è una domanda di questi prodotti che proviene, in larga parte, dalla famiglie, da noi.
Non entreremo in una nuova fase economica e finanziaria senza una nuova cultura individuale, che inizi a guardare con più attenzione critica, e magari un po’ profetica, le scelte finanziarie ed economiche quotidiane. È quindi un invito all’attenzione civile su finanza ed economia, che sono troppo importanti per lasciarle ai soli addetti ai lavori. Ci siamo distratti troppo, e in questa distrazione sono avvenute cose brutte, a volte molto brutte, soprattutto per i più poveri e per gli scartati. Il resto ci chiama allora a prendersi cura della casa e delle sue regole – oikos nomos: economia –, ad essere più presenti dentro processi dei mercati, ad abitare di più i luoghi economici, perché nei luoghi abbandonati e deserti si nascondono briganti e belve.
La critica alla finanza nasce da una lettura profonda della sua patologia, antica e nuova: la rendita: «Ciò che più di un secolo fa era stato preconizzato, si è oggi tristemente avverato: la rendita da capitale insidia ormai da vicino, e rischia di soppiantare, il reddito da lavoro, spesso confinato ai margini dei principali interessi del sistema economico» (n.15). Il dominio della rendita è la nevrosi della finanza. Come sapevano molto bene la Bibbia e il Medioevo, che condannavano il prestito a interesse o a usura, perché era espressione del dominio della rendita: qualcuno deteneva un potere – il denaro – e questa condizione di dominio gli consentiva di percepire reddito senza lavorare. Il conflitto principale del nostro tempo non è più quello tra capitale e lavoro, più tipico dei XIX e XX secolo, ma il conflitto rendita-lavoro, una rendita finanziaria che schiaccia verso il basso profitti e salari.
La critica che è nota costante del documento è comunque preceduta e accompagnata anche da uno sguardo positivo sulla vita economica: «Ogni realtà ed attività umana (…) è positiva. Questo vale per tutte le istituzioni a cui dà vita la socialità umana e anche per i mercati, a ogni livello, compresi quelli finanziari» (n. 8). L’economia e la finanza restano cose buone, faccende imperfette e migliorabili, ma essenziali per immaginare e realizzare una buona società. E da questo sguardo buono dobbiamo ricominciare a sperare, a vigilare, a fare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/5/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/05/2018
Oggi è la festa dei lavoratori, di tutti lavoratori. È anche la festa del lavoro. Ma non è la festa di tutto il lavoro, perché non tutto il lavoro né tutti i lavori meritano di essere festeggiati. Il lavoro senza aggettivi qualificativi non parla abbastanza per dirci se merita o no la nostra festa.
[fulltext] =>Anche il "figliol prodigo" trovò un lavoro dopo aver sperperato tutte le sue sostanze, ma pur lavorando come guardiano di porci non riusciva a sfamarsi. Il suo non era un lavoro degno né decente, come non lo erano la maggior parte dei lavori dall’antichità fino a tempi molto recenti, e come non lo sono molti lavori che pur continuiamo a fare. Per questa ragione il primo maggio è anche la memoria delle molte battaglie civili e politiche combattute per rendere il lavoro un’attività umana degna, e quindi per eliminare quelle condizioni di lavoro e quei lavori che somigliavano (e somigliano) troppo alla schiavitù e alla servitù. Per ricordarci quindi che il lavoro è prima di tutto una questione politica, sociale, che ha a che fare con le relazioni di potere (parola cancellata dal vocabolario del capitalismo del XXI secolo), e che quando diventa una faccenda individuale, un contratto come tutti gli altri, perdiamo secoli di civiltà e di riequilibrio dei rapporti di forza. La storia delle civiltà è anche una "distruzione creatrice" di lavoro: lavori indegni sostituiti da lavori più degni.
Molti lavoratori in lavori indegni oggi non fanno festa perché ricattati da padroni spietati o dai loro bisogni primari. E non possiamo, moralisticamente, pretendere che chi si trova, incatenato, dentro tali lavori indegni debba porsi la domanda sulla dignità del proprio lavoro e poi agire di conseguenza lasciandoli. Queste domande sono lussi che chi deve sfamare se stesso e i propri figli non può quasi mai permettersi. Anche perché le nostre coscienze sono plasmate dalle condizioni materiali e sociali nelle quali viviamo, e condizioni di vita non degne ci impediscono in genere di prendere coscienza della non-dignità del nostro lavoro. Saranno allora sempre troppo pochi i lavoratori in lavori indegni capaci di licenziarsi mettendo a repentaglio la propria vita e quella della propria famiglia. Ecco perché la qualità morale e civile di un popolo si misura dalla sua capacità di non costringere i singoli lavoratori a dover scegliere tra coscienza e pane, di non lasciarli soli nei loro inferni a confidare solo nel proprio eroismo etico individuale.
I popoli civili combattono i lavori incivili a livello civile e politico. Oggi nel mondo intero e anche nel nostro Paese ci sono molti, troppi, lavoratori in lavori sbagliati e incivili – nelle sale gioco, in tanti mestieri delle armi, i molti "guardiani" di porci e di porcili –, che sono aumentati durante questi dieci anni di crisi (le gravi e lunghe crisi riducono i lavori degni e aumentano quelli indegni). Questi lavoratori sono veramente poveri, di reddito ma anche di libertà, perché la prima forma di povertà, ce lo ricorda Amartya Sen, è la mancanza di libertà di poter fare la vita che amiamo fare. Moltissimi lavoratori non amano il loro lavoro indegno, ma non si trovano nella condizione di libertà per poterlo lasciare. Ci vorrebbe una nuova coscienza collettiva, più attenta al lavoro e alla sua dignità, per riscattarli dalle loro schiavitù. Ma è proprio questo tipo di coscienza civile sul lavoro e del lavoro che più ci manca nel tempo della globalizzazione dei mercati e dell’indifferenza.
Siamo circondati dal lavoro umano, ma lo "vediamo" troppo poco, perché civilmente ed eticamente siamo distratti o miopi. Il lavoro è il principale ambiente dove si svolge la nostra esistenza, dal primo giorno all’ultimo. Non sempre però siamo sufficientemente attenti alla qualità morale e alla natura etica di questo lavoro.
Dedichiamo una sempre maggiore cura alle etichette dei prodotti alimentari e cosmetici per conoscerne calorie e proprietà chimiche, ma siamo meno interessati oggi di trenta anni fa alle "etichette morali" delle merci, agli "zuccheri di giustizia" e alle "calorie etiche". Negli ultimi tre decenni ci siamo troppo velocemente lasciati convincere che la democrazia avesse poco a che fare con le merci e con i mercati. Abbiamo creduto a chi ci diceva che le tecniche e gli strumenti potessero gestire l’economia. E così, non consentendo alla democrazia di entrare dentro fabbriche, uffici, banche, supermercati e shopping on-line, le abbiamo ridotto progressivamente lo spazio, fino a renderlo infimo. I diritti e libertà sono anche e soprattutto quelli dei lavoratori dei vestiti che portiamo, dei contadini della frutta e dei pomodori che mangiamo, dei soldati delle guerre dietro al petrolio (e presto all’acqua) che consumiamo.
Dobbiamo iniziare a guardare diversamente il lavoro nostro e quello degli altri, per imparare a rivolgere al lavoro domande nuove, più civili, più politiche, più etiche. E a non accontentarsi delle risposte troppo facili. L’umanità è cresciuta tutte le volte che qualcuno ha iniziato a fare domande nuove alle persone e alle cose, e ha saputo farle diventare domande collettive. Queste domande collettive hanno poi generato risposte, che quando erano banali sono state rinviate al mittente. Finché, qualche volta e magari secoli dopo il giorno della prima domanda, ci hanno convinto, e subito hanno generato nuove domande.
Oggi è la festa di tutti i lavoratori, quindi è anche la festa dei lavoratori di lavori indegni, perché l’indegnità di un lavoro non sempre rende indegni i suoi lavoratori. E perché ogni giorno azioni belle e luminose riescono a rischiarare, per qualche attimo, il buio di molti lavori pessimi. Anche ad Auschwitz, ce lo ricorderà per sempre Primo Levi, un muratore fu capace di fare un muro dritto. La persona è più grande del suo lavoro, sempre e di ogni lavoro. Soprattutto è più grande e degna di quello che non ha scelto ma ha subìto solo per non morire.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/05/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/03/2018
In queste settimane post-elettorali si sta riaccendendo il dibattito sulle diverse proposte di reddito di cittadinanza e sulle sue varianti. Il confronto è giustamente serio e appassionante, perché tocca cose molto importanti come la povertà, il lavoro, il non lavoro.
Ormai in tutti i Paesi occidentali si stanno implementando forme di aiuto economico a chi per qualsiasi ragione non riesce a produrre un reddito sufficiente per sopravvivere in una forma e in modi minimamente decenti. Ed è una buona notizia. Quindi il dibattito serio non deve vertere sul 'se' intervenire, come società politica, in soccorso dei più deboli. Questo dovere etico era ben chiaro ed esplicito già nei primi economisti moderni: «Ogni membro del corpo ha due diritti di esser soccorso dagli altri; il primo de’ quali è quello che gli dà la natura, il secondo quel che nasce da’ patti sociali» (Antonio Genovesi, 1767). L’essere soccorso dagli altri quando si è nel bisogno è insomma, riconosciuto da tempo come un diritto naturale e sociale, e il soccorrere come un dovere.
[fulltext] =>Le questioni più delicate, controverse e rilevantissime riguardano però come legare questo diritto-dovere legittimo al soccorso (tramite un reddito garantito) con il diritto-dovere al lavoro, ed entrambi alla cittadinanza (o all’essere una semplice persona da soccorrere, non limitando, dunque, gli interventi ai soli cittadini italiani). Qui ci sono due culture che oggi si fronteggiano, ben diverse tra di loro. L’una vede come primario il nesso reddito-cittadinanza; l’altra (che è anche la mia) dà la priorità al binomio lavoro-cittadinanza.
L’ordine logico ed etico tra soccorso-cittadinanza-lavoro cambia in base alla visione che abbiamo della democrazia, del lavoro, della povertà, e in questa algebra sociale se cambiamo l’ordine dei fattori il prodotto cambia moltissimo. Ed è dentro questo scenario che vanno lette le riflessioni che seguono.
Il lavoro sarebbe essenzialmente un mezzo per ottenere un reddito. Questa è l’ipotesi implicita della prima corrente che quindi dà la priorità al nesso reddito-cittadinanza. Ciò che fonda la cittadinanza, si legge ogni tanto, «non è il più il lavoro, ma il reddito». Il mondo sta cambiando troppo velocemente, il lavoro ancora di più. Diventa tutto molto incerto e fragile, e subordinare il reddito per vivere al lavoro renderebbe fragile l’intera democrazia. Quindi meglio sganciare il reddito dall’eventualità del lavoro, e associarlo all’essere parte di un patto civile. Così, si sente dire e si legge, usciamo dalla logica mercantile e mercenaria del do ut des, ed entriamo in quello della fraternità e del dono civili e politici.
Se il lavoro fosse soltanto un mezzo per avere reddito, la circostanza storica attuale di un lavoro incerto e fragile porterebbe facilmente e incontrovertibilmente a cercare un altro meccanismo di distribuzione del reddito, e un meccanismo semplice potrebbe essere un ipotetico 'reddito di cittadinanza'. Peccato, però, che il lavoro è molto più di un mezzo per avere reddito da consumare.
Prima o insieme a questo scopo, il lavoro è almeno altre tre cose. È il cemento della più grande cooperazione che la storia umana abbia mai realizzato nel corso della sua millenaria storia, la società civile ed economica. Milioni di persone si trovano ogni giorno, ogni ora, dentro a una azione collettiva con altre migliaia, decine di migliaia di persone, semplicemente lavorando (poter leggere questo articolo di giornale dipende dalla cooperazione di migliaia di lavoratori, molti dei quali reciprocamente sconosciuti, ma non reciprocamente indifferenti). Quando non si lavora si è semplicemente fuori da questa immensa, meravigliosa azione collettiva cooperativa e seria. La gente coopera in molti altri modi, ma la vastità, serietà, ampiezza, profondità e generatività della cooperazione lavorativa spicca su tutte come aquila. È poi il modo più serio che ho per far fiorire i miei talenti: certo posso farlo in altri modi, ma niente come lavorare dice agli altri e a me stesso chi sono veramente.
Infine, il lavoro lega il reddito alla reciprocità: quel denaro mi arriva perché ho saputo fare qualcosa in cambio. Ci sono poche cose più belle e degne del do ut des nel mondo lavorativo. Perché se sgancio il reddito dal mutuo vantaggio tra me e gli altri per cui lavoro, si perde il senso profondo di quel denaro che mi arriva nel conto corrente.
Lavorando si imparano i mestieri, si apprendono le competenze, cresce il capitale umano della gente. La scuola e l’università solo in minima parte insegnano arti e mestieri; questi, ieri e oggi, si apprendono semplicemente lavorando, e lavorando in gruppi di lavoro. Un giovane che dopo gli studi rimane a casa, può fare corsi di qualificazione, incontrare mille funzionari dei centri dell’impiego, fare colloqui con consulenti e psicologi, ma finché non inizia a lavorare davvero non è competente in nessun lavoro, perché la competenza matura insieme al lavoro. Ecco perché, a differenza delle proposte che oggi circolano, bisogna distinguere molto chiaramente tra disoccupati che perdono il lavoro dopo aver già lavorato, e inoccupati che non lavorano perché giovani e devono ancora iniziare a lavorare.
Per questi ultimi l’erogazione di un reddito senza lavoro deve essere fortemente scoraggiata se non eliminata del tutto, perché 'soccorrere' veramente e seriamente un giovane che non lavora significa soltanto aiutarlo a cercare un lavoro, o aiutarlo a emigrare se non lo trova nella sua regione o nel suo paese. Ma il primo dovere etico di un popolo dice: i giovani dopo gli studi devono andare a lavorare, perché è la sola cosa veramente degna che possono e devono fare, per loro e per tutti. Certo, oggi trovare lavoro è per molti impresa complicatissima. Ma guai a noi se di fronte a questa difficoltà una generazione di giovani si accontentasse di 500 o 800 euro al mese, restando per anni in attesa che arrivi una proposta di lavoro (penso al nostro Sud, dove le offerte di lavoro sono molto meno di quelle necessarie). Il primo messaggio che bisogna dare a un giovane che non lavora è: il lavoro non si attende, né solo si cerca, perché il lavoro si può creare, da solo o meglio se con altri.
Non occorre poi dimenticare che le povertà - ogni povertà, compresa quella lavorativa - non sono una faccenda di flussi (redditi), ma di capitali, come ormai Amartya Sen e i migliori studiosi del tema ci dicono da decenni. In genere, si è poveri perché ci mancano capitali educativi, sanitari, sociali, relazionali, familiari, una carenza di capitali che si traduce poi in carenza di flussi (redditi). Se allora non 'curo' i capitali delle persone e mi limito ad agire sui flussi, mi ritrovo semplicemente con un povero con qualche denaro in più, che spesso finisce nei luoghi sbagliati. Diceva a questo proposito un altro economista italiano, duecento anni fa: «La beneficienza senza discernimento non è virtù ma debolezza: dare denari ad un giocatore è dare del vino ad un ubriaco o una spada ad un furioso» (Melchiorre Gioja, 1819). Per curare i capitali occorre che la gente, soprattutto quando è giovane, sia messa nelle condizioni di imparare un lavoro, e poi di svolgerlo, possibilmente secondo i suoi studi, la sua attitudine e vocazione. Ma lavorare sui capitali ha tempi più lunghi di quelli del ciclo elettorale, e quindi si preferiscono scorciatoie, dicendo di agire sui redditi.
Infine, un tratto che accomuna un po’ tutte le proposte in campo su questi temi, è l’individualismo. Si vorrebbe, cioè, provare a curare una malattia così complicata e cronica con il solo 'medico di famiglia', senza i team delle operazioni chirurgiche complesse. Il grande assente nel dibattito è il ruolo della società civile. Quando negli anni Novanta del secolo scorso dovemmo affrontare l’emergenza del disagio sociale diffuso, a quella crisi l’Italia rispose inventando la cooperazione sociale, un’autentica innovazione socio-politico-economica, che tutto il mondo ci invidia e alcuni ci copiano. Un’azione collettiva complessa, in linea con la vocazione comunitaria italiana, capace di includere lavorativamente persone con varie forme di disagio. Non facemmo imprese speciali (come nei Paesi dai quali dovremmo prendere lezione di reddito di cittadinanza), dove le persone erano intrattenute in lavoretti finti (anche se, come sempre, qualcuno è riuscito a farlo lo stesso, tradendo lo spirito della cooperazione sociale). Facemmo nascere invece cooperative dove la gente lavorava veramente, nonostante i limiti fisici e psichici. E così si sono organizzate in questi decenni decine di migliaia di cooperative, centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Pensare oggi di affrontare seriamente i problemi di milioni di persone, lavorando quindi sui capitali e non solo sui flussi, immaginando un rapporto tra Stato e individuo, mediato da qualche funzionario e ufficio pubblico, è semplicemente utopico.
Dovremmo invece favorire la nascita di una nuova stagione di cooperazione sociale. Gli ambiti dove creare lavoro non mancano in Italia, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici, certamente oggi molto al di sotto della loro capacità produttiva. Ma queste soluzioni richiederebbero prospettive di medio periodo, tanto lavoro nell’architettura legislativa, ascoltare l’anima profonda dei territori, coinvolgere seriamente la società civile. In passato, lo abbiamo saputo fare. Perché non riprovarci? In questa fase di passaggio epocale, sono in molti a predire la 'fine del lavoro' e quindi a immaginare un’economia in mano a molte macchine e a pochissimi uomini e donne, talmente efficienti (macchine e persone) da riuscire a generare ricchezza per una maggioranza di persone che dovrà imparare a vivere bene senza lavorare.
Non possiamo controllare le variabili dalle quali dipenderà l’avverarsi o meno di questi scenari, e in quale forme e modi. Certamente il lavoro di domani sarà molto diverso da quello del Novecento. Ma chi ama il lavoro umano, perché ha visto le eccellenze umane, morali e spirituali che ha procurato (insieme alle inevitabili ferite), perché ha visto e vede che i giovani non hanno sogni più grandi di quelli legati al lavoro che potranno fare, perché vede che dove non è il lavoro a fondare la democrazia arrivano immediatamente rendite e privilegi, oggi non può smettere di parlar bene del lavoro, di dire parole buone, di bene-dirlo. Perché solo stimando e benedicendo il lavoro sapremo trovare soluzioni buone a quando il lavoro si ammala, non c’è o non basta.
È il lavoro che cura il lavoro. Ieri, oggi e – siamone certi – anche domani. I nostri bambini devono avere, come lo abbiamo avuto noi, il diritto a sognare la cosa più bella che potranno fare da grandi: un lavoro, un mestiere, una professione. Molto diversi dai nostri, ma ancora lavoro, mestieri, professioni.
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di Luigino Bruni
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di Marco Girardo
pubblicato su Avvenire il 13/01/2018
Mercato, moneta, debito, profitto: nel grande racconto biblico sono già presenti la maggior parte delle categorie, anche economiche, che hanno fondato la nostra civiltà. A questo codice simbolico dell’Occidente, nel corso dei millenni, hanno attinto a piene mani la poesia, la letteratura e l’arte. Per non parlare della filosofia o della teoria politica. Persino la psicoanalisi, in anni recenti, si è avvalsa della potenza generativa degli archetipi vetero-testamentari allargando il bacino della saggezza greca, per dirla con Charles Moeller, grazie al paradosso cristiano. L’Economia no. Anzi: quello tra Bibbia ed Economia è un incontro per troppo tempo mancato al quale, proprio per questa ragione, Luigino Bruni ha scelto di dedicare, negli ultimissimi anni, una porzione rilevante della sua ricerca. Continua infatti anche nel 2018, al Polo Lionello Bonfanti, l’esperienza iniziata a giugno con la 'Settimana di Economia Biblica': dal 15 al 17 febbraio Bruni interpellerà da economista il libro dell’Esodo, dal 14 al 16 giugno 2018 quello del Profeta Isaia.
[fulltext] =>Possibile che uno dei codici simbolici più fecondi della cultura umana abbia incuriosito così poco gli economisti?
«Quello tra Bibbia ed Economia è un incontro effettivamente tardivo. Se n’è occupato negli anni Trenta Emanuele Sella, in un libro per altro poco riuscito, La dottrina dei tre principi, in cui teorizzava una sorta di trinità dell’Economia. Per il resto, a esser sinceri, poco altro».
Timore reverenziale o semplice disinteresse?
«Purtroppo la cultura economica dei teologi è scarsa, quella teologica degli economisti altrettanto. È così sin dagli albori dell’economia moderna. Nel ’700 qualche riflessione in materia l’hanno fatta l’abate Genovesi e lo stesso Adam Smith; nell’800 ci ha pensato più che altro la curiosità di Kierkegaard a esplorare le potenzialità dell’accostamento. Si arriva poi al ’900, secolo in cui l’Economia, come disciplina, si è a tal punto matematizzata da crescere generazioni di studiosi totalmente impreparata a confrontarsi col linguaggio biblico».
Almeno una metafora si troverà pure nei manuali…
«Ricordo il 'Dilemma del buon samaritano' che risale agli anni Settanta (sostiene che fare beneficienza disincentiva gli individui a trovare da soli il modo per sostentarsi, ndr). Qualcosa di più recente negli anni Novanta, ma non può essere considerato certo soddisfacente».
E lei, da economista, quando ha incontrato la Bibbia?
«Anche nel mio caso, in effetti, si è trattato di un incontro tardivo. Venticinque anni fa, agli esordi, il tema mi aveva attratto, ma trovai lavori così approssimativi da scoraggiare ogni desiderio di metterci la testa seriamente. Per capirsi: l’unica citazione veterotestamentaria ricorrente era quella sui 'sette anni di vacche magre e grasse'. Poi quasi solo figure del Nuovo Testamento. Utilizzate in modo decontestualizzato, per altro: senza conoscenza. Il confronto c’era invece, c’era eccome e di ben altro spessore, nella filosofia, nella letteratura, nella poesia. Continuavo a rimanere affascinato dalle riflessioni di Salvatore Natoli, dai libri di Erri De Luca. Ne ho parlato allora col direttore di 'Avvenire', Marco Tarquinio, che mi ha proposto di provare a gettare un ponte fra i due mondi sul giornale. Con una prospettiva di lungo termine. Così ho iniziato quest’avventura».
Partendo proprio dall’inizio.
«Dalla Genesi e dall’Esodo. Rileggere la Bibbia da economista è diventato uno dei lavori di ricerca che mi ha dato maggiori soddisfazioni professionali. Le riflessioni pubblicate settimanalmente su 'Avvenire' sono diventate dei libri tradotti in spagnolo, inglese e ora anche in francese. Su Tv 2000 è andato in onda un ciclo di 8 puntate dal titolo 'Benedetta economia!' dove è stato possibile confrontarsi su questo tema con i protagonisti dell’economia, del sindacato, della finanza».
Quale sfida alla base di questo percorso intellettuale?
«Applicare lo stesso rigore dell’economista al testo biblico. Lo stesso approccio scientifico. Naturalmente c’è una differenza di fondo fra il mio lavoro e quello di un biblista: non ho anzitutto le stesse competenze esegetiche. Ma sono le domande a essere differenti. Ed essendo la Bibbia un libro vivo, a domande diverse corrispondono risposte diverse. Quelle sull’economia sono risposte nuove, che consentono di esplorare una prospettiva teorica inedita, capace di coniugare mercato e giustizia, profitto e bene comune, occupazione e solidarietà ».
Un confronto tra Fenomenologia della religione ed Economia è alla base del sistema economico contemporaneo o quanto meno del capitalismo classico, stando alla celebre analisi di Max Weber e del suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
«La mentalità religiosa calvinista viene intesa come pre-condizione per lo sviluppo della mentalità capitalista. Fortunatamente la Bibbia, testo vivo dicevamo, non è ideologia e quindi non è dogma perché intrinsecamente pluralista. C’è linfa anche per la lettura sociologica weberiana, certo, che vede nel lavoro lo strumento per conquistare la salvezza e ripagare il debito. Col sacrificio acquisto un credito, un debito per Dio, che quindi mi premierà. Sul nostro inevitabile destino di indebitamento collettivo e individuale ha scritto pagine fondamentali Giorgio Agamben».
Il capitalismo come religione è anche il titolo di uno fra i più interessanti frammenti postumi di Benjamin, per il quale il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso un fenomeno religioso.
«Dentro la Bibbia ci sono delle letture sociologiche, economiche e politico-economiche profondamente diverse, che sto cercando di portare alla luce. Giobbe e Qoelet, 'interrogati' sui fatti economici, rispondono con una logica differente rispetto a quella weberiana. Una logica non commerciale, non debitoria. Le categorie economiche sono quelle della misericordia e dell’amore. Del dono. Senza questo tipo di risposte, ad esempio, non riusciremmo a comprendere l’idea del ritorno contemporaneo alla povertà. Rischiamo di non accorgerci, cioè, che sta prevalendo l’idea che il povero lo sia 'per colpa'. Sono sempre più teologi e cristiani che in nome del Vangelo, e spesso anche in buona fede, contribuiscono a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, magari in nome della meritocrazia, seguendo un’impostazione di pensiero di tradizione nordamericana e misconoscendo invece il grande umanesimo della Bibbia. Come sosteneva Karl Smith, tutte le idee politiche hanno una base teologica: la stessa cosa vale per l’Economia. Quando si disprezza la povertà, si torna alle teologie economiche dell’antichità, contro le quali hanno lottato con tutte le loro forze Giobbe e Gesù».
Si sta sviluppando invece con forza un pensiero economico basato sul paradigma della sostenibilità. Un approccio teorico che include strumenti econometrici di valutazione dell’impatto ambientale e sociale. Quale contributo può dare la Bibbia in questo campo?
«La Bibbia ripropone il grande tema dell’alleanza. Nell’economia classica avevamo i tre pilastri fondamentali: terra, capitale e lavoro. Con la rivoluzione industriale è iniziata l’eclisse della terra ed è rimasto egemone il combinato disposto capitale-lavoro, in una prospettiva sempre più quantitativa e matematizzante. Il pensiero biblico ricorda il legame indissolubile col creato, riproponendo la terra all’interno di una relazione. Se torniamo alla Genesi, l’arcobaleno di Noè è il primo simbolo archetipico dell’alleanza fondativa uomo-natura in un atteggiamento non predatorio».
Quale altra suggestione per il dibattito contemporaneo può arrivare dall’Economia Biblica?
«Il tema della cura, una tendenza opposta a quella di delegare alle macchine e al virtuale la relazione con gli altri e con la realtà stessa. La Bibbia propone con forza il nodo della corporeità nell’epoca della de-materializzazione, anche dei rapporti economici oltre che in termini antropologici. Viviamo in un periodo di forte ambivalenza in cui l’altro mi affascina, ma allo stesso tempo mi fa paura. Per questo riesco a relazionarmi con lui, spesso, solo grazie alla vicinanza virtuale. L’umanesimo biblico ricorda che l’uomo è corpo, e per entrare davvero in relazione, come l’attività di cura richiede, non può fare a meno del corpo.
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di Marco Girardo
pubblicato su Avvenire il 13/01/2018
Mercato, moneta, debito, profitto: nel grande racconto biblico sono già presenti la maggior parte delle categorie, anche economiche, che hanno fondato la nostra civiltà. A questo codice simbolico dell’Occidente, nel corso dei millenni, hanno attinto a piene mani la poesia, la letteratura e l’arte. Per non parlare della filosofia o della teoria politica. Persino la psicoanalisi, in anni recenti, si è avvalsa della potenza generativa degli archetipi vetero-testamentari allargando il bacino della saggezza greca, per dirla con Charles Moeller, grazie al paradosso cristiano. L’Economia no. Anzi: quello tra Bibbia ed Economia è un incontro per troppo tempo mancato al quale, proprio per questa ragione, Luigino Bruni ha scelto di dedicare, negli ultimissimi anni, una porzione rilevante della sua ricerca. Continua infatti anche nel 2018, al Polo Lionello Bonfanti, l’esperienza iniziata a giugno con la 'Settimana di Economia Biblica': dal 15 al 17 febbraio Bruni interpellerà da economista il libro dell’Esodo, dal 14 al 16 giugno 2018 quello del Profeta Isaia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/12/2017
Il mercato è uno, ma i mercati sono molti. Quando si parla e si discute seriamente di mercato e di Stato – poli di un dibattito che si vuol riaccendere anche usando lenti dal fuoco vecchio – dovremmo prima specificare di quale mercato e di quale Stato stiamo parlando. Perché è solo il Mercato con la "M" grande, creazione irreale e astratta delle ideologie, a essere uno solo. Ma se vogliamo capire cosa sta accadendo all’economia mondiale e in quella del nostro Paese, e magari cercare di migliorarla, dobbiamo uscire dal mondo incantato dei Mercati e degli Stati irreali.
[fulltext] =>Stato e Mercato sono categorie tipiche delle ideologie del Novecento, che avevano inventato uno Stato e un Mercato che nessuno ha mai conosciuto davvero, e poi li ha contrapposti tra di loro. Chi invece lavorava e lavora nelle imprese vere, gli imprenditori con nome e cognome, chi opera nelle istituzioni politiche, non ha mai incontrato né "Stato" né "Mercato", ma cose molto diverse perché reali. Ha conosciuto e conosce regolamenti regionali, leggi statali, funzionari europei, sindacati, dogane… Con queste realtà ha litigato, ha dialogato, ha vissuto e continua a vivere.
Chi guarda e vive nel mondo concreto e reale sa quindi molto bene che alcune istituzioni e alcuni mercati sono buoni, altri meno, altri sono pessimi; sa che alcuni sono buoni per alcuni ed altri lo sono per altri, e che pochi sono buoni per tutti. Sa poi molto bene che ci sono dei mercati molto efficienti e in salute che stanno impoverendo il Paese e la democrazia. Il Mercato non riduce l’azzardo, né le armi, li potenzia e li accresce; e se la società civile vuole ridurre questi beni demeritori non dovrebbe ricorrere di certo al Mercato. Una società civile matura non pensa, poi, che "privatizzare" sia sinonimo di democrazia e di civiltà: abbiamo, anche qui, affidato a privati la gestione dell’azzardo, e i risultati disastrosi sono sotto gli occhi di chi vuol vedere.
Queste sono le cose che sanno le persone che abitano i mercati tutti i giorni. Persone, intellettuali, lavoratori, che cercano di discernere "gli spiriti del mercato", che ne criticano alcuni e ne incoraggiano altri. Persone che i teorici del Mercato con la "M" grande chiamano anti-sistema, illiberali e magari "peronisti". Come tutte le ideologie anche quella del Mercato ha i suoi sacerdoti, i custodi del tempio e dei dogmi, le sue scomuniche.
Se guardiamo che cosa veramente accade nelle moderne democrazie di mercato tanto evocate dagli amanti del Mercato, troviamo un elemento comune. Il mercato funziona se accompagnato da istituzioni forti, e fra queste quelle pubbliche statali svolgono un ruolo cruciale – non è infatti un caso che negli editoriali che in questi giorni evocano lo spauracchio dello «statalismo di ritorno» contro il Mercato, siano zeppi di citazioni e di commenti di leggi prodotte dallo Stato.
I mercati e le democrazie che funzionano sono il frutto di cooperazioni e alleanze tra istituzioni politiche, sociali, culturali, economiche, universitarie. L’insieme che emerge da queste alleanze è troppo complesso per spiegarlo con i soli due assi Stato/ Mercato. Se amiamo e vogliamo i buoni frutti di civiltà dei mercati civili, di quella che Carlo Cattaneo chiamava la «civil concorrenza», dobbiamo semplicemente immaginare e realizzare buone ed efficienti istituzioni pubbliche che funzionino e che servano i mercati, e che si occupano dei beni comuni che il mercato non sa produrre.
Non c’è altra strada. Chi invece si ostina a immaginare da una parte un Mercato come luogo ideale della giustizia, del merito, dell’efficienza e della libertà, e dall’altra lo Stato come icona delle corruzioni, delle inefficienze e dell’oscurantismo, in realtà dimentica che i mercati reali sono pieni di istituzioni economiche non meno inefficienti di quelle politiche e pubbliche (non dimentichiamoci come e perché è scoppiata la crisi finanziaria del 2007) e che ci sono molte istituzioni pubbliche molto più efficienti di quelle economiche, perché il confine tra civile e incivile attraversa sia le istituzioni sia i mercati reali.
Se oggi vogliamo, per un altro esempio, immaginare un futuro civile ed economico diverso per il Sud Italia, dovremmo solo immaginare una nuova alleanza tra imprese, banche, 'mercati', istituzioni, politica, società civile. Al di fuori questa cooperazione globale ci sono soltanto le ideologie astratte e dannose. Il Novecento, in tutti i Paesi, ci ha mostrato che la cultura politica e la cultura economica di un Paese sono espressioni della stessa cultura. In America, in Europa, in Italia non abbiamo mai avuto periodi storici caratterizzati da politica corrotta e mercati efficienti, e viceversa.
Abbiamo invece visto sempre la stessa cosa: i periodi di buona politica sono stati accompagnati da buona economia e da buona finanza. Nelle stagioni di cultura incivile, decadente e corrotta abbiamo invece avuto istituzioni politiche corrotte e imprese e banche inefficienti e corrotte. Il ciclo economico non è l’inverso del ciclo politico, è semplicemente l’altra faccia della stessa medaglia. Le democrazie funzionano quando i mercati vedono le istituzioni come loro alleate in un gioco a un tempo competitivo e cooperativo. E declinano quando fanno l’opposto. Oggi abbiamo bisogno di meno ideologie e di più «civil concorrenza».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/12/2017
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/11/2017
«Il capitalismo è una religione… In futuro ne avremo una visione più chiara». Scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin. Parole profetiche, perché mai come in questo nostro tempo il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura religiosa o, meglio, idolatrica. Qualcosa di tanto rilevante quanto sottovalutato dai pensatori del nostro tempo. Non da John Milbank, anglicano, uno dei teologi contemporanei più profondi e influenti. Lo abbiamo incontrato in questo novembre 2017, alla Lumsa di Roma, in occasione del convegno internazionale “L’eredità di Martin Lutero nelle scienze economiche e sociali moderne”.
[fulltext] =>Entriamo subito nel vivo del tema. Pensa che il capitalismo del XXI secolo sia più o meno “religioso' del primo capitalismo dei secoli passati? Quando guardiamo a ciò che sta accadendo nella nostra società, ciò che appare interamente secolare sembra invece avere radici religiose, anche se il capitalismo di oggi, per la sua alleanza con la tecnica, ama presentarsi come uno dei luoghi di massima razionalità, come civiltà totalmente laica e post-ideologica.
«Questa è una domanda interessante. Il capitalismo che abbiamo oggi è un capitalismo estremo, nel senso che è dominato sempre più dalla finanza e dal debito, anche se si può sostenere che questi fattori erano già insiti nel capitalismo da sempre. In aggiunta a ciò, abbiamo un’ulteriore estensione della mercificazione: la conoscenza si è trasformata in merce o, piuttosto, la conoscenza è mercificata sotto forma d’informazione. Così l’ascesa dell’economia dell’informazione, la riproduzione, che è stata sempre incredibilmente importante per la tecnologia capitalista, è aumentata esponenzialmente. Oggi si possono riprodurre le cose a bassissimo costo e, così diventa facile condividerle. Quindi non è solo una questione di acquisto e vendita di informazioni, ma, in qualche modo, le informazioni appaiono gratuite, un bene libero. I monopoli della distribuzione di informazioni, come Google e Amazon, utilizzano le informazioni, che ricevano gratuitamente, per realizzare profitti e commercializzarle, a un livello completamente diverso e terribilmente invasivo. Penso che queste stesse tendenze incoraggino un’ulteriore fusione di poteri di mercato con i poteri politici, di proprietari con governanti, così da costruire sempre di più un’oligarchia internazionale molto ricca e molto lontana dalla gente»
Pensa che sia essenziale al capitalismo una visione antropologica negativa e pessimistica, come lo è stata quella calvinista-agostiniana, nella nota tesi di Max Weber? Spesso si parla di un ottimismo antropologico di Adam Smith che, diversamente dal pessimismo di Hobbes, ha fondato il capitalismo sulla simpatia e i sentimenti morali. A me sembra che dietro la visione del mercato di Smith, fondata sulla “mano invisibile”, ci sia invece un profondo pessimismo: siccome non possiamo fare affidamento sulle virtù dobbiamo accontentarci degli interessi…
«Sembrano esserci argomenti abbastanza buoni per dire che il capitalismo è stato incoraggiato da certi fattori religiosi, sia protestanti sia cattolici, nel suo inizio senz’altro. In particolare, il capitalismo è cresciuto da teologie che avevano una visione molto triste della natura umana, e che tendevano a incoraggiare l’idea che l’economia potesse essere governata da princìpi amorali, e che un’economia basata su princìpi amorali fosse il modo in cui Dio manteneva l’ordine in un mondo peccaminoso. E vedevano poi l’esercizio della bontà naturale come sempre più irrilevante per la salvezza umana. Quindi se viene incoraggiato un processo amorale, e l’idea che la natura e la nostra vita in questo mondo non sono rilevanti in termini religiosi, queste teologie incoraggiano la secolarizzazione. Le persone dimenticano i precetti di Dio, e la società, l’economia e la politica diventano indipendenti ed ereditano questo senso di autoregolazione amorale. Quindi la domanda interessante diventa: per questa via la religione viene semplicemente lasciata indietro, messa da parte e dimenticata? Oggi, ci sono prove che non sta avvenendo questo. C’è un revival del Vangelo, anche in varie sette, e nei Paesi in via di sviluppo vediamo persone che si convertono a forme di cristianesimo protestante e pentecostale. E negli Stati Uniti, il Paese capitalista più avanzato, il cristianesimo è ancora molto vivo, e ci sono molti protestanti (e alcuni cattolici) che fanno un’apologia teologica del capitalismo, che lo vedono come la più alta realizzazione del cristianesimo. Se esiste un legame tra teologie e capitalismo – e c’è –, è allora sempre più probabile un ritorno delle religioni con l’avanzare del capitalismo estremo. E questo è un paradosso. E ci dice che la legittimazione puramente secolare dell’economia capitalista è una operazione molto debole».
Quali pensa siano le questioni più rilevanti circa il rapporto tra economia e religione oggi, o, più precisamente, nel rapporto tra economia e teologia. Quali sono le questioni che ritiene veramente cruciali per la qualità della nostra democrazia oggi? Deve preoccuparci soltanto il terrorismo di matrice islamica?
«La questione centrale è la possibilità teologica di un’adeguata legittimazione secolare del capitalismo. Ci sono persone che considerano il processo di crescita del capitalismo come un evento provvidenziale, e cercano di fornire resoconti quasi-teologici sul perché il capitalismo si sia affermato e stia crescendo. Alcuni pensano che il capitalismo sia la forma più consona allo sviluppo della natura umana, dell’uomo qual è, e collegano il capitalismo alla libertà umana e vedono la libertà umana come sacra. Questo accade oggi specialmente in America, e ha radici in una antropologia piuttosto negativa. Questo solleva la questione se i fondamenti antropologici del capitalismo hanno un bisogno essenziale di una antropologia negativa [quella protestante, jansnista e agostiniana], e cosa diventa il capitalismo se lo pensiamo a partire da una visione della natura umana meno cupa, se partiamo dalla libertà di piuttosto che dalla libertà da. Libertà di scoprire la verità. Libertà di sviluppare per sé stessi una vita umana buona».
Come vede lei il rapporto tra disincanto del mondo e capitalismo?
«Penso anche che, nel profondo, si ponga la questione se il capitalismo sia intrinsecamente legato al disincanto del mondo e alla secolarizzazione. L’ironia potrebbe essere che questo disincanto del mondo è incoraggiato da una certa teologia che lo vede semplicemente come uno strumento di Dio, che il mondo è così perché Dio lo ha fatto arbitrariamente e lo gestisce secondo certe procedure meccaniche, ma che di per sé il mondo non ha alcun significato simbolico. Quindi se la realtà è completamente disincantata, si può ridurre tutto a merce. Nulla è sacro, tutto può essere circoscritto, alterato, comprato e venduto. Si può fare quel che si vuole con qualunque cosa e le uniche restrizioni, l’unico modo di controllare questa anarchia è l’ordine dei mercati. Ma poi, una volta che il disincanto è diventato interamente laico e la teologia che gli stava dietro viene dimenticata, allora quasi inevitabilmente in cose come i movimenti ecologici e new age le persone scoprono che il mondo è fonte di incantesimo. Ci sono cose a cui desiderano dare una certa sacralità. Ci sono cose che hanno un valore al di là del loro prezzo di mercato o del modo in cui raggiungono i bisogni dei privati. Le persone iniziano a scoprire da sole l’intrinseco effetto della sacralità e quindi si ottiene una sorta di paganesimo».
Questa era esattamente la condizione nella quale si trovavano le civiltà e le religioni prima dell’avvento della religione ebraico-cristiana.
«Si corre il rischio di perdere il lavoro fatto dalla Bibbia, la sacralità unica della persona umana e così si ottengono varie ideologie che vogliono subordinare l’uomo alla terra proprio come un altro tipo di animale e questo porta a un revival di laicità pagana. Quindi, in un certo senso, penso che la sfida sia recuperare ciò che chiamerei, in senso più ampio, “equilibrio cattolico” in cui il mondo non è di per sé sacro, ma è sacramentale con una gerarchia all’interno della natura tale da valutare tutte le forme di vita. La vita umana in modo supremo, ma allo stesso tempo anche le forme di vita diverse da quella umana perché senza di esse non avremmo un’esistenza piena e alla fine finiremmo per svalutare la vita umana stessa».
Quali le differenze tra una visione “sacramentale” del mondo e il mercato del nostro tempo che sembra assomigliarle quando “sacralizza” le cose e le merci?
«Parte del capitalismo è uno spettacolo. Non mercifica solo le cose, le trasforma in spettacolo e queste diventano realtà quasi iconiche. Invece di essere circondati da statue di santi e di eroi siamo circondati da immagini di merci, persone alla moda e così via. Queste immagini in realtà non ci presentano nulla al di sopra di noi e non rappresentano neanche qualcosa a cui potremmo aspirare. Di fatto, ci mettono davanti a una sconfitta continua, perché, per farci desiderare di più, ci presentano sempre l’irraggiungibile e non un obiettivo desiderabile o qualcosa che possa migliorare la qualità reale della nostra vita umana. Non sono simboli di speranza come la statua dell’eroe o del santo. Una volta compreso tutto questo – il modo in cui il capitalismo calcola e desacralizza, il modo in cui produce imitazioni quasi-sacre – è qui che le persone con un senso religioso dovrebbe chiedere: “Come si può avere una critica puramente secolare dell’ordine capitalista?”. È questo un punto molto debole della critica al capitalismo della sinistra secolare del nostro tempo. Perché se tutto è solo materiale, se tutto è disincantato, allora il capitalismo rimarrà sempre la forma più avanzata di modernità emancipata. Questo è il problema».
Max Weber e Amintore Fanfani, ma anche Karl Marx, ci hanno detto che il capitalismo nasce da uno spirito. Lei pensa che è possibile immaginare oggi un capitalismo senza spirito, un capitalismo che non abbia una qualche dimensione religiosa? Può reggere un capitalismo svuotato di qualsiasi spirito e ridotto a pura materia?
«Le procedure del capitalismo e lo spirito del capitalismo sono la stessa cosa, ed è per questo che Marx parlava di feticismo delle merci - il capitalismo non è solo un’economia, ma è una quasi-religione. Non si tratta solo di sfruttare il lavoro, ma intrinsecamente di sfruttare il desiderio delle persone, anche se su questa dimensione Marx non si è soffermato abbastanza. Il profitto deriva non solo dal non pagare le persone il giusto, ma anche dai sovrapprezzi dovuti al fatto che le persone desiderano continuamente beni in eccedenza sui loro bisogni. La manipolazione del desiderio e l’attrazione sia per l’accumulo che per il fascino è un elemento quasi-religioso. Il capitalismo, in questo senso, rimane una questione di spirito».
(traduzione di Giorgia Nigri)
L'intervista è stata letta da Pagina 3, la Rassegna stampa culturale di Radio 3 RAI del 29 novembre: ascolta qui il podcast
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/11/2017
«Il capitalismo è una religione… In futuro ne avremo una visione più chiara». Scriveva nel 1922 il filosofo Walter Benjamin. Parole profetiche, perché mai come in questo nostro tempo il capitalismo della finanza e dei consumi “24ore7giorni” sta rivelando la sua natura religiosa o, meglio, idolatrica. Qualcosa di tanto rilevante quanto sottovalutato dai pensatori del nostro tempo. Non da John Milbank, anglicano, uno dei teologi contemporanei più profondi e influenti. Lo abbiamo incontrato in questo novembre 2017, alla Lumsa di Roma, in occasione del convegno internazionale “L’eredità di Martin Lutero nelle scienze economiche e sociali moderne”.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01-02/11/2017
Non è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti. Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002), Il vangelo e il denaro (Queriniana, pagine 88, euro 9,00), che è stato un docente canadese di teologia e filosofia, “perito” durante il Concilio Vaticano II. Autore di lavori teologici importanti. Il cui discorso sulla povertà evangelica, è, quanto meno, molto discutibile. E per questo lo discutiamo.
[fulltext] =>Un pregio di questo pamphlet è la coerenza e la chiarezza del messaggio, che ricorre tenace dalla prima all’ultima pagina: «In breve, nelle Beatitudini non troviamo l’insegnamento di Gesù sull’atteggiamento da assumere di fronte alle ricchezze… Ancor meno siamo invitati a pensare che secondo Gesù la povertà reale sarebbe un ideale che tutti i cristiani dovrebbero perseguire» (p. 20). Infatti, secondo Naud, la prima beatitudine di Matteo – beati i poveri in spirito – sarebbe la lode «dell’umiltà del cuore», e la natura di quella di Luca – beati i poveri – sarebbe «dare una parola di conforto a coloro che sono poveri di fatto, ricordando loro le promesse dell’al di là». Come se il Regno, promesso ai poveri come contenuto della beatitudine, non fosse invece qualcosa di molto concreto per l’al di qua, o che nell’Umanesimo biblico, di cui le beatitudini sono massima espressione, non esista una promessa di al di là che non inizi già ora nella storia. Commentando il brano del “giovane ricco”, poi coerentemente aggiunge: «È palesemente inopportuno presentare la povertà come un ideale per i cristiani». Perché «salvo vocazioni particolari ed eccezionali, non possiamo parlare della povertà come un valore da consigliare e da coltivare» (p. 25). Peccato che queste “vocazioni particolari” siamo quelle di frati, monaci, suore, consacrati, che per due millenni hanno costituito una pietra angolare della Chiesa e del mondo, hanno seguito i consigli evangelici, e tra questi la povertà. Come se essere un benedettino o una clarissa fossero “casi particolari” e un po’ strampalati da non imitare da parte della comunità ordinaria dei cristiani. E sorge la domanda: cosa sono le vocazioni consacrate nella Chiesa? Qualcosa di bizzarro, raccomandato solo a persone con personalità particolari, a eroi o folli? A questa sua analisi Naud associa anche il collega Jacques Dupont, che a proposito ancora delle beatitudini affermava: «Ma tale povertà, è realmente voluta, le se annette un valore, se ne fa un ideale? La risposta di Luca a questa domanda non può essere che un No categorico » (p. 80), perché, conclude Dupont, «Luca considera la povertà come un male». Quindi, la povertà sarebbe «un anti-valore» (p. 81). La prima beatitudine del discorso di Gesù avrebbe questo statuto di maledizione, che invece non avrebbero “la mitezza”, “la costruzione di pace”, la “persecuzione per la giustizia”, la “misericordia”, che la seguono. Alcune beatitudini buone, altre cattive. E perché? E su quali basi? Questo libro di Naud è interessante perché presenta tesi che stanno crescendo e acquistando forza e popolarità, dentro e fuori le Chiese cristiane. Naud e Dupont non sono i primi né saranno gli ultimi a scrivere queste parole tristi sulla povertà evangelica. Per questa ragione vanno prese sul serio, discusse e criticate in profondità. Sono sempre più, infatti, teologi e cristiani che in nome del vangelo, e spesso anche in buona fede, contribuiscono a colpevolizzare i poveri per la loro povertà, magari in nome della meritocrazia. Quando si disprezza la povertà si torna alle teologie economiche dell’antichità, contro le quali hanno lottato con tutte le loro forze Giobbe e Gesù.
Questa interpretazione della povertà mi lascia davvero molto perplesso. Non si capisce dove siano fondate nella Scrittura, nella tradizione, né nella vita della gente. Ignorano san Francesco, Teresa di Calcutta, e i tanti carismi che nella Chiesa ci hanno detto di scegliere la povertà come via concreta per incarnare il vangelo e le sue beatitudini.
Sono due millenni – e lo abbiamo scritto più volte su queste pagine – che il “discorso della montagna” resiste agli attacchi di chi cerca di ridicolizzarlo, di definirlo inutile, dannoso, una illusione, una consolazione. Questo è vero per tutte le beatitudini, ma è particolarmente evidente e forte per la beatitudine dei poveri. In tanti continuano a ripetere che «beati» non sono i poveri veri, ma i ricchi che vivono il distacco spirituale dalla loro ricchezza, chi usa i beni per il bene comune, chi li investe nelle imprese, o magari nella finanza. E così, anche quando diciamo cose condivisibili, ci allontaniamo dal semplicissimo e tremendo «beati i poveri » delle beatitudini. Non è certo facile capire quella beatitudine, forse perché è troppo semplice. Sarebbe necessario attraversare il suo terreno paradossale, scandaloso, ambivalente e quindi manipolatorio (ogni verità grande è grande perché si presta a essere manipolata: anche questa beatitudine è stata oltraggiata, abusata, usata contro i poveri, ma resta vera). Ancora più normale è stato ridurre o amputare questa folle felicità per farla rientrare nei nostri “letti” troppo più corti di quelli del vangelo. I paradossi della Bibbia, e della vita, non si risolvono riducendoli, ma cercando di avvicinarci alla loro grandezza.
Per capire qualcosa del paradosso della beatitudine dei poveri, dovremmo prendere molto sul serio la seconda parte della beatitudine, la sua promessa: il Regno dei cieli. Ogni beatitudine la si capisce se la leggiamo tutta, fino alla fine. I poveri sono beati perché sono abitanti del Regno dei cieli. Per questa ragione è la prima beatitudine, a fondare tutte le altre. Poveri erano gran parte dei discepoli di Gesù. Lo avevano incontrato sulle vie della Palestina, e poi lo avevano seguito restando poveri e beati. Mentre Gesù li guardava e chiamava beati abitavano già in quel Regno degli uomini e delle donne delle beatitudini: miti, puri, perseguitati, misericordiosi, affamati di giustizia, afflitti, poveri. Un Regno dove si conosce la provvidenza, che solo i poveri sperimentano davvero – una tipica “povertà” dei ricchi è l’indigenza di provvidenza. Nel dire «beati i poveri» Gesù parlava ai suoi, e parla ancora ai suoi, non a una élite speciale tra i suoi.
Chi non coglie la verità e il mistero di questa prima beatitudine semplicemente non entra nella logica del Regno dei cieli, e quindi resta sull’uscio del vangelo, della sua buona novella. Non tutti i cristiani e non tutti gli uomini scelgono «madonna povertà», ma tutti dovremmo almeno rispettarla e stimarla, e soffrire quando non riusciamo a liberarci dai nostri beni. Soffrire per non conoscere la stessa gioia di Francesco e dei suoi fratelli e sorelle. Di non assaporare quella fraternità cosmica, di non imparare quella libertà assoluta, di non potere baciare la bocca e le mani dei lebbrosi, di non conoscere quella perfetta letizia.
Non è obbligatorio essere poveri, neanche nella Chiesa. I ricchi non sono esclusi dai sacramenti, sono sovente lodati sui pulpiti e ringraziati anche dagli stessi poveri. Sono sempre stati parte, legittima e anche importante, delle comunità cristiane. Vivono più a lungo, hanno una migliore istruzione e salute, hanno maggiori confort. Ma non conoscono quella beatitudine dei poveri, non vedono le loro stelle più clarite et pretiose et belle. Sotto il nostro sole c’è anche questa forma di giustizia, ed è grande. Ma per capirla un po’, prima c’è bisogno di assaggiare qualche boccone di povertà vera, di averla sentita sulla propria carne, profonda e dolorosa. Solo un povero può ripetere «beati i poveri» senza manipolare quelle parole. Il libro di Giobbe ci aveva detto che il povero è innocente, nonostante tutti gli sforzi dei teologi del tempo di dimostrargli la sua colpa. Le beatitudini incontrano Giobbe e tutti i poveri e dicono loro una parola nuova e meravigliosa: «Non siete solo innocenti: siete anche beati». I mucchi di letame restano, ma dal giorno in cui quelle parole furono dette in Palestina, e poi scritte, è arrivata sulla terra anche la beatitudine.
La beatitudine della povertà è la prima, ma può arrivare tardi nella vita. Qualche volta è l’ultima beatitudine. Giunge dopo aver camminato molto, e se siamo nati tra le ricchezze e i comodi il cammino può essere molto duro e il suo finale incerto. Può essere necessaria tutta la vita per sentirsi dire alla fine: beato te, o povero. Tutti possiamo diventare abitanti di quel Regno, fosse soltanto nell’ultimo minuto. E, forse, soltanto lì capiremo che era proprio vero: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno dei cieli».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01-02/11/2017
Non è mai stato facile scrivere un’etica del denaro e dell’economia partendo dai vangeli. Riconoscere questa difficoltà, potrebbe in molti casi essere sufficiente per non iniziare un tale compito o fermarsi subito. Ma la tentazione di ricavare direttamente dal vangelo principi morali per l’economia della nostra società è molto forte, quasi invincibile. Qualche volta, anche chi legge questi libri sente un bisogno, anche questo invincibile, di scriverne una recensione, soprattutto se l’oggetto del libro sono i poveri e la povertà – che fanno spesso fatica a difendersi da soli dagli scrittori e dagli esperti. Ho fatto questa esperienza dopo la lettura di un piccolo libro di André Naud (1925-2002), Il vangelo e il denaro (Queriniana, pagine 88, euro 9,00), che è stato un docente canadese di teologia e filosofia, “perito” durante il Concilio Vaticano II. Autore di lavori teologici importanti. Il cui discorso sulla povertà evangelica, è, quanto meno, molto discutibile. E per questo lo discutiamo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/10/2017
A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è una bella notizia per l’Italia.
[fulltext] =>Quattro intensi giorni di dibattito, mille rappresentanti, proposte concrete per cambiare e migliorare il mondo del lavoro, l’economia e la società, che non hanno dunque meritato la dignità per entrare tra i fatti e i temi segnalati all’attenzione dell’opinione pubblica. Le ragioni di questa grave distrazione sono molte. Tra queste, forse, l’apparente semplicità delle (utili e realizzabili) proposte avanzate e l’assenza di proposte più "profetiche" (come quelle, specialmente care anche a chi scrive, sull’«economia disarmata»), sulle quali il consenso all’interno del variegato mondo cattolico sarebbe stato probabilmente più difficile. O, forse, anche una serie di ospiti che stavolta non ha incluso personalità del mondo culturale laico italiano e internazionale. Altre volte e in altre sedi questo tipo di dialogo si era intessuto con particolare intensità, ma la disattenzione non era stata minore. Forse, dunque, per tutto ciò ci sono anche ragioni più profonde.
La prima ha a che fare con il bizzarro concetto di laicità che si è affermato nel nostro Paese. Le contrapposizioni ideologiche del XIX e del XX secolo, hanno generato una cultura dove è sufficiente che in un discorso compaiano le parole "Dio" o "Bibbia", perché vengano automaticamente classificate faccende private di un sotto-insieme del Paese, non abbastanza "laiche" per interessare tutti. Così, invece di intendere la vita democratica come la somma delle diversità civili, la si concepisce come una sottrazione per arrivare alla piccola zona comune fra tutti, che è sempre troppo piccola per la pubblica felicità che ha bisogno della «convivialità delle differenze» (Don Tonino Bello). La società perde biodiversità generativa, perché si eliminano le dimensioni più innovative e creative dei diversi mondi vitali.Ma se poi andiamo a scavare di più, troviamo qualcosa di ancora più puntuale. Ai cattolici, in realtà, si lascia un certo spazio e una certa libertà di esprimersi "in pubblico", ma soltanto su temi inseriti in una lista chiusa di argomenti "eticamente sensibili". Se si esce da questa lista, anche se la Chiesa e i cattolici parlano è come se non parlassero: non hanno "voce" in questi capitoli. Possono parlare di povertà, di vita (senza esagerare), un po’ di famiglia. Ma se iniziano a parlare di lavoro, di tasse, di scuola, addirittura di economia o di finanza, escono dalla lista bloccata e semplicemente vengono ignorati. Quindi, quando i cattolici si esprimono sui temi laicamente consentiti dalla lista si è legittimati, ma non ascoltati, perché considerati espressione di una visione culturale partigiana. Quando dicono la loro sui temi fuori lista, sono semplicemente bocciati perché fuori tema. Un segnale di questo è che tra le pochissime notizie di Cagliari che sono riuscite a passare tra le maglie di questa censura culturale, non sono le proposte concrete su economia e banche, ma il tema del lavoro domenicale, uno di quei pochissimi argomenti "economici" presenti nella lista degli argomenti non all’Indice, perché, si pensa, ha a che fare con il culto - e quindi non preso sul serio, non capendo così che la sfida della domenica è esattamente la libertà dai "faraoni" che vorrebbero che gli schiavi lavorassero sempre, e quindi l’essenza della democrazia.
Il mondo cattolico è tra le poche "agenzie globali" capaci, per vocazione, di portare avanti un discorso profetico sull’economia, sul lavoro, sulla finanza - e lo sta facendo, anche se pochi se ne accorgono, e le deve fare con sempre maggiore forza e profezia.
Ma la laicità delle lobby preferisce lasciarlo parlare 'soltanto' di fine vita e di assistenza – senza ascoltarlo –, e così tenerlo ben distante dall’economia e dalla finanza. Perché intuisce che se gli riconoscesse diritto di parola su questi temi, dovrebbe fare i conti con i dogmi della sua propria laica religione. La nostra società non ascolta la voce dei cristiani sul capitalismo perché il capitalismo del XXI secolo è diventato esso stesso una religione, con un culto severissimo che non ammette altri dèi al di fuori di esso. Il capitalismo non vuole il discorso religioso cristiano perché ha già il suo. Ma per capirlo ci vorrebbe proprio quella laicità che gli manca. Per questo, nonostante la disattenzione di media che vedono sempre più a stento e sempre più parzialmente il Paese reale, i cattolici devono continuare a occuparsi dei temi della lista e, soprattutto, di quelli fuori lista. Perché, con le parole di Paolo VI, «se il mondo si sente straniero al cristianesimo, il cristianesimo non si sente straniero al mondo».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/10/2017
A chi interessa ciò che il mondo cattolico vive, pensa, propone in ambito sociale ed economico? Dal silenzio imbarazzante dei media cosiddetti laici sui lavori e sulle proposte della 48ª Settimana Sociale dei cattolici italiani di Cagliari, si direbbe che interessi soltanto al mondo cattolico, ai suoi media, ai suoi giornali. E questa non è una bella notizia per l’Italia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/10/2017
È ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.
[fulltext] =>In fondo, qualcuno aggiunge, nelle civiltà passate, i lavoratori veri e propri sono stati sempre pochi: la maggior parte della popolazione era infatti composta da cortigiani, nobili, monaci e religiosi, mendicanti, malati, servi, schiavi, o donne che non erano nel 'mercato del lavoro' (anche se hanno lavorato sempre più di tutti). Altri scenari già più positivi immaginano – sempre in un quadro di un lavoro sempre più scarso – che dovremo ridistribuire il lavoro rimasto, lavorando tutti meno per poter lavorare tutti. La settimana lavorativa si ridurrà cosi a 15 o al massimo 20 ore. Lavorare come attività prevalente delle persone adulte, sarebbe stata una fase storica durata più o meno un secolo e mezzo in Occidente, e presto torneremo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità per millenni. Una eccezione, una parentesi, una eclisse, una anomalia.
Se questo paesaggio fosse davvero l’unico o soltanto quello più probabile, dovremmo davvero essere molto preoccupati. Ma, grazie a Dio, sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello.
Innanzitutto, dovremmo capire un po’ meglio che cosa è diventato il lavoro in questo secolo e mezzo diverso della traiettoria dell’Occidente. Il lavoro come lo conosciamo oggi non è il frutto di una evoluzione graduale nei secoli passati. No, il lavoro moderno è soprattutto una invenzione, una immensa innovazione arrivata da una congiunzione astrale di molti elementi: l’Umanesimo, il cattolicesimo sociale, la Riforma protestante, il movimento socialista, la cooperazione, i movimenti sindacali, le ferite dei fascismi e delle guerre. Grazie a tutto ciò, in quel breve lasso di tempo il lavoro ha dato vita alla più grande cooperazione che la vicenda umana abbia mai conosciuto nella sua lunga storia. Lavorando, e riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri, abbiamo creato una rete sempre più vasta fino a coprire quasi tutto il mondo. I prodotti e i servizi che popolano la nostra vita sono il frutto di una cooperazione di milioni e milioni di persone. Perché io possa scrivere e voi possiate leggere questo articolo, c’è bisogno della cooperazione di decine di migliaia di persone, se non di più – dalla redazione del giornale, alle tipografia, le spedizioni, gli aerei e i treni che trasportano le copie, tutta la rete distributiva, l’energia elettrica, la rete internet, l’industria della carta... Non è una cooperazione romantica né carina: a volte lavorare è duro, durissimo, si muore anche lavorando, e si muore anche perché il lavoro è serio e tremendo come lo è la vita. La democrazia è anche questo, una immensa, implicita, forte, capillare, azione congiunta, che moltiplica le opportunità e la biodiversità economica e civile della terra. Il mercato è questa grande cooperazione, anche quando prende la forma della concorrenza – cooperiamo anche competendo, in modo corretto e leale, sui mercati: uno degli errori teorici e pratici più gravi è contrapporre concorrenza a cooperazione.
Imparando a lavorare, e a lavorare con gli altri, abbiamo orientato le nostre energie e la nostra creatività in modo che potessero fiorire pienamente, e raggiungere e servire un numero sempre maggiore di persone. Noi abbiamo molti modi per esprimere la nostra intelligenza, creatività, amore; ma quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima. Diventa qualcosa di meraviglioso.
Mozart ha fatto molte cose nella sua vita, ma quando componeva Mozart era Mozart davvero. Il mio amico Vittorio faceva molte cose, di qualità diversa, ma quando riparava le auto era veramente Vittorio. E io ho imparato a conoscerlo quando ho cominciato a guardarlo lavorare, perché quando lavorava, nella fatica e con le dita nerissime, la sua personalità fioriva, e la sua anima più vera si svelava. Lavorare è anche un modo adulto di amare, un modo serio e vero che abbiamo di contribuire al bene nostro e a quello degli altri. Se un giorno tornasse qualcuno dal passato e mi chiedesse: 'ho solo due ore, mostrami la cosa migliore che avete fatto voi umani in questi secoli', non lo porterei in un museo, né in una chiesa: lo porterei con me in una impresa, in una fabbrica, dove la gente sta dando vita ad una grande azione collettiva generativa (e poi salutandolo gli leggerei una poesia che non conosce: l’arte è una alta forma di lavoro). Abbiamo sconfitto mille malattie, siamo arrivati fino a Marte, semplicemente lavorando, e lavorando molto. E se domani riusciremo a sconfiggere le altre mille malattie, a sfamare tutti, a far studiare bene tutti i bambini e i giovani della terra, lo faremo soltanto lavorando, lavorando molto, lavorando meglio, lavorando insieme.
Noi esseri umani, non sappiamo fare di meglio sotto il sole. Se, allora, dovessimo smettere di lavorare, o lavorare troppo poco, il vero rischio è che orienteremo le nostre energie in attività meno appassionanti, serie, responsabili, difficili, sfidanti, del lavoro, e, forse, riprenderemo ad esercitarci troppo nell’arte della guerra.
Non è vero che il lavoro finirà. Chi lo dice sottovaluta l’intelligenza, la creatività e l’amore delle donne e degli uomini. Faremo lavori diversi, molti più servizi e meno catene di montaggio, ma continueremo a lavorare, a cooperare a volerci bene lavorando. E domani benediremo la tecnologia che ci ha liberato da lavori poco interessanti per poterne fare di migliori. Siamo stati capaci di produrre macchine e robot così intelligenti da poter fare (quasi) a meno di noi, perché abbiamo lavorato molto, insieme, e abbiamo messo nel lavoro la nostra intelligenza migliore. Finché ci sarà qualcuno che si inventerà qualcosa per soddisfare il bisogno di un altro, finché creeremo occasioni sempre nuove di mutuo vantaggio, il lavoro non finirà. E la nostra vera ricchezza delle nazioni continuerà ad essere la somma dei rapporti mutuamente vantaggiosi che riusciamo a immaginare e poi a realizzare. Finché ci guarderemo gli uni gli altri come portatori di bisogni e di desideri non ancora espressi, e utilizzeremo la nostra meravigliosa intelligenza e il nostro amore creativo, ci sarà lavoro: per tanti, forse per tutti.
Lavoreremo diversamente, ma continueremo a lavorare. Non abbiamo niente di meglio da fare.
Continueremo ad esseri fondati sul lavoro, e sul lavoro a fondare la nostra democrazia.
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Quando lavoriamo la nostra intelligenza si esalta. E sul lavoro fonderemo ancora la nostra democrazia
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/10/2017
È ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.
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