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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/07/2016
La nostra capacità di soffrire per le sofferenze degli altri e di gioire per le loro gioie, ha subito in pochi decenni un declino rapidissimo. La civiltà dei consumi e del confort confonde il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza, dimenticando così una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come ci sono molti cattivi piaceri.
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E così le tv, i nuovi totem postmoderni, ci promettono una vita più felice facendoci passare nel giro di pochi secondi dall’ultima strage in Francia all’ultimo gioco di 'pacchi', dando vita a un appiattimento degli eventi che genera un livellamento verso il basso delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.
Le grandi conquiste della democrazia, dei diritti e delle libertà, sono il frutto maturo di millenni di civiltà e di fede, dove abbiamo imparato a soffrire e a sdegnarci per cose nuove e diverse: per le libertà degli altri negate, per i loro diritti schiacciati, per le ingiustizie verso persone che non erano nostri parenti né amici. Senza queste nuove sofferenze non saremmo usciti dai regimi, non ci saremmo liberati dai faraoni né dalle tante forme di schiavitù e di servitù.
Questo tipo di emozioni sociali sono in parte naturali, ma la loro intensità e qualità sono frutto della cultura e dell’educazione del carattere. Sentiamo naturalmente un senso di malessere quando entriamo in contatto con chi soffre attorno a noi, ma per sentire fino al punto di agire, di muoverci, di andare in loro aiuto c’è bisogno di qualcosa di più della natura. Provare disagio per una vittima che incontriamo lungo la strada è naturale, prendersene cura si chiama cultura.
L’empatia è naturale, la compassione no, perché nasce dalla coltivazione, individuale e
collettiva, di alcuni particolari emozioni e sentimenti più alti. Le norme sociali, ce lo ricordava già Adam Smith a metà Settecento, sono generate dalla capacità che gli esseri umani hanno sviluppato di approvare e biasimare le azioni e i sentimenti degli altri (e i propri), tramite quella facoltà che lui chiama 'simpatia'. L’equilibrio sociale è il risultato dell’ordine spontaneo della dinamica dei sentimenti, come il mercato lo è della dinamica degli interessi.
Questo equilibrio dei sentimenti può però assestarsi a livelli bassi (per esempio, nelle società di banditi) o a livelli alti, quando i popoli sviluppano religioni, arte, filosofia, bellezza, pietas. Ma anche l’ordine morale 'alto' dei sentimenti, come tutte le realtà fragili perché delicate, può andare in frantumi nel far di un mattino per mancanza di cura e di accudimento. E come accade per quasi tutte le abilità e virtù, se la compassione e lo sdegno non sono coltivati e praticati si atrofizzano, e regrediamo a stadi morali inferiori.
L'esposizione costante alla ideologia economica e del consumo ci sta trasformando in animali sempre meno capaci di compatire e di sdegnarci: soltanto venti anni fa lo sapevamo fare molto meglio. Ci attende un mondo dove saremo sempre più capaci delle emozioni naturali e facili verso gattini e cagnolini, ma non sapremo più solidarizzare e soffrire per le povertà e per le ingiustizie attorno a noi. La globalizzazione non ha potenziato questi sentimenti, li ha frantumati e ridotti d’intensità e efficacia, rendendoci più capaci di emozioni semplici e a basso costo ma meno capaci di quelle complesse e costose, che in Occidente erano il risultato di un processo articolato, dove il cristianesimo e l’umanesimo biblico hanno svolto un ruolo fondamentale.
Abbiamo imparato a sentire diversamente con l’anima osservando e meditando nelle chiese i quadri e gli affreschi del presepe, delle parabole, delle croci e delle resurrezioni, guardando le statue e le storie dei martiri e dei santi. Durante le Messe i nostri nonni non capivano tutte le parole, ma capivano molto bene il vangelo delle immagini – lo possiamo vedere ancora oggi quando i bambini vengono in chiesa, e sono molto più capaci di noi di dialogare con i dipinti e i volti attorno a loro.
Se vogliamo rispondere seriamente a questa crisi della nostra capacità di sentire e soffrire per cose grandi e alte, dobbiamo lavorare di più e diversamente con i giovani e con i bambini e le bambine di oggi, riconoscendo un ruolo speciale alla scuola, che è uno dei pochi beni pubblici globali ancora rimasti. La letteratura, l’arte e la musica sono essenziali per formare le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi, in tutti ma soprattutto nei ragazzi e nei giovani. Le prime fiabe, La cavallina storna, Don Rodrigo, il figliol prodigo, San Martino, ci hanno donato gratuitamente le lettere con cui abbiamo scritto le prime frasi della nostra coscienza e del nostro sdegno, con cui abbiamo imparato a piangere per dolori e gioie di altri, a soffrire e a gioire per persone che non avremmo mai incontrato e che non sono mai esistite (ma più reali e veri di tanti vicini di casa). Se da giovani non si incontra almeno un poeta amante della nuda verità (Giacomo Leopardi, per esempio), da adulti non riusciamo a liberarci dalle ideologie, e ci asserviamo a qualche idolo dalle risposte semplici alle nostre domande ancora più semplici.
Oggi i nostri bambini crescono educati principalmente da tv e telefonini, in compagnia delle nuove telenovelas per ragazzi, che rappresentano sullo schermo niente più di quanto i ragazzi vivono tutti i giorni, senza alcuna capacità di far sognare e desiderare loro cose più grandi del loro cuore. Le storie televisive della mia infanzia erano il 'Pinocchio' di Collodi interpretato da Comencini e il 'Michele Strogoff' di Decourt, tratto da Jules Verne. Ho riascoltato poco tempo fa le colonne sonore di quei film e si sono improvvisamente riaccesi quei giorni e le mie prime emozioni sul bene e sul male degli altri, quando senza maestri imparai che un padre può vendere anche la sua unica giacca per far studiare un figlio, e che un contadino povero può donare il suo unico cavallo per un ideale più grande.
C'è poco da sperare in un cambiamento di rotta delle tv, pubbliche e private, sempre più nelle mani di sponsor mercanti di profitti. Ma la scuola? I governi occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica e umanistica, in tutte le scuole di ordine e grado. In una cultura dove le fedi e le grandi narrative collettive hanno perso spazio, se priviamo sistematicamente i giovani anche della letteratura, dell’arte, della musica alta e della poesia produrremo persone senza le passioni e i sentimenti più importanti per vivere insieme nella pace e nella libertà. Se non reagiamo a questa anoressia di compassione, i nostri figli passeranno presto per il centro di Varsavia e non sapranno più 'rivedere' il ghetto e i suoi 450mila ebrei deportati e uccisi, non sapranno più entrare in quella sinagoga e lì piangere per la vergogna. E questo sarebbe un giorno troppo triste. La capacità di compassione della sua gente è una risorsa immensa dei popoli. Non meno preziosa del petrolio e della tecnologia. Iniziare a parlare del suo deterioramento è il primo passo per provare a ricostituire questo patrimonio in rovina.
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C’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.
Una grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.
Resurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.
Anche quest’anno è arrivata puntuale la classifica della "qualità della vita delle città italiane" curata dal "Sole24Ore". E anche quest’anno le città del nord si confermano ai primi posti (con Bolzano in testa) e quelle sud in coda (chiude Reggio Calabria). Le aree tematiche sono sempre le stesse, con qualche leggero cambiamento di indicatori all’interno di ciascuna area. Anno dopo anno, però, questa analisi sta diventando "vecchia". Nel frattempo sono nati altri indicatori di qualità della vita, capaci di cogliere più dimensioni del benessere e del malessere nella società italiana che negli ultimi decenni è cambiata rapidamente e profondamente.
Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.
Se vedessimo imprese produttrici di tabacco fare campagne contro il fumo, produttori di superalcoolici finanziare campagne contro il consumo di alcool, aziende fabbricanti di mine anti-uomo lanciare campagne contro le guerre, resteremmo molto perplessi. Quantomeno ci sfiorerebbe il dubbio che sotto queste iniziative ci sia qualche imbroglio o strumentalizzazione. Invece ci stupiamo poco, o nulla, quando leggiamo che Lottomatica – uno dei ’campioni’ nostrani del settore e, ormai, prima multinazionale dell’azzardo nel mondo – sta finanziando la campagna "Facciamo girare la voce" per educare i cittadini, soprattutto i minorenni, al «gioco responsabile».
Il dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe, …) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.
Il tema del benessere, del benestare, della felicità pubblica, o del ben vivere sociale è stato, ed è ancora, al centro della tradizione italiana dell’Economia civile. Negli ultimi anni è cresciuto significativamente il dibattito attorno alla necessità di superare il Pil o, secondo alcuni, di affiancargli altri indicatori che dicano altre dimensioni del benessere.
La comunità europea, come ogni comunità, è una forma di bene comune. E come ci insegna la scienza economica, i beni comuni sono per natura soggetti alla possibilità della loro distruzione. Nota è infatti la cosiddetta ‘Tragedia dei beni comuni’ (Garrett Hardin, 1968), che si verifica quando i fruitori di un bene comune cercano di massimizzare gli interessi individuali, dimenticandosi, o lasciando troppo sullo sfondo, il deterioramento del bene comune dovuto al loro consumo. Se – nell’esempio più famoso - gli utilizzatori del pascolo comune guardano solo i costi e benefici soggettivi, hanno l’incentivo a portare al pascolo sempre più mucche, e così l’esito finale del processo sarà la distruzione del pascolo.
Yanis Varufakis prima di diventare ministro dell’economia nell’attuale governo greco, era ben noto alla comunità degli economisti per i suoi lavori in ‘Teoria dei giochi’. Varufakis è uno studioso di scelte razionali in situazioni nelle quali sono coinvolti due o più agenti e ciascuno agisce obbedendo ad una logica strategica, anticipando cioè le mosse e contromosse reciproche. Il ministro greco conosce quindi molto bene il cosiddetto “gioco del pollo” (o del coniglio), che descrive una situazione molto simile ad una nota scena del film Gioventù bruciata.