Salutiamo con questo articolo il prof. Giacomo Becattini che si è spento stamattina a Firenze. Luigino Bruni lo ricorda come: «uno degli ultimi economisti umanisti europei, grande maestro di una economia viva, civile, vera, storica, italiana, territoriale»
di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire "Agorà sette - libri" l'8/01/2016
Giacomo Becattini è un economista che ha generato novità nella teoria e nella politica economica del nostro Paese, e non solo. Oggi, vicino ai novant’anni, pubblica un libro (La coscienza dei luoghi, Donzelli, 2015 Ndr) che condensa in poco più di duecento pagina la saggezza di una intera vita. Becattini è un economista rappresentativo della migliore tradizione italiana ed europea di storia del pensiero. Pochi economisti hanno saputo essere tutti locali e tutti globali: senza l’osservazione delle dinamiche dei distretti di Prato e di Carrara non avremmo le teorie di Becattini, ma pochissimi intellettuali italiani hanno influenzato come lui i dibattiti di politica industriale in vari Paesi del mondo.
Un economista che è stato un grande perché non è stato solo economista: geografia, urbanistica, storia economica e delle idee, politica, agraria, sono tra le materie toccate e arricchite da Becattini. È un economista "impuro", per usare le parole di un altro suo maestro, Maffeo Pantaleoni, che, diversamente da Pareto e in linea con la tradizione italiana più feconda, non ha creduto ai purismi di teorie troppo astratte per essere utili alla società, e ha mescolato strumenti, linguaggi, culture, per non rimandare alle "seconde approssimazioni" la realtà che se persa da subito è persa per sempre.
Dove si trovano le novità della ricerca di Becattini, che in questo libro ritroviamo con chiarezza? Ruotano attorno all’idea di "distretti industriali". È vero che l’idea e l’espressione le troviamo anche nelle opere dell’ultimo quarto del secolo XIX di Alfred Marshall, ma Becattini li ha risuscitati dai sepolcri dove le aveva confinate l’economia ufficiale, facendole diventare altro. Ci ha spiegato che l’economia dei distretti è parte migliore dell’economia e della società Italia, dove si esprime il lato luminoso del modello comunitario italiano. In anni nei quali gli studiosi parlavano dell’Italia come paradigma di familismo amorale, di legami sociali che imbrigliavano il nostro capitalismo "relazionale", di nanismo delle imprese familiari e di insufficienza di capitale manageriale, Becattini ha raccontato un’altra storia, ha composto una musica in controcanto. Quando tutti vedevano il futuro dell’economia italiana nel "grande, lontano, anonimo", Becattini continuava a ripetere che è la foresta non il singolo albero a determinare lo sviluppo economico. Che erano le piccole imprese dentro i distretti a rappresentare il tesoro dell’Italia, che non erano residuo di un passato finito ma caparra di un futuro possibile. Oggi i dati gli danno ragione, perché sono stati e sono i distretti delle scarpe, della moda, dei motori, dei mobili che hanno saputo innovare e reggere l’impatto devastante del capitalismo finanziario. Ci ha salvato «quella parte dell’economia italiana che: a) affonda le sue radici nelle nostra storia; b) è stata capace, nella seconda metà del XX secolo, di coprire con i suoi prodotti (il Made in Italy e la nostra straordinaria meccanica) il deficit strutturale della nostra bilancia commerciale, gravato, in particolare, dalle carenze di fonti energetiche; c) è meno agganciata ai poteri forti, finanziari e politici, del nostro Paese». (p. 17).
La visione dell’economia di Becattini parte dal grande concetto di «vocazioni economiche dei luoghi», sulla loro «coralità produttiva» (bellissima sua espressione). L’economia vive di spirito, di carattere regionale, di passioni: se l’Emilia ha generato un distretto dei motori che è eccellenza mondiale, ciò dipende prima di tutto dall’amore di quegli emiliani per i motori. E il giorno in cui finisse questa passione, subito dopo finirebbe anche il business. Per scoprire queste vocazioni Becattini guarda quindi alla storia, alle relazioni tra le persone e tra le imprese, all’«intimità dei territori»: sono le relazioni a essere produttive. I luoghi, non gli individui, diventano nell’economia becattiniana la prima unità di osservazione per il benessere e per lo sviluppo, e così ci accorgiamo che la creazione del valore dipende da troppi elementi extra-aziendali. Se l’alveare non produce più miele, occorre tornare a guardare alle piante e ai fiori nel territorio.
L’ambiente e la terra riacquistano così la loro centralità dimenticata innanzitutto dalla teoria economica: «La politica di conservazione dei laghi non può essere definita solo in funzione della loro pescosità, ma anche della difesa dell’esperienza lacustre, nella sua interezza, per le future generazioni di pescatori e frequentatori del lago» (p. 114). Una visione di una eco-economia integrale che piacerebbe molto a Papa Francesco.
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