Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Nelle nostre vite, nello stesso tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2013

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Dobbiamo urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro e scuola. Il lavoro è troppo assente nella formazione dei gio­vani. Nella società tradizionale la sua as­senza era buona, per la presenza pervasi­va del lavoro in tutto il resto della vita di ra­gazzi e giovani. Per i tanti che vivevano in campagna, il lavoro li attendeva fedele al ritorno dalla scuola, e a volte la precedeva nelle primissime ore del mattino. E anche chi viveva in città era circondato dai me­stieri e dalle professioni, a partire dai gio­cattoli che riproducevano, per i piccoli, i la­vori dei grandi. La scuola, allora, era un u­tile breve intervallo di non-lavoro in un mondo di lavoro (e anche duro).

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Oggi ci troviamo nella situazione opposta. Il lavoro è sempre meno presente nella cul­tura delle nostre città, e nei giochi dei bam­bini, perché il suo posto lo hanno occupa­to la finanza, i rapporti mediati dalla rete, e soprattutto il consumo. Il tour in un su­permercato, intronizzati sui carrelli della spesa, è la prima esperienza 'economi­ca' dei nostri bambini. Manca l’amicizia tra giovani e il lavoro negli anni cruciali della formazione, e così quando poi de­vono iniziare a trovare o a inventarsi un la­voro, sono prima disorientati, poi spesso disoccupati.

Ma sarebbe troppo difficile permettere che i nostri studenti, durante le scuole superiori (almeno negli ultimi anni), possano svol­gere forme di attività lavorativa alcune o­re alla settimana, o nei lunghi mesi estivi di non-scuola? Il vero ostacolo, più forte dei problemi organizzativi o della sicurez­za (l’insicurezza massima oggi si trova nei cortili dei nostri licei) va rintracciata nel­l’idea, ancora molto radicata, che il lavoro manuale non si addica alla formazione del carattere, perché la buona educazione si fa con la letteratura, la storia, la matema­tica, e non in una bottega di un artigiano, in uno studio tecnico, in una fabbrica, tan­tomeno in una fattoria agricola. Non ci sia­mo ancora liberati, nonostante San Bene­detto e l’Umanesimo civile, dell’idea vol­gare che il lavoro manuale è impuro, adat­to a servi e schiavi. L’inimicizia tra lavoro e giovani continua poi nell’Università, quando il lavoro resta ancora esperienza molto marginale, e trop­po sullo sfondo. Molti studenti universita­ri oggi fanno 'lavoretti' per mantenersi, ma pochi iniziano da studenti il mestiere che vorrebbero fare dopo la laurea. Nei de­cenni passati, quando l’economia correva e cresceva (forse troppo), poteva avere un senso studiare fino a 24-25 anni, e iniziare a lavorare dopo la laurea. Ma oggi, con u­na economia bloccata (e che lo resterà an­cora per un bel po’), se un giovane si fer­ma quattro o più anni preparandosi per la­vorare domani, è fin troppo probabile che l’economia e la società non avranno nel frattempo creato le condizioni perché quel lavoro domani esista veramente.

Un significato vero di economie e società in recessione è anche questo: la genera­zione presente non crea opportunità di la­voro per i giovani, ma le distrugge. In altre parole, se oggi un giovane non entra nel mondo del lavoro durante gli anni della formazione universitaria, rischia di non entrarci mai, o di entrarci tardi e a condi­zioni troppo sfavorevoli, perché mentre lei o lui studiano senza già lavorare, nessun al­tro sta creando opportunità di lavoro per loro. Occorre allora fare in modo che gli anni di studio nell’università non siano so­lo preparazione al lavoro che arriverà (for­se) dopo, ma siano già lavoro, non 'lavo­retti' ma vero lavoro mentre si studia.

Tutto ciò significa, me ne rendo conto, an­dare contro la tendenza in atto negli ulti­mi decenni di ridurre e formattare i per­corsi di studio, perché si considera la for­mazione come una sorta di merce che si paga oggi per lavorare meglio domani. Dobbiamo, invece, immaginare corsi di studio molto più flessibili, che affianchi­no, non sostituiscano, il lavoro, e che pos­sano durare anche molti anni, perché l’o­biettivo non è il pezzo di carta, ma la co­noscenza e l’apprendimento, che sono a­limentati anche dal lavoro, soprattutto in una società complessa come la nostra.

Ogni lavoro si impara facendolo, non a scuola, tantomeno nelle business school e con i loro master. Tutto ciò ha importanti conseguenze anche per il mondo del lavoro. Mia madre ha dovuto terminare i suoi studi alla quinta elementare, ma quei cinque anni di scuola sono cresciuti con lei, sono stati un patrimonio custodito gelosamente e fatto fruttare, e hanno accompagnato e formato la vita sua e di noi figli. Oggi invece molti dati dicono che il mondo del lavoro distrugge in pochi anni buona parte del capitale di conoscenze con cui una persona termina gli studi. Si è molto più ignoranti dopo dieci anni di lavoro che al termine dell’università, perché abbiamo costruito una civiltà del lavoro che considera gli studi come strumenti che si acquisiscono in una fase determinata della vita (giovinezza), in vista di un mondo del lavoro (adulto) che è altra cosa rispetto alla scuola e agli studi.

Tutto ciò è particolarmente vero nelle grandi imprese, che prendono bravi neolaureati, li immettono in ritmi di lavoro impossibili, non lasciano loro tempo e spazi per coltivare la loro umanità né fuori, né, tantomeno, dentro l’impresa, producendo così persone a una sola dimensione, e che anche quando studiano lo fanno per aggiornarsi e per aumentare la performance, perdendo così la cosa più vera dello studio: la gratuità. Dobbiamo riumanizzare i luoghi del lavoro post­moderni, riempiendoli di cultura, di arte, di bellezza, di gratuità, ambienti dove le persone possano fiorire in tutte le dimensioni mentre lavorano, e possano trovare il tempo per studiare cose belle e difficili anche a 40 o 50 anni, e così non si arrivi alla pensione sfiniti e persino ignoranti. Ma occorre portare più lavoro negli studi, e più studio nel lavoro.

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Commenti - Nelle nostre vite, nello stesso tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/02/2013

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Sposiamo lavoro e studio

Sposiamo lavoro e studio

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Commenti - L'autentica lezione senese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2013

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Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio. 

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Siena, infatti, fu una delle capitali del grande movimento dei Monti di Pietà, un vasto movimento popolare animato dai frati francescani. Il suo ispiratore indiscusso fu San Bernardino da Siena, le cui ‘Prediche volgari’ (popolari), pronunciate ai suoi concittadini, costituirono una vera e propria summa per quella lotta alla miseria che generò, pochi decenni dopo Bernardino, l’azione dei tanti fondatori dei Monti. A Siena il Monte nacque per iniziativa del Comune, ma l’eco della figura e delle parole infuocate di Bernardino contro usurai e avari nei venerdì di quaresima di ogni anno, furono decisive per la fondazione di quella banca pubblica, a servizio dei cittadini senesi. Se Lorenzetti avesse dipinto la sua Allegoria dopo il 1472 avrebbe certamente collocato il Monte sulla parete del Buon Governo, perché la banca e la finanza civili sono state e sono istituzioni essenziali per il benvivere sociale.

L’asse delle allegorie del Buono e del Cattivo governo è la dialettica virtù-vizi, che si trovano nella stessa sala, le une di fronte agli altri, a ricordarci, con la forza del simbolo e dell’arte, che l’albero delle virtù è lo stesso albero su cui crescono i vizi, e per questo occorre essere sempre vigilanti nella vita privata e pubblica, in modo da scoprire per tempo quando una virtù si sta tramutando in vizio. L’affresco ci mostra un Buon governo che è il frutto, il figlio, della pratica delle virtù cardinali, un elenco che mi piace riportare in questa fase della nostra vita pubblica: Giustizia, Prudenza, Temperanza, Fortezza, parole da scrivere sempre con l’iniziale maiuscola. Gli effetti del buongoverno sono la prosperità e la concordia, e soprattutto lo sviluppo della laboriosità, dell’artigianato, del commercio, dell’edilizia, degli studi, della festa, dell’arte, dell’agricoltura, dei matrimoni, che popolano le scene del Lorenzetti.

Di fronte agli affreschi sul buongoverno e i suoi effetti, troviamo quelle del Cattivo governo, con al centro la tirannide, e sopra di essa i grandi vizi civili. Il primo è, non a caso, l’avarizia, una sorta di arpia con in mano un lungo uncino per arpionare avidamente il denaro della gente. Ai piedi dell’edificio dei vizi troviamo la Giustizia, pestata e umiliata, con le mani legate. Questa giustizia vinta e soggiogata è legata con una corda tenuta da un solo individuo, mentre nell’affresco del Buon Governo la corda che lega il sovrano alla città è tenuta da tutti i cittadini assieme. In latino fides significava, infatti, sia fiducia che corda, a dire che la reciproca confidenza tra i cittadini è il primo legame sociale della civil convivenza, un legame che diventa il laccio del cacciatore in mancanza di Buon governo.

Non occorrono altre “parole” di queste di Lorenzetti per commentare le cronache di questi giorni. A noi però, nell’era della finanza speculativa, manca il vocabolario giusto, perché l’ideologia dominante ha trasformato l’avarizia (far del denaro il fine, non più un mezzo) da vizio capitale a virtù pubblica, a valore su cui si sono scelti amministratori privati e pubblici, valutati bilanci, approvati licenziamenti, assegnati premi Nobel, fissati stipendi e bonus. E mancandoci le parole adatte, succede che dopo tutto quanto è accaduto in questi ultimi anni continuiamo a pensare che la crisi del Monte dei Paschi sia un’eccezione, un episodio triste che dipende da incompetenza e corruzione, o magari dalla sfortuna.

In realtà basterebbe usare l’antico linguaggio delle virtù e dei vizi, e capiremmo che abbiamo a che fare con un vizio antico, l’avarizia, che però non è più solo vizio individuale, bensì un vizio di sistema, che ha trasformato in questi ultimi decenni troppe banche da istituzioni per il bene civile in imprese speculative, smarrendo così la propria identità e vocazione. Che ci siano pure banche speculative (non troppe), e se falliscono non si salvino con soldi pubblici; ma proteggiamo, anche con adeguate leggi che ancora mancano, le banche commerciali, la banca e la finanza popolare, territoriale e civile, che rischia di essere totalmente fagocitata dall’uncino arpionante. Ho visto alcuni miei amici di Siena profondamenti affranti e addolorati dalle vicende del Monte.

Poche città al mondo (se ce ne sono) hanno, come Siena, un legame così profondo con una banca, che viene solo dopo (se non accanto) a quello con il Palio. Questo è il modello italiano, una cultura complessa e ricca, dove anche le banche sono (state?) pezzi di vita, di cuore, di passioni e di amore civile. Il rammarico per la crisi del Monte nasce allora, per i senesi e per noi, dal prendere definitivamente atto di un tradimento, che si è consumato ormai da tempo, che tocca radici e identità. Gli esseri umani, gli italiani senz’altro, gioiscono e soffrono anche per le piazze e i monumenti delle proprie città; e qualche volta anche per le loro banche, e non solo perché temono per la sorte dei propri risparmi, ma perché i nostri beni e il nostro bene sono più grandi di quelli della nostra casa, e inglobano anche beni e simboli pubblici. E perché il nostro vero patrimonio è più grande del conto corrente e proprietà personali. Per questo le crisi delle istituzioni e la distruzione dei beni pubblici ci impoveriscono, e molto. Il nuovo CDA del Monte per le prime riunioni chieda in prestito la sala del Palazzo Pubblico di Siena: quella buona estetica potrà servire l’etica, e con essa l’economia.

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Le virtù capovolte

Le virtù capovolte

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Commenti - Un gran lavoro oltre le solitudini

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2013

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La "ludopatia" prima di essere malattia da gioco è malattia del gioco. Per curare la pa­tologia da gioco è allora necessario riscoprire la sua fisiologia, ritrovando il giusto rapporto con questa dimensione essenziale della vita. Gio­care ha la stessa radice di giocondo, giubilare e anche di giovare e giovamento, perché il buon giocare fa bene al corpo e all’anima. È tra le e­sperienze umane più universali ed essenziali, e conserva una sua dimensione di mistero (per­ché anche gli animali giocano o sembrano gio­care?).

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Quando in una famiglia e comunità non si sa più giocare, lì sono sempre in profonda cri­si le buone relazioni. E come tutte le grandi pa­role dell’umano anche il gioco è ambivalente, perché può pervertirsi nel suo opposto, soprat­tutto nelle lunghe solitudini.

Durante l’infanzia il gioco è quasi tutto, e con­sente ai bambini di affrontare la loro comples­sa età, e anche le grandi ferite – mi ha sempre colpito e sorpreso vedere che dopo i funerali, mentre gli adulti continuano (giustamente) a piangere, i bambini riprendono a giocare, aiu­tando così tutti a ricominciare. Il buon gioco non termina con la fine dell’infanzia o della gio­vinezza, perché per gli adulti, e per i vecchi, il gioco non è meno essenziale che per i bambi­ni. Quando un adulto riesce, con grande lavo­ro e fatica, a non perdere la capacità di giocare si ritrova con una risorsa morale in più, parti­colarmente preziosa quando si passano mo­menti difficili e di prova, poiché il gioco rende il giogo della vita più leggero e soave.

Lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo classico saggio Homo Ludens (l’uomo che gio­ca) scrive che «la civiltà umana sorge e si svi­luppa nel gioco, come gioco». Non solo, i mo­menti fondativi delle civiltà sono legate al gio­co (il libro dei Proverbi [cap. 8] ci fa intuire una dimensione di gioco presente anche nella Crea­zione; e credo che Gesù sapesse giocare, altri­menti non avrebbe attratto i bambini), ma sa­per giocare è essenziale per scienziati, scritto­ri, imprenditori, studiosi, la cui creatività è profondamente legata al gioco da bambino e da adulto, e alla fantasia che il buon gioco ali­menta e ricrea (in questo senso il buon gioco è anche ri-creazione).

Mi piace molto che la filosofa americana Martha Nussbaum abbia posto il gioco tra le «dieci ca­pacità fondamentali» che ogni persona do­vrebbe avere per poter svolgere una vita buo­na. Oggi gli studiosi delle cosiddette "motiva­zioni intrinseche", così importanti per il be­nessere delle persone, anche di quello lavorati­vo, quando vogliono indicare il tipo puro di at­tività a motivazione intrinseca ricorrono al gio­co, in particolare al gioco dei bambini, poiché qui l’unica motivazione è interna (intrinseca) al­l’attività stessa: la prima ricompensa del gioco è il giocare. Chi sa giocare bene sa anche ben la­vorare, tanto che non è errato dire che il gioco è il lavoro del bambino, e che alcune dimen­sioni del lavoro sono il gioco degli adulti, che quando mancano rendono il lavoro alienante.

Il buon gioco ha bisogno di compagnia, per­ché la sua natura più vera è il suo essere rela­zione, un bene relazionale. È vero che i bam­bini sanno giocare anche da soli, ma quelle bambole e quei balocchi sono per loro vivi, co­me sono vive e vere le fiabe e i loro personag­gi. Non so se da bambino mi hanno amato di più i personaggi delle mie favole e racconti o i miei vicini di casa: entrambi certamente, ma il villaggio che fa crescere bene il bambino è po­polato anche da giocattoli e fiabe, che non so­no meno vivi degli abitanti della casa e della scuola; e così in loro, e in noi, rivive l’uomo an­tico che chiamava per nome piante e pietre, perché più capace di noi di vedervi la stessa vi­ta che muove il mondo.

Oggi, però, dobbiamo essere preoccupati per il troppo tempo che i nostri bambini dedicano al gioco solitario. Il giocare con fratelli, sorelle e compagni è la prima grande palestra dove ci si allena alla gestione dei conflitti, delle delusioni e soprattutto della cooperazione. Il mondo dell’impresa usa ancora un patrimonio di cooperazione che le persone della mia generazione, e di quelle precedenti alla mia, hanno costruito anche giocando assieme da bambini e da giovani. Non è raro osservare oggi bambini seduti nello stesso luogo, persino nello stesso divano, ciascuno alle prese con il proprio giochetto elettronico, smartphone o tablet, senza nessuna interazione con i vicini: quale capacità di cooperazione avranno questi futuri lavoratori? Ci sono attività che cambiano natura, normalmente in meglio, quando vengono svolte assieme agli altri: il gioco è una di queste, ma anche il guardare un film o il cibarsi: ci sono tante solitudini dietro i disordini alimentari. È la solitudine infelice ciò che più mi colpisce quando entro per un caffè in certi bar: uomini, e tante, troppe, donne, ognuna accanto all’altro a sfregare schede o a gettare via soldi nelle macchinette, senza una parola tra di loro, tutti consumati, mangiati, da quei giochi cattivi.

C’è allora un estremo bisogno di riportare il gioco alla sua natura di bene relazionale, di incontro, di festa. Bisogna preservare, tornare a far nascere o inventare ex novo dei "luoghi del gioco buono" nei locali delle nostre associazioni, nelle parrocchie, nelle famiglie. Luoghi dove il trovarsi insieme per giocare rafforza i legami, cura le ferite delle solitudini, è antidoto alla 'cultura del solitario'. Ci sono già strumenti – tra cui il Wecoop, un gioco da tavolo comunitario inventato dalla Cooperazione sarda assieme all’Università di Cagliari – che andrebbero imitati e moltiplicati. L’azzardo pericoloso del cattivo gioco si combatte con buone leggi, ma anche con il buon gioco. E se rimpariamo l’alfabeto del giocare, rimpareremo anche a lavorare. A lavorare insieme.

Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

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Commenti - Un gran lavoro oltre le solitudini

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 27/01/2013

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Per riavere buon gioco

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Commenti - Creare lavoro, alimentare il futuro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/01/2013

logo_avvenireC'è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pagare all'era della globalizzazione dei mercati e della finanza. Prima della rivoluzione industriale donne, uomini, bambini e anziani lavoravano tutti o quasi (tranne i redditieri e i nobili), perché era il solo modo per sopravvivere date quelle condizioni naturali e tecniche. Una quasi piena occupazione, ma non certo una condizione ideale né desiderabile, data la quasi assenza di diritti, libertà, istruzione, salute e longevità (i nostalgici del mondo pre-moderno dovrebbero ricordare questi dati, ogni tanto). [fulltext] =>

Negli ultimi due secoli le grandi innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno moltiplicato la ricchezza prodotta, creando molto lavoro industriale e, grazie agli altissimi livelli di produttività, molto lavoro nel settore pubblico e dei servizi. Questo mondo sta di fatto tramontando, certamente in buona parte dell'Europa, poiché l'industria non crea più lavoro, alcuni prodotti sono ormai saturi (vedi dati auto), e la crisi della produzione industriale fa sì che non si generino più risorse per la creazione di lavoro nel settore pubblico.

La domanda cruciale, che di tanto in tanto torna, e non a caso, su queste pagine, allora diventa: come creare lavoro in Italia e in Europa, e quindi a far ripartire lo sviluppo, in uno scenario così radicalmente e velocemente mutato? Una prima via è accettare il declino, ma non ci piace. Una seconda strada, che ci piace ancora meno, è rassegnarsi all'idea che circa un quarto, o forse un terzo di persone in età attiva non lavorino (quelle meno abili, i vinti che restano per via) e soppravvivano grazie ad una sorta di social card, da finanziare con le imposte dei più ricchi o magari con le entrate di lotterie e giochi. Ma esiste invece una terza buona strada? Abbiamo il dovere etico di provare almeno ad immaginarne qualche brano o sentiero, e per evitare che le nostre parole restino solo utopie (non luoghi), occorre iniziare da luoghi, realtà che "già" esistono, sebbene "non ancora" rilevanti al punto di assurgere a nuovo modello o sistema.

Un primo brano essenziale da ridisegnare per poter immaginare una strada di nuovo lavoro e sviluppo è un radicale cambiamento nel settore del credito. Non si creerà mai nuovo lavoro oggi in Italia e in Europa se non sblocchiamo il sistema finanziario e bancario. I risparmi esistono ancora, e nel nostro Paese sono molti; ma "che fine fanno?", dove vengono investiti?. C'è tanta liquidità che oggi finisce nei luoghi sbagliati, ad alimentare rendite finanziarie e di posizione che non creano lavoro, ma normalmente lo distruggono, mentre troppo spesso finanziano criminalità e guerre (investimenti che hanno sempre reso molto). Dobbiamo invece creare dei nuovi meccanismi che orientino i risparmi dei cittadini verso buoni progetti capaci di lavoro e di futuro.

Nella fase attuale, la finanza e le banche tradizionali non sono più fattori di innovazione e di sviluppo, perché troppo drogate da decenni di finanza facile e sbagliata, e perché tendono a proteggere interessi costituiti e rendite. Chi oggi ha un buon progetto veramente innovativo (nei settori dell'ambiente, dell'energia, cultura, arte, turismo, cura, cibo, abitare ...) trova quasi sempre le porte chiuse del credito. E ciò non stupisce, perché dalla storia e dalla teoria sappiamo che nelle fasi di cambio di paradigma, la finanza tradizionale non ha le categorie culturali per capire i progetti imprenditoriali veramente innovativi, quelli cioè capaci di far partire un nuovo ciclo economico. Ci troviamo, per usare le parole del grande economista austriaco J.A. Schumpeter, in una fase di blocco, in uno "stato stazionario", che può essere spezzato solo da innovazioni vere e di sistema, capaci cioè di creare nuova vera ricchezza, e nuovo lavoro. Ma il punto cruciale, come ci ricorda sempre Schumpeter, è che nelle moderne economie nessuna vera innovazione può partire senza banchieri innovatori,  istituzioni e persone dotate di una nuova mentalità e nuovi occhi capaci di vedere le potenzialità di reddito in quei progetti che oggi possono dare una svolta ad una situazione veramente difficile. Nei tempi di gravi crisi l'elemento cruciale non è tanto la diminuzione della ricchezza, ma la sua accumulazione nelle mani sbagliate: "La ricchezza bene acquistata e bene usata è un grande dono di Dio; ma ne' ricchi è troppo pericolo" (San Bernardino da Siena, 1427).

Una esperienza piccola ma esemplare è quella del "crouwd funding" (finanziamento di massa), un fenomeno in rapida crescita anche in Italia (sebbene partito solo pochi anni fa), che, con un forte utilizzo del web, mette assieme progetti imprenditoriali e gruppi di cittadini, che possono finanziarlo se vi vedono elementi di novità. Sono nuove forme di finanziamento popolare, che orienta risparmio privato verso nuovi processi produttivi, un denaro che finché resta confinato ai soli strumenti tradizionali finisce per alimentare solo rendite.

Se saremo capaci di mettere a sistema queste nuove forme di finanza civile, dando vita non a dieci ma a decine di migliaia di progetti di finanza popolare, con adeguati interventi politici e legislativi, dando vita ad alleanze con le nostre antiche istituzioni finanziarie a vocazione sociale e popolare (una vocazione che oggi va rilanciata con coraggio e creatività), potremmo fare qualcosa di decisivo. E così emuleremo, creativamente, i francescani dei Monti di Pietà, i fondatori delle migliaia di casse rurali tra Otto e Novecento, delle casse di risparmio, delle mutue, istituzioni nate nei tempi di crisi, quando c'è un bisogno vitale di finanza civile, la sola capace di rimettere in moto la macchina economica, e così ricreare lavoro e rafforzare la democrazia.

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Commenti - Creare lavoro, alimentare il futuro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 20/01/2013 C'è una idea, quasi una ideologia, che si sta piano piano insinuando in Europa, quella che ormai prende come dato inevitabile un alto tasso di disoccupazione, visto come una sorta di prezzo da pag...
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Agorà - Il filosofo campano nasceva 300 anni fa: i suoi concetti di “economia civile” e “pubblica felicità” quanto mai attuali rispetto al pensatore scozzese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire 13/01/2013

Logo_Avvenire_AgorIl 2013 è il trecentesimo anniversario della nascita dell’economista e filosofo Antonio Genovesi, nato a Castiglione (Salerno) il 1 novembre del 1713. Un autore che ha cose molto importanti da dire all’Italia di oggi, e di domani. Genovesi è uno dei fondatori della moderna scienza economica. Il primo cattedratico di economia nella storia, a Napoli nel 1754.

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Le sue Lezioni di commercio ossia di economia civile (1765) furono molto influenti in Italia, conosciute e tradotte in Europa e oltre. Genovesi visse e operò nella stessa epoca di Adam Smith, il filosofo scozzese al quale normalmente si riconosce la paternità dell’economia moderna. I due si assomigliavano molto. Entrambi furono prima filosofi e poi economisti, entrambi moderni e quindi critici del mondo feudale, e convinti che il mercato avrebbe contribuito decisamente alla costruzione di un mondo più egualitario e libero.  Eppure l’Economia Civile di Genovesi non è soltanto la versione meridiana e povera della Political Economy d’oltremanica. L’Economia civile ha tratti di originalità, e su più fronti.

Innanzitutto diverso era il contesto culturale. Smith opera in una cultura calvinista (insegnava ai futuri leader della chiesa scozzese), Genovesi era abate, e nella Napoli illuminista e borbonica. Smith è profondamente legato alla scuola filosofica, Genovesi era un erede dell’umanesimo classico di Aristotele e di San Tommaso, e di Vico, ma anche di autori moderni francesi (Cartesio) e inglesi (Locke).

Queste differenze culturali si tradussero anche in una diversa economia. Per Smith il protagonista del nuovo mondo è l’individuo, magari virtuoso, prudente e guidato da un interesse illuminato (self-interest). Smith, e dopo di lui l’economia come oggi la conosciamo in tutto il mondo, nell’immaginare le azioni economiche partiva da una idea di uomo parsimoniosa, capace di guardare e cercare i propri interessi. Il bene comune, la ricchezza e il benessere delle nazioni  per Smith non è mestiere dei singoli individui, i quali è bene che non pensino al bene comune quando agiscono nei mercati: “non ho mai visto fare niente di buono da chi si prefiggeva di operare per il bene comune” (1776). Parole realistiche, ma certamente pessimiste e un po’ ciniche, che affidano ogni istanza di bene comune alla ‘mano invisibile’ e impersonale dei mercati, e uno po’ alla mano visibile del Governo.

Genovesi non ha una visione ingenua dell’essere umano. Era un esperto, non meno di Smith, di sentimenti e di passioni umane (vi aveva anche dedicato un trattato, la Diceosina, nel 1766, che è uno dei primi libri dove si parla di diritti fondamentali dell’uomo, con importanti riferimenti anche agli animali), ma era newtonianamente convinto che la persona fosse un equilibrio di due tipi di forze, quelle “concentrive” (auto-interessate) e quelle “diffusive” (pro-sociali), entrambe primitive e sempre presenti. Per Genovesi il soggetto è dunque persona, una realtà costitutivamente relazionale, fatta per reciprocità. Da qui la sua idea di mercato come “mutua assistenza”, una intuizione originale che oggi sta vivendo una nuova giovinezza, e non solo in Italia.

Il messaggio di Genovesi è più attuale oggi che nel Settecento, quando prevalse l’Economia Politica di Smith, e si eclissò l’Economia civile di Genovesi. Sono, infatti, molte, e tutte rilevanti, le parole che l’economista napoletano ci invia per l’oggi dell’Italia. La prima è pubblica felicità: mai come in questi tempi ci stiamo accorgendo che la felicità o è pubblica o non è, poiché la ricchezza cercata contro gli altri produce malessere per tutti.

La seconda è contenuta nella stessa espressione Economia civile: l’economia se non è civile è semplicemente incivile, mai eticamente neutrale, perché attività umana. Se l’impresa crea posti di lavoro, rispetta l’ambiente, lavoratori, società, migliora beni e servizi, è civile; se non lo fa è incivile, non c’è terza possibilità. Infine, il terzo messaggio ha a che fare con l’Italia, e con il suo modello economico e sociale. Genovesi è una delle più belle espressioni della tradizione italiana e meridiana, che ci ricorda che esiste una nostra eccellenza che non nasce dall’imitazione di altri modelli e umanesimi nordici o americani, ma dal mettere in moto, e a reddito, il genio italiano frutto di secoli di meticciato, di incroci e incontri tra popoli, culture, campanili, frati, monache, artisti, mercanti, mari, valli e montagne. Gli eredi migliori di Genovesi sono il mondo della cooperazione, i distretti del “made in Italy”, la finanza etica, il turismo sostenibile e la buona agricoltura, e tutte quelle esperienze civili capaci di mettere a sistema e a reddito relazioni, gratuità, storia, di generare valore dai valori.

Il 2013 è un anno cruciale per l’Italia, e per l’Europa. L’anniversario di Genovesi, e i suoi messaggi di Economia civile, non potevano arrivare in un momento migliore. Saremo capaci di farli fruttare?

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Iniziative – Fra Napoli, Roma e Milano

Per celebrare la figura di Antonio Genovesi, e rendere presente il suo messaggio all’Italia di oggi, l’Istituto Luigi Sturzo, l’Istituto Universitario Sophia e l’Università di Milano-Bicocca, con la collaborazione delle BCC, la Fondazione con il Sud, Eupolis regione Lombardia e il Banco di Napoli, promuovono una serie di iniziative dedicate ad Antonio Genovesi. L’anno genovesiano vuole essere l’occasione di riscoprire e valorizzare le radici di una tradizione economica che, per la ricchezza dei propri fondamenti antropologici, ha ancora molto da dire all’economia di oggi. Nell’ambito dei diversi incontri scientifici interverranno, tra gli altri, Stefano Zamagni, Mauro Magatti, Luigino Bruni e Pier Luigi Porta. Il progetto prevede anche la pubblicazione di una nuova edizione delle Lezioni di Economia Civile di A. Genovesi, per i tipi di Vita e Pensiero.

Principali Appuntamenti:

8 Marzo - Inaugurazione ‘Anno genovesiano’, Castiglione del Genovesi (SA), convegno nei luoghi natii.

9 Marzo - « Antonio Genovesi: Economic and Civil Perspective 300 Years Later », Napoli, Convegno Internazionale, Sede centrale del Banco di Napoli

4-5 Giugno - « Public Happiness », Roma, Convegno Internazionale, Università Angelicum

6 Giugno - « Ragioni e sentimenti civili per un’economia ed una politica dal volto umano: la lezione di Antonio Genovesi », Roma, Convegno Internazionale, Istituto L. Sturzo e LUMSA

14 novembre - « Antonio Genovesi maestro degli economisti lombardi nell’età dell’Illuminismo », Milano, Convegno Internazionale, Istituto Lombardo - Accademia di scienze e lettere

Per iscrizioni e prenotazioni ai vari eventi: francesca.daldegan@gmail.com

Per altre informazioni, tra cui il programma del primo convegno a Napoli, www.sturzo.it (progetto Genovesi)

 

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire 13/01/2013

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Genovesi: la rivincita dell’abate contro Adam Smith

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Commenti - Pluralità del capitale umano

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/01/2013

logo_avvenireUna parola chiave di questo nostro tem­po economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", u­na frase che arriva prima o poi in ogni di­battito televisivo. Una parola tra le poche ca­pace di raccogliere il consenso di (quasi) tut­ti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e me­ritorietà (preferendo la demo-crazia alla me­rito- crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giusti­ficare il proprio. E sarebbe una accusa asso­lutamente opportuna se chi mette in di­scussione la meritocrazia lo facesse per so­stenere la causa dell’incompetente, del pri­vilegiato, del raccomandato, o del protetto. 

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Ma contrapporre merito a demerito, e quin­di lodare il primo e biasimare il secondo, non è un’operazione utile, perché banale. Il di­scorso diventa invece rilevante non appena proviamo ad arricchirlo.

Innanzitutto, va ricordato che il tema del me­rito è molto antico e complesso, al punto che ha generato infinite discussioni, anche teo­logiche. È stato al centro di un trattato del­l’economista Melchiorre Gioia, che nel 1818 così apriva il suo Del merito e delle ricom­pense: «Le idee che nella mente degli uomi­ni corrispondono alla parola merito, sono, come tutti sanno, infinitamente diverse». In realtà oggi «non tutti sanno», e troppi han­no dimenticato questa vecchia e profonda verità, e chi invoca la meritocrazia pensa che il merito sia qualcosa di unidimensionale, e tutto sommato semplice da individuare, pe­sare e usare come criterio per le buone scel­te. Ci sono senz’altro ambiti nei quali il me­rito è immediato, quelli dove si cercano com­petenze tecniche molto specifiche e rare, dalla ricerca scientifica alla cucina giappo­nese. Nell’economia e nelle organizzazioni, però, il merito è qualcosa di complesso e per nulla semplice da individuare.

Immaginiamo una piccola o media impre­sa (per esempio industriale) che ha di fron­te tre candidati per un solo posto di dirigente nell’area del personale. Il primo, Andrea, vor­rebbe rientrare in Italia dopo otto anni di la­voro all’estero come direttore del personale in una grande azienda. Tra i candidati ha il migliore curriculum tecnico, coronato da un master in 'risorse umane' presso una pre­stigiosa università di Londra. Il secondo, Bru­no, non ha il master, è più giovane di An­drea, ha comunque una laurea in economia col massimo dei voti, e ha lavorato cinque anni come responsabile in una cooperativa sociale, ottenendo ottime referenze per il suo talento relazionale e di coordinamento del lavoro di gruppo. Infine Catia, coetanea di Bruno, è sposata, ha tre bambini, si è lau­reata a pieni voti in psicologia del lavoro, ma con due anni di ritardo perché ha termina­to gli studi mentre arrivava il primo figlio. Ha una breve esperienza lavorativa nel mon­do della cooperazione in una grande orga­nizzazione dove ha coordinato progetti com­plessi, e così sa molto bene l’inglese (più di Andrea e Bruno).

Chi dei tre è più meritevo­le di essere assunto? O quantomeno di arri­vare al secondo stadio della selezione? Questo esercizio comparativo è molto co­mune nelle grandi organizzazioni, o quan­do le imprese medio-piccole affidano la se­lezione del personale ad agenzie esterne. Un primo sguardo di buon senso a questi tre curricula dovrebbe innanzitutto dirci che abbiamo di fronte tre persone tutte merite­voli, ma meritevoli per ragioni diverse. Nel­l’attuale cultura d’impresa, però, i meriti che vengono visti e premiati sono sempre più quelli di Andrea, molto meno quelli di Bru­no e di Catia. Nessun intelligente selezio­natore nega che i meriti siano molti, ma poi, per la cultura dominante nel mondo del bu­siness, li pesa e ordina, ritenendone alcuni più rilevanti di altri. Anche perché i meriti tecnici e i titoli si prestano a essere facilmente tradotti in quantità, e così sembrano ogget­tivi e quindi equi. Invece i meriti relaziona­li e qualitativi sono difficili da ordinare og­gettivamente, e soprattutto sono stati e so­no spesso utilizzati come scuse per ma­scherare assunzioni di amici e parenti; sono meriti che si prestano di più anche all’abu­so, ma non per questo meno importanti, an­che in termini di fatturato e di sviluppo del­l’impresa.

Si commette così l’errore grave di dimenticare che un master, le tecniche, il know how, si possono acquistare sul mercato, ma alcuni talenti relazionali e qualitativi, il know why, sono legati alla nostra storia, frutto di scelte e di investimenti lunghi e costosi, che nessun mercato può vendere. Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un analfabetismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come 'scusa', 'perdonami', parole che quando mancano bloccano le imprese come e più del razionamento del credito. Il cosiddetto 'capitale umano' è la prima risorsa di ogni impresa, ma è un capitale plurale, fatto di molte dimensioni e competenze.

Molte donne, soprattutto mamme, sviluppano, per natura e per necessità, capacità di gestire la complessità (figli, famiglia, genitori, parenti, lavoro, rapporti sociali …), capacità che hanno anche un grande valore organizzativo ed economico, se opportunamente viste e valorizzate, come ormai mette in luce anche la ricerca scientifica sui danni economici dovuti alla discriminazione delle donne nei luoghi decisionali. La crisi economica è il risultato non solo del demerito, ma anche, e soprattutto, di scelte di troppi manager assunti per i soli meriti misurati da master e PhD, ma rivelatisi demeritevoli in relazioni, etica, umanità.

C’è bisogno di una ridiscussione pubblica di che cosa sia il merito e della sua natura plurale. Altrimenti continueremo ad avere troppe persone meritevoli che restano fuori dalle mura della città del lavoro. Alcuni vi restano perché sopravanzati da immeritevoli protetti e raccomandati; ma molti altri e molte altre perché hanno meriti che la nostra economia e società non sa vedere e riconoscere. Due ingiustizie, una più importante dell’altra, ma la seconda più grave perché non è neanche percepita come tale.

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Commenti - Pluralità del capitale umano

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/01/2013

logo_avvenireUna parola chiave di questo nostro tem­po economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", u­na frase che arriva prima o poi in ogni di­battito televisivo. Una parola tra le poche ca­pace di raccogliere il consenso di (quasi) tut­ti, e così chi osa porre qualche domanda, magari distinguendo tra meritocrazia e me­ritorietà (preferendo la demo-crazia alla me­rito- crazia), viene subito additato come un sostenitore del demerito, magari per giusti­ficare il proprio. E sarebbe una accusa asso­lutamente opportuna se chi mette in di­scussione la meritocrazia lo facesse per so­stenere la causa dell’incompetente, del pri­vilegiato, del raccomandato, o del protetto. 

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Attenti al merito

Attenti al merito

Commenti - Pluralità del capitale umano di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 12/01/2013 Una parola chiave di questo nostro tem­po economico e politico è meritocrazia. "L’Italia ha bisogno di più meritocrazia", u­na frase che arriva prima o poi in ogni di­battito televisivo. Una parola tra l...
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Commenti - All'Italia (e al mondo) servono visioni e scelte di «Civil Concorrenza»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/01/2013

logo_avvenirePer avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.

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La metafora più potente, anche per la sua lunga storia, è quella economica, che porta a leggere la dinamica politica come la competizione nei mercati.

C’è una lunga tradizione di pensiero che ha visto la politica sulla falsariga del mercato, e non sempre con risultati negativi o incivili. Joseph Schumpeter, negli anni quaranta del secolo scorso, scopriva con tristezza e profeticamente che i politici altro non sono se non ‘mercanti di voti’.  Da  quella intuizione è poi scaturita tutta una teoria politica “competitiva” dove i diversi partiti lottano tra di loro per conquistare il voto dell’elettore al fine di raggiungere il potere. I partiti sarebbero così nulla di sostanzialmente diverso dalle imprese, poiché le imprese (capitalistiche) massimizzano i profitti economici e i partiti massimizzano i profitti politici (voti).

Dietro questo approccio economico-competitivo alla politica (il ‘mercato politico’) si cela l’idea-ideologia che il mercato sia il principale luogo e strumento di libertà e di eguaglianza, e che lo è tanto più quanto più alimenta la concorrenza. Questa visione “competitiva” della democrazia è molto complessa quando si esce dall’astratto e ci si cala dentro la prassi politica, anche perché, a differenza dei mercati ‘civili’, le coalizioni tra partiti una volta raggiunto il potere lo possono usare a proprio vantaggio, scaricando, almeno in buona misura, i costi sulle minoranze meno dotate di voce politica. Questa logica diventa poi devastante se chi la pratica ha in mente un’idea errata di mercato, come è, purtroppo, quella che domina da qualche decennio in Italia, e sempre più in un mondo governato dalla finanza speculativa “a somma zero”.

L’idea di competizione economica che possiamo evincere dalle azioni e dalle parole di molti leader politici, sarebbe soltanto bizzarra se non fosse anche tragica. Un’idea che avrebbe fatto rabbrividire anche gli economisti classici fin da Adam Smith, per non parlare dei massimi teorici della democrazia, da Mill a John Rawls. Il mercato viene infatti immaginato come il luogo dove l’impresa Rossi ha come scopo battere l’impresa concorrente Bianchi. Qui la competizione, il cum-petere, diventa un cercare (petere) insieme (cum) di vincere la stessa gara, ma non implica alcuna azione congiunta, nessuna forma intenzionale di cooperazione. È questa un’idea deformata sia di competizione sia di mercato, poiché il buon mercato, o “la civil concorrenza”, nelle parole di Carlo Cattaneo, è esattamente l’opposto: l’impresa Rossi non ha come scopo “battere” l’impresa Bianchi, ma soddisfare al meglio i bisogni dei consumatori; e se l’impresa Bianchi è meno capace di Rossi di soddisfare quei bisogni, o migliora o esce dal mercato. È questa la natura più profonda della competizione di mercato, che è quindi una faccenda cooperativa, un’azione congiunta. Quindi, se qualcuno ama usare la categoria di competizione per descrivere la dinamica politica, che almeno si orienti verso la sua versione migliore, più profonda e civile.

In realtà, quando nei mercati e nella politica gli attori non hanno più l’energia morale e l’entusiasmo civile di guardare avanti e insieme nella stessa direzione, di proporre qualcosa di importante ascoltando e parlando con i cittadini, si guarda “accanto”, e così rischia di prevalere uno sguardo miope e orizzontale orientato a battere il con-corrente, il rivale e l’avversario. E questo è un segnale di malessere etico e antropologico profondo, malattia da curare con fermezza. La concezione odierna, ed errata, del ‘mercato politico’ allora non è altro che un segnale (forse il maggior segnale, come già percepiva Schumpeter) che si è logorato un modo di stare al mondo e di cooperare.

Dobbiamo saper immaginare una nuova stagione esplicitamente cooperativa, se vogliamo veramente arrestare quel declino già da tempo iniziato, che è molto più profondo del debito e del PIL. Una strada che insieme ad altri intravvedo è dare vita, una volta chiusa questa fase elettorale, ad un processo condiviso e cooperativo, analogo a quello che ha ispirato la Costituzione repubblicana, frutto di una ritrovata concordia che riuscì a trasformare le macerie della guerra in un nuovo Patto civile.

I giorni che ci separano dalle elezioni possono solo essere l’inizio, un primo passo, di un lungo processo per il quale sarà necessario il contributo delle migliori donne, uomini e giovani della società civile, verso nuove sintesi. Un primo passo, affinché sia un buon passo, richiede però fin da ora la capacità di coltivare le ragioni della concordia e del consenso, un cercare insieme. Occorre avere il coraggio di mettere in primo piano l’immaginazione e la proiezione verso il futuro da costruire, anziché esaurire tutte le energie nell’affanno di garantire il controllo del presente.

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Commenti - All'Italia (e al mondo) servono visioni e scelte di «Civil Concorrenza»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/01/2013

logo_avvenirePer avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in questa fase pre-elettorale. Espressioni come “campagna” elettorale, “competizione” politica, “arena”, “campo”, sono mutuate dal linguaggio militare, economico e sportivo, logiche molto pericolose e generalmente sbagliate quando accostate alla politica e alla democrazia, perché quasi sempre rimandano all’idea di relazioni antagonistiche a “somma zero”, dove le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro.

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Politica, non mercato di voti

Politica, non mercato di voti

Commenti - All'Italia (e al mondo) servono visioni e scelte di «Civil Concorrenza» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 06/01/2013 Per avere un’idea di quanto il linguaggio e la logica politica siano spesso presi a prestito da altri linguaggi, basta leggere i giornali o guardare la TV in qu...
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Commenti - «Politica». ritrovi la morale e se stessa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/01/2013

logo_avvenire«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).

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Ma soprattutto nel Paese c’è un sentire comune disincantato che a troppi non fa più credere che ci possano essere ancora cittadini, tanto meno politici, motivati anche dal bene comune e non soltanto da interessi privati. Il pan-mercatismo di questi decenni ha anche alzato il "cinismo medio", convincendo tanti di noi che la logica degli interessi sia la sola vera e realistica, e che tutto il resto è solo chiacchiere.

Sono molti gli economisti che hanno usato e usano categorie e logiche economiche (cioè dei mercati) per spiegare praticamente tutto, dal perché gli ordini religiosi fanno indossare ai loro membri abiti e pronunziare professioni solenni (per alzare le «barriere all’uscita», come accade nelle industrie), ai comportamenti dei politici e degli elettori.

I primi economisti che tra Otto e Novecento applicarono la logica economica alla politica furono italiani. Tra questi Maffeo Pantaleoni, che sosteneva che le scelte di politica economica e fiscale dipendono «dall’intelligenza media» presente nel Parlamento. Amilcare Puviani, poi, con la sua "Teoria dell’illusione finanziaria" riteneva che il sistema fiscale di un Paese è accettato dalla masse sulla base di una duplice illusione: che la pressione tributaria sia minore di quella reale e che il gettito sia usato per scopi di bene comune, e non per gli interessi privati della classe dominante. Vilfredo Pareto, l’economista italiano più geniale di sempre, continuò questa tradizione, aggiungendovi l’importante elemento che gli esseri umani sono mossi normalmente da passioni e da interessi, ma hanno l’invincibile tendenza a dare una «vernice» logica alle loro azioni. Nel caso dei politici, la «vernice» è il bene comune o l’ideale, mentre la reale motivazione è il potere.

Questo approccio economico alla politica è oggi dominante e pervasivo, eppure coglie soltanto alcune dimensioni delle realtà, ma non tutte, e spesso lascia fuori l’essenziale, tra cui il fatto stesso del voto popolare (è noto che per la teoria economica ufficiale l’elettore "razionale" non dovrebbe votare). Sono convinto che tranne pochissime eccezioni (una di queste è Albert Otto Hirschman, recentemente scomparso), gli economisti non fanno un buon servizio al bene comune quando trattano la politica come un mercato. Anzi, commettono un errore grave e gravido di conseguenze. L’umanesimo dell’interesse (forse) funziona quando debbo scegliere l’auto o un biglietto aereo, meno per il posto di lavoro, molto poco e male per le scelte dove sono in gioco dimensioni simboliche ed etiche, come quelle politiche. Qualche settimana fa una mia collega mi ha detto: «Io appartengo alla classe agiata americana, e avrei tutto l’interesse economico a votare un programma conservatore. Ma non lo faccio, scegliendo di andare contro i miei interessi». L’economia dominante fa una estrema fatica a capire questo tipo di scelte, che invece sono molte e cruciali soprattutto nei momenti di crisi.

Oggi sono molti i cittadini che vanno oltre il loro interesse economico continuando a tenere aperta un’impresa per non licenziare, a pagare tutte le tasse sapendo di essere quasi gli unici a farlo, a credere e a investire nella politica e ad andare a votare per amore civile, nonostante tutto. L’Italia ha già avuto dei momenti felici nei quali la politica, a tutti i livelli, è stata qualcosa di più e di diverso dalla ricerca di interessi privati di elettori ed eletti.

Gli uomini, e ancor più le donne, sono capaci di agire anche per interessi più grandi di quelli privati, negarlo significherebbe negare l’umanità e la dignità della persona. I decenni dai quali stiamo (forse) uscendo hanno minato la virtù della speranza di poter cambiare: ma è da questa speranza, che a livello antropologico, e quindi politico, possiamo e dobbiamo ricominciare. Imboccando la strada della buona politica, che dipende certamente dalla «intelligenza media» del Parlamento prossimo venturo, ma dipende anche, e oggi soprattutto, dalla sua «moralità media».

Le molte "trappole di povertà" nelle quali siamo caduti, soprattutto in alcune regioni del Sud, non si spezzano se non ridando forza profetica e fiducia in se stessa alla politica. Da qui ripartiranno anche lavoro e buona economia. Un’economia non è solo quella che oggi domina nel mondo e il mondo. L’Italia prima di Pantaleoni e Pareto, ha avuto Dragonetti e Genovesi, che hanno pensato e tentato una Economia Civile fondata sulla reciprocità e la pubblica felicità. Il 2013 è anche il 300° anniversario della nascita di Antonio Genovesi (ne parleremo a dovere su queste pagine), ed è un’occasione per riappropriarci di una economia amica della politica e del bene comune.

Lavoriamo (e scegliamo con i nostri stili di vita e il nostro voto) per essere all’altezza di questo passaggio e lasciamo a Genovesi stesso (da una lettera del 1765) la parola: «Io sono oramai vecchio, né spero o pretendo nulla più dalla terra. Il mio fine sarebbe di vedere se potessi lasciare i miei Italiani un poco più illuminati che non gli ho trovati venendovi, e anche un poco meglio affetti alla virtù, la quale sola può essere la vera madre d’ogni bene. È inutile di pensare ad arte, commercio, a governo, se non si pensa di riformar la morale. Finché gli uomini troveranno il lor conto ad essere birbi, non bisogna aspettar gran cosa dalle fatiche metodiche. N’ho troppo esperienza».

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Commenti - «Politica». ritrovi la morale e se stessa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/01/2013

logo_avvenire«Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un estremo bisogno di invertire una tendenza in atto da qualche decennio, quella che ha portato a usare sempre più la logica economica in ambiti non economici, quali scuola ("offerta formativa", debiti e crediti), sanità, cultura. E politica. Non è raro ascoltare importanti giornalisti economici italiani parlare oggi dei partiti come di «competitors», di «offerta» e «domanda» politica (quale sarebbe il «prezzo» di equilibro?).

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La parola dell'anno

La parola dell'anno

Commenti - «Politica». ritrovi la morale e se stessa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/01/2013 «Economia» è stata la parola regina del 2012. La prima parola del 2013 dovrà essere «Politica», se vogliamo che l’anno che si sta aprendo sia migliore, anche per l’economia. C’è, infatti, un...
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Quarto appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire la preziosa «liturgia» delle relazioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

logo_avvenireNatale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...

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Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.

I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.

Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.

Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.

Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.

Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.

Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.

1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.

2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.

3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la con­presenza di chi dona e di chi riceve.

È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.

I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.

Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del con­dono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.

Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.

Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.

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Quarto appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire la preziosa «liturgia» delle relazioni

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

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L'essenza del dono

L'essenza del dono

Quarto appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento" Commenti - Questo tempo per capire la preziosa «liturgia» delle relazioni di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 22/12/2012 Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni ...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...

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Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.

I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.

Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.

Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.

Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.

Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.

Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.

1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.

2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.

3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la con­presenza di chi dona e di chi riceve.

È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.

I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.

Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del con­dono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.

Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.

Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.

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A fine feste natalizie ripubblichiamo questo articolo sul dono di cui oggi Luigino Bruni parlerà a "Siamo noi",  alle 16.20 su Tv2000

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...

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L'essenza del dono

L'essenza del dono

A fine feste natalizie ripubblichiamo questo articolo sul dono di cui oggi Luigino Bruni parlerà a "Siamo noi",  alle 16.20 su Tv2000 di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 22/12/2012 Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani div...
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Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2012

logo_avvenireTornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto quanto poco ormai si canti nelle nostre città, comunità, famiglie. Ma soprattutto, diversamente da quanto accade in quei popoli più giovani, da noi cantano poco gli adulti e i vecchi; e quando non cantano i 'grandi' è cosa grave, perché un vecchio felice, 'lieto', è un messaggio di speranza e di vita lanciato a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vanno aiutati a voler crescere anche con l’esercizio della letizia degli adulti. Ecco allora l’importanza, anche civile, del 'siate sempre lieti'.

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Ma come si può essere lieti nei tempi della crisi? Per intuirlo occorre innanzitutto ricordare che la letizia non è una parola arcaica, ma attualissima: è parola del futuro, se sarà migliore. Non è solo l’allegria, tantomeno il piacere, non è il merry (allegro, ebbro), un aggettivo associato, nel mondo di lingua inglese, indissolubilmente a Christmas (Natale di Cristo). La letitia ha molto a che fare con le relazioni: non possiamo farci lieti da soli, occorre che qualcuno ci faccia lieti, che facciamo lieti gli altri, che ci facciamo lieti l’un l’altro. Anche per questa sua natura di gratuità e di reciprocità la letizia sta scomparendo dal nostro vocabolario, perché letizia non è parola della società dei consumi, dei giochi e della finanza. Non si è lieti quando si entra in un centro commerciale, né quando si strofinano compulsivamente 'gratta e vinci' o quando si fanno grandi profitti con rendite e con speculazioni. Per queste esperienze o emozioni la parola letizia non calza, sarebbe troppo stonata, anche perché non è una emozione.

Per provare la vera letizia occorre ricevere la notizia di un nuovo posto di lavoro, della guarigione di un famigliare, di una diagnosi positiva, occorre tornare verso casa dopo un lungo viaggio sapendo che qualcuno ti aspetta e si sta preparando per accoglierci e fare festa. C’è bisogno di laurearsi dopo mille sacrifici, di riconciliarsi e riabbracciarsi dopo anni di conflitti, di attendere o stupirsi per un bambino che sta per nascere. Chi non conosce queste esperienze non ha bisogno della parola letizia, può accontentarsi di divertimento, intrattenimento, piacere, happiness. La letizia è dunque una parola fondamentale dei tempi delle crisi, di ogni tipo, perché fiorisce da relazioni buone, e le rende feconde, fertili, generative. Anche per questa ragione la letizia ha la stessa radice (laetus) di letame, è ciò che feconda e fa portare frutto, che fa nascere i fiori. La letizia è come il concime nei campi: perché arrivino buoni e abbondanti frutti non basta arare il campo (lavoro e talento), c’è anche bisogno di quella joie de vivre (laetus), individuale e collettiva, che rende fecondo il lavoro. La letizia rende fertili perché per generare imprese, lavoro, progetti, famiglia, vita, c’è un bisogno essenziale di esser lieti. L’imprenditore genera lavoro e ricchezza finché resta un po’ 'garzoncello scherzoso', e smette di innovare quando perde questa letizia.

La creatività, dall’economia all’arte, è quasi sempre il frutto di adulti che, con grande fatica, hanno custodito in loro il fanciullo. La letizia è una virtù, che, come ogni virtù, va coltivata e accudita per tutta la vita. La «perfetta letizia», poi, nasce da ferite amate, in sé e negli altri, e che così diventano benedizioni, per sé o, più comunemente, per gli altri. Infine, per poter conoscere la letizia occorre essere poveri. È ai poveri che arriva il «lieto annuncio», perché la povertà scelta, che non è quindi né l’indigenza né la miseria, è la pre-condizione che consente di esser lieti. Oggi in Italia e in Occidente ci sono molti, troppi indigenti, miseri, esclusi dalla vita economica e sociale (perché disoccupati, ad esempio), ma ci sono sempre meno poveri, nel senso più alto, vero (e troppo dimenticato) del termine. È la povertà di cui parla, l’economista iraniano Majid Rahnema, che in un suo bellissimo libro (che sarebbe da regalare in questi tempi di Natale) ci mostra una «miseria» che «scaccia la povertà», cioè di una povertà cattiva (quella non scelta e subìta) che rende molto difficile, se non impossibile, vivere la virtù-beatitudine della povertà scelta. Quando si vive una vita di miseria, quando non si hanno i mezzi per vivere e far vivere i propri cari in modo dignitoso, non si può scegliere liberamente una vita povera. La povertà buona e scelta, la sola che porta letizia, si chiama sobrietà, gratuità, condivisione, e nasce dalla consapevolezza spirituale ed etica che i beni che abbiamo diventano ben-essere solo se e quando condivisi, e non trattati come sostituti dei rapporti con gli altri.

Le famiglie lo sanno molto bene. Chi non conosce questa povertà scelta e conviviale, non è lieto perché non è capace di distinguere la letizia dal piacere, la festa dal divertimento, la povertà dalla miseria. Il Natale è festa vera solo per questi poveri. Rimpariamo, allora, ad augurarci 'Lieto Natale'.

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Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2012

logo_avvenireTornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto quanto poco ormai si canti nelle nostre città, comunità, famiglie. Ma soprattutto, diversamente da quanto accade in quei popoli più giovani, da noi cantano poco gli adulti e i vecchi; e quando non cantano i 'grandi' è cosa grave, perché un vecchio felice, 'lieto', è un messaggio di speranza e di vita lanciato a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vanno aiutati a voler crescere anche con l’esercizio della letizia degli adulti. Ecco allora l’importanza, anche civile, del 'siate sempre lieti'.

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La forza della letizia

La forza della letizia

Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento" Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/12/2012 Tornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto qua...
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Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2012

logo_avvenireSarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi. 

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Sarà per questo e per molto altro ancora, ma questo è un tempo di avvento segnato anche dalle lacrime. Eppure si può, e si deve, sperare in una nuova mietitura, anche in questa nostra Italia: «Chi semina nel pianto, mieterà nella gioia». Chissà quante lacrime del lavoro di uomini, e soprattutto di donne, hanno generato le preghiere, i canti, le grida che sono state raccolte e custodite da quel salmo, e da tanti altri. Le lacrime fanno parte del lavoro, sono companatico quotidiano del pasto, tanto che se il lavoro non conosce le lacrime, cioè il sudore e la fatica, è probabile che non sia lavoro ma qualcos’altro, non certo migliore. Faticare quando si lavora è semplicemente parte della condizione umana.

Ecco perché chi non fa l’esperienza della fatica del lavoro, perché vive di rendite e di privilegi, è privato o si priva per auto-inganno di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della condizione umana. Chi lavora sa che ha iniziato veramente a lavorare non tanto quando ha ricevuto la prima busta paga, ma il giorno in cui ha fatto la prima esperienza della fatica, della durezza, delle difficoltà del lavorare, superandole. Se ci si arresta prima della soglia della fatica non si entra nel territorio del lavoro, e quindi non si raccolgono i suoi frutti migliori, poiché la felicitas non è assenza di sofferenza e di fatica, ma loro salario. Nonostante la cultura utilitaristica ci voglia convincere che l’obiettivo delle buone società è 'minimizzare le pene' e 'massimizzare i piaceri', in realtà esistono delle 'buone pene' e dei 'cattivi piaceri'.

Le buone pene sono quelle che nascono dalla coltivazione delle virtù e dal lavoro, i cattivi piaceri sono la maggior parte di quelle che oggi ci vengono mostrate come facili felicità edonistiche senza fatica.

Ogni eccellenza, nella scienza e nello sport, nell’arte e nell’amore, richiede in certi momenti decisivi le 'lacrime'. Una cultura che non stima e valorizza la fatica del lavoro, non può capire e apprezzare neanche i veri raccolti, e li confonde con quelli falsi (come quei troppi profitti che trasudano di ingiustizia, di saccheggi di ambiente e di vite umane). Ma non tutte le fatiche e le lacrime del lavoro sono buone. Non sono buone, anzi sono pessime, quelle dei servi e degli schiavi, e tutte quelle che non sono accompagnate dalla speranza del raccolto. Quando non si vede un 'bambino' al termine del 'travaglio'. Sono molto cattive le lacrime versate da quei lavoratori e lavoratrici – e sono ancora troppi milioni nel mondo – che faticano senza diritti, sicurezza, salubrità, rispetto e dignità. O quelle dei tanti che il lavoro non ce l’hanno perché l’hanno perso, o perché, esperienza forse peggiore, il lavoro non l’hanno mai avuto; sofferenza che aumenta nei giorni di festa, perché quando manca il lavoro la festa fa più male della feria.

Le lacrime senza pane e senza sale (senza salario...) sono lacrime e basta. Quell’antico canto del lavoro ci dice però ancora qualcosa di molto importante: per sperare di ottenere il raccolto non basta piangere, occorre seminare mentre si piange. Se penso ai giovani, agli studenti, seminare nelle lacrime significa studiare bene, e studiare cose difficili. Il mondo universitario in questi ultimi due decenni di profonda crisi etica ha prodotto troppi corsi di laurea senza (o con poche) lacrime, presentati e scelti perché facili, che hanno generato e generano pochi 'raccolti', e troppi disoccupati. Un giovane si forma studiando cose difficili, soprattutto studiando bene, e studiando di più nei tempi di crisi, come reciprocità nei confronti della comunità che gli consente di studiare nonostante gli scarsi mezzi. Gli studi sul benessere soggettivo delle persone dicono ormai con estrema chiarezza che una delle principali determinanti della felicità (e delle depressioni) è sentirsi competenti nel proprio mestiere, e la competenza richiede disciplina, e lacrime, soprattutto da giovani.

Anche nel mondo dell’economia sono tanti i seminatori, tra i quali quegli imprenditori che stanno investendo in tempi di crisi, che soffrono ma che vivono la sofferenza come esperienza feconda, come molla per innovare e camminare con piede più spedito, magari insieme ad altri. Ma perché la fatica del lavoratore e dell’imprenditore portino alla gioia del raccolto, un ruolo essenziale lo svolgono le istituzioni. Il processo che va dal lavoro al raccolto non è mai una faccenda privata, ma sempre sociale, collettiva, politica: noi possiamo e dobbiamo seminare con serietà e impegno, ma controlliamo solo in parte la gioia del raccolto, che dipende anche da tutti coloro ai quali siamo direttamente o indirettamente legati. E così troppe semine nelle lacrime non conoscono il canto della mietitura. In Italia va ricostruita la cinghia di trasmissione che lega le semine ai raccolti.

Un indicatore della qualità civile e morale di un Paese dovrebbe essere il rapporto fra i raccolti che arrivano nei granai e le buone fatiche del lavoro: «Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni».

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Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2012

logo_avvenireSarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi. 

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Le buone lacrime della semina

Le buone lacrime della semina

Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento" Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/12/2012 Sarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere...
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Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento"

Commenti - Questo tempo e la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2012

logo_avvenireL’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nes­suna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioio­sa e dolorosa assieme.

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Una salvezza che occorre prima volere per poi deside­rarla. La nostra è crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e man­ca perché non abbiamo, collettiva­mente, occhi capaci di vederla o, quan­tomeno, di intravvederla. Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessa­rio il desiderio dell’alba, e saperne ri­conoscere i segni. In questi anni si an­nunciano troppe 'albe', perché ognu­no vede i segni della propria alba lad­dove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la in­dividua nella ri­presa del Pil, e spera di veder­ne i primi se­gnali nella ri­presa dei con­sumi (la malat­tia che diventa cura), altri in u­na ecumenica, ma piuttosto vaga, 'econo­mia sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per affidare anche la cosa pubblica a impre­se for-profit, realtà finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però abbastanza forti e cariche sim­bolicamente per muovere le passioni u­mane alte, e quindi per aggregare attor­no a esse grandi azioni collettive e po­polari. E così più scorre il tempo, più lon­tana appare - ed è - la fine della notte. U­na economia dell’attesa oggi dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e 'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civi­le, rendono illusione ogni attesa.

La prima di queste parole è virtù, in par­ticolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata, accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de Mandeville, tre­cento anni fa, ci ha raccontato 'La favo­la delle api', dove la conversione dell’al­veare vizioso (ma opulento) in virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi creano sviluppo, per­ché se la gente non ama lusso, comodità, edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.

Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.

Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli medio­piccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese.

L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.

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Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento"

Commenti - Questo tempo e la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2012

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Economia e attesa

Economia e attesa

Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento" Commenti - Questo tempo e la crisi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/12/2012 L’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale sopra...
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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2012

logo avvenireFinalmente, anche in Italia, il sistema fi­scale ha accolto il principio del cosid­detto 'contrasto di interessi'. Si arriverà co­sì a dedurre stabilmente dalle imposte alcu­ne spese che i cittadini sostengono per l’ac­quisto di beni e servizi. Chiedere la fattura o la ricevuta a meccanici ed elettricisti non do­vrà più essere un atto quasi eroico del citta­dino onesto.

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Introdurre la deduzione, con modalità adeguate, di queste fatture e rice­vute è importante anche per i tanti rappor­ti ordinari e abituali con meccanici, idrauli­ci, altri artigiani e professionisti delle nostre città. Quando l’elettricista o la parrucchiera non sono sconosciuti ma amici – cosa mol­to comune nelle piccole città e paesi italiani – il richiedere ricevute e scontrini non è sem­pre facile, perché, a causa di una cultura ra­dicata nel nostro Paese e in molti altri Paesi latini (sulle cui ragioni ci sarebbe molto da dire), viene non raramente percepito come un’inutile vessazione nei confronti di un a­mico.

Sono queste le tante 'trappole di po­vertà' sociale, di cui è piena l’Italia, e che u­na buona legge può contribuire a spezzare. Se, infatti, il mio elettrauto sa che io posso scaricare (e con un’aliquota adeguata) quel­la ricevuta, se non è un vero disonesto (con­tinuo ostinatamente a pensare che siano po­chi i disonesti veri), sarà per me più sempli­ce chiederla, e per lui emetterla. Ci sono, al­lora, molte ragioni per gioire di questa pro­posta che dovrebbe anche aumentare il get­tito fiscale. In questa fase iniziale, però, pos­sono essere utili 'avvertimenti per l’uso', perché le ricevute non sono tutte uguali.

Il centro di questo discorso è, e deve poter essere con chiarezza, la famiglia, in partico­lare le famiglie giovani con figli a carico. Dob­biamo entrare nell’ordine di idee che la fa­miglia – in termini esclusivamente econo­mici – non è soltanto un’agenzia di consu­mo e di redistribuzione del reddito, non è mai stato solo questo: la famiglia è sempre stata, e resta, anche una fondamentale isti­tuzione di produzione di beni e servizi. Il problema campale è che la nostra cultura e­conomica e sociale non vede, per la man­canza di occhiali giusti, l’enorme produzio­ne di beni e servizi che accade dentro le mu­ra domestiche. Le ragioni sono molte, non ultima l’associa­re la sfera domestica alla donna e al 'dono', e la sfera pubblica all’uomo e al 'mercato'. Il Pil, ad esempio, non vede e quindi non ri­porta la produzione di beni e servizi dome­stici (dal cibo alla educazione alla cura), e questo è ormai ben noto; ma non vede e non riporta neanche il valore economico della trasformazione di beni e servizi che avviene dentro casa.

Far sì che una scatola di pelati, un pacco di pasta, cipolla, spezie e carne ma­cinata diventino un pasto servito in tavola e, magari, consumato assieme, è un processo di creazione di alto valore aggiunto econo­mico – basta andare ogni tanto a ristorante per averne una prima stima. Ma questo va­lore, e questi valori, non entrano nell’eco­nomia che conta; e così non contano per le scelte pubbliche, perché associati alla fami­glia, a sua volta considerata come faccenda privata, quindi di solo consumo e al massi­mo di risparmio. Ma c’è di più. La famiglia produce anche capitali sempre più importanti e essenzia­li per l’economia. Non mi riferisco al solo capitale 'umano' (i lavoratori), che senza la manutenzione delle emozioni e delle re­lazioni famigliari sarebbero, e spesso sono, lavoratori di bassa qualità (sono curioso di vedere tra qualche anno quali lavoratori u­sciranno dalle nostre famiglie infragilite...). Ci sono anche i capitali relazio­nali e sociali, prodotti in gran parte dalle famiglie, e che gli studi mostrano come fat­tori essenziali di svi­luppo economico e sociale.

Quindi, molte delle spese che una famiglia so­stiene non sono troppo diverse da quelle di al­tre 'imprese civili'; certo lo scopo della famiglia non è il profitto né la sua natura è commercia­le, ma in questo sono in compagnia di molte altre istitu­zioni di rilevanza economica (da tante scuole alle Ong). Due ultime note a piè di pagina. Non dovremmo chia­mare questa buona legge 'contrasto' o 'conflitto' di in­teresse, di contrasti e conflitti veri ne abbiamo già trop­pi in Italia e nel mondo. Quando un cittadino chiede u­na ricevuta e quando un professionista la emette, non c’è alcun vero contrasto e nessun conflitto di interessi, ma mutua convenienza e interesse ( inter-esse, cioè sta­re- tra). Perché se un’impresa paga tasse eque e possibi­li, cresce meglio e in modo sostenibile (il 'nero' con­danna a restare bonsai, a meno che non si tratti dei 'gran­di neri' della criminalità). Infine, mentre facciamo emergere il 'nero' – che so? – di meccanici e idraulici non dimentichiamoci che – al di là degli scontrini, delle ricevute e delle fatture – la stra­grande maggioranza della ricchezza, e delle non-tasse, transitano nei mercati finanziari. In quei paradisi fisca­li di pochi che rendono la vita di molti troppo simile a purgatori fiscali, se non a veri e propri inferni; compre­sa la vita dei tanti meccanici, artigiani e professionisti o­nesti.

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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2012

logo avvenireFinalmente, anche in Italia, il sistema fi­scale ha accolto il principio del cosid­detto 'contrasto di interessi'. Si arriverà co­sì a dedurre stabilmente dalle imposte alcu­ne spese che i cittadini sostengono per l’ac­quisto di beni e servizi. Chiedere la fattura o la ricevuta a meccanici ed elettricisti non do­vrà più essere un atto quasi eroico del citta­dino onesto.

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Conviene a tutti

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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/11/2012 Finalmente, anche in Italia, il sistema fi­scale ha accolto il principio del cosid­detto 'contrasto di interessi'. Si arriverà co­sì a dedurre stabilmente dalle imposte alcu­ne spese che i c...