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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/08/2022
«Tutto bene?», chiede il cassiere della pizzeria a Domenico. E lui: «In realtà, no: la pizza non era buona». Arriva subito il proprietario insieme al pizzaiolo e commentano: «Ha ragione: ieri l’impasto è uscito male, ci dispiace molto, la prossima volta vedrà che buone pizze facciamo!». Dopo questo dialogo il mio amico paga, e nel conto le pizze erano state addebitate al prezzo normale del menu. «Non metterò più piede in quella pizzeria», è stato il suo ultimo commento.
[fulltext] =>Sono stato con mio fratello a visitare un borgo marchigiano. Cerchiamo un ristorante, il proprietario ci accoglie dicendoci che servono soltanto il menu turistico: rigatoni "alla castignanese" e spiedini alla brace. Arriva la pasta ed era una tagliatella ai funghi (buona). Quando arrivano gli spiedini, non ascolto il consiglio di mio fratello ("lascia stare"), chiedo alla cameriera il perché di quel cambio di piatto, e lei si scusa per l’errore. Subito dopo ci arriva dalla cucina un assaggio di rigatoni. Esce poi il proprietario per scusarsi personalmente e ci fa portare delle (ottime) olive ascolane. Chiaramente nel conto non sono entrati né l’assaggio di rigatoni né la porzione di olive, e noi abbiamo lasciato una mancia.
Il pizzaiolo non ha fatto nulla di illegale né ha violato il contratto, e se il ristoratore non avesse offerto rigatoni e olive non avrebbe fatto nulla di riprovevole. Il possibile sconto del pizzaiolo e il "di più" del ristorante non erano dovuti, entrambi non erano necessari. Ma sta proprio in questi comportamenti non-necessari uno dei segreti del difficile mestiere dell’imprenditore, forse la sua dimensione più importante.
Una domanda: perché il proprietario è uscito personalmente a scusarsi e poi ci ha offerto i rigatoni e le olive? Perché, semplicemente, voleva anche che io e mio fratello Ivan andassimo via contenti. La nostra soddisfazione gli interessava veramente, nella sua scelta c’era qualcosa di intrinseco, di sincero e di genuino. Il suo solo guadagno era per lui troppo poco.
E qui si apre un discorso importante per l’impresa, per l’economia e per la società. Gli economisti fondatori e maestri della scienza economica (A. Smith, A. Genovesi, D. Ricardo, V. Pareto, A. Sen) hanno sempre ripetuto che la legge aurea dell’economia di mercato è il mutuo vantaggio, non l’interesse personale. È la reciprocità la pietra angolare dell’economia di mercato. Questi discorsi, che ogni tanto (purtroppo non sempre) si insegnano agli studenti di economia, possono sembrare astratti o poco utili alla vita concreta della gente, finché non si entra nelle pizzerie, nei ristoranti, nelle industrie metalmeccaniche, nelle agenzie assicurative o immobiliari, nel mercato del gas. Il buon imprenditore sa che la soddisfazione reale (non finta né ingannata) di chi sta dall’altra parte del contratto (clienti, fornitori, lavoratori) è parte essenziale del suo mestiere. Perché sa che se un cliente esce scontento dal locale non si è verificato semplicemente un inconveniente.
In quella mancata soddisfazione reciproca c’è il fallimento del suo lavoro, non è accaduto qualcosa di marginale o di secondario, ha agito contro la natura (il telos, dicevano i greci) del suo lavoro. Per il buon imprenditore il suo profitto è troppo poco, e quindi cerca intenzionalmente anche il benessere di chi interagisce con lui, con lei, perché ne ha un bisogno vitale. Quando salutiamo e al nostro "grazie" il negoziante risponde "grazie a lei", ci stiamo dicendo qualcosa di più di una parola gentile: stiamo riconoscendo la natura reciproca dell’economia.
Far uscire i clienti soddisfatti non è soltanto una strategia intelligente nel lungo periodo (il cliente soddisfatto può tornare) né semplicemente una faccenda di reputazione. C’è molto di più: dietro quei rigatoni e quelle olive c’è la vocazione imprenditoriale, c’è la dignità di un mestiere spesso non capito, ma essenziale per il bene comune. La vera customer satisfaction – la soddisfazione del cliente – è nata nelle città italiane del Duecento e del Trecento, quando dal cuore dei nuovi Comuni si comprese che commerciare era l’altro nome della civiltà, che il buon mercante era soprattutto un costruttore di reciprocità civile, e quando si spezza questa reciprocità riconosciuta e voluta si smarrisce lo spirito buono dell’intera società.
I pizzaioli come quelli del mio amico e i ristoratori come quello di Castignano vivono e operano l’uno accanto all’altro, lo sappiamo e lo vediamo tutti; ma il giorno in cui i primi dovessero diventare più numerosi dei secondi, magari convincendo tutti che comportamenti come quelli del mio ristorante sono soltanto romanticismo dannoso, quel giorno sarebbe un’ora molto triste per la società e per l’economia. Nei mercati di tutti i giorni c’è molta più anima di quella che riusciamo a vedere, e anche i politici che si candidano a guidare il Paese dovrebbero aiutarci a custodirla.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/07/2022
«È fuori di sé» (Mc 3,21). Con questa espressione, in greco existemi, i familiari di Gesù di Nazaret cercano di riportarlo a casa, perché, appunto, pensavano che fosse fuori di sé. Quel 'fuori di sé' segnò anche l’inizio di una delle avventure più straordinarie della storia umana.
[fulltext] =>Molto tempo prima, la storia del popolo di Israele iniziò quando Abramo ricevette un comando: «Vattene dalla tua terra » (Gn 12), lascia la tua terra. Ubbidì e divenne un errante, e tutta la Bibbia è irrorata dalla ricordo nostalgico di quel padre fuoriuscito: «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). La vita fuori di sé. Una filosofia dell’avventura (Marsilio, pagine 256, euro 18) è il titolo del libro di Pietro Del Soldà, noto anche per l’attività di conduttore a Radio3. Un saggio di filosofia narrativa, cioè riflessioni e ragionamenti filosofici narrati sotto forma di racconto, di storie di personaggi noti e meno noti, classici della filosofia, storici e geografi, dove le idee dei pensatori si intrecciano con i dialoghi dei personaggi delle loro opere. Non sono racconti semplici, ma anche i concetti più densi vengono addolciti dalla bella prosa e dall’ottimo ritmo narrativo.
Il primo capitolo è molto suggestivo, ma per gustarlo con profitto andrebbe riletto dopo essere arrivati alla fine del libro, perché le varie storie narrate contengono idee e dettagli che consentono di capire e apprezzare le tre coordinate del saggio: schiacciati sul presente, l’io tiranno, la trappola delle aspettative. Questo primo capitolo contiene poi delle frasi particolarmente efficaci, che nutrono l’intero saggio. Tra queste una domanda che è anche la prima coordinata per orientarci nel viaggio: «Possiamo sottrarci all’egemonia dell’Io, che ci tiene 'al sicuro' dentro il suo guscio privato e sopprime il desiderio d’altrove?». Coi libri che ci coinvolgono nel profondo ci si sente avvolti da un continuo flusso di emozioni. In queste letture non ha molto senso quindi domandarsi dove si trovi il centro drammatico del testo perché ogni capitolo termina lasciandoci il forte desiderio di continuare la lettura. Così dopo essersi immersi nella battaglia di Maratona narrata da Erodoto, vinta dai greci perché ebbero la capacità di uscire e andare incontro ai persiani in campo aperto (il loro vero nemico non era Dario ma la tentazione della stasis), ci sembra di aver capito tutto dell’uscire fuori di sé e dell’avventura. E invece l’avventura continua con le imprese di Platone a Siracusa commentate dalla sua (forse) stupenda Lettera Settima, un’altra 'uscita' dalle parole verso l’azione politica, e lì scoprire che «l’avventura filosofica e l’avventura politica sono la stessa avventura». Quindi la storia e le storie straordinarie di Kapuscinski che si intrecciano con Le storie di Erodoto. E poi ancora Montaigne e la cattiva maestra ’abitudine’, i viaggi di Von Humboldt, figura molto simpatica a Del Soldà, e le avventure dell’unica donna protagonista del libro: Isabelle Eberhardt.
Il picco narrativo è forse nel capitolo dedicato a Le Mani sporche, la grande e controversa opera teatrale di J.P. Sarte rappresentata a Parigi nel 1948. La storia del suo protagonista, Hugo Berine, serve a Del Soldà per svelarci la propria filosofia dell’avventura. Quel giovane intellettuale, borghese e comunista, sente di vivere «dentro una scenografia », in un mondo di parole, ed è attratto dall’azione politica, dall’idea di lasciare il suo mondo di carta ed entrare nel mondo vero. Commenta Del Soldà: «Finché non ci si avventura nella vita vera, finché non s’infrange quel maledetto diaframma che separa le parole dalle cose e che isola l’intellettuale disimpegnato, non c’è nulla che valga la pena d’esser vissuto». Una frase il cui senso dipende da cosa intendiamo per 'intellettuale disimpegnato', perché se il solo impegno dell’intellettuale fosse quello politico, escluderemmo dalla vera avventura molti poeti e troppi artisti, e faremmo male. Un dialogo centrale di Le mani sporche è quello tra Hugo e Hoederer, il capo del partito proletario, che poi Hugo finirà per uccidere e così uscire dalla scenografia e iniziare a vivere davvero: «Hugo: 'Sono entrato nel Partito perché la sua causa è giusta, e ne uscirò quando cesserà di esserlo. Quanto agli uomini, non m’interessa quello che sono, ma quello che potranno diventare'. Hoederer: 'Tu non ami gli uomini, Hugo, tu non ami che i princìpi… Io invece, amo gli uomini per quello che sono, con tutte le loro porcherie e tutti i loro vizi… La tua purezza assomiglia alla morte'». L’intellettuale con 'le mani pulite' non ama gli uomini per ciò che sono ma 'per quello che potrebbero diventare', ama un uomo astratto, quindi non ama nessuno, alla fine neanche se stesso. Solo le mani sporche sanno amare, quelle che lasciano le idee e si gettano nel pantano della realtà. E qui torna ancora la Bibbia. Quando un gruppo di scribi ebrei definì il canone biblico, il criterio che scelsero per considerare un libro ispirato fu, paradossalmente, la capacità che quel testo aveva di sporcare le mani: «Rabbi Giuda dice: 'Il Cantico dei cantici e Qoelet sporcano le mani'» (Mishnah Yadayim 3,5). I libri invece troppi lontani dalla storia e troppo preoccupati di angeli e demoni non furono inclusi nel canone perché, appunto, non sporcavano le mani. La storia vera sporca le mani, e questa sporcizia buona ci fa più umani. Il mondo delle ideologie, atee e cristiane, è pieno di mani pulite che non amano nessuno veramente, ma solo principi e idee, anche quando queste idee e principi si chiamano Gesù e Dio: se l’amore per gli esseri visibili non diventa sporcarsi le mani nelle fogne e nei peccati umani, è autoinganno e illusione perfetta.
Molto forti, belle e tremende sono le pagine di De Soldà sulle due grandi categorie di Sartre, rilette e inserite creativamente nel suo discorso: l’engagement e lo scacco ( echec). L’engagement, l’impegno politico dell’intellettuale, sono le mani sporche che amano gli uomini e le donne concreti contrapposte alle mani pulite. Lo scacco è il destino inesorabile dell’engagement: «Lo scacco, la sconfitta, è la condizione inaggirabile di ogni impresa umana». È l’esito di ogni engagement: «È la stessa cosa ubriacarsi in solitudine e guidare i popoli». Una frase, questa, che ha colpito molto Del Soldà, colpisce molto anche noi e ci disturba. Per questo l’autore cerca di trovare nell’ultimo Sartre un superamento di questa tesi molto simile a Qoelet o Leopardi, riuscendoci (a mio dire) solo in parte, quando rintraccia nel Sartre più maturo l’idea che «lo scacco è la negazione della negazione, affermazione della trascendenza, rifiuto della complicità col mondo, dunque innocenza». E Del Soldà commenta: «Prendere il largo», e così ci svela dove si trovi per lui lo scacco dello scacco della vita: «Lo scacco come apertura… La partenza, l’arrischiato avventurarsi è il passaggio decisivo verso l’unico possibile compimento dell’essere umano. Un compimento che però coincide anche, inesorabilmente, con la sua sconfitta». E aggiunge: «Questa sconfitta non è un motivo per lasciar perdere, per non impegnarsi, per ubriacarsi in solitudine… è la forma che rende tragica e bella l’esistenza». Forse bella perché tragica, ma la tragedia non ha una soluzione buona: è scelta tra due mali. È difficile portare fuori Sartre dal suo capolavoro L’Essere e il Nulla, fargli davvero superare l’equivalenza tra una vita trascorsa ad ubriacarsi e una passata a condurre popoli. Non c’è riuscito, forse, neanche Sartre, anche se il lavoro principale di molti grandi autori maturi è liberarsi dalle idee tremende del giovane autore che sono stati, un lavoro però che finisce in uno scacco. Nessuna impresa si compie, perché l’incompiutezza è semplicemente la condizione umana: Mosè non entrò nella terra promessa, il liberatore dalla schiavitù vide il popolo attraversare il Giordano ma lui terminò la vita fuori della terra che aveva sognato e per la quale si era impegnato per tutta la vita, in uno scacco tanto immenso quanto generativo di futuro.
Leggendo il libro nasce fin dalle prime pagine l’attesa di un protagonista che dovrebbe esserci e non arriva: l’Ulisse dantesco. Arriva solo alla fine, ma per essere subito superato da un Ulisse, altrettanto grande e figlio dell’Ulisse di Dante: quello di Nikos Kazantzakis. Anche il suo Ulisse, una volta tornato a Itaca, riparte per un ultimo viaggio, esce da sé, dopo aver detto ai compagni del suo folle volo queste parole: «Fate scivolare la nave in mare prima dell’alba, poi salutate la patria, ditele addio per sempre… perché all’alba partiamo per il viaggio senza ritorno». Nelle ultime righe Del Soldà dona a Ulisse nuovi compagni: «Piace pensare che a bordo ci siano posti e viveri per il vecchio Erodoto, per Platone non più diretto a Siracusa, per Hugo Marine, per il buon Montaigne, per Alexander Von Humboldt, per Isabelle Eberardt, per Kapuscinski, per Corto Maltese e per tutti coloro che sono convinti d’avere nell’avventura il proprio destino».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/07/2022
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/06/2022
Il lavoro di Massimo Recalcati sui testi biblici è molto importante. È tra le innovazioni culturali più significative del panorama culturale contemporaneo, non solo italiano e non solo negli studi di psicoanalisi. La Bibbia ha sempre ispirato l’arte, la letteratura, la poesia e la filosofia; nella modernità ha influenzato anche le scienze umane e sociali. Anche Freud, ebreo, anche Lacan, il maestro di Recalcati, hanno attinto dal mondo biblico. Nell’opera di Freud un posto centrale lo occupano i suoi studi su "Mosè e il monoteismo", anche se, lo sappiamo, Freud e la sua scuola hanno fatto ricorso soprattutto alla mitologia greca.
[fulltext] =>La Legge della parola (Einaudi. Pagine XIV - 386. Euro 21,00), che in parte raccoglie, sintetizzati, lavori precedenti (quelli su Caino e Giobbe li ho recensiti nel 2021 su queste colonne), è un’opera molto ambiziosa, un esercizio arduo.
Il tema centrale del libro è il ruolo della Legge e della Parola nella Bibbia e nella psicoanalisi. Il sottotitolo del libro è suggestivo ma in parte fuorviante. Le radici bibliche della psicoanalisi farebbe infatti pensare a un lavoro di messa alla luce di radici di una disciplina che erano già lì, nascoste e al buio, sottoterra, come suggerisce la metafora vegetale. Ma il libro parla d’altro, e ce lo dice lo stesso autore: “Si tratta di leggere le Scritture per comprendere meglio la psicoanalisi… annodare i fili di due discorsi (quello della Torah e quello della psicoanalisi) considerati eterogenei e radicalmente alternativi” (p. vii). Quindi il suo non è un lavoro sulle radici ma un intrecciamento di due fili - e, poi, gli studi di Freud e Lacan ci dicono che i due discorsi non erano, dall’inizio, così "eterogenei e alternativi". In realtà, Recalcati fa davvero un lavoro di fondazione della sua psicoanalisi a partire dai miti biblici, ma il suo è un lavoro sulle radici della sua propria versione della psicoanalisi, che ormai è diventato negli anni qualcosa di più di una applicazione e sviluppo della teoria di Lacan.
Recalcati, forse, è arrivato alla Bibbia, alla parola biblica, partendo dallo studio del linguaggio nella teoria di Lacan, dove occupa un posto centrale, probabilmente il primo posto. La centralità del linguaggio porta Lacan a dire che “ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è … che è un Dio che parla.” (p. 4). Nel primo capitolo della Genesi, infatti, Dio crea dicendo, parlando, pronunciando parole: “E Dio disse …”. La parola creatrice opera quello che Recalcati chiama Il primo taglio: Dio creando si ritira dalla creazione, si separa da esso, "taglia" la creazione da Se stesso. Hoelderlin aveva espresso, poeticamente, questo taglio con uno dei suoi versi più belli: “Dio ha creato l’uomo come il mare crea i continenti: ritirandosi”. Quindi il mondo resterebbe “senza Dio” (p. 13), perché “l’atto della Creazione è l’atto di un taglio che allontana e separa la creatura dal suo Creatore… Il Dio biblico compie un passo indietro rispetto a se stesso separandosi da ciò che ha generato” (p. 12).
Una chiave di lettura che piace molto a Recalcati (e a Lacan), che ha costruito la sua teoria della paternità-figliolanza attorno al tema della necessaria separazione, la sola che garantisce il non-incesto. Quando però arriva a scrivere che “Dio non può determinare il corso della storia perché la storia è fatta dagli uomini e non da Dio. È, a rigore, la morte definitiva di ogni teodicea” (pp. 14-15), facciamo più fatica a seguirlo. Il rapporto tra Dio e la creazione non termina nel capitolo due della Genesi; continua con l’Adam, Caino, Noè e poi Abramo. L’idea biblica centrale di Alleanza dice il contrario: Elohim sceglie un popolo per portare la storia umana verso un compimento, per trasformarla. Il Dio biblico non è assente nella storia, ma opera tramite gli uomini e le donne che sono dentro un rapporto di alleanza. Per non parlare dei profeti, nei quali Dio manda parole agli uomini per cambiare il mondo, per non parlare dell’apocalittica e di Dio come ‘giudice del mondo’ (Dan 7), di Cristo e del Paraclito.
Recalcati continua con un secondo taglio, che rintraccia ancora nei primi capitoli della Genesi, un taglio che “interviene a separare la creatura dal miraggio della sua totalizzazione” (p. 16). Qui in gioco c’è un’altra categoria chiave nel sistema di Recalcati-Lacan: la gestione del desiderio. Nel capitolo due della Genesi, l’Adam (l’umano, il terrestre) diventa Adamo, il maschio, e dopo di lui arriva la donna, Eva, da una costola di Adamo. Qui Recalcati scrive alcune delle pagine più belle del libro: “Il mito della costola perduta è il mito d’origine del desiderio umano: ricercare nell’altro la parte più fondamentale di me stesso” (p. 20).
Anche Lacan aveva discusso il mito di Adamo e la sua costola, e “questa parte perduta che causa il nostro desiderio è chiamata da Lacan l’oggetto piccolo (a)” (p. 20). Una Eva plasmata con una parte del corpo di Adamo piace molto a Recalcati, e ci costruisce un discorso affascinante: “La perdita di una parte del proprio essere - la costola - introduce una mancanza nel soggetto che attiva il suo desiderio verso l’altro il quale, essendo attraversato dalla stessa mancanza, non può che, a sua volta, dirigersi verso l’altro ma senza che ci sia alcuna possibilità per entrambi di colmare in modo definitivo la mancanza che ciascuno porta con sé” (p. 21). Da qui la sua tesi principale sul rapporto sessuale: “L’impossibilità di vivere la relazione con l’altro come una semplice unificazione, un rispecchiamento tra eguali, una simmetria senza differenza” (p. 21).
L’esperienza della mancanza è allora costitutiva dell’eros e della relazione uomo-donna. Il desiderio dell’altro è inappagabile, perché la costola non torna più ad Adamo, è una mancanza incolmabile. Mentre per Platone: “l’eros è la ricerca dell’intero”, per Recalcati-Lacan il desiderio dell’altro è inappagabile, resta una ferita, una indigenza: “Il desiderio umano ricerca la propria parte perduta nell’Altro senza però poterla mai trovare. Eva, come indice dell’alterità dell’Altro, pur sorgendo dalla costola di Adamo, non potrà mai essere recuperata nel suo essere eteros dal desiderio di Adamo”. Per Platone l’eros è il ritorno all’uno e all’intero, per Recalcati “è proprio questa differenza a definire l’essere dell’umano in quanto tale ordinando il suo desiderio attorno a un punto di assenza, a una mancanza d’essere fondamentale” (p. 22-23).
Un discorso affascinante e convincente. Il problema riguarda il rapporto tra questa teoria psicoanalitica e il testo biblico. È difficile fondare questa idea di Recalcati sul mito di Adamo ed Eva, come è difficile tenere assieme "i due tagli", che si riferiscono a due tradizioni diverse presenti nel testo della Genesi. I versi 1.1-2.3 (quelli del "primo taglio") appartengono alla cosiddetta tradizione sacerdotale, più recente e nata dopo l’esilio babilonese, mentre i versi 2.4-3.24 (quelli del "secondo taglio") furono scritti da un autore/autori con altri simboli, con un’altra antropologia, con un’altra idea del rapporto uomo-donna.
Il messaggio del capitolo secondo della Genesi riguarda, essenzialmente, la reciprocità e l’uguaglianza sostanziale tra Adamo ed Eva. La "creazione" di Eva nasce dal seguente "desiderio" di Dio: “Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (2,18). L’espressione ebraica che noi traduciamo "qualcuno che gli corrisponda" o "che gli sia pari" è ezer kenegdò che significa letteralmente: "qualcuno con cui incrociare gli occhi alla stessa altezza". All’uomo non bastava lo sguardo verso il basso (animali) né quello verso l’alto (Dio): c’era bisogno di uno sguardo orizzontale tra pari. La gioia di Adamo dopo il risveglio sta nell’aver trovato qualcuno che gli è finalmente pari perché “questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (2,23).
Ciò che sta a cuore sottolineare al testo è proprio la parità e l’uguaglianza, ed è veramente difficile ritrovare nella costola il segno della mancanza e del desiderio inappagabile, perché tutto dice il contrario: con Eva, Adamo ha finalmente appagato quel desiderio di uguaglianza che prima restava inappagato. Questa reciprocità non è solo la nota dominante del Cantico dei cantici (p. 307), è anche la nota della Genesi, sia nel primo capitolo ("maschio e femmina lo creò": Gn 1,27), sia nel mito di Adamo ed Eva.
Non voglio dire che la visione di Recalcati sia meno interessante di quella dell’autore biblico, di quella di Platone o di Freud; dico soltanto che è problematico fondarla sul testo biblico. Resta invece possibile offrire una lettura nuova di quegli antichi miti, un’operazione legittima e, in questo caso, generativa (suscita molte idee). Spesso gli autori originali e creativi, come Recalcati, che approdano al testo biblico (o a un altro testo classico) con una teoria già formata, difficilmente riescono a resistere alla tentazione di usare il testo biblico come "appiccapanni" (come usava dire Luigi Einaudi) del proprio bel vestito. Un’altra tentazione simile la incontriamo quando Recalcati discute il significato della parola ebraica hevel in Qoelet: lui la traduce "soffio" per eliminare la “dimensione moralista” della parola latina "vanità", dimenticando che vanitas non ha nulla di moralistico: proviene dal sanscrito vahana, cioè vento e soffio (p. 261).
Molto suggestiva è anche la lettura del cosiddetto "peccato originale" o trasgressione di Adamo ed Eva (e poi quella di Caino), nel capitolo tre della Genesi. Riprendendo una tesi di san Paolo, Recalcati scrive che “il paradosso è che è proprio la nascita della Legge - l’interdizione di Dio - a determinare la nascita del desiderio umano di trasgredire la Legge” (p. 23). Quindi “la Legge separa la vita umana dalla sua immediatezza animale” (p. 25), dominata dall’istinto.
La Legge, ponendo la proibizione di mangiare da tutti gli alberi tranne uno, opera una sorta di "terzo taglio" (anche se Recalcati non lo chiama così), quello dal tutto; infatti, “la possibilità generativa del desiderio dipende dal riconoscimento dell’impossibilità di essere o di fare Uno. L’umano non è padrone del suo fondamento, non può costituirsi come un ‘tutto’” (p. viii). Perché - e questo è una delle intuizioni più belle del libro - “la vera perversione del desiderio umano non è la spinta a trasgredire la Legge, ma quella che si regge sull’anelito dell’uomo ad assimilarsi a Dio, sulla spinta alla deificazione dell’umano, al porre la propria legge al di là della Legge” (p. 26). Infatti, la creazione di un limite non nega “la possibilità del godimento ma la delimita”, interdice soltanto l’accesso a “un godimento totale, assoluto, senza mancanza, non per privare la vita del godimento ma per consentirle l’accesso a un godimento 'non tutto’” (pp. 28-29). Perché il godimento umano non può godere di tutto, o, con una bella espressione ripresa da Beauchamp: “può godere di tutto, tranne tutto” (p. 29).
Il desiderio di godere di tutto è quello che Freud chiamava desiderio incestuoso, che se assecondato condurrebbe alla distruzione delle società. La Legge dice che ci sono desideri che non vanno soddisfatti, che esiste la categoria dell’impossibile. Solo Dio non conosce l’impossibile, e allora ogni tentativo di negare l’impossibile significa voler "diventare come Dio" (il logos del serpente). Non riconoscere il limite dell’impossibile, e quindi entrare nel registro relazionale incestuoso, significa cedere al godimento mortale, assecondare la pulsione di morte: “è solo preservando l’esperienza dell’impossibile - ‘non mangiatene’ - che diviene possibile l’accesso ad un godimento non mortale ma vitale” (p. 32). La Legge dice che “non è possibile sapere tutto, godere di tutto, avere tutto” (p. 33), e che “farsi simile a Dio è la follia più grande”. Trasgredire la Legge nella Genesi non è la ricerca di un godimento nevrotico, ma significa negare la propria finitudine, il limite, “cancellare l’impossibile dall’esperienza umana” (p. 38) - qui si aprirebbe un discorso sul transumanesimo, ma non lo facciamo
La parte del libro che ho più apprezzato è comunque la lettura che Recalcati fa della storia di Noè, soprattutto dell’ultima parte, quando Noè, terminato il suo compito di salvezza, pianta una vigna, beve il suo vino, si ubriaca, e si denuda nella sua tenda (Gn 9,21). Recalcati sottolinea che il vino di Noè “è anche oggetto di godimento”. L’elemento cruciale è la paternità di Noè. Noè “è anche uomo e, come tale, un essere pulsionale”. Da qui la domanda decisiva: “Un padre, un uomo ‘giusto’, ‘irreprensibile’, non ha forse il diritto a godere?… Non ha forse il padre diritto di coltivare un proprio godimento?” (p. 106).
Già Freud vedeva il padre come soggetto della funzione normativa e come icona della Legge ma anche soggetto di godimento. Per Lacan, poi, “il godimento del padre non è affatto in contrasto con la sua funzione normativa, ma è, al contrario, proprio ciò che rende credibile, che rende il padre stesso davvero degno di testimonianza” (p. 106). E quindi “è necessaria una versione paterna del godimento (père-version) affinché il volto della Legge sia reso umano e associato a quello del desiderio”. E poi aggiunge un elemento decisivo: “Se invece il padre si limitasse a rappresentare solo la dimensione normativa della Legge, la forza della trasmissione del desiderio da una generazione ad un’altra si rivelerebbe insufficiente. Questo significa che ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge”.
La coincidenza Padre-Legge dipende decisamente dal fatto che al padre non si permette di avere un godimento. Cam è il solo che tra i figli di Noè che non accetta il godimento e il limite del Padre: entrò nella tenda, “vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori” (Gn 9,22). Cam si scandalizza di un padre ubriaco e fragile, e Noè lo maledice (9,25). Recalcati commenta: “Il carattere umano e non divino del padre può suscitare scherno e disprezzo solamente in quei figli che vorrebbero preservare la sua immagine pura e idealizzata rigettando la sua esistenza reale” (p. 109).
La trasmissione della Legge e dell’eredità dai padri ai figli funziona solo quando i figli accettano che il padre possa restare immagine della Legge pur mostrando la sua umanità fragile e imperfetta; quando invece l’etica del padre coincide con la Legge che annuncia, nessuna trasmissione di eredità funziona perché nessun figlio può essere all’altezza di un padre-Legge: “coloro che rifiutano di assumere il non-essere Dio del padre, il suo non essere un padre ideale, ostacolano la trasmissione dell’eredità paterna nelle generazioni” (p. 110). All’origine di eredità collettive di comunità e movimenti spirituali che non sono riusciti a passare dal padre ai figli, ci sono dei ‘Cam’ che hanno idealizzato il padre, non hanno accettato il suo limite e la sua umanità intera, e così hanno impedito che la sua eredità diventasse patrimonio (munus/dono dei padri) nelle generazioni successive.
Il limite della paternità che Recalcati vede in Noè in realtà è comune a tutti i padri dell’Antico Testamento, dai patriarchi a Davide e Salomone, che sono stati capaci di trasmettere la Legge e la Promessa non ‘nonostante’ la loro imperfezione ma ‘grazie’ ad essa. E qui si apre un ultimo discorso.
Nella prima pagina del suo libro, Recalcati pone una nota editoriale dove dice che questa ricerca sulle ‘radici della psicoanalisi’ continuerà con i Vangeli. Mi auguro solo che prima di lasciare l’Antico Testamento Recalcati continui a lavorarvi, perché il suo lavoro fondativo resta parziale e incompleto. Sono due i grandi assenti: i profeti e le donne.
La Legge senza i profeti non è la Legge biblica: “La Legge e i profeti”, amava dire Gesù per indicare l’eredità d’Israele. La Legge senza profezia è troppo poco, e dà una visione incompleta della stessa legge e dell’antropologia e dell’umanesimo biblico. L’assenza dei profeti si nota troppo. Manca Ezechiele e la sua diversa versione del ‘peccato originale’, (Ez 25), manca Osea, un profeta essenziale per capire una dimensione essenziale del rapporto uomo-donna. In Osea Recalcati avrebbe poi trovato un’altra versione della lotta di Giacobbe con l’angelo (di cui si occupa nel capitolo 5), risalente a una tradizione (forse) più antica di quella della Genesi, dove a vincere il combattimento non è Giacobbe ma l’angelo di Dio, e Giacobbe, fragile e sconfitto, piange e implora.
I profeti hanno un’altra idea della Legge, e la cambiano. Il secondo Isaia, profeta dell’esilio, violando la legge di Mosè che vietava agli eunuchi l’accesso nel tempio, aveva osato scrivere questi versi splendidi: “Così dice il Signore: riguardo gli eunuchi ... io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, migliore di quelli dei figli e delle figlie. Gli stranieri ... li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” (Is 56,4-7). Eliseo, poi, moltiplica l’orcio d’olio della donna schiava, e le dice: “Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito” (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia. La profezia non è mai soddisfatta della Legge, perché nessuna legge può essere all’altezza della terra promessa. La legge del Regno dei cieli è la legge di Mosè e dei profeti, insieme.
Mancano poi le donne, spesso donne nascoste tra le righe, che sono co-essenziali per capire l’umanesimo e l’antropologia della Bibbia. Manca il rapporto stupendo tra Rut e Noemi, Abigail e la sua diversa intelligenza relazionale, la pietas di Rispa che vegliò per mesi i corpi dei suoi figli impiccati, le regine Gezabele e Atalia e il loro rapporto perverso con il potere, non c’è la ‘strega di Endor’, che con il suo vitello grasso offerto ad un Saul depresso e disperato diventa il ‘padre misericordioso’ dell’Antico Testamento. Mancano Ester e Giuditta, manca Tamar, la sorella principessa violentata, la figlia di Jefte sacrificata dal padre per una assurda fedeltà ad un voto, la concubina violentata dai beniaminiti che divenne una lettera di carne.
È vero che Recalcati dedica un bel capitolo (VIII) al Cantico e quindi a quella relazione uomo-donna, ma è troppo poco per una fondazione psicoanalitica della relazione sessuale nella Bibbia. La Bibbia è piena di donne, che, se prese tutte assieme ci rivelano una dimensione co-essenziale dell’umanesimo e dell’antropologia biblica. Senza queste molte donne diverse e stupende, la donna nella Bibbia è troppo piccola: non bastano Eva e la ragazza bruna del Cantico. In ogni buon libro manca qualcosa, che è buono anche perché incompleto. Ai recensori evidenziare la parte mancante, è il loro lavoro, altrimenti sarebbero tristi compilatori di schede bibliografiche o una inutile schiera di ruffiani.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/06/2022
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/06/2022
Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo dal futuro (La Nave di Teseo, pagine 160, euro 16), è una piacevole, profonda e ricca lettura. È una raccolta di brevi racconti, creazioni letterarie che, come spiega l’autrice, partono da alcuni fatti stilizzati realmente accaduti. Di fronte a un’opera narrativa, non è mai un buon esercizio chiedersi se i fatti narrati siano reali, perché è la narrazione a rendere reali i fatti: per questo ogni narrazione è creazione di realtà, non di fiction. Ciò che accomuna i racconti brevi è il loro ambiente: sono storie costruite attorno a un Monte dei pegni, quindi prestiti di denaro in cambio di deposito di cose, di oggetti. Storie di oggi, nostre contemporanee, ma dal sapore antico, lo stesso sapore e colore di un film neorealista in bianco e nero o, per chi ne ha sentito parlare, dei vecchi banchi ebrei o cristiani tra Medioevo e Modernità. Storie di cose e di persone, dove non è facile capire se parlano più e meglio le cose o le persone perché, in realtà, parlano assieme, sono storie di dialoghi, e le parole più belle spesso sono quelle mute degli oggetti: «Il Monte dei pegni è un repertorio inesauribile di storie».
[fulltext] =>Elena Loewenthal è nota come scrittrice e ottima traduttrice di letteratura ebraica, con quella capacità narrativa di far vedere le cose che narra che forse solo gli ebrei possiedono, almeno in una misura sovrabbondante. E così, in questo testo, ci fa vedere Mario, fotografo stagionale, che impegnava la macchina fotografica e l’attrezzatura d’inverno e la riscattava in primavera con i primi acconti sui servizi matrimoniali. Ci racconta delle pellicce della bella Milly, «che si chiamava Giuseppe», la storia felice di Giorgio con la sua fidanzata Evelina. Lo vediamo mentre Giorgio porta al Monte l’orologio della nonna per avere in cambio qualcosa per sopravvivere. Era la sua unica eredità che la mamma gli aveva infilato nella tasca della giacca mentre scappava di casa per poter fare il poeta, e che un giorno finisce per vincere il Premio Strega: «L’orologio e il Monte dei pegni gli avevano salvato la vita. A lui, a Evelina, alla sua poesia». Molto bello l’episodio di Viola, la flautista. La madre porta al Monte il flauto d’oro del nonno, dicendole «tuo nonno sarebbe contento». Lo fa per poterle pagare il master in Canada. Risparmiando mese dopo mese dalla pensione, alla fine il flauto d’oro, anche questo, sarà riscattato. Viola torna dal Canada: «Lasciamola ancora un momento con il flauto d’oro», dicono i suoi genitori: «La trovarono proprio lì, davanti alla custodia di panno nero aperta, nel buio del salotto spezzato dalla luce d’oro del flauto, che pareva un piccolo sole precipitato lì, dentro casa loro, a salutare il ritorno di Viola e del flauto d’oro. Per sempre». Storie di riscatti, storie di oggetti morti nel deposito del Monte e poi risorti alla fine di storie d’amore - anche i nostri oggetti amati entrano nelle nostre resurrezioni, dopo essere saliti sui nostri golgota. Storie di poveri, di molte donne e della loro tipica pietas, madri e figlie. Poveri d’oggi, ai quali non manca tutto, manca qualcosa, ma un qualcosa che può rendere impossibile svolgere la vita che desiderano, una impossibilità che è sempre la prima e più vera definizione di cosa sia la povertà. Molta povertà, molta vergogna. Perché la povertà, ogni povertà, prima di essere intesa oggi come colpa (attraverso la meritocrazia), è sempre stata una vergogna. La povertà si vede, è faccenda di occhi. La vediamo noi e la vedono gli altri. Non si esce da nessuna povertà senza attraversare l’onta del mare della vergogna, se riusciamo senza restare sommersi durante l’attraversamento: «Il Monte dei Pegni soltanto il nome fa vergognare un po’, no? Ci si sente, come dire, dei poveracci, dei disperati». Essere poveri spesso è brutto, essere considerati, dagli altri e da noi stessi, poveracci è bruttissimo.
Un piccolo libro a tratti capace di commuovere profondamente. Peccato per le sue due introduzioni. Quella di Luca Ricolfi fa quello che chi accetta di scrivere una prefazione a un libro di un altro o di un’altra non dovrebbe mai fare: parlare dei propri libri, perché oltre a non aggiungere nulla al libro che presenta, impoverisce anche il proprio libro. L’introduzione di Gianluca Garbi, amministratore delegato del gruppo Banca Sistema, è invece un festival di errori e di imprecisioni storiche. Diversamente da quanto dice l’Amministratore, i banchi dei pegni non li hanno inventati gli ebrei, c’erano già molto prima, gestiti da cristiani, quasi sempre su condotta comunale. Il prestito su pegno era precedente sia ai Monti di pietà dei francescani sia a quelli degli ebrei, perché il pegno era un istituto vigente nel diritto civile medioevale che sopravviveva accanto a quello canonico - va sempre tenuto presente che l’usura era vietata in genere dal diritto canonico, quindi per ecclesiastici, molto meno dal diritto civile e dagli statuti comunali. Diversamente da quanto afferma Garbi, i Concili avevano condannato (canonicamente) l’usura già con l’inizio del secondo millennio, secoli prima il concilio Lateranense del 1515, che è importante invece per aver ammesso il tasso d’interesse nei Monti di pietà, dove sulla natura onerosa del prestito era in corso da mezzo secolo una grande polemica, già a partire dal primo monte di Ascoli del 1458 (non quello di Perugia, un’antica tesi ripetuta anche da Garbi). Inoltre, l’impegnare oggetti era prassi molto antica, perché in un’economia non monetaria le cose erano mezzi di pagamento a disposizione della gente, e non solo dei poveri. Anche nei banchi che prestavano a pegno si realizzava una sorta di meticciato tra prestito e vendita: la somma era sì un acconto in vista di una restituzione del bene impegnato o investito, ma era anche una sorta di vendita di quel bene, una permuta cosa versus moneta. Anche i monasteri conoscevano varie forme di prestito, e, più tardi, nota è la 'banca multinazionale dei Templari', che operava anche il prestito su pegno.
Nei secoli XII-XVI il prestito su pegno divenne una pratica molto diffusa in tutta Europa, e gli italiani (Lombardi, Toscani) erano i maestri. Vi ricorrevano tutti, ricchi soprattutto, in un mondo con molta ricchezza mobile e poco denaro in circolazione. Il diritto romano conosceva il prestito su pegno, che era, insieme all’ipoteca e alla fideiussione, il principale mezzo di garanzia. Durante il primo millennio anche le leggi longobarde e dopo il VI secolo quelle visigote, nelle quali erano presenti vestigia di diritto romano (Codice di Giustiniano), conoscevano il prestito su pegno (cf. il cosiddetto Formulario di Angers), dove ufficialmente non si menzionavano interessi ma, di fatto, erano chiesti in contratti collaterali e in genere tenuti segreti. Nei secoli delle invasioni barbariche tutte le pratiche commerciali e finanziarie ebbero uno stallo, ma appena la vita sociale ripartì col nuovo millennio riprende anche l’attività di prestito su pegno, svolta essenzialmente da lombardi, toscani e dopo il duecento dagli ebrei. Si ha traccia da un Monte dei pegni a Frisigen, Baviera, nel 1198, quindi a Salins (Francia), nel 1356 e nel 1367, il vescovo Michele di Norbhburg, creò un fondo di mille marchi per prestiti su pegno ai poveri. Solo dal Trecento il prestito su pegno viene gestito prevalentemente, non esclusivamente, dagli ebrei, sebbene alcuni ebrei prestassero regolarmente e pubblicamente anche ai comuni e alle diocesi. Questa è la preistoria dei nostri monti dei pegni, ma queste cose l’amministratore Garbi non ce le dice nella sua introduzione che riduce il valore dell’ottimo libro della Loewenthal. Da qui una domanda più generale: a cosa servono le prefazioni quando l’autore è già di per sé un maestro, quando il libro sta benissimo in piedi da solo? Speriamo almeno a coprire i costi di edizione.
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Agorà - Fra pietas e vergogna, abisso e risurrezione, le vicende di persone e cose che hanno radici nei cuori, guardando il futuro e la nostra storia. I racconti di Elena Loewenthal
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/06/2022
Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo dal futuro (La Nave di Teseo, pagine 160, euro 16), è una piacevole, profonda e ricca lettura. È una raccolta di brevi racconti, creazioni letterarie che, come spiega l’autrice, partono da alcuni fatti stilizzati realmente accaduti. Di fronte a un’opera narrativa, non è mai un buon esercizio chiedersi se i fatti narrati siano reali, perché è la narrazione a rendere reali i fatti: per questo ogni narrazione è creazione di realtà, non di fiction. Ciò che accomuna i racconti brevi è il loro ambiente: sono storie costruite attorno a un Monte dei pegni, quindi prestiti di denaro in cambio di deposito di cose, di oggetti. Storie di oggi, nostre contemporanee, ma dal sapore antico, lo stesso sapore e colore di un film neorealista in bianco e nero o, per chi ne ha sentito parlare, dei vecchi banchi ebrei o cristiani tra Medioevo e Modernità. Storie di cose e di persone, dove non è facile capire se parlano più e meglio le cose o le persone perché, in realtà, parlano assieme, sono storie di dialoghi, e le parole più belle spesso sono quelle mute degli oggetti: «Il Monte dei pegni è un repertorio inesauribile di storie».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/05/2022
«L’effetto naturale del commercio è il portare la pace». Così scriveva nel suo Lo Spirito delle Leggi Montesquieu, rilanciando una idea che girava nel Settecento dei Lumi. Qualche anno dopo, alla fine della sua carriera, l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi commentava con altro tono quella frase di Montesquieu: «Il gran fonte delle guerre è il commercio». E aggiungeva: «Il commercio è geloso, e la gelosia arma gli uomini». Un secolo più tardi, il grande economista inglese Francis Edgeworth definiva l’economia come la scienza che studia gli «scambi pacifici » (1881), perché si occupa dei contratti liberi e non dei rapporti violenti. Più recentemente (nel 1977), un altro economista, Albert Hirschman, aveva ripreso quella antica tesi di Montesquieu e l’aveva declinata in una delle chiavi di lettura più influenti delle scienze sociali contemporanee. Le società di mercato, diceva, sono fondate sugli interessi, quelle antiche e feudali sulle passioni. Il capitalismo avrebbe allora dovuto rendere il mondo più pacifico proprio perché gli interessi economici, razionali e prevedibili, avrebbero sostituito le passioni irrazionali alla base delle guerre (orgoglio, onore, vendetta, patria, nazionalismo ...).
[fulltext] =>Questa guerra ci sta dicendo che aveva ragione il triste realismo di Antonio Genovesi, che pur amava il mercato e l’economia quando sono civili e civilizzanti. La società di mercato non ha eliminato né ridotto le virtù belliche, non ha diminuito la produzione delle armi, non ha soppiantato lo spirito militare di conquista. I Paesi più decisi e convinti a rispondere prima di tutto con le armi all’invasione russa dell’Ucraina sono proprio quelli che hanno inventato il capitalismo: Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda. Montesquieu, Edgeworth e Hirschman sono tra le vittime di questa guerra. Con la sconfitta delle loro idee si compie uno dei fallimenti più profondi dell’umanesimo illuminista e occidentale. I nostri capi di governo continuano a utilizzare la guerra come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali (art. 11), e poi gioiscono con intima soddisfazione perché le sanzioni commerciali iniziano finalmente a portare i loro frutti di miseria, di dolore e di morte – per i popoli e per i poveri non certo per i capi, che invece ne sono rafforzati nel consenso. È l’avveramento dell’anti-promessa dell’economia di mercato.
Forse dovremmo tutti cercare qualche spiegazione diversa di questo enorme fallimento. Una riguarda la selezione delle nuove classi dirigenti. La maggior parte dei manager sono ormai formati dalle grandi agenzie globali di consulenza manageriale (McKinsey, Lloyd, Accenture ...). Né Montesquieu, né Edgeworth e forse neanche Hirschaman potevano sapere che negli ultimi cinquant’anni il capitalismo avrebbe subìto una trasformazione etica radicale. È avvenuta quando la formazione dei manager e dei leader delle imprese e della finanza – che prima si svolgeva nelle fabbriche, nelle scuole tecniche e nelle facoltà di economia e commercio – è stata affidata e poi appaltata alle business school e alle società internazionali di consulenza, i cui linguaggi e mentalità sono sempre più schiacciati sul mondo militare e sempre più lontani dal 'dolce commercio' illuminista. È sufficiente partecipare a un loro corso di strategia d’impresa, vedere gli esperti che si alternano in aula, dare uno sguardo ai giochi di ruolo che propinano nei loro programmi di team building, o tentare un’analisi delle parole-chiave che usano tutte costruite sul registro maschile e sulla competizione intesa come lotta per vincere (loser, perdente: è il nuovo insulto in questo mondo), per accorgersi immediatamente di essere lontani anni luce dalla tradizione della 'civil concorrenza' e sempre più vicini a una accademia militare. La leadership – to lead: guidare, comandare – è diventata un nuovo dogma del capitalismo, dalla dubbia convivenza con la democrazia. Così si legge in uno dei tanti corsi introduttivi di strategia d’impresa: «La strategia è molto più antica di quello che si può pensare. Sun Tzu nel suo libro L’arte della guerra è il primo che è stato in grado di distinguere tra tattica e strategia: le tattiche riguardano le operazioni necessarie per vincere le battaglie, la strategia si preoccupa di vincere la guerra».
Da queste scuole multinazionali non sono uscite soltanto le élite economiche e bancarie, sono emersi anche molti dei nostri politici e dei funzionari della politica. Mezzo secolo di regressione civile ed etica che ha prodotto una classe internazionale di manager tutti simili, che parlano tutti inglese, tutti formati alle stesse virtù performative, strategiche, muscolari, belliche. In molti lo sapevano, in alcuni lo abbiamo anche detto e scritto da tempo; ma ci voleva questa guerra dentro casa per farci vedere con chiarezza che il nostro mercato era stato da tempo occupato dalla logica bellica e militare – è impressionante ascoltare in questi mesi gli esperti di strategia bellica, che nei talk show hanno preso il posto dei virologi (facendoceli rimpiangere), che invece di dire 'soldati' parlano di 'risorse': la tecnica ha sempre cercato di prendere il posto dell’anima, gli strumenti quello della responsabilità, e ci stanno finalmente riuscendo. Non deve stupirci allora che tra gli accademici più entusiasti della linea bellica della Nato ci siano molti miei colleghi economisti, che in genere da giovani erano stati cattolici e/o di sinistra, grazie anche al peso culturale che ha ormai la Teoria dei giochi, sviluppata e cresciuta nell’ambiente della Nasa durante la guerra fredda.
Ma c’è di più, e, per me, di ancora più triste. Questa guerra è anche il fallimento dell’umanesimo cristiano. Dopo duemila anni siamo costretti a prendere atto che il Regno dei cieli è quasi disabitato. Le guerre mondiali del XX secolo avevano generato una stagione di speranza in un tempo nuovo, finalmente cristiano e umano. Sono stati gli anni del pacifismo, del Concilio Vaticano II, dei grandi movimenti cattolici di massa, del dialogo tra le religioni per la pace, l’era dei diritti umani e dei diritti di tutte le specie viventi e della Terra. In tanti abbiamo sperato che il grande dolore delle guerre fratricide, i campi di sterminio e Hiroshima, avessero segnato un punto di non ritorno per la pace. E invece, ascoltando certe voci e certi silenzi e constatando quanto poco ascoltata sia la voce di papa Francesco che continua a invocare invano pace e giustizia, il Regno dei Cieli si sta desertificando, la città del popolo delle beatitudini appare sempre più vuota. In questi mesi, mi capita di leggere la Bibbia e i Vangeli più spesso del solito, e non solo per lavoro. E troppo forte è l’effetto sulla mia anima (e pancia) di alcune frasi, che forse non avevo mai capito: 'Beati i miti, erediteranno la terra', 'Beati i costruttori di pace, saranno chiamati figli di Dio', 'Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri', 'Porgi l’altra guancia', 'Ama il tuo nemico'... Ho riletto la non-violenza estrema della passione e morte di Gesù: 'Padre perdonali'. E da lì sono tornato al comandamento più grande: 'Non uccidere', e a 'Nessuno tocchi Caino'. E infine mi è tornato in mente anche il Corano, dove Abele intuisce che suo fratello lo sta per colpire e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per uccidere te» (Sura 5,28). Ci volevano tremila anni di Bibbia e duemila anni di Cristianesimo per rispondere ad una invasione militare con il mestiere delle armi?! Quale creatività politica ci hanno insegnato Abele, Abigail, Cristo, Francesco, i martiri, i santi, le madri? Ai carri armati abbiamo solo saputo rispondere con altri carri armati, alle bombe con altre bombe, alle mine con altre mine più moderne, al sangue umano con altrettanto sangue umano che non smette di odorare nel suolo della nostra terra. E noi lo consideriamo normale, necessario, magari addirittura giusto. Noi, noi cristiani, che frequentiamo i sacramenti, che facciamo gli incontri sulla Parola di vita, le adorazioni del Santissimo, che mandiamo aiuti umanitari, che accogliamo dentro casa anche i profughi... Non è normale, niente è normale in questa guerra e in ogni guerra: solo cercare la pace è normale, solo far cessare ora la guerra è normale. Questa guerra, e tutte le guerre. Il resto è solo disumanesimo, è anti-cristianesimo, terra al di fuori del Regno dei cieli. La sola guerra giusta è quella che riusciamo a non fare.
Un’altra Europa, che duemila anni di cristianesimo e tre secoli di illuminismo non hanno saputo creare, il 24 febbraio avrebbe generato dalla sua anima centinaia di migliaia, milioni di cittadini pacifici e disarmati che avrebbero messo i loro corpi lungo le strade dei carrarmati. E li avrebbero fermati, come e più di un milione di bombe di morte. E, nello stesso giorno, tutti i capi di Stato e di governo sarebbero dovuti correre insieme davanti alla porta del Cremlino, lì iniziare tutti uno sciopero della fame per chiedere a Putin di tornarsene a casa. Sogni, favole, utopie... E invece sarebbe molto realistico, concreto e serio cercare la pace con telefonate interurbane, che ormai sono pure gratis. E noi incollati alla tv, bombardati da una produzione di massa di metafore sbagliate e molto pericolose, ad assistere passivi anche alla manipolazione di Gandhi e di Bonhoeffer trasformati in sostenitori muti della nostra risposta bellica fratricida e della 'legge del taglione', per non parlare delle infinite parole vuote e morte sulla 'guerra giusta' tratte fuori contesto e fuori tempo da sant’Agostino e san Tommaso. Ridicolizzato Francesco, banalizzato il Vangelo. Quando il «tempo in cui i re sono soliti andare in guerra» (2 Sam 11,1) finirà per sempre? Profezia dei cristiani: dove sei? Dove sei stata sepolta? Alzati: vieni fuori!
«Qui si tratta che si sta montando una guerra di egemonia tra due blocchi, dalla quale noi non abbiamo nulla da sperare e con la quale non abbiamo nulla da spartire. Vinca la Russia o vinca l’America se noi ci lasciamo coinvolgere passivamente avremo che l’Europa diverrà il centro del carnaio e della distruzione ». Queste parole diverse e profetiche sono di Igino Giordani (del 1951), un anti-fascista e Padre costituente, mio maestro immenso, che si auto-definiva «un cristiano ingenuo». Probabilmente anche questo articolo, come altri pubblicati da questo giornale che non per nulla si chiama 'Avvenire', verrà immediatamente collocato tra i pensieri ingenui e quindi dannosi degli idealisti. Ne ero ben cosciente prima di scriverlo: ma non sono riuscito a convincere né la penna né l’anima.
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Note di un cristiano ingenuo in margine al conflitto riacceso dall'invasione russa dell'Ucraina
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/05/2022
«L’effetto naturale del commercio è il portare la pace». Così scriveva nel suo Lo Spirito delle Leggi Montesquieu, rilanciando una idea che girava nel Settecento dei Lumi. Qualche anno dopo, alla fine della sua carriera, l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi commentava con altro tono quella frase di Montesquieu: «Il gran fonte delle guerre è il commercio». E aggiungeva: «Il commercio è geloso, e la gelosia arma gli uomini». Un secolo più tardi, il grande economista inglese Francis Edgeworth definiva l’economia come la scienza che studia gli «scambi pacifici » (1881), perché si occupa dei contratti liberi e non dei rapporti violenti. Più recentemente (nel 1977), un altro economista, Albert Hirschman, aveva ripreso quella antica tesi di Montesquieu e l’aveva declinata in una delle chiavi di lettura più influenti delle scienze sociali contemporanee. Le società di mercato, diceva, sono fondate sugli interessi, quelle antiche e feudali sulle passioni. Il capitalismo avrebbe allora dovuto rendere il mondo più pacifico proprio perché gli interessi economici, razionali e prevedibili, avrebbero sostituito le passioni irrazionali alla base delle guerre (orgoglio, onore, vendetta, patria, nazionalismo ...).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/03/2022
I poeti sono i custodi delle parole – delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle – shomerim – di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana – e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» ( Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.
[fulltext] =>Mio nonno Domenico, contadino e spaccapietre nella cava di travertino, quando parlava nel suo dialetto ascolano ci incantava tutti con le parole della sua lingua madre. Con quel lessico arcaico faceva parlare le sue emozioni più profonde, chiamava per nome la vita sua e quella degli altri, viveva tra le cose e sapeva come nominarle. Gli rispondevano il dolore, l’amore, la pietà, Dio, i dèmoni, e lui li capiva; e con essi imbastiva un dialogo intenso e vero, ogni giorno – la prima preghiera, e l’ultima, si recitano bene solo in dialetto. Ma non appena doveva parlare in italiano, la sua lingua si immiseriva, diventava insicuro e impacciato, si vergognava, era meno bello, perdeva dignità. Col passare del tempo il ricordo vivo di questa forma di violenza mi appare sempre più ingiusta e sbagliata, la sua memoria mi fa soffrire. E finalmente capisco Pasolini: «Quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani... allora la nostra storia sarà fi- nita» (dal film La rabbia, 1963). E capisco, forse, anche la sua critica al capitalismo: «L’italiano diventa la lingua delle aziende, del mercato» (Interviste corsare, p. 216) – chissà cosa direbbe del finto inglese che è subentrato a quell’italiano? Capisco la sua lode per il lavoro artigiano, che è l’opposto della nostalgia: è un urlo per salvare le cose e la loro verità, perché togliendo le mani umane dalle cose queste vengono manipolate da una ideologia senza carne e sangue. L’artigiano e il dialetto non sono in Pasolini età dell’oro perduta e da rimpiangere, ma terra promessa ancora da raggiungere. La tv diventa il primo agente della 'strumentalizzazione' della lingua (Empirismo eretico, p. 19), perché «è attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere» (Scritti corsari, p. 24).
La critica che Pasolini fa del capitalismo (e quindi della modernità) non è meno grande e profonda delle grandissime critiche di Walter Benjamin, di Pavel Florenskij, di Ernesto de Martino o di Gramsci e Marx. Perché Pasolini capisce che il capitalismo si apre e si lascia decifrare se lo leggiamo come fatto antropologico e teologico e non solo come economia. In particolare, Pasolini intuisce che la svolta decisiva della cultura capitalista era avvenuta con l’arrivo del consumo di massa. Fino a quando il capitalismo era rimasto centrato sull’impresa e sul lavoro, lo spirito italiano, cattolico, comunitario e mediterraneo non ne era rimasto incantato e catturato. Perché sotto le Alpi il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, non vocazione (beruf) né tantomeno benedizione ed elezione divina. Si lavorava per destino, perché si doveva lavorare, per mangiare, per far vivere meglio i figli, e se si poteva campare senza lavorare tanto meglio. Il cambiamento epocale è avvenuto nella seconda metà del Novecento, quando l’asse del capitalismo si spostò dalla produzione al consumo, un cambiamento che ha conquistato velocemente e totalmente l’Italia (e i Paesi cattolici).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/03/2022
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire nella sezione "Economia Civile" il 12/01/2022
Tornare agli autori del passato è sempre un’operazione difficile. I problemi che avevano in mente, il contesto sociale nel quale scrivevano, la loro cultura, i dibattiti religiosi e/o scientifici, erano tutti molto diversi dai nostri, a volte troppo diversi perché possano dialogare con noi, tantomeno capirci. Trovare ispirazioni per l’oggi in pagine scritte cento o trecento anni fa è estremamente raro. A cosa serve allora la storia delle idee? Oggi credo che la storia delle idee sia preziosa se diventa la storia delle domande; è meno utile e interessante quando è la storia delle risposte che studiosi, in particolare nel caso di economisti e scienziati sociali, hanno voluto dare alle loro domande e a quelle di altri. Le risposte invecchiano, e in questo nostro tempo accelerato invecchiano molto velocemente; le domande, alcune domande possono invece essere ancora vive e generative. Nel bel volume di Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi e Foligno e tra i maggiori studiosi del pensiero di Giuseppe Toniolo - Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo: una rilettura sistematica ( Vita e Pensiero, Milano, 2021; Introduzione di Stefano Zamagni) - ho dunque cercato di individuare le domande di Toniolo ancora (per me) vive. Il saggio di Sorrentino è strumento oggi indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero economico- sociale di Toniolo (al Toniolo teologo e al pensatore cristiano a tuttotondo Sorrentino aveva dedicato un saggio del 1987, G. Toniolo: una chiesa nella storia, Vita e Pensiero).
[fulltext] =>Chi era Giuseppe Toniolo Giuseppe Toniolo (1845-1918) ha vissuto un tempo di grandi cambiamenti, in Italia e in Europa. Era un adolescente quando si formava l’Italia unitaria e lanciava la sua battaglia anti-clericale. Inizia a insegnare economia sociale nell’università di Padova (nel 1873) all’indomani del non expedit di Pio IX, in un clima anti-modernista e anti-Stato italiano che lo accompagnerà fino alla sua morte. Fu attore e spettatore della crisi sociale ed etica associata all’emergere del socialismo e del marxismo in Europa, insieme alla nascita della Dottrina Sociale della Chiesa con Leone XIII. La sua vita accademica inizia nello stesso anno in cui Walras pubblica a Losanna gli Elements d’économie politique pure, uno dei manifesti della nuova economia neoclassica, che segnerà l’inizio di una vera rivoluzione nel modo di intendere la scienza economica e di fare economia. Toniolo si era invece formato nella scuola Lombardo-Veneta d’economia, la variante italiana della scuola storica tedesca di Roscher e Schmoller. I suoi maestri erano stati Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Luigi Cossa, economisti e storici che furono gli ultimi esponenti di un mondo teoretico destinato a tramontare con la nuova economia neoclassica inaugurata, in Italia, da Pantaleoni e poi con più grande successo da Pareto. Il giovane Toniolo saliva su una cattedra terminale. Si direbbe, con un’espressione avara ma efficace, come economista 'nasce vecchio' e nel posto sbagliato. Da questo punto di vista, Toniolo somiglia molto ad Achille Loria, che, come lui, fu da giovane uno dei più brillanti rappresentanti dell’economia classica (la sua era quella di D. Ricardo), anch’egli luce lucentissima di una stella che stava termi- nando il suo ciclo di vita. Sono fenomeni questi molto comuni nei tempi di cambiamenti epocali, dove la sorte dei talenti dipende molto da dove studiano e dentro quali scuole iniziano la propria carriera. La storia scientifica e intellettuale di Toniolo fu poi complicata (e allo stesso tempo arricchita) dalla sua fede cattolica. Toniolo, infatti, non era soltanto un economista cattolico come altri della sua generazione e di quelle successive; per lui la fede fu chiamata, vocazione, senso profondo della vita e quindi dell’agire, del suo modo fare scienza, economia e politica. Non era una dimensione accanto alle altre, era la dimensione decisiva della sua esistenza. E, lo sappiamo, fare scienza quando si è ricevuta una vocazione spirituale e religiosa molto forte diventa particolarmente difficile, perché quasi sempre manca la distanza terapeutica dai fatti osservati, quasi sempre si inizia a studiare un fenomeno per dimostrare una verità che la si conosce come vera prima di aver iniziato la ricerca scientifica. Ecco perché gli uomini e le donne con questo tipo di fede hanno fatto una gran fatica ad emergere nelle scienze, perché è troppo comune che le diverse ragioni della fede prevalgano su quelle dello scienziato.
L’uomo e lo scienziato nei testi La lettura dei testi originali di Toniolo (e sono molti, fu scrittore molto prolifico), e poi quella dell’ampia, colta e sistematica ricostruzione che ne ha fatto Sorrentino, ci fanno attraversare tutte le difficoltà che l’uomo Giuseppe e lo scienziato Toniolo incontrarono nel loro tempo difficile. Difficoltà e ambivalenze di cui Sorrentino è ben cosciente, e, a detta di chi scrive, le pagine più belle sono quelle dove l’autore dialoga ad alta voce e in pubblico con il proprio maestro Toniolo (e di magistero si tratta), gli pone delle domande scomode, gli fa delle critiche mostrandogli delle incongruenze nel suo pensiero (ad esempio a p. 210, e nell’intero capitolo conclusivo: 'Prospettive e provocazioni'). È questa onestà intellettuale dell’allievo un valore aggiunto di questo libro, che offre una miniera di spunti di riflessioni, che hanno un valore in sé e non solo in rapporto a Toniolo. Il libro ripercorre passo passo il pensiero economico (e in parte sociologico) di Toniolo, dalla prolusione ('prelezione') nell’università di Padova del 5 dicembre 1873 fino agli ultimi volumi del suo Trattato di Economia Sociale (1915). Il Trattato è, di fatto, lo spartito principale, in certi casi unico, del saggio (sebbene Sorrentino lo corredi con l’ampio apparato di note, dove si trovano delle autentiche perle: sta anche in questa lettura liminare il valore del lavoro). Uscito originariamente in tre volumi, il Trattato racchiude infatti la visione che Toniolo si era fatto sui principali istituti economici del suo tempo. La sua struttura è simile al trattato del suo maestro amato Fedele Lampertico ( L’economia degli Stati e dei popoli: l’Introduzione è datata 18 novembre 1873, pochi giorni prima la prelezione di Toniolo), al Dizionario di Economia Politica del Boccardo, ai Principj di Economia Sociale di Antonio Scaloja, ai molti libri di Luigi Cossa o al Corso di Economia Politica di Achille Loria. Trattati tutti concepiti e scritti sul paradigma del sistema classico, quindi sulla falsariga dei manuali inglesi ( J.S. Mill) e francesi ( J.B. Say), con abbondanti dosi di scuola tedesca. È certamente molto distante dai Principi di economia pura di Pantaleoni o, tantomeno, dal Cours o dal Manuale di Pareto, che erano usciti tutti prima del suo Trattato. Toniolo, diversamente da Pantaleoni, non saltò sul carro della nuova scienza neoclassica solo per mancanza di strumenti analitici (la matematica avanzata); in lui c’era la convinzione che la nuova scienza neoclassica era antropologicamente ed eticamente sbagliata come lo era già la 'madre', l’economia classica di Smith e Ricardo. Toniolo rimase sempre un convinto allievo della scuola storica tedesca, restò un 'economista storico' (come lo definiva già Amleto Spicciani), quella scuola che era critica dell’egoismo (selfinterest) di Adam Smith e ancora di più dell’homo oeconomicus di J.S. Mill di cui non condivideva l’approccio astratto, parziale ed incompleto in nome di una scienza economica unitaria, integrale, sistemica. Non fece l’uomo reale 'a fette' (nel linguaggio di Pareto), ma lo conservò intatto nella sua interezza. Qui, invece, Toniolo somiglia a Pantaleoni che, sebbene avesse scritto un manuale di economia pura, voleva una economia 'impura', convinto che ciò che si perde nelle prime approssimazioni della scienza pura non lo si recupera più, è perso per sempre. Ma quelle battaglie non potevano essere vincenti, in un tempo nel quale il positivismo dominava nella scienza, e con esso la condizione che solo una scienza imperfetta, che rinuncia al tutto per la parte, può essere vera scienza.
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Il saggio di Domenico Sorrentino è indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero di Toniolo e al grande tema del confronto con la modernità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire nella sezione "Economia Civile" il 12/01/2022
Tornare agli autori del passato è sempre un’operazione difficile. I problemi che avevano in mente, il contesto sociale nel quale scrivevano, la loro cultura, i dibattiti religiosi e/o scientifici, erano tutti molto diversi dai nostri, a volte troppo diversi perché possano dialogare con noi, tantomeno capirci. Trovare ispirazioni per l’oggi in pagine scritte cento o trecento anni fa è estremamente raro. A cosa serve allora la storia delle idee? Oggi credo che la storia delle idee sia preziosa se diventa la storia delle domande; è meno utile e interessante quando è la storia delle risposte che studiosi, in particolare nel caso di economisti e scienziati sociali, hanno voluto dare alle loro domande e a quelle di altri. Le risposte invecchiano, e in questo nostro tempo accelerato invecchiano molto velocemente; le domande, alcune domande possono invece essere ancora vive e generative. Nel bel volume di Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi e Foligno e tra i maggiori studiosi del pensiero di Giuseppe Toniolo - Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo: una rilettura sistematica ( Vita e Pensiero, Milano, 2021; Introduzione di Stefano Zamagni) - ho dunque cercato di individuare le domande di Toniolo ancora (per me) vive. Il saggio di Sorrentino è strumento oggi indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero economico- sociale di Toniolo (al Toniolo teologo e al pensatore cristiano a tuttotondo Sorrentino aveva dedicato un saggio del 1987, G. Toniolo: una chiesa nella storia, Vita e Pensiero).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2022
Quasi mai resistiamo fino all’epifania per inserire i re Magi nel presepe. Entrano già nel primo allestimento, sebbene all’inizio siano laggiù in fondo, in lontananza, ma sempre dentro l’orizzonte. Perché i Magi ci piacciono molto per molte cose. Compaiono nella Buona novella cristiana per visitare un bambino e escono con discrezione dai vangeli. Ci hanno insegnato l’ospitalità - non si va mai a trovare una mamma che ha partorito senza un dono. E ci ricordano che la missione universale di Gesù non si traduce in un potere religioso universale ma in un messaggio di gioia, di speranza, di pace, di dialogo e fraternità, dono per tutti i popoli e per tutte le religioni. Dei re Magi non si dice infatti nei vangeli che divennero cristiani; ma guai a toglierli dal presepe, ci devono stare come Maria e Giuseppe - coloro che credono che il presepe sia una festa troppo confessionale dimenticano i Magi.
[fulltext] =>Uomini venuti da lontano che ci hanno insegnato l’arte del fare i doni. Se il Natale è la festa dei doni e dei doni per i bambini in modo speciale, lo dobbiamo anche ai Magi.
Entrati nella casa di Maria “videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra” (Matteo 2,11). Prima si prostrano e adorano, poi consegnano i loro doni. Questo ritmo dei gesti è essenziale: i Magi iniziano la loro visita adorando, prostrati (procidentes, cioè ‘gettati a terra’), e solo dopo fanno i loro tre doni. Certo, i Magi adorarono un bambino speciale, adorarono Gesù. Ma loro non sapevano che quel bambino fosse il Figlio di Dio; speravano che fosse un nuovo re, sapevano che era un figlio dell’uomo. E allora in quel loro gesto ci svelano alcune dimensioni antropologiche del dono che valgono anche per i nostri doni, almeno per quelli diversi e decisivi.
Una certa adorazione è il primo movimento del dono. Adorare, dal latino ad-orare, cioè portare alla bocca (or). In oriente era infatti comune che quando un viaggiatore arrivava in visita da una persona, come prima cosa si portava la mano verso la propria bocca, la baciava e poi con essa lanciava baci verso la persona ‘adorata’. Qualche volta si baciavano i piedi, un ginocchio, la mano. Ma la mano alla bocca, soprattutto nel Medioriente, era anche segno di stupore, un linguaggio per dire la meraviglia di un incontro che toglieva il fiato e faceva restare muti di fronte al valore e alla bellezza della persona che si aveva di fronte. L’adorare è quindi gesto della bocca, ha a che fare con i nostri baci e con il nostro silenzio - la parola greca che usa Matteo per dire ‘adorare’, proskynesis (προσκύνησις), letteralmente significa ‘baciare verso’.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/01/2022
Quasi mai resistiamo fino all’epifania per inserire i re Magi nel presepe. Entrano già nel primo allestimento, sebbene all’inizio siano laggiù in fondo, in lontananza, ma sempre dentro l’orizzonte. Perché i Magi ci piacciono molto per molte cose. Compaiono nella Buona novella cristiana per visitare un bambino e escono con discrezione dai vangeli. Ci hanno insegnato l’ospitalità - non si va mai a trovare una mamma che ha partorito senza un dono. E ci ricordano che la missione universale di Gesù non si traduce in un potere religioso universale ma in un messaggio di gioia, di speranza, di pace, di dialogo e fraternità, dono per tutti i popoli e per tutte le religioni. Dei re Magi non si dice infatti nei vangeli che divennero cristiani; ma guai a toglierli dal presepe, ci devono stare come Maria e Giuseppe - coloro che credono che il presepe sia una festa troppo confessionale dimenticano i Magi.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/12/2021
I Monti di pietà sono una istituzione socio-finanziaria che fa parte dell’eredità civile che l’Umanesimo italiano ha lasciato alla modernità. Un fenomeno che si sviluppò nel seno della trazione francescana nella seconda metà del XV secolo, all’inizio prevalentemente nelle Marche e in Umbria (con penetrazioni in Abruzzo) e poi già a partire dalla fine del Quattrocento in tutto il Centro e il Nord Italia. Storia diversa è quella del Sud, dove si svilupparono in età moderna soprattutto i Monti frumentari.
[fulltext] =>La nascita dei Monti è stata uno dei paradossi più affascinanti della storia europea. La spoliazione di Francesco, la sua rinuncia totale all’economia di suo padre Bernardone, il 'nulla possedere' e il 'sine proprio' generarono due secoli dopo delle banche, e proprio da quella componente più radicale del suo movimento: i Minori dell’Osservanza. E se il Concilio di Trento non li avesse ridotti a enti di assistenza, snaturandone l’essenza di istituzioni finanziarie (diverse e solidali), l’Italia avrebbe avuto forse un’altra storia, dato che i Monti di Pietà in Italia a metà Cinquecento erano centinaia, e ogni città, anche piccola, aveva uno o più Monti: anche questa è parte dell’eredità lasciataci dalla Controriforma. In ogni fenomeno sociale importante l’origine ha un valore particolare, perché all’inizio si concentrano sfide e promesse che poi alimentano l’intero movimento.
Da secoli si discute su quale sia stato il primo Monte di Pietà e su chi fosse il frate francescano che lo fondò. Le due principali (non uniche) città che continuano ancora a contendersi il primato sono Ascoli Piceno e Perugia. In realtà non ci sono dubbi che ad Ascoli sia nata nel 1458 una proto-banca svolgente funzioni di Monte di pietà, precedente al Monte di Perugia del 1462, fondato dal frate Michele. La questione controversa riguarda se quello di Ascoli fosse veramente un Monte di Pietà (con le caratteristiche di prestito su pegno, in particolare prestito oneroso), o se fosse invece un’istituzione di beneficienza simile alle tante che già esistevano in Italia. Di questo, e di altro, si occupò don Giuseppe Fabiani, storico ascolano, in un libro del 1942 (non si dimentichi la data), ora ripubblicato dalle Edizioni Lìbrati (Gli ebrei e il Monte di Pietà in Ascoli), grazie a una sinergia tra vari enti della città di Ascoli Piceno e al lavoro di Franco Laganà, che ha scritto una lunga e ricca prefazione, seguita da un altro bel saggio introduttivo di fra Ferdinando Campana sulla storia dei Monti di Pietà in generale e nelle Marche.
Un libro importante, che completa la storia dei Monti di Pietà, con una pagina ignorata da molti storici che si sono occupati di questo fenomeno, incluso il classico studio di M.G. Muzzarelli (Il denaro e la salvezza, 2001). La letteratura sui Monti di Pietà pone al centro e all’origine fra Bernardino da Feltre, che operò soprattutto nel Nord Est italiano, e mette in secondo piano Marco da Montegallo (ascolano, noto fondatore di molti Monti in Italia, tra questi quello di Vicenza) e ancor più Domenico da Leonessa, che sono invece al centro del saggio di Fabiani.
Il primo che pose la questione del primato di Ascoli Piceno fu monsignor Antonio Marcucci (Force di Ascoli Piceno: 1717-1798), vescovo di Montalto, importante personalità ecclesiale del tempo, non solo marchigiana. Questi nel libro Saggio sulle cose ascolane (1776), afferma che Marco da Montegallo «fu l’inventore dei Monti di Pietà', in quanto fondatore del Monte di Ascoli del 1458, il primo Monte». Sulla questione tornò un altro storico ascolano, Giacinto Cantalamessa Carboni (Notizie storiche per servire alla biografia di frate Marco di Monte Gallo - 1843), che dedica molto spazio alla questione della fondazione del primo Monte di Pietà. In realtà lo storico ascolano ha molti dubbi che il primato di Marco sia legittimo, ma nel citare le fonti per smentire questa tesi, in realtà, senza volerlo, offre elementi per sostenerla. Il Marcucci è la principale (se non unica) fonte della fondazione del Monte di Ascoli per opera di Marco e quindi del suo essere pioniere in questo movimento. Ma il Marcucci, sostiene Cantalamessa, fonda la sua tesi su documenti storici deboli: un libro coevo dei fatti dell’ascolano Pierangelo Dino, poi una Storia di Ascoli di un antenato seicentesco dello stesso Marcucci (Nicolò) e infine i libri Consigliari del comune della città. Ma poi aggiunge che il Marcucci era storico di scarso valore e quindi poco affidabile, che il libro del Dino è andato disperso o forse non è stato mai pubblicato, e che i libri Consigliari di quell’anno sono andati bruciati in un incendio del 1535. E quindi afferma che il probabile fondatore del Monte di Ascoli sia stato il maestro di Marco, san Giacomo della Marca, che (forse) accompagnò Marco durante le predicazione dell’inverno del 1458, personalità di ben altro spessore e prestigio: «è da credersi che egli precedesse il Beato Marco nell’erezione degli stessi Monti di Pietà». In realtà, smontando la fonte del Dino, Cantalamessa riporta la citazione del numero di pagina del suo libro disperso, sebbene di 'seconda mano' in quanto vista da un altro storico ascolano dei Seicento, Andrea Antonelli, e dal Cantalamessa riportata. Tra l’altro, Marcucci cita il libro del Dino in molti altri passaggi della sua opera. Pace Cantalamessa, non ci sono ragioni forti per non credere alla fonte del Marcucci, almeno per quanto riguarda la fondazione del Monte di Ascoli; anche perché è sempre buona norma ermeneutica concedere la buona fede agli autori, fino a documentata prova contraria. Cosa pensava su questo tema Don Fabiani?
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/12/2021
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/11/2021
Affinché in una civiltà (in declino) una nuova religione possa subentrare a quella esistente, deve lavorare sulle feste. Occupare e 'ribattezzare' le vecchie feste popolari, lasciare la data e qualche volta il nome e cambiarne il significato – con l’avvento del cristianesimo, il romano Sol invinctus divenne Natale, le Ferie di Augusto (Ferragosto) divennero l’Assunta, il culto dei morti fu Ognissanti… E poi, come secondo atto fondamentale, occorre introdurre nuove feste per celebrare lo specifico del nuovo culto. Il black friday riunisce in sé queste due caratteristiche: è una festa specifica del culto capitalistico-consumista, ma è agganciata ad una festa della religione precedente, il thanksgiving, di cui sta prendendo il posto (il black friday è nato quasi un secolo fa come il giorno dopo il Ringraziamento, ora il Ringraziamento è diventato la vigilia del «venerdì nero»). La religione capitalistica sta dunque facendo col cristianesimo quello che questo aveva fatto in Europa con i culti romani e indigeni.
[fulltext] =>Prima ha occupato le feste cristiane e ora ne sta introducendo di nuove. Tra queste la più potente è quella che si festeggia oggi in tutto il mondo, in tutte le latitudini, da uomini e donne, bambini e anziani, che oltrepassa le barriere culturali e politiche. La promessa della salvezza eterna del cristianesimo è stata sostituita dallo sconto. Una piccola salvezza, ma molto più a portata di mano e concreta del paradiso e del purgatorio. Salvezza universale per tutti, molto cattolica e poco protestante, perché qui ci si salva solo con le opere, non serve la fede. Quest’anno, poi, il black friday ha introdotto anche la novità dell’avvento (o della quaresima), come si conviene alle grandi feste comandate: due settimane di offerte – si noti la parola religiosa – per prepararsi spiritualmente al grande ultimo venerdì sacro del mese, quando le offerte saranno perfette, e perfetto il culto. E così, dopo due millenni, il post-cristianesimo si ritrova dentro una nuova religione pagana, molto più simile ai culti cananei che alla civiltà del trionfo della ragione illuminista.
Eppure prima Marx, poi Benjamin – entrambi ebrei ed esperti di religione e di idolatria – ci avevano avvisato che la forza del capitalismo si trovava proprio nella sua natura di nuova religione senza metafisica, di religione di puro culto. Ma noi non li abbiamo ascoltati. È stato sufficiente l’arco temporale di una vita (mio padre è nato in un mondo e morirà in un altro) per cancellare dall’anima collettiva occidentale l’eredità classica e cristiana. Tutto quel patrimonio morale, quella cultura nata dall’impasto di etica greco-romana, biblica e cristiana, è stato spazzato via in pochi decenni. La stessa Chiesa, e in generale le grandi religioni, non se ne sono accorte, certamente non se ne sono accorte abbastanza. Hanno profondamente e gravemente sottovalutato quanto stava accadendo nell’anima collettiva dell’Occidente.
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Foto di Karolina Grabowska da Pexels
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/11/2021
Affinché in una civiltà (in declino) una nuova religione possa subentrare a quella esistente, deve lavorare sulle feste. Occupare e 'ribattezzare' le vecchie feste popolari, lasciare la data e qualche volta il nome e cambiarne il significato – con l’avvento del cristianesimo, il romano Sol invinctus divenne Natale, le Ferie di Augusto (Ferragosto) divennero l’Assunta, il culto dei morti fu Ognissanti… E poi, come secondo atto fondamentale, occorre introdurre nuove feste per celebrare lo specifico del nuovo culto. Il black friday riunisce in sé queste due caratteristiche: è una festa specifica del culto capitalistico-consumista, ma è agganciata ad una festa della religione precedente, il thanksgiving, di cui sta prendendo il posto (il black friday è nato quasi un secolo fa come il giorno dopo il Ringraziamento, ora il Ringraziamento è diventato la vigilia del «venerdì nero»). La religione capitalistica sta dunque facendo col cristianesimo quello che questo aveva fatto in Europa con i culti romani e indigeni.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2021
«In ogni paese vi è, dove più, dove meno, sempre un dato numero di poveri, e di mendicanti. Se si potessero far entrare nella massa de’ lavoratori e de’ renditori, si farebbero due beni. I. Si accrescerebbe la rendita generale della nazione. II. E si farebbe un gran servizio al buon costume. Perché molti de’ mendicanti sono in grado di lavorare meglio, che ogni altra persona; e la maggior parte, dove non trovano a vivere di limosine, vivono di furto. La massima adunque del minimo possibile degli oziosi, massima fondamentale in economia, deve farvi pensare tutti i politici ».
[fulltext] =>Con queste parole Antonio Genovesi apriva il capitolo delle sue Lezioni di economia civile dedicato «All’impiego dei poveri e dei vagabondi» (XIII, vol. 1, Napoli, 1765). Una prova che il tema della miseria e la marginalità fosse un problema al centro del dibattito economico e politico del Settecento. Parole analoghe le troviamo in Adam Smith, Thomas R. Malthus, e negli economisti dell’Ottocento per i quali le Poor laws e la questione della povertà occupava un posto centrale – un posto che nel Novecento ha invece perso, quando il centro dell’economia si è spostato sull’individuo consumatore e produttore, lasciando l’analisi delle povertà e della miseria a specialisti di economia dello sviluppo.
Il libro dello storico polacco Bronislaw Geremek – La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, 1986 –, un classico del suo genere, ora ripubblicato nella “Biblioteca Storica Laterza” (pagine 296, euro 20,00). È uno studio essenziale per chi voglia comprendere le radici – e dunque il presente – della cultura della povertà e dell’assistenza dei poveri in Europa. Una autentica miniera, scritto con uno stile avvincente, tipico dei grandi intellettuali e della scuola storica francese di Braudel alla quale Geremek si è formato. Il suo obiettivo è detto chiaramente nelle prime pagine: indagare «le trasformazioni che hanno subito nel corso dei secoli le concezioni della povertà e le reazioni collettive nei suoi confronti».
I primi capitoli del saggio sulle origini bibliche ed evangeliche della visione della povertà-miseria, è forse la parte più debole del libro, poiché è troppo sottolineata la dimensione volontaria della povertà: «La prerogativa principale della povertà è il suo carattere volontario. La povertà di Cristo fu il frutto di una rinuncia volontaria alla condizione divina». È difficile essere d’accordo con una tale tesi. “Beati i poveri” di Gesù, non a caso la prima beatitudine in Matteo e Luca, non è rivolta solo né tantomeno ai poveri volontari: è rivolta a questi (magari i suoi discepoli) ma anche ai poveri-ebasta, che erano beati per la loro condizione oggettiva di poveri. Il voler riservare la beatitudine del vangelo ai poveri volontari significa non cogliere l’essenza della logica del Regno dei cieli, dove i poveri sono di casa non perché diventano poveri, ma perché sono poveri. Nel suo Regno c’è posto per i “poveri-Francesco”, ma anche per i “poveri-Giobbe”, che sono poveri senza volerlo diventare. Importante e molto utile è invece l’analisi dell’evoluzione storica della visione della povertà e della miseria nel Medioevo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/11/2021
«In ogni paese vi è, dove più, dove meno, sempre un dato numero di poveri, e di mendicanti. Se si potessero far entrare nella massa de’ lavoratori e de’ renditori, si farebbero due beni. I. Si accrescerebbe la rendita generale della nazione. II. E si farebbe un gran servizio al buon costume. Perché molti de’ mendicanti sono in grado di lavorare meglio, che ogni altra persona; e la maggior parte, dove non trovano a vivere di limosine, vivono di furto. La massima adunque del minimo possibile degli oziosi, massima fondamentale in economia, deve farvi pensare tutti i politici ».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 25/08/2021
Il tempio di Gerusalemme è uno dei protagonisti della Bibbia. Il primo tempio, quello di Salomone, il secondo, quello ricostruito dopo il ritorno da Babilonia e distrutto da Tito nel 70 d.C., e il “tempio” durante l’esilio, quando non c’era più. Accompagna tutta la storia della salvezza, Antico e Nuovo Testamento. Molte delle cose più importanti il tempio le ha dette durante e dopo le sue distruzioni e profanazioni. I libri di Luciano Canfora, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme( Laterza, pagine 304, euro 22,00), e quello di Mario Liverani, Oriente e Occidente (Laterza, 2021), sebbene molto diversi tra loro, hanno nel tempio di Gerusalemme un importante punto di contatto.
[fulltext] =>Il centro del saggio di Canfora è una puntuale indagine storico-filologica attorno all’occupazione romana del tempio di Gerusalemme, avvenuta per mano di Gneo Pompeo nel 63 a.C. Noto è il racconto di Tacito: «Tra i Romani, Gneo Pompeo fu il primo a sconfiggere i Giudei e a entrare nel loro tempio col diritto del vincitore: da ciò si seppe che dentro non vi era nessuna immagine di divinità: la sede era vuota e vuoti i loro misteri» (Historiae, V, 9). Dunque “la sede era vacante”. Stesso concetto ribadito da Dione Cassio, nella sua Storia Romana (XXXVII): «Gli ebrei non avevano nessuna statua nel tempio in Gerusalemme; e poiché sono i più superstiziosi tra gli uomini ritengono che il Dio debba essere indicibile e non rappresentabile. Il tempio innalzato in onore di un tale Dio era grandissimo e veramente splendido». Questo vuoto, che Tacito e Dione non capiscono e riferiscono con un certo malcelato sarcasmo, continua a essere il vuoto più pieno della storia delle religioni.
Gli ebrei hanno saputo custodire per circa mille anni un tempio vuoto, e con esso un’immagine di Dio senza immagini, un Dio più alto di ogni costruzione umana. Da Canfora apprendiamo che l’antisemitismo a Roma era precedente ai cristiani: «Quella gente [gli ebrei] aborrisce lo splendore del nostro impero, la gravitas del nostro nome, le usanze e le leggi dei nostri avi» (Cicerone, Pro Flacco). La loro religione senza statue era sinonimo di senza Dio. Per Filostrato: «Gli ebrei non si sono ribellati soltanto ai romani ma all’intero genere umano». Nel 139 a.C. furono cacciati da Roma con l’accusa, assurda, che fossero adoratori del dio Giove Sabazio (o Bacco-Dioniso). E lo stesso Tacito riporta la diceria che nel segreto del loro tempio gli ebrei adorassero una testa d’asino.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 25/08/2021
Il tempio di Gerusalemme è uno dei protagonisti della Bibbia. Il primo tempio, quello di Salomone, il secondo, quello ricostruito dopo il ritorno da Babilonia e distrutto da Tito nel 70 d.C., e il “tempio” durante l’esilio, quando non c’era più. Accompagna tutta la storia della salvezza, Antico e Nuovo Testamento. Molte delle cose più importanti il tempio le ha dette durante e dopo le sue distruzioni e profanazioni. I libri di Luciano Canfora, Il tesoro degli ebrei: Roma e Gerusalemme( Laterza, pagine 304, euro 22,00), e quello di Mario Liverani, Oriente e Occidente (Laterza, 2021), sebbene molto diversi tra loro, hanno nel tempio di Gerusalemme un importante punto di contatto.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/07/2021
Dal cuore del grande spettacolo delle Olimpiadi stanno emergendo alcuni segnali deboli eppure importanti, provenienti soprattutto dalle atlete. La crisi di Simone Biles, le tute integrali delle ginnaste tedesche per protestare contro la sessualizzazione del corpo femminile, che fanno seguito alla multa nei recenti campionati europei delle giocatrici norvegesi di pallamano da spiaggia per aver indossato pantaloncini al posto dei bikini, sono tutti fatti da prendere molto sul serio.
[fulltext] =>È innegabile che le Olimpiadi, e in generale il mondo dello sport, sia pensato da maschi per maschi. Le donne sono state ospitate e si sono adattate. Se si eccettuano la ginnastica, il nuoto sincronizzato e pochissimo altro, le gare femminili sono repliche di quelle maschili, eseguite con una efficienza quantitativa inferiore del 10-15%. Fanno tutti e tutte le stesse cose, ma le donne le fanno un po’ più piano, con ostacoli più bassi, saltano e sollevano un po’ meno, lanciano sfere metalliche e giavellotti meno pesanti. La competizione, l’anima dello sport, è disegnata sul paradigma maschile, come se il competere fosse vissuto allo stesso modo dai maschi e dalle femmine.
Nelle Olimpiadi, nonostante l’auspicio fondativo di De Coubertin, la dimensione competitiva e posizionale è esasperata. Basti pensare alla logica del medagliere. Ha un ordine assolutamente lessicografico: una nazione può vincere cento medaglie, ma se ha vinto solo argento e bronzo sarà sempre dietro ad un’altra che ha vinto una sola medaglia ma d’oro. Una misurazione analoga alla dittatura del Pil (tra l’altro, le prime venti nazioni del medagliere non differiscono molto dal G20).
Dalla ricerca sappiamo che le donne, in media, hanno un rapporto diverso con la competizione. Alcuni esperimenti hanno mostrato che quando per accedere a un livello più alto di remunerazione occorre passare attraverso un torneo, le donne molto più degli uomini rinunciano a quell’aumento di stipendio (Vittorio Pelligra, "L’economia alle prese con la questione di genere", Lavoce.info). Le donne mostrano una maggiore avversione per il rischio, e, soprattutto, una maggiore avversione per la diseguaglianza, che le portano a preferire assetti più simmetrici ("Gender differences in social risk taking", Journal of Economic Psychology). Le ragazze poi tendono più dei ragazzi a empatizzare con i non-vincenti, a preferire l’allineamento delle emozioni con le altre atlete, sono più sensibili alle lacrime di chi perde. Sarà cultura, sarà natura, ma i dati dicono questo. L’esperienza soggettiva del gareggiare e del competere non può essere la stessa, non è la stessa.
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Commenti - Tokio 2020
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/07/2021
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/06/2021
Il cosiddetto Vangelo di Marcione, andato smarrito, è stato recentemente ricostruito quasi interamente sulla base delle citazioni del suo testo che si trovano nei libri degli autori che lo hanno duramente criticato nei primi secoli cristiani. Autore fortunato, Marcione, “salvato” dai suoi molti critici. Un’operazione analoga non la si potrebbe fare con il capitalismo. Se, infatti, qualche storico futuro volesse capire che cosa fosse il capitalismo sulla base dei soli testi dei suoi molti critici, farebbe una gran fatica; e se riuscisse a mettere assieme le citazioni dei suoi detrattori ne uscirebbe un ritratto molto diverso dalla persona ritratta, perché spesso i critici hanno prima creato un capitalismo-fantoccio e poi hanno avuto gioco facile nel criticarlo.
[fulltext] =>Qualcosa di analogo è l’operazione fatta da Mauro Gallegati nel suo ultimo saggio rispetto al neoliberismo e al mercato. Il mercato rende liberi. E altre bugie del neoliberismo (Luiss University Press, pagine 126, euro 16,00). Un saggio vivace, brillante, a tratti spiritoso, con alcune belle pagine; ma se un lettore volesse capire perché il mercato non rende liberi, giunto alla fine del libro resterebbe frustrato. Gallegati non sembra proporre un mondo ipoteticamente più libero perché senza mercati, né ci spiega perché l’esistenza dei mercati ridurrebbe la nostra libertà (una tesi veramente ardua da dimostrare, che neanche i più severi critici dell’economia di mercato hanno tentato). Anzi, di mercati non si parla proprio, né di quelli reali né della teoria economica contemporanea dei mercati e del mercato.
Inoltre, il famigerato neoliberismo è una sorta di animale mitologico, di cui molti parlano nelle fiabe ma nessuno ha mai visto. Infatti, pur essendo il protagonista del saggio di Gallegati, nel libro non troviamo nessuna definizione di neoliberismo (né del liberismo tout court), che viene assunto come un concetto primitivo non meritevole di definizione in quanto, per l’autore, ovvio ed auto-evidente. E invece, purtroppo, non è così. Forse una specie di proto-definizione la potremmo trovare nell’introduzione: «L’economia neo-liberista ha, in una delle sue forme più estreme, una raccomandazione di politica economica assai semplice: lasciar fare al mercato e che lo Stato si occupi dei più fragili – come scriveva Marshall, di “orfani e vedove”».
Non stupisce che Gallegati per definire il neoliberismo citi anche A. Marshall, un autore di fine Ottocento, che di “neo” ha davvero poco. Una tale definizione poteva averla scritta F. Bastiat, a metà Ottocento, o magari D. Ricardo nel 1815, e quindi la scuola di Manchester. Dove sia il “neo” di questo liberismo è davvero difficile da dire. Se poi prendiamo questa definizione per buona e andiamo a guardare come funziona davvero la politica economica della Germania, della Francia, del Giappone, della Ue, per non parlare della Cina, ci accorgiamo che di questi popoli che lasciano tutti ai mercati tranne le vedove e gli orfani non ce n’è neppure l’ombra.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/06/2021
Il cosiddetto Vangelo di Marcione, andato smarrito, è stato recentemente ricostruito quasi interamente sulla base delle citazioni del suo testo che si trovano nei libri degli autori che lo hanno duramente criticato nei primi secoli cristiani. Autore fortunato, Marcione, “salvato” dai suoi molti critici. Un’operazione analoga non la si potrebbe fare con il capitalismo. Se, infatti, qualche storico futuro volesse capire che cosa fosse il capitalismo sulla base dei soli testi dei suoi molti critici, farebbe una gran fatica; e se riuscisse a mettere assieme le citazioni dei suoi detrattori ne uscirebbe un ritratto molto diverso dalla persona ritratta, perché spesso i critici hanno prima creato un capitalismo-fantoccio e poi hanno avuto gioco facile nel criticarlo.
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