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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/10/2017
È ormai diventato comune tratteggiare scenari cupi sul lavoro di domani. È urgente discuterli e, possibilmente, arricchirli e rettificarli, perché il lavoro oggi ha bisogno soprattutto di sguardi generosi e di parole realiste ma piene di speranza. Sociologi, filosofi, giornalisti, futurologhi, continuano a ripeterci che di lavoro ce ne sarà sempre meno, che nell’età di internet e dell’intelligenza artificiale dobbiamo rassegnarci a lasciare fuori dal lavoro più o meno la metà della gente in età lavorativa. Saranno le macchine a lavorare per noi, noi semplicemente faremo altro, e sopravvivremo grazie alla grande produttività dei robot che consentirà a tutti di ricevere una somma di denaro sufficiente per vivere. I più abili e formati lavoreranno in sinergia con i computer, e faranno funzionare perfettamente il sistema economico, che sarà talmente perfetto da non aver più bisogno di noi.
[fulltext] =>In fondo, qualcuno aggiunge, nelle civiltà passate, i lavoratori veri e propri sono stati sempre pochi: la maggior parte della popolazione era infatti composta da cortigiani, nobili, monaci e religiosi, mendicanti, malati, servi, schiavi, o donne che non erano nel 'mercato del lavoro' (anche se hanno lavorato sempre più di tutti). Altri scenari già più positivi immaginano – sempre in un quadro di un lavoro sempre più scarso – che dovremo ridistribuire il lavoro rimasto, lavorando tutti meno per poter lavorare tutti. La settimana lavorativa si ridurrà cosi a 15 o al massimo 20 ore. Lavorare come attività prevalente delle persone adulte, sarebbe stata una fase storica durata più o meno un secolo e mezzo in Occidente, e presto torneremo nella situazione che ha caratterizzato l’umanità per millenni. Una eccezione, una parentesi, una eclisse, una anomalia.
Se questo paesaggio fosse davvero l’unico o soltanto quello più probabile, dovremmo davvero essere molto preoccupati. Ma, grazie a Dio, sulla linea dell’orizzonte ci sono colori meno cupi, che fanno pensare e sperare che il tempo di domani sarà bello.
Innanzitutto, dovremmo capire un po’ meglio che cosa è diventato il lavoro in questo secolo e mezzo diverso della traiettoria dell’Occidente. Il lavoro come lo conosciamo oggi non è il frutto di una evoluzione graduale nei secoli passati. No, il lavoro moderno è soprattutto una invenzione, una immensa innovazione arrivata da una congiunzione astrale di molti elementi: l’Umanesimo, il cattolicesimo sociale, la Riforma protestante, il movimento socialista, la cooperazione, i movimenti sindacali, le ferite dei fascismi e delle guerre. Grazie a tutto ciò, in quel breve lasso di tempo il lavoro ha dato vita alla più grande cooperazione che la vicenda umana abbia mai conosciuto nella sua lunga storia. Lavorando, e riempiendo il mondo del lavoro di diritti e di doveri, abbiamo creato una rete sempre più vasta fino a coprire quasi tutto il mondo. I prodotti e i servizi che popolano la nostra vita sono il frutto di una cooperazione di milioni e milioni di persone. Perché io possa scrivere e voi possiate leggere questo articolo, c’è bisogno della cooperazione di decine di migliaia di persone, se non di più – dalla redazione del giornale, alle tipografia, le spedizioni, gli aerei e i treni che trasportano le copie, tutta la rete distributiva, l’energia elettrica, la rete internet, l’industria della carta... Non è una cooperazione romantica né carina: a volte lavorare è duro, durissimo, si muore anche lavorando, e si muore anche perché il lavoro è serio e tremendo come lo è la vita. La democrazia è anche questo, una immensa, implicita, forte, capillare, azione congiunta, che moltiplica le opportunità e la biodiversità economica e civile della terra. Il mercato è questa grande cooperazione, anche quando prende la forma della concorrenza – cooperiamo anche competendo, in modo corretto e leale, sui mercati: uno degli errori teorici e pratici più gravi è contrapporre concorrenza a cooperazione.
Imparando a lavorare, e a lavorare con gli altri, abbiamo orientato le nostre energie e la nostra creatività in modo che potessero fiorire pienamente, e raggiungere e servire un numero sempre maggiore di persone. Noi abbiamo molti modi per esprimere la nostra intelligenza, creatività, amore; ma quando lavoriamo la nostra intelligenza-creatività-amore si esalta, si sublima. Diventa qualcosa di meraviglioso.
Mozart ha fatto molte cose nella sua vita, ma quando componeva Mozart era Mozart davvero. Il mio amico Vittorio faceva molte cose, di qualità diversa, ma quando riparava le auto era veramente Vittorio. E io ho imparato a conoscerlo quando ho cominciato a guardarlo lavorare, perché quando lavorava, nella fatica e con le dita nerissime, la sua personalità fioriva, e la sua anima più vera si svelava. Lavorare è anche un modo adulto di amare, un modo serio e vero che abbiamo di contribuire al bene nostro e a quello degli altri. Se un giorno tornasse qualcuno dal passato e mi chiedesse: 'ho solo due ore, mostrami la cosa migliore che avete fatto voi umani in questi secoli', non lo porterei in un museo, né in una chiesa: lo porterei con me in una impresa, in una fabbrica, dove la gente sta dando vita ad una grande azione collettiva generativa (e poi salutandolo gli leggerei una poesia che non conosce: l’arte è una alta forma di lavoro). Abbiamo sconfitto mille malattie, siamo arrivati fino a Marte, semplicemente lavorando, e lavorando molto. E se domani riusciremo a sconfiggere le altre mille malattie, a sfamare tutti, a far studiare bene tutti i bambini e i giovani della terra, lo faremo soltanto lavorando, lavorando molto, lavorando meglio, lavorando insieme.
Noi esseri umani, non sappiamo fare di meglio sotto il sole. Se, allora, dovessimo smettere di lavorare, o lavorare troppo poco, il vero rischio è che orienteremo le nostre energie in attività meno appassionanti, serie, responsabili, difficili, sfidanti, del lavoro, e, forse, riprenderemo ad esercitarci troppo nell’arte della guerra.
Non è vero che il lavoro finirà. Chi lo dice sottovaluta l’intelligenza, la creatività e l’amore delle donne e degli uomini. Faremo lavori diversi, molti più servizi e meno catene di montaggio, ma continueremo a lavorare, a cooperare a volerci bene lavorando. E domani benediremo la tecnologia che ci ha liberato da lavori poco interessanti per poterne fare di migliori. Siamo stati capaci di produrre macchine e robot così intelligenti da poter fare (quasi) a meno di noi, perché abbiamo lavorato molto, insieme, e abbiamo messo nel lavoro la nostra intelligenza migliore. Finché ci sarà qualcuno che si inventerà qualcosa per soddisfare il bisogno di un altro, finché creeremo occasioni sempre nuove di mutuo vantaggio, il lavoro non finirà. E la nostra vera ricchezza delle nazioni continuerà ad essere la somma dei rapporti mutuamente vantaggiosi che riusciamo a immaginare e poi a realizzare. Finché ci guarderemo gli uni gli altri come portatori di bisogni e di desideri non ancora espressi, e utilizzeremo la nostra meravigliosa intelligenza e il nostro amore creativo, ci sarà lavoro: per tanti, forse per tutti.
Lavoreremo diversamente, ma continueremo a lavorare. Non abbiamo niente di meglio da fare.
Continueremo ad esseri fondati sul lavoro, e sul lavoro a fondare la nostra democrazia.
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stdClass Object ( [id] => 13231 [title] => Lavoro e povertà: la vera lezione dei francescani [alias] => lavoro-e-poverta-la-vera-lezione-dei-francescani [introtext] =>Opinioni - L’economia che mette al centro la dignità della persona. Non rendite e assistenza, ma reciprocità e responsabilità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/05/2017
Uscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci.
[fulltext] =>Tutto questo il carisma francescano lo ha sempre saputo, e lo sa ancora. Nelle varie forme che ha assunto la cura francescana delle povertà, una grande attenzione è stata sempre riservata ai capitali delle persone e delle comunità, che sono sempre azioni, investimenti e accumulazioni che durano anni, e sono sempre molto costosi e dall’esito incerto. Senza prendere sul serio questa dimensione della sapienza francescana, non capiamo come mai dai frati dell'Osservanza nacquero nella seconda metà del '400 i cosiddetti monti di Pietà, delle proto-banche di micro-credito che avevano l'obiettivo di far uscire i poveri da condizioni di vulnerabilità economica. Vale la pena parlarne e offrire un contributo al dibattito nel momento in cui nel sostenere il "reddito di cittadinanza" il Movimento 5 Stelle si è accostato ai francescani. Quei francescani, non diedero vita a degli enti assistenziali (potevano farlo e tanti lo facevano) ma a dei contratti, a dei prestiti, che impegnavano i beneficiari alla responsabilità e quindi alla restituzione del prestito. Erano certamente istituzioni umanitarie perché avevano come scopo la lotta alla povertà e l’inclusione sociale, ma quel carisma suggerì loro strumenti più sofisticati dell’elemosina, strumenti basati sul registro della reciprocità.
Sta proprio nella reciprocità la questione decisiva, che coinvolge le povertà e coinvolge il lavoro. Quando una persona fuoriesce dalla rete di rapporti di reciprocità di cui è composta la vita civile e economica e si ritrova senza lavoro e quindi senza reddito, la malattia che si crea nel corpo sociale è la rottura di relazioni di reciprocità. Il reddito da lavoro (stipendi, salari) è il risultato di una relazione tra persone o istituzioni legate da vincoli reciproci: A offre una prestazione lavorativa a B, e B ricambia offrendo reddito ad A. Quando, invece, i redditi non nascono da rapporti mutuamente vantaggiosi, abbiamo a che fare con relazioni sociali malate o quantomeno parziali, che si chiamano rendite o assistenza, dove i flussi di reddito sono sganciati da relazioni reciproche. Ecco perché la tradizione francescana affermava che ‘quando c’è un povero in città è tutta la città che è malata’, perché un membro del corpo sociale si isola dal flusso che lo lega a tutti gli altri, e inizia la cancrena.
Si comprende allora che il principale rischio nei processi di lotta alla povertà, si annida proprio nel trascurare la dimensione della reciprocità. Quando percepisco un reddito senza che prima o simultaneamente ci sia una mia prestazione a vantaggio di qualcun altro, quel reddito raramente mi aiuta ad uscire dalle trappole in cui mi trovo, perché continuo ad essere un povero con un po’ di reddito per sopravvivere. Per lasciare la condizione di povertà, per affrancarmi dall’indigenza, devo reinserirmi in rapporti sociali di mutuo vantaggio. Tutti sappiamo che 500 euro ottenuti lavorando e 500 euro ottenuti grazie a un assegno sociale, sono due faccende completamente diverse: sembrano uguali ma è il sapore della dignità e del rispetto ad essere molto diverso. Il primo reddito è espressione di una relazione che l’economista napoletano Antonio Genovesi chiamava di “mutua assistenza”; il secondo assomiglia molto alla mancia che diamo a un figlio prima che inizi a lavorare, e nessuno genitore responsabile vuole che il figlio sopravviva per molto tempo con le mance che gli dà. E’ allora molto francescano l’articolo 1 della Costituzione italiana, che fonda la nostra democrazia sul lavoro. In una società in cui i poveri erano molti più di oggi, la Costituzione ha voluto indicare l’unica via civile possibile alla lotta alla povertà: il lavoro, la grande rete che ci lega gli uni con gli altri in rapporti di pari dignità.
Inoltre, se la povertà è assenza di capitali che si esprime in assenza di reddito, i capitali più importanti non sono faccende individuali ma comunitarie e sociali. E quindi i beni pubblici e i beni comuni sono parte integrante della ricchezza e dei capitali delle persone, che pesano come e più del conto in banca.
Quando vedo una persona in condizione di povertà, se voglio veramente curarla, debbo sanare le sue relazioni, perché la povertà è una serie di rapporti malati. Il lavoro per tutti è la terra promessa della Costituzione, molto più esigente del reddito per tutti. Una promessa-profezia che oggi assume un significato ancora più importante di allora, perché c’è una ideologia globale crescente che nega la possibilità di lavoro per tutti, nel tempo della robotica e dell’informatica. La vera minaccia che è di fronte a noi è rinunciare a fondare le democrazie sul lavoro, accontentandoci di società nelle quali lavorano il 50 o 60% delle persone in età attiva e a tutti gli altri verrà consentito di sopravvivere con un reddito di cittadinanza, dando vita ad una vera e propria società dello scarto, magari scambiata come solidarietà. Questa terra del lavoro parziale non può, non deve essere la terra promessa.
Chi oggi, allora, continua a pensare di combattere la povertà con qualche centinaia di euro erogati ai singoli individui, dimentica la natura sociale e politica della povertà, e ricade in visioni individualistiche e non-relazionali. Per combattere le antiche e nuove povertà dobbiamo riattivare la comunità, le associazioni della società civile, la cooperazione sociale, e tutti quei mondi vitali nei quali le persone vivono e fioriscono.
Infine, Francesco d’Assisi oggi ci direbbe, forse, due altre cose. La prima riguarda la parola povertà: Francesco la chiamava ‘sorella’, la vedeva come una strada di felicità e di vita buona. I francescani hanno scelto liberamente la povertà per liberare chi la povertà non l’ha scelta ma la subisce. Sapevano che non tutte le povertà sono cattive, perché la povertà è anche una parola del vangelo: ‘beati i poveri’. E quindi oggi userebbero parole diverse per la povertà cattiva e non scelta (esclusione, indigenza, vulnerabilità economica …), e ci aiuterebbero a stimare la bella povertà scelta nella condivisione e nella sobrietà generosa. Infine, ci ricorderebbero che la prima cura della povertà è l’abbraccio del povero. Francesco iniziò la sua vita nuova abbracciando e baciando il lebbroso a Rivotorto. Possiamo immaginare mille misure contro la ‘povertà’, possiamo dare loro reddito e far nascere nuove istituzioni che se ne occupino, ma se non torniamo a guardare e abbracciare i poveri delle nostre città, siamo molto lontani da Francesco e dalla sua fraternità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/05/2017
Uscire dalle trappole di povertà è stato sempre estremamente difficile. E questo perché la povertà economica si manifesta come una assenza di reddito, ma quel reddito che manca dipende da una carenza di capitali: capitali sociali, relazionali, familiari, educativi, etc. E quindi se non agisco sul piano dei capitali, i flussi di reddito non arrivano, e se arrivano si disperdono, non fanno uscire le persone dalla condizione di povertà, e non di rado la peggiorano – quando quel denaro finisce nei posti sbagliati, come le slotmachines e i gratta-e-vinci.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire "Agorà sette - libri" l'8/01/2016
Giacomo Becattini è un economista che ha generato novità nella teoria e nella politica economica del nostro Paese, e non solo. Oggi, vicino ai novant’anni, pubblica un libro (La coscienza dei luoghi, Donzelli, 2015 Ndr) che condensa in poco più di duecento pagina la saggezza di una intera vita. Becattini è un economista rappresentativo della migliore tradizione italiana ed europea di storia del pensiero. Pochi economisti hanno saputo essere tutti locali e tutti globali: senza l’osservazione delle dinamiche dei distretti di Prato e di Carrara non avremmo le teorie di Becattini, ma pochissimi intellettuali italiani hanno influenzato come lui i dibattiti di politica industriale in vari Paesi del mondo.
[fulltext] =>Un economista che è stato un grande perché non è stato solo economista: geografia, urbanistica, storia economica e delle idee, politica, agraria, sono tra le materie toccate e arricchite da Becattini. È un economista "impuro", per usare le parole di un altro suo maestro, Maffeo Pantaleoni, che, diversamente da Pareto e in linea con la tradizione italiana più feconda, non ha creduto ai purismi di teorie troppo astratte per essere utili alla società, e ha mescolato strumenti, linguaggi, culture, per non rimandare alle "seconde approssimazioni" la realtà che se persa da subito è persa per sempre.
Dove si trovano le novità della ricerca di Becattini, che in questo libro ritroviamo con chiarezza? Ruotano attorno all’idea di "distretti industriali". È vero che l’idea e l’espressione le troviamo anche nelle opere dell’ultimo quarto del secolo XIX di Alfred Marshall, ma Becattini li ha risuscitati dai sepolcri dove le aveva confinate l’economia ufficiale, facendole diventare altro. Ci ha spiegato che l’economia dei distretti è parte migliore dell’economia e della società Italia, dove si esprime il lato luminoso del modello comunitario italiano. In anni nei quali gli studiosi parlavano dell’Italia come paradigma di familismo amorale, di legami sociali che imbrigliavano il nostro capitalismo "relazionale", di nanismo delle imprese familiari e di insufficienza di capitale manageriale, Becattini ha raccontato un’altra storia, ha composto una musica in controcanto. Quando tutti vedevano il futuro dell’economia italiana nel "grande, lontano, anonimo", Becattini continuava a ripetere che è la foresta non il singolo albero a determinare lo sviluppo economico. Che erano le piccole imprese dentro i distretti a rappresentare il tesoro dell’Italia, che non erano residuo di un passato finito ma caparra di un futuro possibile. Oggi i dati gli danno ragione, perché sono stati e sono i distretti delle scarpe, della moda, dei motori, dei mobili che hanno saputo innovare e reggere l’impatto devastante del capitalismo finanziario. Ci ha salvato «quella parte dell’economia italiana che: a) affonda le sue radici nelle nostra storia; b) è stata capace, nella seconda metà del XX secolo, di coprire con i suoi prodotti (il Made in Italy e la nostra straordinaria meccanica) il deficit strutturale della nostra bilancia commerciale, gravato, in particolare, dalle carenze di fonti energetiche; c) è meno agganciata ai poteri forti, finanziari e politici, del nostro Paese». (p. 17).
La visione dell’economia di Becattini parte dal grande concetto di «vocazioni economiche dei luoghi», sulla loro «coralità produttiva» (bellissima sua espressione). L’economia vive di spirito, di carattere regionale, di passioni: se l’Emilia ha generato un distretto dei motori che è eccellenza mondiale, ciò dipende prima di tutto dall’amore di quegli emiliani per i motori. E il giorno in cui finisse questa passione, subito dopo finirebbe anche il business. Per scoprire queste vocazioni Becattini guarda quindi alla storia, alle relazioni tra le persone e tra le imprese, all’«intimità dei territori»: sono le relazioni a essere produttive. I luoghi, non gli individui, diventano nell’economia becattiniana la prima unità di osservazione per il benessere e per lo sviluppo, e così ci accorgiamo che la creazione del valore dipende da troppi elementi extra-aziendali. Se l’alveare non produce più miele, occorre tornare a guardare alle piante e ai fiori nel territorio.
L’ambiente e la terra riacquistano così la loro centralità dimenticata innanzitutto dalla teoria economica: «La politica di conservazione dei laghi non può essere definita solo in funzione della loro pescosità, ma anche della difesa dell’esperienza lacustre, nella sua interezza, per le future generazioni di pescatori e frequentatori del lago» (p. 114). Una visione di una eco-economia integrale che piacerebbe molto a Papa Francesco.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Avvenire "Agorà sette - libri" l'8/01/2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 2/11/2016
Tra le moltissime immagini che accompagnano le nostre tante tragedie, ce ne sono alcune che spiccano, che si impongono per forza propria. Qualche volta una emerge su tutte le altre, perché alimenta riflessioni, svelando l’anima profonda di quanto è accaduto e che le parole non riescono ancora a dire. Nel terremoto di domenica 30 ottobre – che mi ha colto mentre passavo in auto sotto Arquata – la foto di quel piccolo gruppo di cittadini di Norcia, inginocchiati con le suore e i monaci davanti alle macerie della basilica di San Benedetto, è diventata l’icona di questo nuovo, indicibile, dolore. Marina Corradi lo ha scritto ieri, qui, con grande intensità.
[fulltext] =>Mentre la terra ancora tremava e nessuno poteva sapere la gravità di quanto era appena accaduto, mentre si fuggiva, si gridava, si cercavano e si chiamavano famigliari e amici, qualcuno si è fermato, è caduto in ginocchio di fronte a una chiesa che non c’era più, ma che continuava ad esserci. In quel piccolo gruppo di cristiani oranti di fronte a un mucchio di macerie abbiamo rivisto molte cose, tutte molto importanti. Innanzitutto tra quelle persone c’erano anche alcune suore di clausura. Molte altre volte, durante e dopo le scosse, quelle suore avranno pregato nel loro convento, ma non le avevamo viste. Quella scossa più forte e il crollo delle mura le ha portate in mezzo alla città, e la piazza è diventata il luogo della preghiera. E tutti le abbiamo viste, insieme ai monaci, alla gente, in ginocchio. E abbiamo capito, abbiamo rivisto, alcuni dopo tanti anni, altri per la prima volta, che cosa significa saper pregare, che cosa significa aver appreso per anni, decenni, l’arte della preghiera.
Mentre tutto si muove, qualcuno, per vocazione, si ferma, si inginocchia, alza le mani, e prega. Come Mosè durante la battaglia, come Maria e le donne sotto la croce. Come se quell’evento drammatico avesse squarciato il velo, consentendoci di vedere un pezzo vivo della città, che nei tempi non tremendi non riusciamo più a vedere. Domenica mattina l’abbiamo vista, l’abbiamo vista tutti. E tutti l’abbiamo capita, credenti e no. Tutti abbiamo ringraziato quel manipolo di persone per non aver dimenticato di pregare. Quando la vita ci mette tutti in ginocchio, possiamo stare in ginocchio e basta o possiamo restare in ginocchio e pregare. Ma per pregare mentre la terra trema occorre averlo fatto tutti i giorni, tutta la vita.
Non si improvvisano mai le preghiere, tantomeno quando tutto crolla. E così abbiamo tutti capito che quando in città c’è qualcuno che ha imparato a pregare e lo fa ogni giorno, per anni, per tutta la vita, quella città è più ricca. Ha un bene pubblico in più, di valore inestimabile. Anche se non lo vediamo, anche se abbiamo dimenticato di vederlo, anche se chiamiamo le suore 'suorine', e non le stimiamo più come meritano, e persino le prendiamo in giro per la loro scelta di vita, perché abbiamo dimenticato l’estrema serietà e dignità di un salmo recitato a memoria, di una Ave Maria, di un Eterno riposo, di una vita spesa per essere il cuore vivo e invisibile di una comunità, e quindi del mondo.
Ma in quel drappello di inginocchiati c’è un altro messaggio. Il luogo della preghiera è anche la piazza. I carismi sono faccende pubbliche, politiche, economiche, civili, e non vogliamo aspettare il prossimo terremoto per vedere ancora suore e frati pregare nelle nostre piazze. La 'messa in sicurezza' delle nostre splendide città e cittadine appenniniche non sarà mai completa e solida se non rimetteremo anche fondamenta spirituali. Si piange di fronte a queste macerie, si alzano lamenti davanti ai nostri 'muri del pianto', perché quelle chiese erano le mura vere delle nostre città. Nella basilica di San Benedetto c’erano, ancora custoditi, anche i pesi e le misure dei mercanti: quella fede ci ha insegnato anche la fiducia nei commerci, quel credere ha fondato il buon credito. Senza religione, spiritualità, preghiera i nostri avi non avrebbero mai costruito Norcia, Visso, Preci ( nomen omen), perché quelle città sono nate e sono vissute per secoli anche e soprattutto di cristianesimo. Saremo capaci di ricostruire chiese e non musei, città e non parchi turistici, solo se siamo capaci, oggi, di capire il valore civile di quel piccolo gruppo di persone in ginocchio di fronte a un cumulo di pietre.
La prima risorsa per ricostruire dopo i terremoti è l’anima collettiva dei luoghi. Gli abitanti di quelle città lo sanno. Non sempre riusciamo a dirlo, ma quando si tocca col ginocchio una terra che trema, improvvisamente ci accorgiamo che non lo abbiamo dimenticato del tutto, non lo abbiamo dimenticato tutti. Un 'resto' è ancora vivo, segno e speranza che tutto il popolo tornerà. Questo lo sappiamo tutti, ma i portatori di carismi lo sanno di più, per vocazione, per compito di bene comune. Pensavamo di averlo dimenticato. Domenica lo abbiamo ricordato. Impareremo di nuovo a pregare, in ginocchio, di fronte alle macerie delle nostre chiese e delle nostre vite, per ricominciarle, per ritrovarle?
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 2/11/2016
Tra le moltissime immagini che accompagnano le nostre tante tragedie, ce ne sono alcune che spiccano, che si impongono per forza propria. Qualche volta una emerge su tutte le altre, perché alimenta riflessioni, svelando l’anima profonda di quanto è accaduto e che le parole non riescono ancora a dire. Nel terremoto di domenica 30 ottobre – che mi ha colto mentre passavo in auto sotto Arquata – la foto di quel piccolo gruppo di cittadini di Norcia, inginocchiati con le suore e i monaci davanti alle macerie della basilica di San Benedetto, è diventata l’icona di questo nuovo, indicibile, dolore. Marina Corradi lo ha scritto ieri, qui, con grande intensità.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l'11/10/2016
La cultura del contratto è la grande vincitrice del nostro tempo di troppi poveri perdenti. Si è sviluppata sulle ceneri della cultura del patto, che era stata la colonna portante dell’edificio famigliare, civile e politico delle generazioni passate. Fino a pochi decenni fa, il regno del contratto era importante ma delimitato, perché la gran parte della vita della gente era retta dal registro del patto (famiglia, amicizia, politica, religione, lavoro ...).
[fulltext] =>Patti e contratti hanno convissuto per molti secoli, erano strumenti complementari per la vita sociale. Fino a quando la globalizzazione dei mercati e della finanza e l’emergere di un ethos dove ogni legame è vissuto come un laccio per l’individuo, hanno decretato la trasformazione progressiva di tutti i patti in contratti. Il patto è (era) un fatto comunitario e simbolico. Non nasce dal solo registro dell’interesse personale, ma ha nella gratuità, nel perdono, nei legami e negli interessi collettivi i suoi elementi costitutivi. Matrimoni, cooperative, città, costituzioni, il lavoro, erano patti e non contratti – e sino a quando “vivono”, lo sono ancora. I contratti piacciono molto all’individuo postmoderno perché gli appaiono come “relazioni umane senza ferita”, cioè rapporti con costi “di attivazione” e “di uscita” molto bassi, certamente più bassi dei costi dei patti.
E così il contratto sta velocissimamente sostituendo il patto nella famiglia, nella scuola, nella sanità, nel “mercato del lavoro”, presentandosi come l’unico strumento davvero liberale e civile per regolare i rapporti umani, possibilmente tutti. Si capisce allora perché il Comitato per l’assegnazione del premio Nobel per l’economia, nel premiare ieri gli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström, abbia motivato la scelta dei vincitori dicendo che il loro lavoro sulla teoria dei contratti copre oggi una area sempre più vasta, «dalla regolamentazione dei fallimenti delle imprese, fino al disegno delle costituzioni».
La teoria economica dei contratti è infatti ormai diventata una grammatica universale per disegnare i rapporti umani non solo nelle imprese, ma anche nelle università, nella politica, e sempre più in ogni forma di organizzazione. Questo l’Accademia Reale delle scienze di Svezia mostra di saperlo molto bene. Ma ciò che forse non sa, o non dice, è che la teoria dei contratti sta cambiando profondamente il nostro modo di stare insieme al mondo, e non in meglio. Essa, infatti, veicola una ben precisa visione dell’uomo e una sempre più invadente e influente ideologia, che si basa su alcuni assiomi-dogmi tutt’altro che eticamente neutri. Il principale e più potente è la teoria dell’incentivo, secondo la quale se lo paghi in modo adeguato e sofisticato puoi ottenere praticamente tutto da ogni essere umano.
E quindi tutte le altre motivazioni non monetarie e non auto-interessate degli esseri umani non vanno prese sul serio perché non sono credibili né affidabili. Il lavoratore o il cittadino – secondo questa teoria economica – non lavora bene perché attribuisce un valore in sé al lavoro ben fatto, ma solo se adeguatamente remunerato. E dopo decenni durante i quali gli economisti hanno continuato a pensare, scrivere, e a insegnare tutto ciò, è sempre più difficile trovare qualcuno che pensi che la prima motivazione che spinge una persona a lavorare bene sia la sua etica professionale o il proprio dovere.
Un effetto collaterale di questa neopremiata teoria dei contratti, è presentare tutti i rapporti umani come rapporti liberi tra pari (come contratti, appunto). Siamo quindi all’eclissi del grande tema del potere, che viene declinato come una semplice questione di giusti incentivi. Tutto semplice, troppo semplice. Un semplicismo fondato sul grande vulnus di un forte riduzionismo antropologico, di cui la teoria dei contratti è massima espressione.
La complessità motivazionale, simbolica, relazionale, spirituale delle persone è lasciata sullo sfondo. Si dipingono uomini e donne troppo semplificati, si costruiscono contratti reali a misura di questi “omuncoli economici”, e alla fine finiamo anche per credere di essere veramente come ci vede un’economia che insegue l’antica utopia di ridurre le relazioni umane a una questione di tecnica, e perciò eticamente neutrale, universale, astratta.
E inutile, se non fosse manipolatoria. Allora, la domanda vera diventa: siamo sicuri che oggi, mentre ne continuiamo a pagare le conseguenze disastrose, fosse opportuno premiare i maggiori rappresentanti di questa teoria economica e finanziaria che viene presentata come una semplice “scatola di strumenti”? Forse, se vogliamo che la gente torni amica della teoria economica e la teoria economica si dimostri amica della gente, servono economisti più umanisti e meno tecnicisti. Studiosi che alla domanda: «Cosa ti ha spinto a diventare economista?», potrebbero dare risposte simili a quella che diede quasi un secolo fa il grande (e dimenticato) Achille Loria: «Il dolore umano».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l'11/10/2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/08/2016
Le Olimpiadi non sono un evento sportivo come tutti gli altri. Non lo sono mai state. Non sono i campionati mondiali di calcio, non sono Wimbledon, non sono il Tour de France. Non sono questo; o almeno non lo erano, perché in questa trentunesima edizione di Rio de Janeiro (tra l’altro ottima per molte cose), è iniziato, o quantomeno decollato, un tentativo di loro assimilazione allo sportbusiness dell’attuale capitalismo. In una società sempre più orientata al mercato, per lungo tempo le Olimpiadi sono state una zona franca protetta dalla logica del profitto. Il tennis, il calcio, il ciclismo, il basket, il golf – cioè, appunto – gli sport più 'di mercato', non erano gli eventi più importanti, perché le Olimpiadi erano altro.
[fulltext] =>Il business è stato sempre molto importante (basta vedere il medagliere che corrisponde quasi perfettamente al G8 o G20), ma è stato a lungo inserito all’interno di simboli e di valori diversi e più grandi. Il rapporto tra mercato e sport è particolarmente importante e delicato. Lo sport è un ambito che confina con il mercato, al punto da rischiare di non vedere la profonda diversità che esiste tra queste due sfere della vita. Nello sport e nel mercato capitalistico si compete, c’è bisogno di innovazione, di eccellenza, si può barare e si può essere leali. E così molti, dimenticando le differenze radicali, fanno il grave errore di usare metafore e linguaggio sportivi per descrivere imprese e mercati – e viceversa. Una differenza tocca la stessa natura dello sport: l’eccellenza sportiva non si misura sulla base delle vittorie, ma sulla fedeltà ai valori e ai princìpi dello sport. Un atleta può essere eccellente anche se non è vincente (se, ad esempio, gareggia nei cento metri insieme a Bolt). Non è il risultato il primo indicatore dell’eccellenza di uno sportivo.
La vittoria è certamente importante, anche perché è un segnale di virtù (quando lo sportivo, il sistema e i concorrenti sono leali) che genera imitazione, innovazioni, migliori prestazioni, record. Vincere non è il fine dello sport, il telos avrebbero detto i greci. La medaglia olimpica non è un incentivo: è un premio, cioè un segnale che riconosce e rafforza la virtù-eccellenza di uno sportivo, che attiva le dimensioni della emulazione virtuosa. E quando la medaglia da premio si trasforma in incentivo, è lo sport che diventa un’altra cosa, e non migliore. È qui che si fonda l’etica originaria delle olimpiadi moderne, che sono il paradigma della pratica sportiva. Quando, allora, il mercato capitalistico prende in mano lo sport, produce inevitabilmente un cambiamento e una deformazione profonda della sua natura, perché agisce sullo scopo, sulla ragione d’essere di questa pratica, sul suo telos, e presto sulla motivazione degli sportivi, quelli in attività e ancor di più sui futuri campioni, che saranno sempre meno interessati ai premi e sempre più agli incentivi. Tutto ciò è una faccenda seria, che non ha nulla a che fare con il romanticismo nostalgico dei bei tempi passati.
Qualcuno può anche essere soddisfatto di questa mercatizzazione dello sport (come lo è di altri giochi, della scuola, della sanità), tutti però dobbiamo essere coscienti che la posta in ballo è molto alta. Tornando a Rio, sono stati molti i segnali che anche le Olimpiadi stanno subendo (o hanno già subito) una mutazione genetica. A partire dal braciere olimpico collocato nel Maracanã, mitico tempio del calcio, e non nello stadio dell’atletica, uno stadio di calcio che è stato molto più frequentato delle piscine, delle palestre e delle piste da atletica, e forse non solo perché eravamo in Brasile. Un altro segnale è stata la crescente spettacolarizzazione degli eventi sportivi. Alcuni regolamenti (nel tiro, per esempio) sono stati modificati al fine di renderli più televisivi ed exciting, ignorando le proteste degli atleti che si sentivano trattati come circensi e giocolieri cose ottime, tra l’altro, ma nel loro contesto. Impressionante poi la metamorfosi delle cerimonie di premiazione, dove abbiamo assistito a toni, urla, musiche, dj sempre più simili a quelli inventati prima nel football americano e poi negli ultimi anni importati negli stadi di calcio.
Sono stati, poi, riammessi molti atleti professionisti, anche nella boxe. E non ultima è arrivata la discutibilissima idea di reintrodurre il golf che – massima beffa – non ha visto la partecipazione dei giocatori più famosi, sensibili a ben altri incentivi. Ma il segnale più preoccupante è arrivato proprio dalla nostra Italia. Il tradizionale colore azzurro delle nostre divise olimpioniche è stato interamente mangiato da un gigantesco numero 7 (bianco su sfondo nero) dello sponsor. L’inno nazionale delle nostre (molte) medaglie è diventato di fatto una colonna sonora di quella azienda. Non è stata davvero una grande presentazione per candidatura di Roma per il 2024. In sostanza, quella sottile ma chiara linea che separa lo sport-business dallo sport-e-basta sta diventando invisibile, perché il mercato capitalistico non può conoscere quella gratuità che è la natura più profonda dello sport, almeno di quello olimpico. Ora il test definitivo sarà rappresentato dalle Quindicesime Paralimpiadi, le Olimpiadi delle 'abilità differenti', che rischiano di pagare le difficoltà finanziare generate dalle sorelle maggiori (di cui condividono il budget) nelle quali gli affari li hanno fatti soggetti diversi dagli organizzatori. A partire dal 7 settembre lì vedremo – dalla presenza degli spettatori all’attenzione dei media – cosa resta dello spirito olimpico, se un suo ultimo soffio è ancora libero di volare senza le zavorre del business.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/08/2016
Le Olimpiadi non sono un evento sportivo come tutti gli altri. Non lo sono mai state. Non sono i campionati mondiali di calcio, non sono Wimbledon, non sono il Tour de France. Non sono questo; o almeno non lo erano, perché in questa trentunesima edizione di Rio de Janeiro (tra l’altro ottima per molte cose), è iniziato, o quantomeno decollato, un tentativo di loro assimilazione allo sportbusiness dell’attuale capitalismo. In una società sempre più orientata al mercato, per lungo tempo le Olimpiadi sono state una zona franca protetta dalla logica del profitto. Il tennis, il calcio, il ciclismo, il basket, il golf – cioè, appunto – gli sport più 'di mercato', non erano gli eventi più importanti, perché le Olimpiadi erano altro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/07/2016
La nostra capacità di soffrire per le sofferenze degli altri e di gioire per le loro gioie, ha subito in pochi decenni un declino rapidissimo. La civiltà dei consumi e del confort confonde il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza, dimenticando così una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come ci sono molti cattivi piaceri.
[fulltext] =>E così le tv, i nuovi totem postmoderni, ci promettono una vita più felice facendoci passare nel giro di pochi secondi dall’ultima strage in Francia all’ultimo gioco di 'pacchi', dando vita a un appiattimento degli eventi che genera un livellamento verso il basso delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti.
Le grandi conquiste della democrazia, dei diritti e delle libertà, sono il frutto maturo di millenni di civiltà e di fede, dove abbiamo imparato a soffrire e a sdegnarci per cose nuove e diverse: per le libertà degli altri negate, per i loro diritti schiacciati, per le ingiustizie verso persone che non erano nostri parenti né amici. Senza queste nuove sofferenze non saremmo usciti dai regimi, non ci saremmo liberati dai faraoni né dalle tante forme di schiavitù e di servitù.
Questo tipo di emozioni sociali sono in parte naturali, ma la loro intensità e qualità sono frutto della cultura e dell’educazione del carattere. Sentiamo naturalmente un senso di malessere quando entriamo in contatto con chi soffre attorno a noi, ma per sentire fino al punto di agire, di muoverci, di andare in loro aiuto c’è bisogno di qualcosa di più della natura. Provare disagio per una vittima che incontriamo lungo la strada è naturale, prendersene cura si chiama cultura.
L’empatia è naturale, la compassione no, perché nasce dalla coltivazione, individuale e collettiva, di alcuni particolari emozioni e sentimenti più alti. Le norme sociali, ce lo ricordava già Adam Smith a metà Settecento, sono generate dalla capacità che gli esseri umani hanno sviluppato di approvare e biasimare le azioni e i sentimenti degli altri (e i propri), tramite quella facoltà che lui chiama 'simpatia'. L’equilibrio sociale è il risultato dell’ordine spontaneo della dinamica dei sentimenti, come il mercato lo è della dinamica degli interessi.
Questo equilibrio dei sentimenti può però assestarsi a livelli bassi (per esempio, nelle società di banditi) o a livelli alti, quando i popoli sviluppano religioni, arte, filosofia, bellezza, pietas. Ma anche l’ordine morale 'alto' dei sentimenti, come tutte le realtà fragili perché delicate, può andare in frantumi nel far di un mattino per mancanza di cura e di accudimento. E come accade per quasi tutte le abilità e virtù, se la compassione e lo sdegno non sono coltivati e praticati si atrofizzano, e regrediamo a stadi morali inferiori.
L'esposizione costante alla ideologia economica e del consumo ci sta trasformando in animali sempre meno capaci di compatire e di sdegnarci: soltanto venti anni fa lo sapevamo fare molto meglio. Ci attende un mondo dove saremo sempre più capaci delle emozioni naturali e facili verso gattini e cagnolini, ma non sapremo più solidarizzare e soffrire per le povertà e per le ingiustizie attorno a noi. La globalizzazione non ha potenziato questi sentimenti, li ha frantumati e ridotti d’intensità e efficacia, rendendoci più capaci di emozioni semplici e a basso costo ma meno capaci di quelle complesse e costose, che in Occidente erano il risultato di un processo articolato, dove il cristianesimo e l’umanesimo biblico hanno svolto un ruolo fondamentale.
Abbiamo imparato a sentire diversamente con l’anima osservando e meditando nelle chiese i quadri e gli affreschi del presepe, delle parabole, delle croci e delle resurrezioni, guardando le statue e le storie dei martiri e dei santi. Durante le Messe i nostri nonni non capivano tutte le parole, ma capivano molto bene il vangelo delle immagini – lo possiamo vedere ancora oggi quando i bambini vengono in chiesa, e sono molto più capaci di noi di dialogare con i dipinti e i volti attorno a loro.
Se vogliamo rispondere seriamente a questa crisi della nostra capacità di sentire e soffrire per cose grandi e alte, dobbiamo lavorare di più e diversamente con i giovani e con i bambini e le bambine di oggi, riconoscendo un ruolo speciale alla scuola, che è uno dei pochi beni pubblici globali ancora rimasti. La letteratura, l’arte e la musica sono essenziali per formare le emozioni e i sentimenti più profondi e grandi, in tutti ma soprattutto nei ragazzi e nei giovani. Le prime fiabe, La cavallina storna, Don Rodrigo, il figliol prodigo, San Martino, ci hanno donato gratuitamente le lettere con cui abbiamo scritto le prime frasi della nostra coscienza e del nostro sdegno, con cui abbiamo imparato a piangere per dolori e gioie di altri, a soffrire e a gioire per persone che non avremmo mai incontrato e che non sono mai esistite (ma più reali e veri di tanti vicini di casa). Se da giovani non si incontra almeno un poeta amante della nuda verità (Giacomo Leopardi, per esempio), da adulti non riusciamo a liberarci dalle ideologie, e ci asserviamo a qualche idolo dalle risposte semplici alle nostre domande ancora più semplici.
Oggi i nostri bambini crescono educati principalmente da tv e telefonini, in compagnia delle nuove telenovelas per ragazzi, che rappresentano sullo schermo niente più di quanto i ragazzi vivono tutti i giorni, senza alcuna capacità di far sognare e desiderare loro cose più grandi del loro cuore. Le storie televisive della mia infanzia erano il 'Pinocchio' di Collodi interpretato da Comencini e il 'Michele Strogoff' di Decourt, tratto da Jules Verne. Ho riascoltato poco tempo fa le colonne sonore di quei film e si sono improvvisamente riaccesi quei giorni e le mie prime emozioni sul bene e sul male degli altri, quando senza maestri imparai che un padre può vendere anche la sua unica giacca per far studiare un figlio, e che un contadino povero può donare il suo unico cavallo per un ideale più grande.
C'è poco da sperare in un cambiamento di rotta delle tv, pubbliche e private, sempre più nelle mani di sponsor mercanti di profitti. Ma la scuola? I governi occidentali stanno riducendo lo spazio dell’educazione artistica e umanistica, in tutte le scuole di ordine e grado. In una cultura dove le fedi e le grandi narrative collettive hanno perso spazio, se priviamo sistematicamente i giovani anche della letteratura, dell’arte, della musica alta e della poesia produrremo persone senza le passioni e i sentimenti più importanti per vivere insieme nella pace e nella libertà. Se non reagiamo a questa anoressia di compassione, i nostri figli passeranno presto per il centro di Varsavia e non sapranno più 'rivedere' il ghetto e i suoi 450mila ebrei deportati e uccisi, non sapranno più entrare in quella sinagoga e lì piangere per la vergogna. E questo sarebbe un giorno troppo triste. La capacità di compassione della sua gente è una risorsa immensa dei popoli. Non meno preziosa del petrolio e della tecnologia. Iniziare a parlare del suo deterioramento è il primo passo per provare a ricostituire questo patrimonio in rovina.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/07/2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/07/2016
C’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.
[fulltext] =>La banca, con alcune specificità regionali e culturali, era sempre rimasta una istituzione ibrida di (molto) pubblico e (poco) privato. Troppi gli interessi in gioco nella gestione del risparmio delle famiglie e delle imprese, da poter considerare la banca una impresa come tutte le altre.
In particolare nei Paesi latini di cultura cattolico-comunitaria, la dimensione pubblica e statale della finanza era particolarmente forte. Un controllo svolto soprattutto ex-ante ed ex-post, meno durante lo svolgimento dell’attività bancaria-finanziaria ordinaria: i governi e le autorità bancarie e finanziarie intervenivano all’inizio (concessioni, autorizzazioni) e alla fine (in caso di crisi, fallimenti, denunce).
Lo scenario è iniziato a cambiare radicalmente con la fine del millennio. Innanzitutto è aumentata la velocità della finanza, se confrontata con quella dell’economia reale e soprattutto con la "lentezza" della politica: le operazioni finanziarie sono talmente veloci che controllarle "prima" o "dopo" è molto difficile, e soprattutto è quasi del tutto inutile. In secondo luogo, la globalizzazione ha ridotto in generale la forza della politica e dei governi in rapporto a quella dei mercati. Ancor di più è diminuita la forza di gestire e regolare i mercati finanziari, che si spostano come vogliono, cercando paradisi (o almeno purgatori) fiscali – il quasi totale e globale fallimento dei vari tentativi di introduzione di serie Tobin Tax et similia, dice anche di questa debolezza. Da ultimo (ma potremmo anche continuare), l’ideologia del mono-mercato, intrecciata con l’ideologia neo-manageriale, ha progressivamente creato in questi anni la convinzione che la banca non è altro che una impresa come tutte le altre (solo con qualche vincolo in più), perché il suo scopo è massimizzare profitti, come tutte le imprese in tutti i mercati. Sono organizzazioni economiche, si sente dire sempre più spesso, che vanno gestite con la stessa cultura, le stesse tecniche, strumenti e cultura di tutte le imprese in tutti i Paesi, da Tokyo a Duala.
Questa "triplice alleanza" è alla radice della crisi finanziaria globale degli anni passati, e anche della crisi del nostro sistema finanziario. Qualcuno continua a ripetere che la crisi delle banche italiane dipenda principalmente se non soltanto dal nostro "familismo amorale" e dalle troppe filiali, facendo come chi di fronte a un malato di tumore, per la terapia si basasse sulla diagnosi dell’artrosi di cui il paziente soffre da trent’anni. E, sbagliando diagnosi, si sente sempre più dire che la guarigione delle banche italiane si trova nell’imitare le grandi banche internazionali, viste come l’immagine della salute e del futuro della buona finanza. Il mondo finanziario continua a soffrire per mancanza di pensiero – e con esso soffre anche quello politico.
Riusciremo a curare il nostro sistema bancario, nazionale e globale, se riporteremo più democrazia finanziaria dentro le banche, una democrazia che invece dai patron della finanza è vista soltanto come attrito, costo, inefficienza. Dobbiamo ricordare, dire e scrivere due princìpi generali della buona finanza di domani. La governance ordinaria delle banche non può e non deve essere affidata soltanto agli azionisti, ai "padroni" – almeno che non si riesca a separare di nuovo le banche d’affari da quelle che gestiscono i risparmi delle famiglie e delle imprese, operazione ormai molto complessa se non impossibile, poiché oggi quasi tutte le banche sono di fatto banche d’affari.
Bisogna allora immaginare i Cda con una quota non piccola di membri indicati dai cittadini, con meccanismi partecipativi tutti da studiare, ma non impossibili (qualcuno li sta già studiando). E – lo ripetiamo – è urgente affiancare in tutte le banche un comitato etico al Cda, che abbia poteri reali, che accompagni e controlli la gestione ordinaria degli affari. I controlli ex-ante ed ex-post non sono più efficaci nel mondo vorticoso della fast-finance. Alcune banche lo stanno già sperimentando, ma noi cittadini dobbiamo chiedere che questi cambiamenti nella governance avvengano subito e decisamente. In gioco non c’è soltanto il futuro dei nostri risparmi (e sarebbe già molto), ma la sostenibilità delle nostre democrazie.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/07/2016
C’è un aspetto troppo assente dai dibattiti di questi giorni su banche e tentativi di soluzione della crisi. È la governance delle banche e del sistema finanziario, che è evidentemente obsoleta se la rapportiamo con i cambiamenti rapidissimi e profondi di questi ultimi tre decenni. Tra il Seicento e la seconda metà del Novecento la logica del rapporto tra finanza e politica era rimasto sostanzialmente immutato: le banche e le finanze erano considerate attività troppo strategiche e delicate per lasciarle nelle mani del libero gioco della domanda e offerta di denaro.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016
Una grande utopia del nostro capitalismo è la costruzione di una società dove non ci sia più bisogno del lavoro umano. C’è sempre stata un’anima dell’economia che ha sognato imprese e mercati "perfetti" al punto da poter fare a meno degli esseri umani. Gestire e controllare uomini e donne è molto più difficile che gestire docili macchine e ubbidienti algoritmi. Le persone concrete attraversano crisi, protestano, entrano in conflitto tra di loro, fanno sempre cose diverse da quelle che dovrebbero fare secondo i mansionari, spesso le fanno migliori.
[fulltext] =>Perché siamo semplicemente liberi, esseri spirituali, e quindi sempre eccedenti rispetto ai compiti, ai contratti, agli incentivi. Il mercato veramente perfetto sarebbe allora quel sistema di tecniche, controlli, incentivi, strumenti, finalmente capace di garantire la massima efficienza e la massima produzione di ricchezza, riducendo fino ad eliminare la presenza umana dalle nuove città della nuova economia.
Oggi, grazie ai traguardi straordinari raggiunti dall’automazione e dalla digitalizzazione, quell’antica utopia rischia seriamente di avverarsi. Se, infatti, guardiamo bene al clima che si respira dentro le grandi imprese, ci possiamo accorgere che l’obiettivo che si cela dietro la retorica di una certa cultura manageriale (che afferma esattamente l’opposto) è la standardizzazione, la prevedibilità e la formattazione dei comportamenti dei lavoratori, per depotenziarne quella carica di libertà che non può rientrare nella razionalità della tecnica. Si vorrebbero prestazioni lavorative senza i lavoratori, lavoro senza persone, estraendo dall’azione umana solo la sua componente perfettamente orientata agli obiettivi della proprietà. Ridotta alla sua essenza più nuda, è questa la natura della sempre più sofisticata ideologia dell’incentivo, che è la nuova religione del capitalismo post-moderno.
Ma quando il lavoro viene ridotto a tecnica e prestazione, quando le organizzazioni diventano così razionali da "costruire" lavoratori che imitano la logica delle macchine, non resta più nulla di quell’attività antropologica primaria che è il lavoro umano, e del suo mistero. E se gli uomini e le donne perdono la loro capacità di lavorare perdono molto, troppo, quasi tutto della loro dignità, del loro essere stati fatti "poco meno di Elohim" (Salmo 8). La realizzazione dell’utopia del lavoro-senza-umani sarebbe allora soltanto l’attualizzazione della perfetta disumanizzazione della vita in comune. E per continuare a vivere, saremmo costretti ad emigrare in massa verso altri terre e altri pianeti dove sia ancora possibile lavorare veramente.
Questa festa del lavoro può essere allora un momento propizio per ricordarci e ricordare che cosa sono il lavoro e i lavoratori. Dovremmo ricordarci, ad esempio, che se vogliamo conoscere veramente una persona dobbiamo guardarla mentre lavora. È lì che si rivela con tutta la sua umanità, è lì che si trovano la sua ambivalenza, i suoi limiti ma anche, e soprattutto, la sua capacità di dono e di eccedenza. Possiamo far festa insieme, uscire a cena, giocare a calcetto con gli amici, ma niente come il lavoro è una finestra antropologica e spirituale che ci svela chi ci sta vicino. Non è raro che pensavamo di conoscere un amico, un genitore, un figlio, finché un giorno ci capita di vederlo lavorare e improvvisamente scopriamo di non averlo mai conosciuto veramente, perché ci era rimasta velata una dimensione essenziale della sua persona, che ci si è aperta solo mentre lo guardavamo lavorare: mentre ripara un’auto, pulisce un bagno, fa una lezione, prepara un pranzo. Siamo tutti noi presenti nella mano che stringe la vite, nella penna che scrive, nello straccio che asciuga: è qui che incontriamo l’umanità nostra e quella degli altri. E, quasi sempre, nasce una nuova stima e una nuova gratitudine per il lavoro che vediamo e scopriamo come dono. Poche realtà danno gioia più del lavoro ben fatto, e quindi pochissime cose (se ce ne sono) danno più infelicità di lavorare male, anche quando non riusciamo a fare diversamente. Siamo diventati grandi guardando i grandi lavorare.
Ho "conosciuto" mio nonno Domenico quando, bambino, l’ho visto nella sua officina costruire con le sue mani un banchetto, per me. Solo lì ho capito cosa fossero veramente le sue grandi mani callose e sapienti, e a partire da lì l’ho conosciuto. Di lui mi resta oggi solo quel banchetto, custodito nel mio studio accanto ai libri, e in quei legni non manca nulla della sua anima, perché un giorno l’ho vista incarnarsi quell’oggetto, costruito come dono, per me.
Una grave forma di povertà dei nostri bambini è non poter guardare più il lavoro degli adulti, perché troppi lavori stanno diventando astratti, invisibili, confinati in non-luoghi lontani e inaccessibili, soprattutto ai bambini e ai giovani. Quale lavoro potranno creare domani se oggi vivono immersi in mille spettacoli, ma privati dello spettacolo del lavorare, il più grande della terra? Un dono grande per i figli è dare loro la possibilità di vedere il lavoro vero e concreto, e da lì iniziare a vedere il mondo.
Ci sono poche esperienze umane e spirituali più vere di passare per le città e guardare la gente mentre lavora. Non c’è allora modo migliore di festeggiare il lavoro che tornare a guardarlo, vederlo, riconoscerlo, e poi ritornare riconoscenti. È la nostra stima, personale e collettiva, per il lavoro e per i lavoratori la prima e vera riforma di cui ha bisogno il mondo del lavoro. E magari, in questo giorno di non-lavoro, torniamo a leggere qualche pagina sul lavoro dei classici della tradizione civile italiana: "Non v’è lavoro, non v’è capitale - ha scritto Carlo Cattaneo - che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in essa per la prima volta il carattere di ricchezza".
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il: 01/05/2016
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/03/2016
Resurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.
[fulltext] =>Se resurrezione è parola umana, allora è anche una parola dell’economia. C’è molta resurrezione nell’economia, nelle imprese, nel mondo del lavoro. La possiamo vedere tutte le mattine, anche in questi tempi di crisi, soprattutto in questi tempi di crisi. Ma dobbiamo imparare a vederla, riconoscerla, guardando il mondo con “occhi di resurrezione”. Non è facile vedere e riconoscere i risorti e le risurrezioni, per molte ragioni, ma soprattutto perché nei corpi dei risorti ci sono le stigmate della passione. E le ferite nostre e degli altri ci fanno paura, fuggiamo da esse e non riusciamo a viverle come l’inizio della resurrezione e il sacramento che l’accompagna sempre. E cercando la resurrezione nell’assenza delle piaghe e del dolore, non la troviamo, o magari la confondiamo con il successo. Non vediamo la resurrezione perché pensiamo che sia l’anti-croce o l’opposto della passione, e non il suo compimento. Fuggiamo dai crocifissi e dagli abbondonati, e non incontriamo i risorti che si trovano soltanto lì. La resurrezione comincia sulla croce, e i suoi segni sono per sempre.
Il Cristo risorto è la resurrezione del suo corpo ferito. La novità di questa resurrezione sta anche nella sua corporeità. Il corpo risorto non è però un ritorno al corpo del giovedì, la resurrezione non è un evento che cancella i segni della flagellazione e della Via Crucis. Il Cristo appare con le sue piaghe, la luce della resurrezione non aveva eliminato le stigmate del venerdì santo. La gloria del risorto non è allora la gloria dell’eroe antico: la sua è una gloria ferita, umile, debole. I risorti che appaiono senza piaghe sono fantasmi, illusioni, sogni, o ideologie, e quindi la loro luce è finta. Le nostre resurrezioni iniziano mentre gridano gli abbandoni sulle croci. E se non impariamo a gridare, non impariamo neanche a risorgere. Non capiamo la logica delle beatitudini se non la guardiamo dalla prospettiva di un risorto con le stigmate.
Le piaghe che restano dopo la resurrezione sono un elemento fondamentale per capire l’economia della salvezza, ma anche la salvezza dell’economia. Se le ferite restano nei corpi risorti, allora non esiste una economia dei crocifissi e una economia dei risorti. La croce e la resurrezione sono dentro la stessa economia, dentro la stessa vita. Per trovare le vere resurrezioni nella nostra società ed economia, dovremmo allora andarle a cercare dove nessuno le cerca più. Tra le tante imprese che stanno nascendo dagli immigrati e dalle loro ferite, nelle molte cooperative che fioriscono dentro le carceri, tra quei giovani che decidono di non lasciare la loro terra e imparano umilmente gli antichi saperi delle mani, in mezzo a quei lavoratori che non si arrendono di fronte alle molte ragioni della proprietà e del mercato e fanno risorgere la loro azienda. Senza commettere l’errore di pensare che le ferite che hanno generato la resurrezione un giorno spariranno, e sarà tutto e solo luce.
Quando nascondiamo i segni delle piaghe, le nostre storie di resurrezione, anche quelle autentiche, non diventano luoghi credibili di speranza per chi si trova ancora nella stagione della croce. Nella nostra economia ci sono troppi sfiduciati che aspettano solo di poter mettere le mani nelle piaghe delle resurrezioni, per poter capire e amare diversamente anche le proprie piaghe non ancora risorte. Le resurrezioni non si trovano al termine delle ferite, ma dentro di esse.
Tra i molti significati della parola pèsach, la prima pasqua, c’è anche il verbo zoppicare (psh). Quando il lettore della Bibbia legge “zoppicare” pensa a Giacobbe, il grande zoppicatore. Nel guado notturno del fiume Yabbok, Elohim lo ferì al nervo sciatico, lo rese zoppo, gli cambiò il nome in Israele. Secondo una tradizione rabbinica Giacobbe zoppicò per il resto della sua vita. Nel combattimento notturno, nel guado del Mar Rosso rinacque il nuovo popolo, ma il segno-ricordo della schiavitù d’Egitto non è mai scomparso dal suo corpo. Dal grande combattimento del Golgota fiorì un corpo risorto con le stigmate. Le resurrezioni sono ferite trasformate in benedizioni, e mai cancellate. Quando si risorge, le ferite restano, ma diventano luminose. Le vere resurrezioni si riconoscono dalla luce che irradia dalle loro piaghe.
Ndr - L'immagine di "Gesù Risorto" di Michel Pochet (CentroMaria) si trova presso la Mariapoli Faro (Križevci, Croazia)
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/03/2016
Resurrezione è una grande parola della terra. La vita che rinasce dalla morte è la prima legge della natura, delle piante e dei fiori, che riempiono di colori e di bellezza il mondo perché ci dicono che la vita è più grande della morte che la nutre. Le donne e gli uomini rinascono molte volte nel corso dell’esistenza, ritrovandosi risorti dopo lutti, abbandoni, depressioni, malattie che li avevano prima crocifissi. Qualche volta siamo risorti resuscitando qualcun altro dal suo sepolcro, e sono state queste le resurrezioni più belle e vere. Se la resurrezione non fosse stata una parola umana, amica e di casa, quelle donne e quegli uomini di Galilea non sarebbero stati capaci di intuire qualcosa del mistero, unico, che si era compiuto tra la croce e il giorno dopo il sabato.
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di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli
pubblicato su Avvenire il 22/12/2015
Anche quest’anno è arrivata puntuale la classifica della "qualità della vita delle città italiane" curata dal "Sole24Ore". E anche quest’anno le città del nord si confermano ai primi posti (con Bolzano in testa) e quelle sud in coda (chiude Reggio Calabria). Le aree tematiche sono sempre le stesse, con qualche leggero cambiamento di indicatori all’interno di ciascuna area. Anno dopo anno, però, questa analisi sta diventando "vecchia". Nel frattempo sono nati altri indicatori di qualità della vita, capaci di cogliere più dimensioni del benessere e del malessere nella società italiana che negli ultimi decenni è cambiata rapidamente e profondamente.
[fulltext] =>Sono poi sorti studi sulla felicità soggettiva delle persone, che stanno evidenziando molti paradossi, dicendoci che gli aspetti immateriali e la qualità delle relazioni sono sempre più decisivi nel benessere del XXI secolo, soprattutto nei Paesi europei.
Le misurazioni non sono mai neutrali. Esse dipendono dalle ipotesi etiche e antropologiche di chi misura e costruisce modelli statistici. Questa del "Sole" risente molto, troppo, di una visione economicista e quindi riduzionista della vita e del benessere umano.
Qualche esempio. Prendiamo l’indicatore che mette in rapporto la qualità della vita con la popolazione. Molte provincie della Sardegna sono ai primi posti in questo indice, e la ragione è semplice ma sconvolgente: hanno una bassa "densità di popolazione". Bassa densità di popolazione per il "Sole24Ore" è un indicatore di qualità della vita. «La Sardegna sbaraglia tutti in demografia», dice il rapporto. Ma la bassa densità dipende anche dal basso tasso di natalità. In Sardegna il tasso di natalità è, infatti, il più basso d’Italia: non generare figli è un segno di qualità della vita?
Roma, poi, è al sedicesimo posto (su 110) nella classifica, ma chi vive e lavora a Roma non fa l’esperienza di una città con qualità della vita medio-alta. L’esperienza di chi esce al mattino di casa con mezzi pubblici o privati è quella di chi sa a quale ora esce, ma non a quale ora arriverà a lavoro, di chi sa che trascorrerà molto tempo in coda nelle strade e che quando finalmente cammina inciampa in un’infinita quantità di buche. Indicatori, questi, che non entrano tra quelli proposti, così come non entrano i tempi di attesa per la sanità. Per non parlare in questi giorni della qualità dell’aria e dei poveri che continuano a dormire per strada. Questi "indicatori" non dicono nulla sulla qualità della vita di Roma o di Milano (che si piazza al secondo posto)? La povertà degli altri non dice nulla al nostro benessere?
Se, poi, andiamo a guardare alla misurazione del tempo libero in rapporto alla qualità della vita, ci accorgiamo che il tempo libero che entra nella classifica è solo il tempo libero che passa per il mercato. Quindi se in una città i bambini giocano di più nelle piazze o negli oratori, se la gente che pedala corre ancora per le spiagge o nei boschi (e non in palestra), se la sera le persone vanno a cena da amici e da parenti, lì, per il "Sole24 ore", c’è una minore qualità della vita rispetto a una città dove sono presenti più palestre, ristoranti, e bar (magari pieni di slot machine). E così Roma si trova più in alto di Ascoli Piceno, un ranking che nessun essere umano cosciente che vive veramente nelle due città potrebbe mai condividere. Nel Bes (benessere equo e sostenibile), invece, nell’area "relazioni sociali" ci sono indicatori che rilevano la percentuale di bambini che giocano tutti i giorni con i genitori, o quella delle persone che si ritengono soddisfatte delle loro relazioni, o l’indice di fiducia.
Non c’è nulla di strano che il "Sole" faccia la sua classifica della qualità della vita, con i suoi metodi, le sue ipotesi antropologiche e la sua visione del benessere e della vita buona. Più problematico è affidare a un giornale economico-finanziario che è espressione del mondo industriale il compito di stilare la classifica della qualità della vita in Italia, e poi trarne indicazioni generali. La tradizione italiana di economia e di statistica, nata dalla tradizione dell’economia civile (si pensi a Melchiorre Gioja, nei primi dell’Ottocento), ci ha offerto una visione molto più articolata e plurale della qualità della vita. Più recentemente economisti come Giorgio Fuà e Giacomo Becattini hanno scritto pagine splendide sul bisogno di allargare lo sguardo del benessere dal reddito alle relazioni umane e all’ecologia. Autori troppi distanti dalla cultura (prevalentemente) anglosassone del "Sole24ore", che continua a produrre dati che dicono troppo poco della qualità della vita vera della gente vera delle nostre città.
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Ma quale visione antropologica si cela sotto ai criteri di questa classifica? Davvero si vive meglio a Milano o Roma rispetto che ad Ascoli Piceno? Il parere di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli, oggi su Avvenire. 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di Luigino Bruni e Alessandra Smerilli
pubblicato su Avvenire il 22/12/2015
Anche quest’anno è arrivata puntuale la classifica della "qualità della vita delle città italiane" curata dal "Sole24Ore". E anche quest’anno le città del nord si confermano ai primi posti (con Bolzano in testa) e quelle sud in coda (chiude Reggio Calabria). Le aree tematiche sono sempre le stesse, con qualche leggero cambiamento di indicatori all’interno di ciascuna area. Anno dopo anno, però, questa analisi sta diventando "vecchia". Nel frattempo sono nati altri indicatori di qualità della vita, capaci di cogliere più dimensioni del benessere e del malessere nella società italiana che negli ultimi decenni è cambiata rapidamente e profondamente.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/12/2015
Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.
[fulltext] =>Le banche non sono mai state soltanto imprese. Tutti noi continuiamo a vederle come dei “luoghi della fiducia”, e così affidiamo loro i nostri risparmi e i nostri investimenti. Sono tra le istituzioni dei nostri paesi e delle nostre città, insieme alla Scuola, all’Ospedale, al Comune. Gestendo i risparmi amministrano il rapporto tra le generazioni, e sono la prima cinghia di trasmissione tra famiglie e imprese. In altre parole, sono chiamate a svolgere funzioni di bene comune e di interesse generale. Per queste ragioni, fino a pochi decenni fa, le banche non erano soltanto delle imprese come quelle che producono scarpe o vestiti. E quindi non erano, né potevano essere, aziende a solo scopo di lucro.
Ma l’ondata di ideologia mono-mercatista che da qualche decennio sta invadendo il pianeta, ci ha via via convinto che tra una banca e una impresa di automobili non ci fosse alcuna vera differenza. Perché l’obiettivo è diventato lo stesso: massimizzare il valore per gli azionisti. E così è radicalmente cambiata anche la cultura dei banchieri e dei bancari, che oggi escono dalle stesse business school che formano i manager delle grandi multinazionali. Si è persa qualsiasi specificità del funzionario di banca rispetto al lavoratore e al dirigente di ogni grande impresa privata (o pubblica). Gli stessi consulenti globali, gli stessi strumenti di gestione, la stessa logica dell’incentivo – non a caso dietro all’offerta drogata e sconsiderata di obbligazioni subordinate c’era una precisa politica di incentivazione dei dipendenti.
Le banche nel Novecento erano anche imprese: ora sono soltanto imprese, una trasformazione avvenuta nel silenzio complice della politica, delle banche centrali e dei sindacati. E nella distrazione di troppi di noi.
Se vogliamo veramente invertire questa rotta (operazione ormai durissima), occorrerebbero due grandi riforme. La prima riguarda scuola e società civile. È diventato, infatti, troppo grande il divario tra l’importanza della finanza e dell’economia e la cultura finanziaria ed economica media della popolazione. Non possiamo più continuare a vivere da analfabeti in un mondo che “parla” sempre più finanza ed economia. Qualche anno fa, in piena crisi del debito, su queste colonne lanciammo l’idea di dar vita a scuole popolari di economia e finanza – un invito raccolto solo da qualche città, tra queste Catania. Chi oggi ha a cuore la democrazia e il bene dei più fragili deve occuparsi anche di cultura economica e finanziaria.
C’è bisogno di una nuova stagione di scuole popolari nelle parrocchie, negli oratori, nelle associazioni, nei circoli. E alla scuola spetta un ruolo cruciale: dobbiamo inserire elementi di economia e di finanza negli ultimi anni di tutte le scuole superiori. Se non si vogliono appesantire i già pesanti programmi curriculari, si possono immaginare, con creatività, laboratori pomeridiani o durante l’estate, attività svolte da volontari e dalle tante associazioni che hanno una mission di economia e finanza sociale e civile.
La seconda riforma riguarda direttamente il governo delle banche: il peso e la responsabilità delle banche e delle istituzioni finanziarie sono ormai troppo grandi per lasciarlo in mano soltanto agli azionisti. Le banche non rispondono fino in fondo dei loro comportamenti. Una legge etica fondamentale del mercato dice che alla libertà di scelta deve corrispondere la responsabilità patrimoniale, civile e penale di chi sceglie.
Questa regola, già in crisi per tutte le imprese molto grandi, è quasi inapplicabile alle banche, i cui interessi sono troppo intrecciati con quelli delle famiglie, delle imprese, e del sistema in generale per essere isolati e chiamati a rispondere per i danni che generano. Se allora la responsabilità per le conseguenze delle azioni delle banche è condivisa con l’intera società civile, occorre che sia condiviso anche il governo delle banche. Dobbiamo trovare meccanismi (non facili, ma non impossibili) perché nei Consigli di amministrazione delle banche non ci siano solo rappresentanti scelti dagli azionisti, ma pure quelli designati dalla società civile. Inoltre, in tutte le banche sarebbe opportuna l’istituzione di un “comitato etico” indipendente (come accade in Banca Etica), con potere di veto. Una tale riforma non verrà mai dall’interno del mondo finanziario: dovremmo essere noi cittadini ad avere la volontà e la forza di chiederla dal di fuori e con gli strumenti che abbiamo. Sarebbe il primo inizio di una sostanziale democrazia economica.
Non è più possibile pensare al rapporto tra banche e società come nel passato, quando le istituzioni e la politica controllavano economia e finanza solo dopo, a valle. Oggi, con la velocità dell’economia e con il cambiamento della cultura bancaria, c’è bisogno che il controllo etico e di legittimità venga esercitato dall’interno e durante l’esercizio dell’attività ordinaria. Perché quando le acque dei fiumi avvelenati a monte giungono a valle, hanno già prodotto molti danni, ed è sempre troppo tardi. Le acque non risalgono la corrente. Gli inquinamenti della fiducia vanno evitati alla fonte e lungo il corso del fiume, perché sono le persone, non le banche, a essere “troppo grandi per fallire”.
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Democrazia economica e finanza etica
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/12/2015
Se non vogliamo disperdere l’indignazione e la sofferenza che sta procurando il “crac delle quattro banche”, e magari anche quelle generate dai crac che l’hanno preceduto in questi ultimi anni e che abbiamo presto dimenticato (le memorie collettive delle disgrazie sono sempre troppe corte), dobbiamo riformare seriamente il governo interno delle banche e dar vita a una vera educazione economico-finanziaria popolare, nelle scuole e nella società civile.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/12/2015
Se vedessimo imprese produttrici di tabacco fare campagne contro il fumo, produttori di superalcoolici finanziare campagne contro il consumo di alcool, aziende fabbricanti di mine anti-uomo lanciare campagne contro le guerre, resteremmo molto perplessi. Quantomeno ci sfiorerebbe il dubbio che sotto queste iniziative ci sia qualche imbroglio o strumentalizzazione. Invece ci stupiamo poco, o nulla, quando leggiamo che Lottomatica – uno dei ’campioni’ nostrani del settore e, ormai, prima multinazionale dell’azzardo nel mondo – sta finanziando la campagna "Facciamo girare la voce" per educare i cittadini, soprattutto i minorenni, al «gioco responsabile».
[fulltext] =>Oggi, sabato 5 dicembre, la campagna arriverà contemporaneamente a Genova (Centro commerciale l’Aquilone) e a Perugia (Gherlinda), ed entro un anno raggiungerà 24 città. Una iniziativa per sensibilizzare i "giocatori" contro i rischi del gioco, e soprattutto per ricordare a tutti che il "gioco" è vietato ai minorenni. La parola azzardo è naturalmente bandita.
E, cosa che sarebbe comica se non fosse tragicissima, accanto a Lottomatica e ai tabaccai italiani (Fit) dal 2010 troviamo il Moige, storico movimento dei genitori (www.moige.it). Quali possono essere le motivazioni di genitori che si alleano con i gestori dell’azzardo per educare i loro figli? Forse pensano che Lottomatica, impresa for profit che ha come obiettivo la massimizzazione dei profitti, i cui manager hanno avuto il mandato dai loro proprietari (tra questi la De Agostini, che una volta faceva gli atlanti per i nostri ragazzi) di aumentare ricavi e profitti, possa veramente sponsorizzare una campagna per ridurre i propri clienti e profitti.
O forse credono che i loro figli minorenni non scommetteranno nei tabaccai compiacenti (che sono pieni di ragazzi all’uscita della scuola) o non si butteranno sulle slot machine se la Fit e Lottomatica ricordano loro che la legge vieta che giochino d’azzardo – come se i ragazzi non sapessero di essere "minorenni" proprio perché non possono fare le cose vietate ai -18. Non volendo pensare né scrivere che il Moige fa queste campagne per ricevere qualche euro, occorre allora avere una grande immaginazione per riuscire a capire le motivazioni di questo tour. Se poi andiamo in uno di questi "appuntamenti" nei centri commerciali, e vediamo l’ambiente, i colori, le immagini dei luoghi nei quali si svolge questa "educazione", i test che i giovani fanno per riconoscere i primi sintomi di dipendenza, l’immaginazione finisce, e restano soltanto la tristezza, la delusione, lo sdegno.
Si tratta di un’iniziativa molto pericolosa, e da ogni punto di vista, tranne quello dei profitti di Lottomatica e dei tabaccai. Trovo, infatti, eticamente gravissimo vedere una associazione di genitori alleata dell’azzardo. E per almeno tre ragioni. Innanzitutto una campagna di prevenzione contro un prodotto (azzardo) che viene finanziata dai suoi produttori è evidentemente una campagna pubblicitaria del prodotto stesso. È l’azzardo il protagonista di questi ’luoghi’: si parla sempre e solo di azzardo (naturalmente con i suoi nomi addomesticati).
Parlando dei divieti e delle patologie, si aumenta soprattutto la conoscenza dell’azzardo, si diffonde la malattia mentre se ne parla. E questo perché si alimenta l’idea – molto cara al sistema azzardo – che esista un azzardo buono (bello, positivo, controllabile, divertente) e uno cattivo, cioè quello patologico. Quindi occorre combattere il gioco d’azzardo cattivo e promuovere quello buono. Questa distinzione è una operazione grave, che negli ultimi anni ha riempito l’Italia di nere "salegioco", di slot nei bar, e di gratta-e-vinci ovunque. Ogni euro che mettiamo dentro una slot alimenta un sistema – quello dell’azzardo – che con la complicità dei governi sta impoverendo la nostra economia e "mangiando" i poveri e i ragazzi.
I capi delle associazioni dei genitori entrino in una salaslot o in una sala bingo per vedere che cosa veramente produce l’azzardo responsabile dei maggiorenni, quello a cui i loro figli potranno finalmente accedere il giorno del loro 18° compleanno! Infine, la ragione più grave di tutte, sono i ragazzi e le ragazze.
Non dobbiamo permettere che le aziende e le multinazionali dell’azzardo entrino in contatto con i nostri adolescenti: sono troppo preziosi per metterli nelle mani dei mercanti di profitto a ogni costo. Che i minorenni non devono giocare questo non-gioco occorre dirlo alle multinazionali dell’azzardo non ai nostri ragazzi che lo sanno già e molto bene. Se vogliamo fare veramente educazione, facciamola con le Asl nelle scuole, nelle parrocchie, e affidiamola a chi combatte l’azzardo, non a chi aumenta i propri profitti solo aumentando i clienti di oggi, e di domani. E continuiamo la battaglia, anche in Parlamento, contro la pubblicità nei media – esplicita e implicita. "Nessuno tocchi il bambino". Giù le mani dai nostri figli.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/12/2015
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2015
Le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi. Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca.
[fulltext] =>Questa incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi.
Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’Islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi, questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla guerra santa. Ma c’è anche una versione del fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per ucciderti» (Il sacro Corano, al-Ma’idah: Sura 5,28). Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo. Come nella Bibbia ci sono i beniaminiti, la figlia di Jefte, le pagine dove si loda Dio perché ha fracassato sulle rocce le teste dei bambini dei nemici, c’è il Signore degli eserciti, Gesù che dice di essere venuto a portare “la spada e non la pace” (Matteo 10). I libri sacri delle religioni sono stati scritti in epoche dove la guerra era parte ordinaria della vita (“Al tempo in cui i re sogliono andare in guerra”, 2 Samuele, 11). Al tempo stesso, le grandi religioni – e l’Islam è tra queste poche – hanno sviluppato una letteratura sapienziale (si pensi a tutta la tradizione Sufi) che ha offerto letture simboliche e allegoriche anche delle pagine più dure e arcaiche. In alcune epoche le pagine più luminose del corano (e ce ne sono) hanno emanato una tale luce da oscurare quelle buie. In altre epoche i passi violenti sono stati strumentalizzati da chi, in nome della religione, cercava semplicemente potere e denaro. Oggi l’Islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di ‘martiri’ da usare per scopi dove il corano è semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel cuore dell’Islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare l’Islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo.
Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo.
In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso il medio oriente in guerra, prodotti e venduti da imprese italiane. La Francia insieme all’Italia è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato, Isis e terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vorrebbe combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare.
Hollande ha sbagliato a parlare di “vendetta” all’indomani della strage, e poi a perpetrarla bombardando domenica la Siria, rispondendo col sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa ‘legge del taglione’. La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole come ‘vendetta’ nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di civiltà, di sangue, dolore.
Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade, nei social, davanti ai parlamenti, il nostro ‘no’ alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/11/2015
Le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi. Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca.
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