Editoriale - Democrazia economica e finanza etica
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/12/2015
Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.
Le banche non sono mai state soltanto imprese. Tutti noi continuiamo a vederle come dei “luoghi della fiducia”, e così affidiamo loro i nostri risparmi e i nostri investimenti. Sono tra le istituzioni dei nostri paesi e delle nostre città, insieme alla Scuola, all’Ospedale, al Comune. Gestendo i risparmi amministrano il rapporto tra le generazioni, e sono la prima cinghia di trasmissione tra famiglie e imprese. In altre parole, sono chiamate a svolgere funzioni di bene comune e di interesse generale. Per queste ragioni, fino a pochi decenni fa, le banche non erano soltanto delle imprese come quelle che producono scarpe o vestiti. E quindi non erano, né potevano essere, aziende a solo scopo di lucro.
Ma l’ondata di ideologia mono-mercatista che da qualche decennio sta invadendo il pianeta, ci ha via via convinto che tra una banca e una impresa di automobili non ci fosse alcuna vera differenza. Perché l’obiettivo è diventato lo stesso: massimizzare il valore per gli azionisti. E così è radicalmente cambiata anche la cultura dei banchieri e dei bancari, che oggi escono dalle stesse business school che formano i manager delle grandi multinazionali. Si è persa qualsiasi specificità del funzionario di banca rispetto al lavoratore e al dirigente di ogni grande impresa privata (o pubblica). Gli stessi consulenti globali, gli stessi strumenti di gestione, la stessa logica dell’incentivo – non a caso dietro all’offerta drogata e sconsiderata di obbligazioni subordinate c’era una precisa politica di incentivazione dei dipendenti.
Le banche nel Novecento erano anche imprese: ora sono soltanto imprese, una trasformazione avvenuta nel silenzio complice della politica, delle banche centrali e dei sindacati. E nella distrazione di troppi di noi.
Se vogliamo veramente invertire questa rotta (operazione ormai durissima), occorrerebbero due grandi riforme. La prima riguarda scuola e società civile. È diventato, infatti, troppo grande il divario tra l’importanza della finanza e dell’economia e la cultura finanziaria ed economica media della popolazione. Non possiamo più continuare a vivere da analfabeti in un mondo che “parla” sempre più finanza ed economia. Qualche anno fa, in piena crisi del debito, su queste colonne lanciammo l’idea di dar vita a scuole popolari di economia e finanza – un invito raccolto solo da qualche città, tra queste Catania. Chi oggi ha a cuore la democrazia e il bene dei più fragili deve occuparsi anche di cultura economica e finanziaria.
C’è bisogno di una nuova stagione di scuole popolari nelle parrocchie, negli oratori, nelle associazioni, nei circoli. E alla scuola spetta un ruolo cruciale: dobbiamo inserire elementi di economia e di finanza negli ultimi anni di tutte le scuole superiori. Se non si vogliono appesantire i già pesanti programmi curriculari, si possono immaginare, con creatività, laboratori pomeridiani o durante l’estate, attività svolte da volontari e dalle tante associazioni che hanno una mission di economia e finanza sociale e civile.
La seconda riforma riguarda direttamente il governo delle banche: il peso e la responsabilità delle banche e delle istituzioni finanziarie sono ormai troppo grandi per lasciarlo in mano soltanto agli azionisti. Le banche non rispondono fino in fondo dei loro comportamenti. Una legge etica fondamentale del mercato dice che alla libertà di scelta deve corrispondere la responsabilità patrimoniale, civile e penale di chi sceglie.
Questa regola, già in crisi per tutte le imprese molto grandi, è quasi inapplicabile alle banche, i cui interessi sono troppo intrecciati con quelli delle famiglie, delle imprese, e del sistema in generale per essere isolati e chiamati a rispondere per i danni che generano. Se allora la responsabilità per le conseguenze delle azioni delle banche è condivisa con l’intera società civile, occorre che sia condiviso anche il governo delle banche. Dobbiamo trovare meccanismi (non facili, ma non impossibili) perché nei Consigli di amministrazione delle banche non ci siano solo rappresentanti scelti dagli azionisti, ma pure quelli designati dalla società civile. Inoltre, in tutte le banche sarebbe opportuna l’istituzione di un “comitato etico” indipendente (come accade in Banca Etica), con potere di veto. Una tale riforma non verrà mai dall’interno del mondo finanziario: dovremmo essere noi cittadini ad avere la volontà e la forza di chiederla dal di fuori e con gli strumenti che abbiamo. Sarebbe il primo inizio di una sostanziale democrazia economica.
Non è più possibile pensare al rapporto tra banche e società come nel passato, quando le istituzioni e la politica controllavano economia e finanza solo dopo, a valle. Oggi, con la velocità dell’economia e con il cambiamento della cultura bancaria, c’è bisogno che il controllo etico e di legittimità venga esercitato dall’interno e durante l’esercizio dell’attività ordinaria. Perché quando le acque dei fiumi avvelenati a monte giungono a valle, hanno già prodotto molti danni, ed è sempre troppo tardi. Le acque non risalgono la corrente. Gli inquinamenti della fiducia vanno evitati alla fonte e lungo il corso del fiume, perché sono le persone, non le banche, a essere “troppo grandi per fallire”.