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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/07/2014
«In parallelo con l’intensificarsi della crisi economica è stata osservata una maggiore diffusione del fenomeno dell’usura, testimoniata da segnalazioni di operazioni sospette raddoppiate nel 2013 rispetto all’anno precedente». Ci sono documenti, come questo appena pubblicato dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, che ogni cittadino responsabile e maturo dovrebbe leggere, meditare, e quindi agire di conseguenza. L’usura è una malattia tipica di ogni società monetaria, poiché è il fenomeno visibile dei rapporti di forza e di potere che si nascondono sotto l’apparente neutralità della moneta. L’esistenza della moneta produce molti benefici, ma genera anche alti costi, che crescono di intensità e rilevanza con l’estendersi dell’area coperta dalla moneta all’interno della società.
[fulltext] =>Quindi l’usura cresce insieme alla commercializzazione delle relazioni sociali, e, come ci dice anche la Banca d’Italia, cresce nei momenti di crisi, quando aumenta la domanda di moneta di chi si trova ai margini o al di fuori dei circuiti ufficiali del credito. Nessun sistema sociale ha prodotto tanta usura quanto il nostro capitalismo finanziario, dove potendo con la moneta comprare quasi tutto, la moneta diventa quasi tutto, e si è disposti a fare quasi tutto pur di averla. L’usura è allora un indicatore eloquente e infallibile di quante "scorie" il nostro capitalismo produce e non riesce a riciclare, ma anche dell’incapacità delle banche e dei circuiti legali e buoni del credito di rispondere alla domanda di moneta che proviene dalle periferie dell’impero (che quindi si orienta "altrove"). Ma è anche un segnale di quanto dolore si nasconde dietro le crisi di tante imprese e le promesse ingannatrici di lusso facile per i poveri.
Sarebbe interessante ed estremamente utile "aprire" questi dati e leggere le storie che si celano al di sotto di essi. Vi troveremmo una umanità molto varia: penultime spiagge di imprenditori in crisi, troppe persone fragili cadute nel giro scellerato del gioco d’azzardo, dei gratta-e-vinci, e nelle tante trappole di quel credito facile offerto da ambigue agenzie che rovinano le famiglie più vulnerabili promettendo consumi insostenibili – è la corruzione legale, non solo quella illegale, la grande malattia del nostro sistema.
Non dobbiamo, infatti, dimenticare che le vittime dell’usura sono i poveri: lo sono sempre stati, ma oggi lo sono di più. Per questa ragione risulta particolarmente utile rileggere un’originale traduzione del noto passaggio del Vangelo di Luca (6,35), scritta da Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di economia civile: «Prestate senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza metterli in disperazione (mutuum date, neminem desperare facientes)" (1766). Genovesi, erede e innovatore della grande visione classica della moneta, ammetteva in genere prestito a interesse, ma poneva una chiara eccezione: «posto che non sieno poveri». In realtà, anche se Genovesi non poteva immaginarlo, il capitalismo è diventato nei secoli un sistema che presta a usura soprattutto, se non soltanto, ai poveri, mettendoli sempre più in disperazione. Ai poveri di denaro, ma ancor prima ai poveri di relazioni, che vengono catturati e poi stritolati dalla piovra degli usurai dopo che sono stati isolati: finché ci sono persone amiche che ci ascoltano, consigliano, proteggono, non finiamo nelle maglie dell’usura. L’usura prima isola, poi fa sentire con le spalle al muro e senza vie di uscita, e infine agisce distruggendo.
Che fare? La cura dell’usura, di questa malattia dell’economia monetaria, non è mai venuta dalle banche private e dalla loro ricerca di rendite. Alcune cure sono arrivate dalle istituzioni che, sotto la spinta dei cittadini, hanno scritto e migliorato le leggi anti-usura; ma, soprattutto, le cure radicali sono arrivate da banche diverse, da istituzioni finanziarie nate con finalità più grandi delle rendite e dei profitti. La tradizione sociale e solidale della banca è fiorita quando nella seconda metà del Quattrocento, in piena crisi sociale dovuta anche al boom dei mercati e dell’usura, i francescani minori (Giacomo della Marca, Giovanni da Capestrano, Marco da Montegallo …) inventarono i Monti di Pietà, una delle più grandi innovazioni finanziarie ed economiche dell’Europa. E lo fecero come espressione di charitas, di amore civile per la loro gente che chiedeva pane e buon credito. Di fronte a una grave crisi, quei cristiani e amici dell’uomo non scrissero solo trattati né fecero conferenze: furono capaci di generare opere, istituzioni, banche. Se oggi vogliamo ridurre l’usura dobbiamo continuare a agire sulle istituzioni e chiedere, come cittadini, leggi migliori e dalla parte dei più fragili. Ma, soprattutto, le associazioni e i movimenti della società civile dovrebbero far nascere nuove istituzioni finanziarie, fondi di micro-finanza, nuove banche.
Il nostro sistema economico e finanziario non è nelle condizioni per auto-rigenerarsi, lo vediamo tutti i giorni. Lo stesso rapporto Banca Italia ci dice che le segnalazioni per riciclaggio di denaro sono aumentate di sei volte dal 2007 a oggi. Troppe imprese fondate da ex-artigiani praticanti di virtù civili sono passate in mano a speculatori, e tante banche tradizionali ormai rispondono a manager messi lì da una proprietà che mira alla massimizzazioni di rendite, guidati da algoritmi troppo lontani dalla gente. C’è un grande e crescente bisogno di opere di bene comune. Segnali positivi ci sono, ma non riusciamo ancora a interpretarli, e non siamo capaci di fare di queste voci un coro.
Senza nuove opere di bene comune continueremo a commentare i rapporti sull’usura e sulla corruzione, a deprimerci, ad aspettare passivi e co-responsabili il prossimo triste rapporto, o a illuderci per 'riprese' promesse dai nuovi indovini. E i poveri continueranno a essere messi in disperazione.
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Vecchi mali accresciuti dalla crisi
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pubblicato su Avvenire il 10/07/2014
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 25/06/2014
Quando un Paese e una cultura sono in crisi – e qui in Italia lo siamo – emette contemporaneamente molti segnali, tutti concordi. Magari perde malamente anche la possibilità di continuare a giocare un mondiale di calcio e ne incolpa soprattutto l’arbitro. Ma, soprattutto, perde entusiasmo e speranza, perde voglia di futuro, non crea e distrugge posti di lavoro "buoni" e ne aumenta di "cattivi", perde fiducia nelle istituzioni, aumenta la corruzione a tutti i livelli, non genera bambini, ha paura della vecchiaia e della morte... Un segnale che ha accompagnato sempre quelle crisi che si presentano principalmente come crisi etiche, è l’aumento dei maghi e del gioco malato, cioè dell’azzardo. Il ciclo economico-civile di un popolo è accompagnato – con segno inverso – dal ciclo dei culti alla dea fortuna.
[fulltext] =>La nostra epoca non fa eccezione, ed è proprio il segnale del boom dell’azzardo che ci dice con una particolare forza che la "crisi" che stiamo vivendo è prima di tutto una crisi etica. Perché dietro ogni ricorso alla dea fortuna c’è un rinnegamento della virtù, e della felicitas publica, che la cultura greco-romana e l’umanesimo cristiano hanno sempre legato alle virtù e alla loro coltivazione costosa. Virtù batte fortuna: con questa grande idea e prassi siamo usciti dalle ere delle superstizioni ed entrati in quella nella civiltà.
L’Italia in crisi è la terza economia al mondo come giro d’affari legati all’azzardo. È un dato terribile, che non dovrebbe farci dormire se pensiamo ai tanti effetti, tutti negativi, di questa classifica. Mentre le multinazionali dell’azzardo e delle scommesse sportive – sono le stesse, autentici mercanti di poveri e di fragilità – non si danno e non ci danno tregua per aumentare i loro enormi profitti, c’è tutta una società civile che lavora, lotta, parla, scrive, agisce, educa, previene, dando vita a una vera e propria resistenza civile. Accanto a questa Italia civile e virtuosa che lavora, non si rassegna e – a ragione – s’indigna, ce n’è però un’altra, molto più potente e con molti maggiori mezzi, che distrugge di notte quanto quella prima Italia costruisce di giorno.
I signori dell’azzardo sono tra questi. E accanto alle forze che alimentano la cultura del "gioco malato" – è triste riconoscerlo, e spiace doverlo sottolineare ancora una volta – c’è purtroppo anche la Rai, che in particolar modo durante questi mondiali ha venduto ingenti spazi pubblicitari a società di scommesse e di giochi d’azzardo. E così mentre milioni di giovani, e moltissimi minori, guardano appassionati lo sport dei loro sogni (e della loro delusione di tifosi), il servizio pubblico radiotelevisivo che vive anche grazie al nostro canone, commette molti errori allo stesso tempo, e tutti gravi. Innanzitutto, associa lo sport alle scommesse e all’azzardo, che sono invece la sua malattia. Lo sport è faccenda di disciplina, di rigore, di impegno, di virtù insomma (non dimentichiamo che la parola greca aretè, che noi traduciamo "virtù", significava eccellenza), dove i risultati arrivano con la fatica e con il merito: l’azzardo è l’esatto opposto di questo. Poi, rinnega la sua funzione di servizio pubblico, quando incita al consumo di un "male" economico, che produce immensi costi sociali e umani che aumentano il nostro debito pubblico. Mette, quindi, sullo stesso piano i prodotti delle aziende che fanno bella l’Italia e il mondo con la loro qualità e le imprese dell’azzardo che fanno profitti sulla pelle delle persone fragili. E infine – ma potremo continuare – non sta dalla parte delle famiglie che soffrono sempre più per la diffusione crescente di questa malattia perniciosa e subdola.
La nostra età sarà ricordata anche per l’invenzione dei gratta-e-vinci e delle slot machine, ma, soprattutto, per aver affidato la gestione del cinico affare di cui essi sono parte a delle multinazionali "for-profit". Una scelta scellerata, analoga a quella di chi decidesse di affidare la gestione delle comunità di recupero dei tossicodipendenti a produttori e monopolisti della droga, o di far curare i dipendenti dall’alcol a strutture guidate da aziende di superalcolici. Fino a pochi decenni fa i "monti dei pegni" erano gestiti da religiosi (in particolar modo dai francescani), che non facevano profitti con chi, disperato, vendeva l’oro di famiglia. Un Parlamento e un Governo veramente dalla parte della famiglie, oggi, dovrebbero imporre che le società che gestiscono l’azzardo siano senza scopo di lucro, gestite da chi accompagna con pietas queste persone in difficoltà, e non ne incentivano invece i "consumi", facendo soldi (e tantissimi) sulla loro rovina umana ed economica.
Ma non si tratta solo di azzardo patologico: ogni euro inserito in una macchinetta o speso in un gratta-e-vinci o scommesso online alimenta una economia sbagliata, e – non dimentichiamolo – viene sottratto alla buona economia, che ne avrebbe tanto bisogno.
Venerdì prossimo molti di coloro che partecipano al movimento SlotMob andranno a Viale Mazzini e busseranno alle porte della Rai per consegnare in modo festoso e serio una lettera ai dirigenti del servizio pubblico radiotelevisivo. Chiederanno, proprio come torniamo a fare ora da queste colonne, da cittadini, una svolta nella politica commerciale della Rai, perché quella che permette certe scelte non è degna dell’Italia, e non è degna della principale "azienda culturale" del Paese, nostro prezioso bene comune. La Rai che abbiamo conosciuto, che a tratti ritroviamo e che sempre amiamo, quella di cui c’è bisogno, non è la Rai che affitta se stessa ai signori dell’azzardo.
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Commenti - La Rai si liberi e ci liberi dall’azzardo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 25/06/2014
Quando un Paese e una cultura sono in crisi – e qui in Italia lo siamo – emette contemporaneamente molti segnali, tutti concordi. Magari perde malamente anche la possibilità di continuare a giocare un mondiale di calcio e ne incolpa soprattutto l’arbitro. Ma, soprattutto, perde entusiasmo e speranza, perde voglia di futuro, non crea e distrugge posti di lavoro "buoni" e ne aumenta di "cattivi", perde fiducia nelle istituzioni, aumenta la corruzione a tutti i livelli, non genera bambini, ha paura della vecchiaia e della morte... Un segnale che ha accompagnato sempre quelle crisi che si presentano principalmente come crisi etiche, è l’aumento dei maghi e del gioco malato, cioè dell’azzardo. Il ciclo economico-civile di un popolo è accompagnato – con segno inverso – dal ciclo dei culti alla dea fortuna.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/06/2014
La scuola è uno specchio concavo della società: ci restituisce ingrandite, qualche volta ribaltate, le sue potenzialità e virtù insieme alle inefficienze e ai vizi. Ma prima di tutto la scuola – in ogni ordine e grado – è uno dei grandi “beni comuni” della nostra società. È lì dove si legano tra di loro le generazioni e si mischiano i saperi, dove apprendiamo a gestire le nostre frustrazioni e a fare amicizia con i limiti nostri e degli altri, dove impariamo che cooperazione e competizione possono e devono convivere. È il luogo dove scopriamo che le regole esistono prima di noi e non sono un nostro “prodotto”. È dove diventiamo grandi. Dove impariamo le poesie.
[fulltext] =>Nelle società tradizionali la scuola era soltanto uno dei beni comuni delle comunità: le chiese, la famiglia allargata, i partiti politici, gli oratori, le grandi narrative del mondo, erano altri grandi luoghi-beni comuni in sinergia con essa. Era quindi necessario che la scuola non fosse troppo invadente, e restasse nel suo ambito e nei suoi luoghi. In questa nostra fase di fragilità dei legami civili e delle comunità primarie (a cominciare dalla famiglia), dobbiamo ri-guardare la scuola come a un grande ed indispensabile bene comune, che può svolgere un ruolo unico nella rigenerazione dei legami, di ritessitura della corda che ci unisce, della fiducia-fides civile. Senza un nuovo grande piano per la scuola è impensabile riuscire a sconfiggere il virus della grave corruzione delle nostre classi dirigenti e dell’immoralità della nostra sfera pubblica – è scandaloso, per esempio, dover assistere in questi giorni alla svendita dei mondiali di calcio alle società di scommesse, che ci bombardano prima, durante e dopo le partite viste da milioni di ragazzi: sarebbe questo il servizio pubblico?
È all’interno di un discorso più ampio che va perciò letto anche il complesso tema delle “vacanze scolastiche” di docenti, amministrazione e alunni. I tre mesi e mezzo di vacanze scolastiche per il 90% degli studenti è soprattutto un retaggio di una società dove la maggior parte delle mamme erano casalinghe (e alcune insegnanti), e le altre comunità primarie erano un po’ ovunque forti e vive. Nei mesi estivi tutti i nostri ragazzi e giovani avevano altri luoghi dove crescere, e crescere bene. La pluralità e la biodiversità dei luoghi educativi resta ancora oggi un principio fondamentale della buona vita in comune, e va salvaguardato e protetto con decisione. Ma dobbiamo prendere atto che la società italiana è cambiata, e la maggior parte delle mamme di oggi lavora fuori casa (anche se ancora troppo poche, e anche se durante questa crisi le mamme-lavoratrici sono diminuite). Così in estate la vita diventa ancora più complicata e più stressante, soprattutto per le donne con bambini in età scolare: non dimentichiamo che esiste una seria “questione femminile” celata dietro questo grande tema. Come non va sottovalutato poi che i Grest degli oratori non sono sufficienti e non raggiungono tutti, mentre dobbiamo notare che sta aumentando esponenzialmente un’offerta di campi estivi “for profit”, che costano anche 200 euro alla settimana. Una tendenza che ha effetti etici non trascurabili, perché le famiglie più povere diventano anche quelle più stanche, precipitando in autentiche “trappole di povertà”.
La scuola per tutti è stata e resta una grande politica redistributiva di reddito e, soprattutto, di opportunità. In Italia sta aumentando la diseguaglianza economica e sociale anche perché negli ultimi trent’anni abbiamo disinvestito nella scuola. Siamo usciti dal feudalesimo andando tutti a scuola, dove poveri e ricchi erano seduti negli stessi banchi – e ci ritorniamo tutte le volte quando, come oggi, aumenta la dispersione scolastica e i bambini non imparano più le poesie, che è il primo esercizio di ogni cittadinanza.
Si comprende allora che estendere l’apertura delle scuole almeno fino ai primi di luglio, e far riiniziare le lezioni il primo settembre – come accade in quasi tutti i Paesi europei, anche in quelli “caldi” – sarebbe un’operazione molto utile e per certi versi ormai necessaria. Ed è stato altrettanto utile che una riflessione di Giorgio Paolucci su queste colonne, e le successive pagine di approfondimento, abbiano suscitato un vivace dibattito. Ma – e qui sta il punto – non possiamo poggiare questo grande cambiamento sul solo mondo della scuola: occorre una nuova alleanza o patto sociale a tutti i livelli. La società civile deve essere più presente nelle scuole, e occorrono più sinergie tra pubblico, civile, associazioni, parrocchie, movimenti. È ancora troppo poco sviluppato il volontariato scolastico (in particolare nella scuola statale), che sarebbe invece una risorsa essenziale soprattutto nei periodi estivi. Evidentemente occorrerebbero nuove infrastrutture (in certe regioni a fine maggio si boccheggia in classe, ma si boccheggia anche nelle case dei più poveri), programmi adeguati alla stagione, non tenere bambini e ragazzi sui banchi con 35° di temperatura, e immaginare laboratori all’aperto ed esperienze lavorative per le scuole superiori (troppo distanti dal lavoro vero).
Un primo e necessarissimo “piano keynesiano” per uscire dalla crisi del lavoro, deve oggi concretizzarsi presto in un grande piano per la scuola, perché quando una società non investe nella scuola è costretta qualche anno dopo a investire nei Sert e nelle prigioni. Stiamo lasciando in eredità ai nostri ragazzi un pianeta depauperato di risorse naturali, inquinato ed un Paese più indebitato: tornare ad investire seriamente nella scuola sarebbe un atto di reciprocità e di giustizia verso di loro.
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Commenti - All’insegna dell’ "apertura"
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 18/06/2014
La scuola è uno specchio concavo della società: ci restituisce ingrandite, qualche volta ribaltate, le sue potenzialità e virtù insieme alle inefficienze e ai vizi. Ma prima di tutto la scuola – in ogni ordine e grado – è uno dei grandi “beni comuni” della nostra società. È lì dove si legano tra di loro le generazioni e si mischiano i saperi, dove apprendiamo a gestire le nostre frustrazioni e a fare amicizia con i limiti nostri e degli altri, dove impariamo che cooperazione e competizione possono e devono convivere. È il luogo dove scopriamo che le regole esistono prima di noi e non sono un nostro “prodotto”. È dove diventiamo grandi. Dove impariamo le poesie.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/05/2014
Abbiamo sempre saputo che il Prodotto interno lordo non misura molto e che molte delle cose che misura le misura male – e anche su queste pagine lo ripetiamo spesso e volentieri. Ma nessuno ha mai pensato di eliminare il Pil per dar vita al suo posto ad altri indicatori di benessere, perché sebbene la democrazia abbia un crescente bisogno di più indicatori economico-sociali, resta importante avere anche un indicatore della produzione dei beni e dei servizi di un Paese. Il Pil è pieno di dati che dicono poco sul nostro benessere o dicono esattamente il contrario (per esempio, il gioco d’azzardo).
[fulltext] =>Ma finora tutta questa gran quantità di dati dal segno etico discordante, si muoveva (o volevamo che si muovesse) all’interno dei confini segnati dalla legalità. Stando a quanto annunciato la scorsa settimana, se si proseguirà veramente nella direzione indicata da Eurostat, oltre alla solita ambivalenza di quei dati avremo un cambiamento di natura: il Pil non manterrà più alcun legame con la vita civile e con la sfera morale.
Se davvero verranno incorporate nel Pil attività criminali (dal traffico di droga allo sfruttamento della prostituzione, passando per il contrabbando), non avremo più nessuna indicazione sostanziale dalle variazioni di quell’indicatore, e diventerà esercizio inutile rallegrarsi per averlo riportato in zona positiva. Ecco perché i primi a doversi rattristare per questa svolta epocale, siamo noi economisti, una categoria che invece brilla troppo spesso per cinismo, e considera queste tematiche solo argomenti per moralisti nostalgici, un po’ ingenui e magari non troppo intelligenti. Dovremmo invece intristirci e protestare molto, perché un Pil che diventa come lo stiamo facendo diventare perde ogni contatto con la grande tradizione della Scienza economica. E non solo con l’Economia civile di Antonio Genovesi, questo è ovvio, ma anche con quella di Adam Smith, una tradizione che ha sempre considerato la produzione di beni e servizi come qualcosa di eticamente buono nel suo insieme. Chi oggi non protesta forte contro questa innovazione incivile, sta di fatto ratificando e approvando l’uscita dell’economia dalle cose buone della vita in comune. È allora molto triste constatare quanto con questa "svolta" sia caduta in basso la cultura civile ed economica dei nostri tecnici e funzionari.
La statistica, nobile arte del ben vivere sociale, in Italia ha sempre avuto una ricchissima tradizione umanista, perché era considerata parte integrante dell’incivilimento, per usare l’espressione di uno dei fondatori della statistica moderna, il milanese Melchiorre Gioja. Per questo è da auspicarsi vivamente che l’Istat si faccia promotore di una protesta e di una azione a livello europeo, partendo dalla sua radice e storia. La statistica è specchio della cultura di un Paese perché misuriamo qualcosa che già prima sappiamo e che vogliamo "vedere", sulla base di una civiltà e di una idea di bene comune. Chi vuole oggi introdurre questa modifica nel Pil sta dicendo che ormai non c’è più differenza di natura fra un imprenditore che produce e paga le tasse e l’imprenditore mafioso, fra chi assume e chi fa lavorare in nero, fra chi rispetta la legge e chi la nega. Questa notizia allora rinnega secoli di tradizione e di statistica umanista e offende chi lavora e vive nella legalità. E così continuiamo a umiliare l’onestà e la virtù e a servire i vizi e i disonesti, dando loro anche dignità civile ed economica. Fin quando e fin dove vogliamo continuare in questa direzione?
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/05/2014
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stdClass Object ( [id] => 8791 [title] => Lavoro cioè cura [alias] => lavoro-cioe-cura [introtext] =>Commenti - Oltre diseguaglianza e povertà
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 01/05/2014
Se vogliamo continuare a scrivere lavoro come prima parola del nostro Patto sociale, oggi dobbiamo affiancargli altre parole prime. Tra queste c’è la cura, che va declinata assieme al lavoro. Per ricreare lavoro la prima operazione da fare è riconoscere che l’esperienza lavorativa di una persona deve oltrepassare il lavoro remunerato (job) per includere attività di cura prestate in famiglia e nelle comunità. Nel Novecento abbiamo confinato il lavoro al posto di lavoro, alla fabbrica e all’ufficio, lasciando fuori dal lavoro tutto quel lavoro che non veniva valorizzato né conteggiato solo perché avveniva fuori del “mercato del lavoro”.
[fulltext] =>Oggi, invece, il lavoro rinascerà violando i confini che gli abbiamo assegnato finora, e incontrandosi – o re-incontrandosi – con il grande e decisivo mondo della cura e dei legami sociali primari non mercantili.
La nostra società di mercato sta creando una crescente diseguaglianza soprattutto in termini di libertà e di opportunità. Chi oggi possiede sufficiente denaro ha il potere di comprare, sul mercato, tempo libero e persone per la propria cura. Chi non ne possiede abbastanza, soprattutto se è donna e mamma, è sempre più schiacciata in “trappole di povertà” nelle quali precipitano anche matrimoni, famigliari, bambini. È questa una forma grave di neo-feudalismo, molto sottovalutata.
Il lavoro è stato il grande strumento e il principale luogo per far diventare libertà e uguaglianza principi sostanziali e non solo formali delle nostre democrazie. Ma quell’umanesimo del lavoro è nato e cresciuto in una società costruita su una forte divisione sociale del lavoro: gli uomini lavoravano fuori casa e le donne garantivano la cura di bambini, malati e anziani. Negli ultimi decenni stiamo rivedendo la parte del patto sociale relativa al lavoro, per garantire pari opportunità di lavoro e fioritura civile anche alle donne. Un cambiamento epocale che però non sta avvenendo sull’asse della cura e dell’accudimento, e quindi del welfare. Con la grave conseguenza che le donne, in particolare le donne sposate con bambini e ragazzi (e magari con anziani) si trovano oggi in una condizione di discriminazione sostanziale, che determina un forte svantaggio sociale e professionale negli anni cruciali della vita della persona (25-40), e che mette in grande difficoltà non soltanto loro ma anche i loro bambini, tutta la famiglia, le relazioni, e quindi le comunità. Infatti, queste donne non solo lavorano di più a casa, ma dormono meno (in media circa 10 ore in meno alla settimana), hanno meno tempo da dedicare alla vita politica ed economica, e soffrono di più (degli uomini) quando per poter e dover lavorare sentono di non dare abbastanza tempo e cura ai figli e ai loro genitori anziani. E le conseguenze non finiscono qui: un recente studio nord-americano, ad esempio, ha messo in luce che oggi, in questa situazione, per la prima volta le malattie psichiche dei bambini hanno superato le altre malattie.
C’è proprio bisogno di ripensare il lavoro di tutti in rapporto alla cura che ogni cittadino adulto dovrebbe offrire. Per migliorare la qualità delle relazioni familiari e sociali, e ridurre le asimmetrie tra uomini e donne, dovremmo quindi ridurre le ore di lavoro e poter così ridistribuire tra tutti le attività di cura e di accudimento di se stessi, dei propri famigliari ma anche dei bambini e degli anziani dei nostri vicini di casa, della comunità, dei beni comuni. E “cura part-time per tutti” vuol dire veramente per tutti: medici e magistrati, operai e politici; giovani, adulti, anziani... Dobbiamo iniziare a pensare che occuparsi di se stessi e degli altri sia parte del dovere di cittadinanza di ogni persona, ed espressione concreta del principio di fraternità e di solidarietà. E che crescere bambini e assistere anziani è lavoro, e un grande contributo al bene comune che va pubblicamente riconosciuto.
La filosofa canadese Jennifer Nedelsky propone, ad esempio, che questo part-time della cura consista in almeno 12 ore settimanali per ogni persona adulta, di cui almeno due ore al di fuori della famiglia. Ore di lavoro che sarebbero sottratte a quelle lavorative fuori casa, ma considerate all’interno del “pacchetto di ore di lavoro” di ogni cittadino (quelle offerte sul mercato-impresa e quelle spese nella cura delle famiglie-comunità).
Utopie, dicono in tanti. Progetti politici e democrazia sostanziale, diciamo in pochi. Ciò che è certo è che il lavoro va ripensato insieme alla cura, che non può più essere "appaltata” alle famiglie o allo Stato o, magari, ad aziende for-profit. Il prendersi cura può e deve diventare anche compito ordinario di ogni uomo e di ogni donna. La domanda di cura nel mondo è in grande crescita, ma la sua offerta è in continuo progressivo calo. E così il suo “prezzo” sta diventando troppo alto. Ripensare il lavoro in rapporto alla cura significa, allora, essere coscienti che le nostre società post-moderne e frammentate hanno bisogno di nuovi legami sociali, di nuovi incontri e intrecci nelle relazioni ordinarie. Altrimenti il lavoro non si crea più, o non se crea abbastanza per tutti. Buon primo maggio.
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Oltre diseguaglianza e povertà
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 01/05/2014
Se vogliamo continuare a scrivere lavoro come prima parola del nostro Patto sociale, oggi dobbiamo affiancargli altre parole prime. Tra queste c’è la cura, che va declinata assieme al lavoro. Per ricreare lavoro la prima operazione da fare è riconoscere che l’esperienza lavorativa di una persona deve oltrepassare il lavoro remunerato (job) per includere attività di cura prestate in famiglia e nelle comunità. Nel Novecento abbiamo confinato il lavoro al posto di lavoro, alla fabbrica e all’ufficio, lasciando fuori dal lavoro tutto quel lavoro che non veniva valorizzato né conteggiato solo perché avveniva fuori del “mercato del lavoro”.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/03/2014
Quando nel 2012 l’Assemblea dell’Onu istituì la «Giornata internazionale della felicità» non era cosciente, con ogni probabilità, che la patria della felicità vista come obiettivo dei governi e dei popoli fosse l’Italia. L’idea di felicità come scopo della vita è antica quanto l’umanità (o almeno quanto la filosofia greca); ma la sfida che la felicità possa essere «l’oggetto dei buoni prìncipi», come recita il sottotitolo libro di Ludovico Antonio Muratori, "Della pubblica felicità" (1749), è faccenda latina, italiana. Lo stesso «diritto alla ricerca della felicità» (1776), che l’Onu pone al centro della Giornata, fu una gemmazione americana di un movimento europeo, molto latino, moltissimo napoletano.
[fulltext] =>Thomas Paine, uno dei padri della rivoluzione americana, riconosce a Giacinto Dragonetti, aquilano discepolo di Antonio Genovesi e autore dell’importante e dimenticato trattato "De le virtù e de i premi" (1766), la paternità dell’idea fondamentale sul rapporto tra felicità e libertà. Nel suo influente libro "Common sense" (1776), Paine riporta infatti il seguente brano tratto da Dragonetti: «La scienza dei politici consiste in trovare il vero punto, fin cui gli uomini possano essere felici, e liberi».
Quindi questa giornata dovrebbe essere un’occasione anche per riflettere sulla tradizione civile ed economica italiana, sulla nostra vocazione come Paese. L’Italia inizia la riflessione moderna sull’economia e sul progresso, mettendo al centro della nuova società moderna proprio la felicità, affiancandole però immediatamente l’aggettivo «pubblica», un aggettivo qualificativo importante, che ricollegava l’Italia moderna con la tradizione medioevale del bene comune. La felicità pubblica può anche essere letta come una declinazione moderna del Bene comune, attorno al quale si era costruita l’intera civiltà medioevale, Umanesimo incluso.
Quali sono allora gli spunti che ci provengono oggi da questa antica e moderna tradizione? Innanzitutto la via latina alla felicità (pubblica) ci dice che i simboli della felicità non sono né lo "smile" né l’aquilone, ma quelli molto più profondi e civilmente rilevanti che usavano già i romani nel retro delle monete dove incidevano l’espressione felicitas publica: le donne, la campagna fertile, gli strumenti del lavoro e, soprattutto, i bambini. Dobbiamo oggi proteggere la felicità, questa grande parola, dall’happiness, troppo spesso associata al piacere, al divertimento, se non al frivolo. Tanto che oggi alcuni filosofi di lingua inglese non usano più la parola happiness ma human flourishing (fioritura umana) per esprimere quanto voleva dire l’antica parola latina felicitas o quella greca eudaimonia.
Questa felicità, allora, si pone al cuore del patto politico, riguarda la fioritura delle persone e dei popoli e il loro ben-vivere. Ha poco a che fare con i centri benessere e con i massaggi, e molto con i parlamenti, con le scuole, con le famiglie, con le virtù civili. Non dimentichiamo che felicità ha la stessa radice di fertile, femmina e feto.
Un altro messaggio riguarda il lavoro. La felicità senza lavoro è spesso solo illusione, se non oppio dei popoli, o inganno quando viene promessa da facili vincite nell’azzardo o da speculazioni finanziarie. La patria della nuova ricerca della pubblica felicità fu in origine soprattutto il Regno di Napoli, periferia, provincia, del grande e multinazionale Regno dei Borboni: la nuova pubblica felicità non può che passare dal Sud, e dalle tante periferie del nuovo Regno-Impero, reimparando a creare lavoro. Ci salviamo solo lavorando.
Infine, in una fase dell’Occidente in cui il narcisismo sta diventando una vera e propria pandemia, la tradizione della pubblica felicità ci ricorda che esiste un nesso imprescindibile fra vita buona e rapporti sociali: non si può essere veramente felici da soli perché la felicità nella sua essenza più profonda è un bene relazionale. Si coglie allora che la felicità deve essere invocata soprattutto come strumento di critica allo status quo e alla vena edonistica che fin dall’antichità ha sempre attraversato la nostra civiltà, e che è diventata dominante in tutti i tempi del declino e della decadenza. Deve allora spingerci a prendere coscienza che non basterà riportare il Pil in zona positiva per poter dire veramente che «la nottata è passata».
Solo quando ricominceremo a creare buon lavoro, soprattutto per i giovani, la nottata volgerà verso l’alba. Tutti gli altri indicatori vanno presi con forte senso critico, perché spesso nascondono manipolazioni. Compresi gli indicatori di felicità individuale (e ne stanno sorgendo qua e là) che non siano accompagnati da indicatori di felicità pubblica, che si misura con la qualità delle relazioni nelle nostre città, con lo stato di salute dei nostri territori e della custodia dei beni comuni, con la qualità delle scuole, e ancora, e soprattutto, con la quantità e qualità del lavoro (non tutto il lavoro è buono).
Infine, ma non per ultimi, i bambini. La felicità pubblica ha bisogno di bambini. Perché il primo segnale di un popolo depresso e intristito è rinunciare a mettere al mondo figli e figlie, per paura del non-lavoro, del futuro. Ma più forte della morte è l’amore. Buona festa della pubblica felicità a tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 30/01/2014
Non esiste una definizione migliore di “esortazione apostolica” per la Evangelii gaudium di papa Francesco. Esortazione viene dal verbo latino ex-hortari, che ha il duplice significato di “indurre, incitare a fare qualcosa” ma anche quello di “consolare, rialzare” (la radice è la stessa di confortare). La Evangelii gaudium è infatti un documento che incita con forza a cambiare direzione, e lo fa con la stessa forza con cui gli apostoli si rivolgevano alle loro Chiese (pensiamo a Paolo), che usavano toni forti e duri quando necessario; ma, a imitazione dell’atteggiamento apostolico, questa esortazione mentre incita e spinge a raddrizzarci, ci conforta e ci aiuta nell’atto del rialzarci.
[fulltext] =>Papa Francesco ci ha donato un testo a un tempo forte e consolatorio, ci incita con forza a cambiare, ma tra le parole forti si sente l’odore buono del pastore che prima di ogni cosa ha a cuore il bene del gregge, soprattutto quando – come ora – teme che si stia pericolosamente avvicinando a un burrone, molto pericoloso perché preceduto da verdi pascoli che celano, dietro le foglie, scoscesi e mortali dirupi. Ne discende allora che il primo grave errore da non commettere nel leggere questa esortazione è ridurne la portata offrendone letture fintamente ireniche che accontentano tutti, spuntando le tesi più forti, normalizzandole, riducendone la portata profetica di incitamento a cambiare strada.
Dire, per prendere un esempio illustre e influente, che la Evangelii gaudium va letta «attraverso lo sguardo di quel professore- vescovo-papa nato e cresciuto in Argentina» (Michael Novak, “Corriere della sera”, 12 dicembre 2013), significa voler depotenziare la portata culturale universale e generale della esortazione, e classificarla, di fatto, irrilevante. Sono invece convinto che il solo modo per onorare l’esortazione, e accoglierla come dono di bene comune, è non smorzare proprio la critica severa (e confortante per chi la capisce) alla stagione attuale del sistema capitalistico. Quale capitalismo critica il Papa? I capitalismi sono stati diversi in passato, lo sappiamo; ma sappiamo anche che l’attuale fase di sviluppo dell’economia mondiale, il capitalismo di matrice individualistica che ha posto la finanza come suo nocchiere, sta diventando l’unico capitalismo: facendo così dimenticare tutta la biodiversità culturale ed economica del XX secolo, quando i capitalismi erano invece molti e riconducibili a diverse antropologie e visioni del mondo.
Quindi la critica che papa Bergoglio rivolge alla versione attuale del capitalismo individualistico e finanziario è una critica di portata generale, che tocca un’idea chiave dell’ideologia che è alla base del nostro modello di sviluppo, che si articola in due punti: la natura escludente del nostro sistema economico (n. 53), e l’idea che chiama “ricaduta favorevole” (n. 54). L’economia di mercato ha conquistato il suo statuto etico, e quindi moralmente accettata nel Medioevo da francescani e (con qualche maggiore riserva) dai domenicani e dalla comunità cristiana (sebbene con variazioni e accenti diversi passando dal mondo cattolico a quello protestante), proprio per la sua capacità di includere gli esclusi, e non solo per la creazione di ricchezza. Se, infatti, con- frontiamo l’origine dell’economia di mercato con il feudalesimo, cioè la sola alternativa storicamente disponibile, è innegabile che lo sviluppo storico dell’economia di mercato ha portato con sé l’inclusione produttiva di milioni di servi della gleba prima, di contadini poi, e delle donne da qualche decennio, che – rimasti per millenni ai margini della vita civile – sono diventati cittadini e persone libere lavorando e consumando.
Lo sviluppo della libertà di mercato è stata l’altra faccia, inseparabile, dello sviluppo della democrazia, dei diritti, e di tutte le libertà. Questa è la storia. E oggi? Non dimentichiamo che il Papa scrive nel 2013, in un periodo storico in cui quella economia di mercato (se vogliamo possiamo chiamarla pure capitalismo, anche se non è necessario: basta economia di mercato) sta conoscendo una malattia grave, che ha due grandi sintomi: la deriva solitaria, infelice e consumistica degli individui («Il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice e opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata», n. 2); e la finanziarizzazione dell’economia.
Non possiamo dimenticare che quando la finanza speculativa prende in mano la proprietà e il controllo di banche, imprese e quindi del lavoro e delle famiglie, si hanno almeno due gravi patologie civili: la rendita domina sui profitti degli imprenditori e sui lavoratori, e le relazioni tra gli agenti assomigliano sempre più ai cosiddetti “giochi a somma zero”. Un numero sempre maggiore di transazioni finanziarie (non tutte) si configura infatti come scommessa, dove le vincite di una parte corrispondono esattamente alle perdite dell’altra (come in ogni scommessa). Quando l’economia prende questa piega “slot” – una piega oggi molto visibile, e speriamo non irreversibile – il mercato tradisce la sua natura inclusiva e non è più fondato sulla regola aurea del “mutuo vantaggio” (quello di Smith o di Genovesi). E quindi va criticato. La “ricaduta favorevole”, al di là delle esegesi e delle traduzioni linguistiche, è un pilastro dell’ideologia capitalista, secondo la quale quando sale la marea tutte le barche si sollevano, anche le più piccole: la ricchezza dei ricchi fa bene anche ai poveri, che ne raccolgono briciole che involontariamente cadono dal tavolo dei potenti.
È questa una versione del capitalismo che potremmo chiamare del “ricco Epulone”, che mentre mangia lautamente lascia cadere, senza volerlo, le briciole ai cagnolini sotto il tavolo. A papa Francesco non basta che la giustizia e la cura delle povertà e delle esclusioni siano lasciate agli effetti “non intenzionali” di comportamenti intenzionalmente tesi ai soli interessi individuali, alle briciole: vuole rimettere in discussione l’intero banchetto, chi mangia e come, chi resta fuori dalla tavola e dai tavoli, le relazioni sociali che sono nascoste dietro alle persone. La sua è una legittima, e necessaria, critica a un’idea di solidarietà di mercato e di bene comune affidata principalmente agli effetti indiretti.Le virtù sociali (è la giustizia è sempre la regina delle virtù sociali) nascono dalle virtù individuali, che sono faccende molto intenzionali, le virtù di chi vede oggi i novelli Lazzari e non li lasciano sotto i tavoli, dove non hanno più neanche la compagnia dei cani (che oggi vengono finalmente trattati con crescente rispetto e dignità). La Evangelii gaudium allora è un documento che va letto all’interno della grande tradizione classica del bene comune, umanista e cristiana – da Aristotele, Tommaso e i francescani fino a Genovesi o a Toniolo – che non ha mai pensato al bene comune come a una faccenda di effetti positivi inintenzionali di azioni cercanti il proprio interesse, ma l’ha associata alle virtù private e pubbliche. Questa tradizione considera il bene comune il frutto di azioni pubbliche e civili correttive, tese a mitigare le passioni attraverso soprattutto le giuste istituzioni, e non lo vede come effetto indiretto di azioni “naturali” e spontanee degli individui – direbbero Amintore Fanfani o Federico Caffé. Non tutte le forme della ricerca dell’interesse personali sono buone, giuste, eque.
L’idea di mercato che nasce da questa tradizione, della quale Francesco è interprete e continuatore creativo, è allora quella di una grande intrapresa di cooperazione intenzionale, esercizio di virtù sociali, faccenda comunitaria e personale: «Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato» (n. 204). Prendiamolo sul serio, e diamo vita a una nuova stagione di pensiero economico all’altezza dell’esortazione di Francesco.Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire
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A Papa Francesco non basta che la cura della povertà sia lasciata agli effetti "non intenzionali" delle azioni individuali, alle briciole: rimette in discussione l'intero banchetto
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire del 30/01/2014
Non esiste una definizione migliore di “esortazione apostolica” per la Evangelii gaudium di papa Francesco. Esortazione viene dal verbo latino ex-hortari, che ha il duplice significato di “indurre, incitare a fare qualcosa” ma anche quello di “consolare, rialzare” (la radice è la stessa di confortare). La Evangelii gaudium è infatti un documento che incita con forza a cambiare direzione, e lo fa con la stessa forza con cui gli apostoli si rivolgevano alle loro Chiese (pensiamo a Paolo), che usavano toni forti e duri quando necessario; ma, a imitazione dell’atteggiamento apostolico, questa esortazione mentre incita e spinge a raddrizzarci, ci conforta e ci aiuta nell’atto del rialzarci.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/01/2014
C’è aria di ottimismo a Davos 2014. Si guarda alla grande crisi post-2008 come faccenda ormai superata, da archiviare nei libri di storia e nei cassetti dei ricordi tristi delle famiglie e dei popoli. Peccato che questo ottimismo non abbia basi solide su cui fondarsi. Quindi la domanda cruciale diventa: per quali ragioni Davos vuole offrire all’opinione pubblica un quadro dell’economia diverso da quello ben presente alla grande maggioranza della gente?
[fulltext] =>La risposta è inscritta nella lista dei protagonisti del “World Economic Forum”, composta dai leader della finanza mondiale e delle grandi lobbies transnazionali, con i rappresentanti politici e delle istituzioni economiche che svolgono, sostanzialmente, il ruolo di spettatori, a volte di clienti. Élites la cui rappresentatività è ridottissima. L’economia capitalistica non è una faccenda democratica: non votano le teste, ma i capitali. In simposi come questo si tocca con mano la verità di quanto ricordava qualche decennio fa Federico Caffè, e cioè che i mercati non sono anonimi ma hanno "nome, cognome e soprannome".
Per comprendere certo ottimismo occorre, insomma, tener presente che per queste èlites, e per le persone fisiche e giuridiche da esse rappresentate, l’economia tutto sommato non va poi così male, anzi va benone. Una volta scongiurata (per ora) la bancarotta del sistema finanziario globale, non troppo remota un paio di anni fa, c’è tutta una finanza speculativa che continua a trarre dai suoi affari profitti e, soprattutto, rendite d’oro. Per capire che cosa sta accadendo davvero a Davos dovremmo allora leggerlo assieme al rapporto presentato pochi giorni da Oxfam (Working for the few), dove si afferma, tra l’altro, che ottantacinque super ricchi possiedono l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione mondiale. Questi ottantacinque, e con loro qualche milione di persone sparse ormai in quasi tutti i Paesi (in India il numero di miliardari è aumentato di 10 volte negli ultimi dieci anni), sono molto ben rappresentati a Davos. Sono tutti gli altri che non ci sono, e tra questi non solo i troppi “poveri estremi” molti dei quali abitanti di quell’Africa devastata da non poche delle multinazionali che oggi, tra quelle montagne svizzere, fanno bella mostra dei loro patinati bilanci sociali, ma anche le tante famiglie europee che si stanno impoverendo per una crisi del lavoro il cui unico precedente verosimile è quella che si verificò agli inizi della rivoluzione industriale.
Una seconda ragione di questo strano “ottimismo dei pochi” è legata alla distanza crescente tra i rappresentanti riuniti a Davos e la vita della gente ordinaria, soprattutto dei poveri. Cosa sanno queste élites della vita di una famiglia in un villaggio del Sud Sudan, o di una famiglia europea con uno dei coniugi disoccupato e con due o tre bambini piccoli? Praticamente nulla. Una delle malattie più gravi di questa generazione di capitalismo è la totale separazione tra top manager di grandi imprese, banche, fondi (e non di rado anche di organizzazioni umanitarie globali) e la gente comune. Quando chi governa non sente più l’odore della gente nelle code nei negozi, nelle metropolitane, nei treni regionali, questi potenti non sanno più se stanno governando e maneggiando persone o macchine, anime o centri di costi e ricavi. Sono le metropolitane e il traffico urbano normale (non quello delle auto con sirene né quello degli elicotteri privati) i primi luoghi dove si esercita oggi la cittadinanza, e dove si comprendono i suoi paradossi e il suo valore. Il patto sociale prima o poi si spezza se per troppo tempo non respiriamo tutti gli stessi odori della vita, quelli cattivi e quelli buoni.
Il Papa con il suo messaggio ha voluto lanciare, a nome delle non-élites, un grido di allarme a queste élites che rischiano di perdere contatto con i luoghi veri della vita sociale. Il rischio grande, però, è che a quell’importante monito capiti qualcosa di simile a quanto capitò al direttore narrato da Søren Kierkegaard: "Un direttore di teatro si presenta sulla scena per avvisare il pubblico che è scoppiato un incendio; gli spettatori però credono che la sua comparsa faccia parte della farsa che si stanno godendo, e così, quanto più quello urla, tanto più forte si leva il loro applauso". Perché le parole di Francesco portino tutti i loro frutti, ci vorrebbero altri Forum, nei quali i poveri e i Paesi periferici esclusi da Davos possano raccontare altre storie su questo capitalismo finanziario – con i politici e i potenti seduti silenti ad ascoltarli.
La sede più naturale per un tale Forum diverso sarebbe la Roma di Francesco, il solo che avrebbe oggi l’autorevolezza e la credibilità per riunire tutti intorno sé . La nuova economia che in tanti desideriamo non potrà che venire, rovesciando sguardo e protagonismi, se si riparte dai poveri e dalle periferie. Una realtà immensa che è, oggi, "la più piccola tra le città".
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/01/2014
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/12/2013
Il mondo greco per indicare ciò che oggi chiamiamo tempo usava due parole: chronos e kairos. Per il tempo-chronos il giorno di San Silvestro è un giorno come gli altri. Per il tempo-kairos, invece, le ore e gli anni sono diversi: il giorno in cui è morto Nelson Mandela (il 4 dicembre), o quello in cui è stato eletto Francesco (il 13 marzo) sono stati giorni di qualità diversa, che hanno inciso la tavoletta piatta del tempo.
[fulltext] =>Chronos è quantità omogenea, kairos qualità e diversità – qualcosa di analogo alla differenza che c’è tra spazio e luogo. La dinamica chronos-kairos ritma il tempo della nostra vita quotidiana. La nascita dei figli, i lutti, i lavori trovati e persi, colorano e vivificano i numeri del calendario.
Questo 2013 è stato un anno più lungo, di certo per coloro che hanno sofferto di più, e tra questi tanti disoccupati, troppi giovani. Ci siamo svegliati bruscamente, e ci siamo accorti che non abbiamo perso milioni di posti di lavoro per i sub-prime americani o per lo spread, o che non è colpa dell’Europa se i nostri giovani non hanno più buon lavoro. Abbiamo capito che dovremmo rialzarci con le nostre forze, ma non ce la facciamo per una grave carestia di capitali morali. Il mondo è cambiato veramente, non lo capiamo più, e soffriamo tutti per ‘mancanza di pensiero’ (Paolo VI). Stiamo soffrendo le doglie del parto. Sta nascendo qualcosa di nuovo, ma ancora non ce ne accorgiamo. E si soffre anche perché non riusciamo, collettivamente, a vedere un bambino dentro il travaglio. E quando non si intravvede un bambino, non si vede salvezza, è fatica senza premio, manca la gioia. Dovremmo allenare gli occhi a vedere più lontano e diversamente, e scorgere in mezzo a noi e dentro di noi i luoghi e le persone dove stanno avvenendo cose nuove, scoprire dove stanno ‘nascendo i bambini’. E reimparare a dire grazie – una parola da riscoprire nella sua radice charis.
Il 31 dicembre è soprattutto il giorno del ringraziamento, anche civile. L’esercizio del grazie e della virtù della gratitudine è importante sempre, ma è essenziale in ogni esodo attraverso un deserto. Il grazie, soprattutto se è serio e costoso, è una risorsa straordinaria per continuare a sperare e a camminare. Sono molte le persone da ringraziare oggi. Voglio iniziare dagli imprenditori. Quelli che continuano a rischiare risorse, energie, talenti, per salvare lavoro, e vanno avanti nonostante tutto. A quegli imprenditori che costruiscono benessere e pagano le tasse: ce ne sono tanti, anche se non se ne parla e nessuno li ringrazia. Quando un imprenditore decide di pagare le tasse sa che, in un mondo ad alta evasione come il nostro, sta pagando molto di più di quanto sarebbe giusto ed equo pagare. Sa di pagarle anche per i suoi “colleghi” che hanno posto la loro sede fiscale a Montecarlo, ma usano gli stessi beni pubblici. Tanti, di fronte allo spettacolo di questa ingiustizia si incattiviscono e iniziano ad evadere. Altri imprenditori, lavoratori e cittadini, si indignano, e come e più di tutti chiedono giustizia. Ma non si incanagliscono e vanno avanti. E non solo per ottemperare all’obbligo fiscale: sanno di fare anche un dono. E il dono va ringraziato. Se non ci fossero questi "pochi giusti" (che così pochi, poi, non sono) la città si sarebbe già auto-distrutta. Un grazie doloroso, che diventa anche “scusa”, deve poi arrivare a quegli imprenditori che non ce l’hanno fatta e hanno dovuto chiudere l’impresa, lasciando a casa tanti lavoratori, in mezzo a grandi sofferenze e angosce (ne conosco molti). "L’uomo non è il suo errore", ho letto in una comunità di Don Oreste Benzi. "L’imprenditore non è il fallimento della sua impresa", si può sempre ricominciare.
Grazie poi ai tanti accompagnatori e accompagnatrici dei poveri e dei soli, che con la forza dell’agape curano le disperazioni. Ai tanti amministratori pubblici onesti, che non mollano quando avrebbero molte ragioni per farlo. Alle maestre e agli insegnanti, che in una scuola ferita, impoverita e disprezzata continuano ad amare i nostri figli. Infine – ma dovremmo continuare a lungo – grazie alle famiglie, alle madri e ai padri, e ancora di più agli anziani, che continuano a rammendare la fides, quella fede e quella corda che ancora ci tiene assieme. Rammendano il tessuto sociale e ci rammentano le nostre radici e le nostre storie.
Nelle “Mille e una notte”, Sharazad per non morire non doveva smettere di raccontare storie. Se oggi vogliamo vivere e far vivere dobbiamo raccontarci più storie di vita vera, trovare insieme nuove ragioni di speranza non vana, e ripeterci continuamente l’un l’altro “non mollare”. E non smettere di ringraziare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 31/12/2013
Il mondo greco per indicare ciò che oggi chiamiamo tempo usava due parole: chronos e kairos. Per il tempo-chronos il giorno di San Silvestro è un giorno come gli altri. Per il tempo-kairos, invece, le ore e gli anni sono diversi: il giorno in cui è morto Nelson Mandela (il 4 dicembre), o quello in cui è stato eletto Francesco (il 13 marzo) sono stati giorni di qualità diversa, che hanno inciso la tavoletta piatta del tempo.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/12/2013
Ogni anno, da quasi un quarto di secolo, torna puntuale la classifica del Sole24Ore sulla qualità della vita delle province italiane. E ogni volta il dibattito pubblico si concentra sulla prima e l’ultima provincia della classifica, e ciascuno controlla se la sua città è salita o scesa nel ranking. Quest’anno, per la cronaca, la maglia rosa spetta a Trento, quella nera a Napoli.
[fulltext] =>Non si coglie invece l’occasione per discutere davvero sulle metodologie e sulle potenti ideologie che sottostanno a questi esercizi statistici, sui limiti e le potenzialità delle misurazioni, e sulle cose invisibili, spesso molto importanti, che queste statistiche non riescono a vedere, o che non vogliono vedere. Questi dati dicono qualcosa sul nostro Paese, ma non tutto, e per alcune dimensioni della vita dicono cose parziali e a volte errate.
Una prima domanda decisiva riguarda la concezione di ‘qualità della vita’ che sottosta’ a questa classifica. Essendo prodotta dal principale giornale economico italiano, non deve stupirci il peso dell’economia in rapporto alle altre dimensioni non economiche. Ma ciò che convince sempre meno è presentare questi indici come indici e numeri di qualità della vita tout court. E non convince perché mancano elementi essenziali per (almeno tentare di) misurare la qualità della vita delle persone e delle comunità. Tra i grandi assenti ci sono le nostre relazioni. Una qualità della vita che non vede le relazioni tra le persone, vede poco e non capisce che la qualità della vita di una persona, magari donna, con 1500 euro al mese di stipendio e con due bambini, è molto diversa se abita in città o in un villaggio, se ha, o non ha, attorno a sé reti parentali e amicali robuste, e di quanti beni comuni può usufruire gratuitamente per sé e per i suoi bambini. Lo sguardo culturale di questi indici e classifiche del Sole non è capace di vedere relazioni ma solo individui, in linea con l’approccio metodologico della scienza economica dominante. E così si racchiude la poca socialità ‘vista’ dentro la categoria “svago”, come se le nostre relazioni, la nostra cultura e il volontariato fossero faccende di “svago” o di spensieratezza. Inoltre, nei dati economici (“tenore di vita”) non c’è spazio per nessun indicatore di diseguaglianza di reddito e ricchezza.
Infine, nessun spazio è dato agli indicatori soggettivi. La qualità della vita, lo sanno tutti gli studiosi attrezzati di questa complessa materia, è un intreccio indistricabile di elementi oggettivi (reddito, servizi, istituzioni …) e di elementi soggettivi, cioè la mia percezione della qualità della mia vita e di quella delle mie comunità. Gli indicatori soggettivi e dei beni relazionali erano poco sviluppati quando, 24 anni fa, iniziò questa pubblicazione del Sole; oggi però sono abbondanti e disponibili, come ben sanno i ricercatori che hanno prodotto il BES, raggiungendo risultati molto più interessanti sul benessere degli Italiani. Senza indicatori soggettivi è molto difficile, ad esempio, catturare gli effetti della depressione che sta diventando un’autentica epidemia di massa.
Non credo che inserendo indicatori soggettivi di “gioia” e di “tristezza” del vivere, di beni relazionali, di solitudini e di depressioni, vedremmo Napoli e Taranto ai primi posti di questa diversa classifica (il nostro Sud soffre veramente molto), ma potremmo capire meglio la qualità della vita in città come Rovigo, Teramo o Enna.
Le statistiche e i numeri sono importanti per le democrazie. Non dobbiamo lasciarli ai soli addetti ai lavori, perché dietro quei numeri si celano molte cose importanti, tra cui la comprensione del nostro Paese, dei Sud dell’Europa e del mondo e dei loro ‘valori meridiani’ (che pur esistono). Dobbiamo però usare occhiali teorici più sofisticati, capaci di vedere e raccontare le relazioni insieme agli individui, i luoghi insieme al reddito, i beni comuni e i beni privati, e così raccontare storie antiche e nuove di qualità della vita e di umanesimo integrale. Altrimenti finiamo per misurare la qualità della vita di persone deprivate, dalle nostre ideologie, delle qualità umane più importanti da misurare.Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire
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Quali indicatori del benessere
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/12/2013
Ogni anno, da quasi un quarto di secolo, torna puntuale la classifica del Sole24Ore sulla qualità della vita delle province italiane. E ogni volta il dibattito pubblico si concentra sulla prima e l’ultima provincia della classifica, e ciascuno controlla se la sua città è salita o scesa nel ranking. Quest’anno, per la cronaca, la maglia rosa spetta a Trento, quella nera a Napoli.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/11/2013
Quanto sta avvenendo in questi giorni a Genova ci sta dicendo, pur con le sue inevitabili ambivalenze (e strumentalizzazioni), qualcosa di importante per la nostra economia, e democrazia. Per comprendere qualche cosa che non emerge dalla semplice cronaca, è necessario tornare all’origine delle ‘aziende municipalizzate’, che oggi in Italia sono quasi cinquemila.
[fulltext] =>Questa forma di impresa ha fatto la sua comparsa in Italia all’inizio del ‘900. Un ruolo cruciale lo svolse l’economista Giovanni Montemartini, di Montù Beccaria (Pavia), che giustificava l’importanza della creazione di queste imprese sulla base di due principi: quello del municipio (o municipalismo italiano) e quello di efficienza economica. Montemartini, di tradizione socialista ma conoscitore dell’economia liberale, fondava la sua proposta sulla vocazione ‘municipale’ o comunale dell’Italia. I comuni, le città, hanno avuto nella nostra storia secolare una centralità molto più decisiva delle successive province, regioni e perfino dello Stato nazionale: “Solo coll'avvento della democrazia nell'impresa politica, colla conseguente conquista dell'autonomia locale, il sistema delle municipalizzazioni troverà le sue condizioni propizie di sviluppo” (1902). Anche questa è sussidiarietà. Ma il suo secondo principio era proprio l’efficienza economica: “Ogni economia, per raggiungere certi scopi, può darsi o all'impresa privata o all'impresa politica; e le due imprese devono avere la stessa produttività marginale in ogni momento”. Montemartini, insieme a molti altri economisti di ieri e di oggi, era dunque convinto che quando si ha a che fare con beni comuni e pubblici, l’impresa che lui chiama “politica” (bella espressione!) fosse in genere più efficiente di quella privata. Oggi, invece, per un’imperante, subdola, non dichiarata ideologia del capitalismo individualista e finanziario, la tesi dominante è quella opposta: efficienza è sinonimo di privatizzazione, e tutto ciò che è pubblico dice sprechi, clientelismo, inefficienza, perdite. Per Montemartini le imprese municipalizzate dovevano essere “imprese che non fanno né guadagni né perdite”, un’idea quindi di impresa civile molto più antica, e italiana, del nordamericano ‘non-profit’, alieno alla nostra cultura.
Ad oltre un secolo di distanza dall’economista pavese, resta vero che le imprese che hanno a che fare con i beni comuni non possono, né devono, massimizzare profitti. Lo scopo che le muove non può, né deve, essere la ricerca del massimo lucro. Dietro il trasporto pubblico, ad esempio, si nasconde oggi buona parte della qualità della vita dei nostri studenti, degli anziani, e soprattutto dei poveri. E invece l’ideologia dominante in tema di privatizzazioni, tema tornato oggi di moda per necessità di cassa, ci sta convincendo che metro, asili nido, musei, scuole, ospedali, siano aziende come tutte le altre, e quindi mosse dalla stessa cultura, motivazioni, strumenti, scopi: la ricerca del massimo profitto. Ma come mai, dovremmo seriamente chiederci, nessuno si preoccupa che non siano aziende, ma puri centri di costo (e di costi enormi), gli eserciti, i tribunali, i parlamenti e tante altre istituzioni? Chi decide, allora, e in quali luoghi (per favore non negli uffici dei commissari della spending review!), quali siano i beni comuni “non economici”, perché sono da assicurare a tutti i cittadini, e quelli da far gestire invece dal mercato for-profit?
Gli economisti rispondono a queste domande ripetendo che grazie alla regolazione pubblica dei beni e servizi comuni ‘privatizzati’, è possibile mettere insieme equità (accesso universalistico ai beni pubblici) e profitti per le imprese. Certo, la teoria ce lo insegna. Ma poi alcuni cittadini guardano le differenze di qualità, e di civiltà, tra i treni ad alta velocità e i treni dei pendolari; altri osservano l’efficienza, per così dire, di grandi imprese ex-pubbliche privatizzate; e altri ancora vedono i fallimenti economici, la corruzione e gli scandali (tra cui l’evasione e i paradisi fiscali) di grandi imprese private. E così tutti questi cittadini si chiedono se è proprio vero che l’impresa for-profit (chiamiamo la privatizzazione col suo giusto nome) sia più efficiente di quella pubblica; e, magari guardando a che cosa accade in Francia, si chiede se è proprio automatico che pubblico sia sinonimo di inefficienza e di sprechi.
So che ponendo queste domande alla cultura oggi imperante c’è da rischiare la scomunica dalla comunità degli economisti accademici (alla quale, ancora, appartengo). Ma la democrazia consisterebbe in massima parte nel porre al centro dell’agenda pubblica proprio queste domande, nel discutere pubblicamente quali ambiti vogliamo far regolare dal mercato for-profit e quali vogliamo invece lasciare al “municipio”, e ai suoi cittadini. Il modello di gestione delle imprese municipalizzate in molti casi (non sempre) non ha più funzionato nei decenni passati, anche perché si è progressivamente smarrito il nostro senso di appartenenza ad un municipio, ad una comunità, ad un comune (e ad un Bene comune). Non dobbiamo però pensare che la soluzione unica, o migliore, sia appaltare al mercato capitalistico i nostri tanti beni comuni. Dobbiamo invece lavorare, e a tutti i livelli, per far nascere nuove forme di imprese civili, che possano garantire l’efficienza nella gestione (e quindi la presenza anche di imprenditori), ma che abbiano scopi più grandi del profitto.
Quanto accade a Genova deve allora farci riflettere di più e di più assieme sull’importanza dei beni comuni nelle nostre città, che, come tanti beni, li apprezziamo quando rischiano di scomparire. Anche senza essere esperti di teoria economica, i cittadini sanno, o intuiscono, che quando un bene comune diventa privato, in città si riduce lo spazio del pubblico. E così ci impoveriamo tutti, perché la nostra ricchezza, e la nostra povertà, sono fatte di beni privati ma anche, e soprattutto, di beni pubblici. C’è poi un urgente bisogno civile di ripensare e rivalutare la semantica del pubblico. C’è una disistima strisciante e crescente per tutto ciò che è pubblico, inclusi i dipendenti pubblici che troppo spesso non si sentono, e non sono, rispettati. Ma se non ricominciamo a coniugare pubblico (che, pure, non è sinonimo di statale) con parole positive, civili ed alte, non faremo altro che svendere i beni pubblici al primo mercante di profitti, e ci impoveriremo tutti.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 23/11/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 7/11/2013
Valori è una parola tra le più belle del nostro vocabolario. Ci dice, da sola, che i valori morali, il valore economico, ciò che per noi vale, che ha valore e dà valore ai beni e alla vita, sono tutte facce dello stesso prisma civile e culturale di un popolo. L’operazione davvero utile, ma molto difficile, è l’interpretazione delle analisi sociologiche che, come quella del Censis, cercano di trasformare la qualità in numeri, dedurre i nostri valori da risposte a questionari. L’economista Otto Albert Hirschman aveva colto molto della dinamica culturale e civile delle nazioni, quando negli anni Ottanta ci spiegò che esiste una specie di "ciclo politico-economico" che nelle società fa alternare stagioni di felicità privata a stagioni di felicità pubblica.
[fulltext] =>Il dopoguerra, e poi gli anni 60-70 del Novecento, sono stati per l’Italia anni di felicità pubblica, quando la gente trovava la propria realizzazione piena nell’impegno politico e civile, e quando l’appartenenza a realtà più grandi della propria famiglia plasmava i nostri progetti di vita, e i nostri sogni.
Con la fine delle ideologie, la fine del secolo scorso e l’inizio di questo millennio stanno invece mostrando una lunga fase di ritorno alla ricerca di felicità privata, una stagione caratterizzata dalle passioni e dagli interessi individuali, da meno piazza e da più divano. Ci siamo ritrovati senza grandi narrative collettive, e così, un po’ spaesati e smarriti, siamo tornati a casa. Il grande boom dell’offerta dei beni di confort ha sostituito molti beni di creatività, quali l’impegno politico e civile, i beni relazionali, e ha determinato una diminuzione della felicità individuale e collettiva dei Paesi occidentali, di cui oggi tanto si parla a proposito e sproposito.
In realtà, la natura culturale dell’Italia e dell’Europa mediterranea, cattolica e latina è costituita proprio dall’intreccio di felicità private e di felicità pubbliche, e dalla certezza, nata dalle mille ferite della nostra lunga storia, che la felicità privata non dura e non è piena senza quella pubblica: quando dopo o prima del divano non c’è la piazza, o quando la piazza è quella dei talk show televisivi, il divano diventa un nemico della felicità, ci toglie giorno dopo giorno la gioia di vivere. Nessuno di noi associa la propria fioritura ai divani e alla tv, ma all’amore, all’amicizia, ai figli, agli ideali. E così se l’Italia è certamente dominata da quello che Guicciardini chiamava il "particulare", cioè la grande tendenza a far coincidere il mondo con la propria famiglia o al massimo della propria comunità, non meno vera e fondativa è la sua anima fatta dalle tante storie di vita civile, di bene comune e beni comuni, di grandi progetti collettivi e comunitari. Non a caso la "pubblica felicità" fu il nome che l’economia moderna prese in Italia, al culmine di secoli di vita civile e di forte spiritualità.
Il nuovo rapporto del Censis e la lettura positiva e ottimistica che di essi viene offerta, potrebbero spingerci a pensare che per il nostro Paese si sta avvicinando il punto di svolta nel ciclo "pubblico-privato". Si tratta, infatti, di dati che possono portare a intravvedere un’alba di felicità pubblica dentro l’imbrunire di questi nostri tempi. Domenica scorsa su questo giornale denunciavo il deterioramento di capitali civili e spirituali da cui dipende la gran parte della nostra mancanza di lavoro, di reddito e di prospettive. Quella analisi si rafforza dopo la lettura dei dati del Censis. In effetti, la voglia di comunità e di impegno civile che sembra riemergere dal cuore del nostro Paese che altro è se non una sete e una fame di beni che sentiamo minacciati e che sappiamo essere beni fondamentali per il benessere nostro e degli altri? Per questo il modo migliore e più fruttuoso di leggere lo studio del Censis non è consolarci e tranquillizzarci perché i valori degli italiani segnalano un desiderio e un bisogno di relazioni e di vita spirituale, ma attrezzarci tutti, e a tutti i livelli, per rafforzare quei patrimoni civili e spirituali per far sì che questa domanda e questo desiderio di antichi nuovi valori civili e morali diventino comportamenti, azioni, stili di vita. I valori sono capaci di cambiamento solo quando diventano prassi e progetti sociali. Questi dati allora vanno letti come un grido di aiuto che si alza della nostra gente, che in questo momento di passaggio epocale sente il bisogno di aggrapparsi alla parte migliore di sé, alle sue radici, alla propria identità antica e grande, per sperare ancora, e di nuovo insieme.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 7/11/2013
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/10/2013
All’Italia manca da troppo tempo un codice simbolico e ideale condiviso capace di ricostituire un’unità civile, ideale e spirituale, sulla quale poi fondare anche nuovo sviluppo, anche economico. Da troppo tempo le storie collettive, e quindi anche quelle politiche, che raccontiamo non ci convincono più; sono troppo fragili, superficiali, di corto respiro, scariche simbolicamente perché senza uno soffio vitale capace di rianimare le ossa che popolano le tante moderne valli inaridite della nostra vita civile ed economica.
[fulltext] =>Eppure storie, narrative, miti capaci di futuro, perché grandi, popolari, carichi di simboli vitali (che sono gli aggettivi di tutte le storie capaci di generare risurrezioni), all’Italia non mancano. L’avventura umana, economica, spirituale e industriale di Adriano Olivetti (alla quale Rai1 dedica, tra ieri e oggi, una fiction in due parti) è una di queste storie.
Olivetti non è una gloriosa eccezione in una storia economica italiana diversa, né un eroe o un cavaliere solitario. È stato invece una espressione del migliore genio italiano. Ci ha mostrato che l’impresa può essere a un tempo solidale, sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, leader mondiale e radicata in un territorio e in una comunità, basata sulle persone e di grandi dimensioni, laboratorio intellettuale e parlare in dialetto, includere i poveri e generare molti profitti. La tradizione economica italiana, quella che alcuni chiamiamo Economia civile, è stata eccellente e faro per il mondo intero quando ha saputo coniugare questi elementi che invece il capitalismo attuale, anche quello nostrano, tende sistematicamente e scientemente a contrapporre.
Negli ultimi decenni abbiamo infatti dato vita a un sistema economico e sociale dicotomico e separato cioè letteralmente dia-bolico. Così oggi abbiamo la grande impresa che vede i territori e le loro istanze come una minaccia alla propria efficienza (e quindi delocalizza), mentre l’economia sociale è relegata, e spesso segregata, nel mondo del "piccolo è bello". Nelle grandi imprese non si parla più né il dialetto né l’inglese vero né l’italiano, perché si sono perse le lingue vitali antiche, quelle dell’economia contadina e artigiana, e non si ha la cultura e il tempo per impararne (bene) altre.
E, infine, ma potremmo continuare a lungo, chi opera (e ce ne sono tanti anche in Italia) nei settori della grande innovazione tecnologica non ha alcun contatto con chi opera nel sociale e ha a che fare con la povertà. Tutto ciò è esattamente l’opposto di quanto ha fatto, pensato, vissuto e sognato Adriano Olivetti assieme agli altri imprenditori civili della sua generazione, che l’Italia del dopoguerra, uscita da grandi ferite, era stata capace di generare.
Le ragioni del tradimento che l’economia italiana ha operato nei confronti del paradigma di Olivetti sono molte e complesse (e ancora poco esplorate). Un ruolo l’hanno avuto le infelici sorti dell’impresa Olivetti dopo Adriano; ma soprattutto all’Italia dei decenni passati, e a quella di oggi, è mancata una capacità culturale e di pensiero per immaginare e ricostruire una via civile all’impresa e all’economia. Le ideologie di destra e di sinistra erano culturalmente incapaci di capire che dietro all’esperimento di Adriano Olivetti si nascondeva qualcosa di estremamente importante per l’Italia: la possibilità di concepire, e di praticare, un’economia di mercato che non fosse quella capitalistica che si stava affermando negli Usa, né quella collettivistica russa, né quelle svedese, giapponese o tedesca.
Quella di Olivetti era semplicemente l’economia italiana, cioè l’erede dell’economia dei Comuni, dell’Umanesimo civile, degli artigiani artisti, dei cooperatori... La "terza via" di Olivetti era troppo italiana per poter essere riconosciuta dagli italiani, perché metteva a reddito, in piena post-modernità, i tratti tipici e migliori della nostra vocazione: creatività, intelligenza, comunità, relazioni, territori. Uno "spirito del capitalismo" italiano, ed europeo, quindi diverso da quello americano che stava già dominando il mondo, dove il sociale inizia quando si esce dai cancelli dell’impresa e l’imprenditore crea la fondazione filantropica "per" i poveri. Il capitalismo di Olivetti si occupava del sociale e dei poveri durante l’attività d’impresa. È l’inclusione produttiva è una delle parole-chiave dell’umanesimo olivettiano, una parola ancora oggi tutta da esplorare.
E così il capitalismo italiano post-olivettiano si è smarrito. Una parte di esso si è appropriato dell’anima sociale e solidaristica (quella che oggi chiamiamo appunto economia non-profit, terzo settore: tutte espressioni aliene dalla nostra storia), e gli imprenditori industriali sono diventati troppo spesso pallide imitazioni, a volte caricature, dei loro colleghi d’oltreoceano, perché mancanti di quelle virtù calviniste essenziali per far funzionare, a modo suo, quel capitalismo diverso. Forse sono passati ormai troppi anni dalla morte, prematura, di Adriano in un ormai lontano 1960.
Troppi anni per pensare di riprendere, oggi, le fila di un discorso economico-civile interrotto, e che dai mercanti medioevali era giunto, vivo nei secoli, fino a Ivrea. La nostra storia è ormai quella che conosciamo, e non è quella immaginata e realizzata da Adriano. Ma un popolo può uscire dal deserto se sa fare memoria, se sa ricordare, e prima riconoscere, l’esistenza e l’insegnamento dei suoi patriarchi. E anche se la storia non torna indietro, possiamo sempre correggere, o invertire, la rotta.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/10/2013
All’Italia manca da troppo tempo un codice simbolico e ideale condiviso capace di ricostituire un’unità civile, ideale e spirituale, sulla quale poi fondare anche nuovo sviluppo, anche economico. Da troppo tempo le storie collettive, e quindi anche quelle politiche, che raccontiamo non ci convincono più; sono troppo fragili, superficiali, di corto respiro, scariche simbolicamente perché senza uno soffio vitale capace di rianimare le ossa che popolano le tante moderne valli inaridite della nostra vita civile ed economica.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/09/2013
La reciprocità è la legge aurea della socialità umana. La reciprocità spiega molto più di ogni altra singola parola la grammatica fondamentale della società, anche quella dell’indignazione, delle vendette e delle interminabili cause in tribunale. Il DNA dell’animale politico è un’elica fatta dell’intreccio di dare e di ricevere. Anche l’amore umano è essenzialmente una faccenda di reciprocità, dal suo primo istante all’ultimo, quando spesso si lascia questa terra stringendo la mano di qualcuno che si ama, o, in sua assenza, stringendola dentro con le ultime energie della mente e del cuore.
[fulltext] =>Questa dimensione di reciprocità dell’amore, dove amiamo chi ci ama, le culture umane l’hanno espressa in vari modi e con molte parole. In quella greca le più note erano eros e philia, due forme di amore diverse, ma che hanno in comune la reciprocità, il bisogno fondamentale della risposta dell’altro. L’eros è una reciprocità diretta, biunivoca, esclusiva, dove l’altro viene amato perché ci colma una indigenza, ci sazia, riaccendendolo, un desiderio vitale. Nella philia greca (che assomiglia a ciò che oggi chiamiamo amicizia), la reciprocità è più articolata: si tollera la mancata risposta dell’altro, non si fanno sempre i conti di dare e di avere, e si può perdonare molte volte. Ecco perché mentre l’eros non è una virtù, la philia lo può essere, perché richiede fedeltà all’amico che, temporaneamente, tradisce e non reciproca l’amore. Ma l’amore-philia non è un amore incondizionale, perché s’interrompe quando l’altro o l’altra con la sua non-reciprocità mi fa capire che non vuole più essere mio amico.
L’eros e la philia sono essenziali e splendidi per ogni vita buona, ma non bastano. La persona è grande perché non le basta la già grande reciprocità, vuole l’infinito. Così, a un certo punto della storia, quando il tempo si fece maturo, nacque il bisogno di trovare un’altra parola per dire una dimensione dell’amore non racchiusa in quelle due semantiche dell’amore, pur già ricche e alte. Questa nuova parola fu agape, non del tutto inedita nel vocabolario greco, ma nuovi furono l’uso e il significato che le attribuirono “quelli della strada”, il primo (bellissimo) nome dei cristiani. Ma l’agape non fu un’invenzione; fu una rivelazione di una dimensione presente, in potenza, nell’essere di ogni persona, anche quando resta sepolta e aspetta qualcuno che le dica “vieni fuori”. L’agape non è una forma di amore che comincia quando finiscono le altre, non è il non-eros o la non-philia, perché è la sua presenza che rende ogni amore pieno e maturo. Perché è l’agape che dona all’amore umano quella dimensione di gratuità che non è garantita dalla philia, tanto meno dall’eros; e così, aprendole, compie tutte le virtù, che in sua assenza sono soltanto sottile egoismo. Anche per questa ragione quando i latini tradussero l’agape, scelsero charitas, che nei primi tempi era scritta con l’acca, una lettera tutt’altro che muta, perché diceva molte cose.
Innanzitutto che quella charitas non era né amor né amicitia, era qualcos’altro. Poi che quella charitas non era più la caritas dei mercanti romani, che la usavano per esprimere il valore dei beni (ciò che costa molto, che è “caro”). Ma quell’acca voleva anche ricordare che charitas rimandava anche ad una altra grande parola greca: charis, grazia, gratuità (“Ave Maria, piena di charis”). Non c’è agape senza charis, né charis senza agape. Così la philia può perdonare fino a sette volte, l’agape fino a settanta volte sette; la philia dona la tunica, l’agape anche il mantello; la philia fa un miglio con l’amico, l’agape due, e anche col non-amico. L’eros sopporta, spera, copre poco; la philia copre, sopporta, spera molto; l’agape spera, copre e sopporta tutto.
La forma d’amore dell’agape è anche una grande forza di azione e di cambiamento economico e civile. Tutte le volte che una persona agisce per il bene, e trova nell’azione stessa e dentro di sé le risorse per andare avanti anche senza reciprocità, lì è all’opera l’agape. L’agape è l’amore tipico dei fondatori, di chi dà inizio a un movimento, a una cooperativa, senza poter contare sulla reciprocità degli altri, e dove è richiesta fortezza e perseveranza nelle lunghe solitudini. L’agape non condiziona la scelta di amare alla risposta dell’altro, ma quando questa risposta manca soffre, perché l’agape è pieno nella reciprocità (<vi do un comandamento nuovo: amatevi!>), ma non sta male al punto di interrompere il suo amore non amato. La pienezza della reciprocità agapica si esprime anche in un rapporto ternario: A si dona a B, e B si dona a C, una transitività dell’agape che non è presente né nella philia, né, tantomeno, nell’eros. Anzi, questa dimensione di “terzietà” e di apertura è essenziale perché si dia agape.
Persino l’amore materno e paterno verso un figlio non sarebbe agapico, e quindi maturo e pieno, se si esaurisse nella relazione A => B, B => A, senza la dimensione B => C …, che supera ogni tentazione di amore incestuoso o narcisistico. Questo bisogno di reciprocità, l’andare avanti anche quando manca la risposta, rendono l’agape un’esperienza relazionale a un tempo vulnerabile e fertile. L’agape è una ferita fecondissima. È l’agape che rende le comunità luoghi accoglienti e inclusivi, porte spalancate e mai chiuse, che scardina gerarchie sacrali, ordini castali, e ogni tentazione di potere. L’agape poi è essenziale per ogni Bene comune, anche perché conosce un tipo di perdono che è capace di cancellare il male ricevuto. Chiunque sia stato vittima del male, di ogni male, sa che quel male fatto e ricevuto non può essere pienamente compensato né riparato dalle pene e dai risarcimenti civili. Continua a operare, è una ferita che resta lì; a meno che un giorno non incontri il perdono dell’agape che, a differenza del perdono dell’eros e della philia, ha la capacità di sanare ogni ferita, anche quelle mortali, e farla diventare l’alba di una resurrezione.
C’è però una tesi che ha attraversato la storia della nostra cultura. L’agape – si dice – non può essere una forma di amore civile, perché a causa della sua vulnerabilità non sarebbe prudente. La si potrebbe vivere soltanto nella vita familiare, spirituale, forse nel volontariato; ma nelle piazze e nelle imprese dovremmo accontentarci soltanto dei registri dell’eros (incentivi) e, al massimo, della philia. Una tesi molto radicata, anche perché si fonda anche sull’evidenza storica delle moltissime esperienze nate dall’agape e poi retrocesse alla sola gerarchia o al comunitarismo. È la storia di quelle tante comunità partite con l’agape e che di fronte alle prime ferite si sono trasformate in sistemi molto gerarchici e formalistici. O esperienze nate aperte e inclusive, e che dopo i primi fallimenti hanno chiuso le porte espellendo i diversi. La storia è anche il susseguirsi di queste “retrocessioni”, che però non riducono il valore civile dell’agape, e che dovrebbe spingerci a mettere più agape, non meno, anche nella politica, nelle imprese, nel lavoro. Perché tutte le volte che l’agape appare nella storia umana, anche quando vi resta per poco, pochissimo, tempo, non lascia mai il mondo come l’aveva trovato. Innalza per sempre la temperatura dell’umano, pianta un nuovo chiodo nella roccia, e chi domani riprenderà la scalata partirà qualche metro, o centimetro, più in alto.
Nessuna goccia d’agape sulla terra va sprecata. L’agape allarga l’orizzonte di possibilità di bene dell’umano, è il lievito e il sale di ogni pane buono. Il mondo non muore, e la vita ricomincia ogni mattina, perché ci sono persone capaci di agape: <Sono tre le cose che rimangono: la fede, la speranza, e l’agape. Più grande di tutte è l’agape>.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/09/2013
La reciprocità è la legge aurea della socialità umana. La reciprocità spiega molto più di ogni altra singola parola la grammatica fondamentale della società, anche quella dell’indignazione, delle vendette e delle interminabili cause in tribunale. Il DNA dell’animale politico è un’elica fatta dell’intreccio di dare e di ricevere. Anche l’amore umano è essenzialmente una faccenda di reciprocità, dal suo primo istante all’ultimo, quando spesso si lascia questa terra stringendo la mano di qualcuno che si ama, o, in sua assenza, stringendola dentro con le ultime energie della mente e del cuore.
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