Editoriali Avvenire

Economia Civile

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A fine feste natalizie ripubblichiamo questo articolo sul dono di cui oggi Luigino Bruni parlerà a "Siamo noi",  alle 16.20 su Tv2000

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...

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Se si va a casa di qualcuno, soprattutto nei giorni di festa, e non si porta un regalo, non si adempie a una sorta di obbligo, si infrange una buona convenzione sociale. Per questo le pratiche di regalo conservano qualcosa delle pratiche arcaiche delle 'offerte' e dei 'sacrifici' cultuali.

I regali sono previsti, regolati dalle convenzioni sociali, e in non pochi casi pretesi (in molte regioni i regali per i matrimoni sono regolati da norme molto dettagliate e rigidamente osservate, fino a indebitarsi). Non stupisce allora che un economista, Joel Waldfogel, abbia dimostrato, dati alla mano, che i regali di Natale distruggono in media il 20% del valore dei beni regalati, poiché se le persone scegliessero i propri regali invece di riceverli dagli altri, la loro soddisfazione sarebbe maggiore.

Così quest’economista propone di regalare denaro ad amici e parenti – ed è quanto ormai accade abitualmente con figli, nipoti e parenti, poiché regalare denaro diventa una via più semplice, per chi dà e per chi riceve. Niente di male, soprattutto nel caso di matrimoni, quando la giovane coppia ha spesso bisogno anche di denaro, purché non chiamiamo queste pratiche 'doni'.

Il dono è altra cosa, ha altra natura, altro costo, e altro valore. È una faccenda di gratuità, è un bene relazionale, cioè un atto dove il bene principale non è l’oggetto donato ma la relazione tra chi dona e chi riceve. Il dono non è previsto, a volte atteso, sempre eccedente, non legato al merito, sorprendente. È costoso, e le sue principali 'monete' sono l’attenzione, la cura, soprattutto il tempo. Il dono è esperienza di 'alzarsi in fretta' e di 'mettersi in cammino' verso l’altro.

Fare un regalo è facile, se ne possono fare decine in un paio di frenetici pomeriggi di shopping.

Fare un dono è difficile, per questo se ne fanno e ricevono pochi. Per il dono c’è bisogno di un investimento di tempo, di entrare in profonda sintonia con l’altro, di creatività, fatica, e rischiare anche l’ingratitudine. Quando il dono si esprime anche con un oggetto donato, quel dono incorporerà per sempre quell’atto d’amore, quel bene relazionale da cui è nato e che a sua volta fa rinascere. Quando vinsi un importante concorso, un mio amico e collega più anziano mi regalò una penna stilografica: vi fece apporre le mie iniziali, scrisse un bellissimo biglietto (nel contenuto e nella forma), e per consegnarmela mi invitò a cena insieme alla sua famiglia. Quella penna non era un regalo: era un segno, 'sacramento' di un rapporto importante, che rivive tutte le volte cha la uso.

Ci sono alcuni segnali che aiutano a distinguere un dono da un regalo.

1. Non c’è dono senza un biglietto personale e accurato che lo accompagni.

2. La forma conta come la sostanza: in un dono vale non solo il 'che cosa', ma anche il 'come', il 'quando', il 'dove' il dono viene donato-ricevuto.

3. La consegna del dono non è mai anonima né frettolosa: è essenziale saper sprecare tempo, e la con­presenza di chi dona e di chi riceve.

È una visitazione, guardare, osservarsi. L’apertura del pacco, le espressioni del volto, le parole pronunciate nel dare e nel ricevere, sono atti fondamentali nella liturgia del dono, che non è altruismo né donazione, ma essenzialmente reciprocità di parole, sguardi, emozioni, gesti. Il tatto è il primo senso del dono.

I regali sono manutenzione di rapporti, ma non li sanano, trasformano, ricreano. Il dono invece è strumento fondamentale se non indispensabile per curare, riconciliarsi, per ricominciare. Esiste, infatti, un rapporto molto profondo fra dono e perdono, e in molte lingue. In inglese, ad esempio, forgive (perdonare) non è forget (dimenticare), poiché il vero perdono non è togliersi un peso dimenticando il male ricevuto. È un donare (give) non un prendere (get ), è ricredere in una relazione ferita, dove si dice all’altro (o almeno a se stessi): «Ti perdono, ricredo ancora al rapporto con te, pronto a perdonarti se dovessi ferirmi ancora». Non c’è perdono senza dono, né dono senza perdono.

Questo per-dono evidentemente ha bisogno della gratuità, dell’agape, e se mancano questi perdoni la vita personale e sociale non funziona, non genera, non è felice. L’Italia oggi deve superare la cultura del con­dono (che è l’opposto del dono), mentre ha un estremo bisogno di doni e per-doni, a tutti i livelli, soprattutto nella sfera pubblica: basti pensare anche al tragico tema delle carceri e soprattutto dei carcerati.

Il dono è dunque una cosa molto seria, faccenda politica, fonda e rifonda le civiltà e la vita: non saremo sopravvissuti alla nascita se qualcuno non ci avesse donato attenzione, cura, amore. E nessuna istituzione e comunità umana nasce e rinasce senza doni. Approfittiamo di questi ultimi giorni di Natale per trasformare qualche regalo in dono.

Non è impossibile, e spesso può dare una svolta antropologica e spirituale a una festa, a un incontro. Un perdono, un ricominciare.

Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/12/2012

Natale è tempo di regali, ma dovrebbe essere, ed è, il tempo dei doni. I regali e i doni sono atti umani diversi, convivono gli uni accanto agli altri, ma non vanno confusi tra di loro. Nel regalo (parola che proviene da regale, l’offerta al o dal re), prevale la dimensione dell’obbligo (che i latini chiamavano munus). I regali si fanno spesso (non sempre) per assolvere a obblighi, normalmente a buoni obblighi, verso famigliari, amici, colleghi, fornitori, clienti, responsabile ufficio acquisti...

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L'essenza del dono

L'essenza del dono

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Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2012

logo_avvenireTornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto quanto poco ormai si canti nelle nostre città, comunità, famiglie. Ma soprattutto, diversamente da quanto accade in quei popoli più giovani, da noi cantano poco gli adulti e i vecchi; e quando non cantano i 'grandi' è cosa grave, perché un vecchio felice, 'lieto', è un messaggio di speranza e di vita lanciato a tutti, soprattutto ai giovani che oggi vanno aiutati a voler crescere anche con l’esercizio della letizia degli adulti. Ecco allora l’importanza, anche civile, del 'siate sempre lieti'.

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Ma come si può essere lieti nei tempi della crisi? Per intuirlo occorre innanzitutto ricordare che la letizia non è una parola arcaica, ma attualissima: è parola del futuro, se sarà migliore. Non è solo l’allegria, tantomeno il piacere, non è il merry (allegro, ebbro), un aggettivo associato, nel mondo di lingua inglese, indissolubilmente a Christmas (Natale di Cristo). La letitia ha molto a che fare con le relazioni: non possiamo farci lieti da soli, occorre che qualcuno ci faccia lieti, che facciamo lieti gli altri, che ci facciamo lieti l’un l’altro. Anche per questa sua natura di gratuità e di reciprocità la letizia sta scomparendo dal nostro vocabolario, perché letizia non è parola della società dei consumi, dei giochi e della finanza. Non si è lieti quando si entra in un centro commerciale, né quando si strofinano compulsivamente 'gratta e vinci' o quando si fanno grandi profitti con rendite e con speculazioni. Per queste esperienze o emozioni la parola letizia non calza, sarebbe troppo stonata, anche perché non è una emozione.

Per provare la vera letizia occorre ricevere la notizia di un nuovo posto di lavoro, della guarigione di un famigliare, di una diagnosi positiva, occorre tornare verso casa dopo un lungo viaggio sapendo che qualcuno ti aspetta e si sta preparando per accoglierci e fare festa. C’è bisogno di laurearsi dopo mille sacrifici, di riconciliarsi e riabbracciarsi dopo anni di conflitti, di attendere o stupirsi per un bambino che sta per nascere. Chi non conosce queste esperienze non ha bisogno della parola letizia, può accontentarsi di divertimento, intrattenimento, piacere, happiness. La letizia è dunque una parola fondamentale dei tempi delle crisi, di ogni tipo, perché fiorisce da relazioni buone, e le rende feconde, fertili, generative. Anche per questa ragione la letizia ha la stessa radice (laetus) di letame, è ciò che feconda e fa portare frutto, che fa nascere i fiori. La letizia è come il concime nei campi: perché arrivino buoni e abbondanti frutti non basta arare il campo (lavoro e talento), c’è anche bisogno di quella joie de vivre (laetus), individuale e collettiva, che rende fecondo il lavoro. La letizia rende fertili perché per generare imprese, lavoro, progetti, famiglia, vita, c’è un bisogno essenziale di esser lieti. L’imprenditore genera lavoro e ricchezza finché resta un po’ 'garzoncello scherzoso', e smette di innovare quando perde questa letizia.

La creatività, dall’economia all’arte, è quasi sempre il frutto di adulti che, con grande fatica, hanno custodito in loro il fanciullo. La letizia è una virtù, che, come ogni virtù, va coltivata e accudita per tutta la vita. La «perfetta letizia», poi, nasce da ferite amate, in sé e negli altri, e che così diventano benedizioni, per sé o, più comunemente, per gli altri. Infine, per poter conoscere la letizia occorre essere poveri. È ai poveri che arriva il «lieto annuncio», perché la povertà scelta, che non è quindi né l’indigenza né la miseria, è la pre-condizione che consente di esser lieti. Oggi in Italia e in Occidente ci sono molti, troppi indigenti, miseri, esclusi dalla vita economica e sociale (perché disoccupati, ad esempio), ma ci sono sempre meno poveri, nel senso più alto, vero (e troppo dimenticato) del termine. È la povertà di cui parla, l’economista iraniano Majid Rahnema, che in un suo bellissimo libro (che sarebbe da regalare in questi tempi di Natale) ci mostra una «miseria» che «scaccia la povertà», cioè di una povertà cattiva (quella non scelta e subìta) che rende molto difficile, se non impossibile, vivere la virtù-beatitudine della povertà scelta. Quando si vive una vita di miseria, quando non si hanno i mezzi per vivere e far vivere i propri cari in modo dignitoso, non si può scegliere liberamente una vita povera. La povertà buona e scelta, la sola che porta letizia, si chiama sobrietà, gratuità, condivisione, e nasce dalla consapevolezza spirituale ed etica che i beni che abbiamo diventano ben-essere solo se e quando condivisi, e non trattati come sostituti dei rapporti con gli altri.

Le famiglie lo sanno molto bene. Chi non conosce questa povertà scelta e conviviale, non è lieto perché non è capace di distinguere la letizia dal piacere, la festa dal divertimento, la povertà dalla miseria. Il Natale è festa vera solo per questi poveri. Rimpariamo, allora, ad augurarci 'Lieto Natale'.

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Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/12/2012

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La forza della letizia

La forza della letizia

Terzo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento" Commenti - Questo tempo per capire anche la differenza tra le «povertà» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/12/2012 Tornando in Europa dopo viaggi in Africa, nelle Filippine o in Brasile, mi colpisce molto qua...
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Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2012

logo_avvenireSarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi. 

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Sarà per questo e per molto altro ancora, ma questo è un tempo di avvento segnato anche dalle lacrime. Eppure si può, e si deve, sperare in una nuova mietitura, anche in questa nostra Italia: «Chi semina nel pianto, mieterà nella gioia». Chissà quante lacrime del lavoro di uomini, e soprattutto di donne, hanno generato le preghiere, i canti, le grida che sono state raccolte e custodite da quel salmo, e da tanti altri. Le lacrime fanno parte del lavoro, sono companatico quotidiano del pasto, tanto che se il lavoro non conosce le lacrime, cioè il sudore e la fatica, è probabile che non sia lavoro ma qualcos’altro, non certo migliore. Faticare quando si lavora è semplicemente parte della condizione umana.

Ecco perché chi non fa l’esperienza della fatica del lavoro, perché vive di rendite e di privilegi, è privato o si priva per auto-inganno di una delle esperienze etiche e spirituali più vere della condizione umana. Chi lavora sa che ha iniziato veramente a lavorare non tanto quando ha ricevuto la prima busta paga, ma il giorno in cui ha fatto la prima esperienza della fatica, della durezza, delle difficoltà del lavorare, superandole. Se ci si arresta prima della soglia della fatica non si entra nel territorio del lavoro, e quindi non si raccolgono i suoi frutti migliori, poiché la felicitas non è assenza di sofferenza e di fatica, ma loro salario. Nonostante la cultura utilitaristica ci voglia convincere che l’obiettivo delle buone società è 'minimizzare le pene' e 'massimizzare i piaceri', in realtà esistono delle 'buone pene' e dei 'cattivi piaceri'.

Le buone pene sono quelle che nascono dalla coltivazione delle virtù e dal lavoro, i cattivi piaceri sono la maggior parte di quelle che oggi ci vengono mostrate come facili felicità edonistiche senza fatica.

Ogni eccellenza, nella scienza e nello sport, nell’arte e nell’amore, richiede in certi momenti decisivi le 'lacrime'. Una cultura che non stima e valorizza la fatica del lavoro, non può capire e apprezzare neanche i veri raccolti, e li confonde con quelli falsi (come quei troppi profitti che trasudano di ingiustizia, di saccheggi di ambiente e di vite umane). Ma non tutte le fatiche e le lacrime del lavoro sono buone. Non sono buone, anzi sono pessime, quelle dei servi e degli schiavi, e tutte quelle che non sono accompagnate dalla speranza del raccolto. Quando non si vede un 'bambino' al termine del 'travaglio'. Sono molto cattive le lacrime versate da quei lavoratori e lavoratrici – e sono ancora troppi milioni nel mondo – che faticano senza diritti, sicurezza, salubrità, rispetto e dignità. O quelle dei tanti che il lavoro non ce l’hanno perché l’hanno perso, o perché, esperienza forse peggiore, il lavoro non l’hanno mai avuto; sofferenza che aumenta nei giorni di festa, perché quando manca il lavoro la festa fa più male della feria.

Le lacrime senza pane e senza sale (senza salario...) sono lacrime e basta. Quell’antico canto del lavoro ci dice però ancora qualcosa di molto importante: per sperare di ottenere il raccolto non basta piangere, occorre seminare mentre si piange. Se penso ai giovani, agli studenti, seminare nelle lacrime significa studiare bene, e studiare cose difficili. Il mondo universitario in questi ultimi due decenni di profonda crisi etica ha prodotto troppi corsi di laurea senza (o con poche) lacrime, presentati e scelti perché facili, che hanno generato e generano pochi 'raccolti', e troppi disoccupati. Un giovane si forma studiando cose difficili, soprattutto studiando bene, e studiando di più nei tempi di crisi, come reciprocità nei confronti della comunità che gli consente di studiare nonostante gli scarsi mezzi. Gli studi sul benessere soggettivo delle persone dicono ormai con estrema chiarezza che una delle principali determinanti della felicità (e delle depressioni) è sentirsi competenti nel proprio mestiere, e la competenza richiede disciplina, e lacrime, soprattutto da giovani.

Anche nel mondo dell’economia sono tanti i seminatori, tra i quali quegli imprenditori che stanno investendo in tempi di crisi, che soffrono ma che vivono la sofferenza come esperienza feconda, come molla per innovare e camminare con piede più spedito, magari insieme ad altri. Ma perché la fatica del lavoratore e dell’imprenditore portino alla gioia del raccolto, un ruolo essenziale lo svolgono le istituzioni. Il processo che va dal lavoro al raccolto non è mai una faccenda privata, ma sempre sociale, collettiva, politica: noi possiamo e dobbiamo seminare con serietà e impegno, ma controlliamo solo in parte la gioia del raccolto, che dipende anche da tutti coloro ai quali siamo direttamente o indirettamente legati. E così troppe semine nelle lacrime non conoscono il canto della mietitura. In Italia va ricostruita la cinghia di trasmissione che lega le semine ai raccolti.

Un indicatore della qualità civile e morale di un Paese dovrebbe essere il rapporto fra i raccolti che arrivano nei granai e le buone fatiche del lavoro: «Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni».

Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

 

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Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento"

Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/12/2012

logo_avvenireSarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere ori e gioielli per vivere o per lo spettacolo quotidiano di istituzioni e politici che non riescono a essere all’altezza della serietà e gravità dei tempi. 

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Le buone lacrime della semina

Le buone lacrime della semina

Secondo appuntamento con il Commento di Luigino Bruni su "Economia ed Avvento" Commenti - Questo tempo per preparare una nuova mietitura di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/12/2012 Sarà per la stangata del saldo dell’Imu, per i 2 milioni e mezzo di concittadini che hanno dovuto vendere...
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Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento"

Commenti - Questo tempo e la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2012

logo_avvenireL’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale soprattutto nei tempi di crisi. Non si esce da nes­suna crisi se non ci si esercita nell’arte dell’attesa di una salvezza, arte gioio­sa e dolorosa assieme.

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Una salvezza che occorre prima volere per poi deside­rarla. La nostra è crisi epocale perché manca il desiderio di salvezza, e man­ca perché non abbiamo, collettiva­mente, occhi capaci di vederla o, quan­tomeno, di intravvederla. Per chiedere 'quanto manca al giorno?', è necessa­rio il desiderio dell’alba, e saperne ri­conoscere i segni. In questi anni si an­nunciano troppe 'albe', perché ognu­no vede i segni della propria alba lad­dove per altri è solo notte fonda. Qualcuno la in­dividua nella ri­presa del Pil, e spera di veder­ne i primi se­gnali nella ri­presa dei con­sumi (la malat­tia che diventa cura), altri in u­na ecumenica, ma piuttosto vaga, 'econo­mia sociale di mercato', altri ancora nella eliminazione dei partiti per affidare anche la cosa pubblica a impre­se for-profit, realtà finalmente efficienti e responsabili. Tutte queste 'albe' non sono però abbastanza forti e cariche sim­bolicamente per muovere le passioni u­mane alte, e quindi per aggregare attor­no a esse grandi azioni collettive e po­polari. E così più scorre il tempo, più lon­tana appare - ed è - la fine della notte. U­na economia dell’attesa oggi dovrebbe contenere alcune parole fondamentali. Insieme a 'lavoro' e 'giovani', su cui non si scrive e soffre mai abbastanza, ci sono almeno tre parole che se mancano dal vocabolario e dalla grammatica civi­le, rendono illusione ogni attesa.

La prima di queste parole è virtù, in par­ticolare virtù civile. C’è invece tutta un’antica e persino gloriosa tradizione che ha teorizzato che dalle crisi si esce con i vizi, non con le virtù. Ma l’attesa è una virtù poiché va coltivata, accudita, mantenuta soprattutto quando i tempi sono duri. Bernard de Mandeville, tre­cento anni fa, ci ha raccontato 'La favo­la delle api', dove la conversione dell’al­veare vizioso (ma opulento) in virtuoso aveva prodotto miseria per tutti. La tesi è chiara: solo i vizi creano sviluppo, per­ché se la gente non ama lusso, comodità, edonismo, giochi, l’economia si blocca per mancanza di domanda. E questo varrebbe anche e soprattutto in un Paese come il nostro la cui economia dipende molto, forse troppo, dal consumo di questi beni. È un’idea che purtroppo si ritrova ben radicata in buona parte della classe dirigente italiana, che invoca le virtù civili ormai solo in riferimento all’evasione fiscale, senza comprendere la regola elementare che sta alla base della vita in comune: se uno 'spot progresso' condanna il «parassita sociale» e quello successivo spinge il gioco d’azzardo, i due segni si annullano l’un l’altro. La vera lotta all’evasione si chiama coerenza etica, che diventa forza politica e amministrativa.

Una seconda grande parola dell’attesa è 'relazioni'. Sono impressionanti i dati sull’aumento della litigiosità nel nostro Paese durante questa crisi. Dai condomini ai rapporti con i colleghi, dal traffico alle denunce a maestri e dottori, la crisi sta incattivendo le relazioni di prossimità – sebbene, come sempre accade, questi anni vedano anche il fiorire di nuove esperienze di relazioni virtuose e produttive. Il peggiorare delle relazioni è un dato preoccupante, perché altre gravi crisi che abbiamo attraversato (pensiamo alle grandi guerre e alla dittatura) avevano nella sofferenza rinsaldato i legami sociali, ri-creato amicizia e concordia civile che furono essenziali anche per la ripresa economica. Se non saremo capaci di curare le nostre antiche e nuove malattie relazionali (che cos’è la corruzione se non relazioni malate che creano istituzioni malate che a loro volta riproducono relazioni ancora più malate?), nessuna economia, che è prima di tutto un intreccio di relazioni, potrà mai ripartire.

Infine, una terza parola è 'imprenditore'. I grandi maestri dell’attesa sono stati e sono i contadini, gli artisti, gli scienziati, soprattutto le madri. Ma anche l’imprenditore. I veri imprenditori, tutti e soprattutto quelli medio­piccoli, i cooperatori, gli imprenditori civili e sociali, oggi stanno soffrendo molto, più di quanto si dica e si racconti. Questi imprenditori nei decenni passati sono stati capaci di creare valore dai valori 'mettendo a reddito' le vocazioni produttive e cooperative delle nostre valli, dei borghi, delle montagne, delle coste e del mare, e oggi vedono svanire ricchezza e lavoro per le strette creditizie, per la mancanza di politiche di sistema, e per l’invasione di speculatori che spiazzano e spesso mangiano le loro imprese.

L’imprenditore è uomo e donna dell’attesa, perché vive solo se è capace di sperare (la speranza, altra virtù civile), perché se non sperasse che il mondo di domani potrà essere migliore di quello di oggi, farebbe meglio a godersi le sue risorse, o a speculare in cerca di profitti (solo degli speculatori senza scrupoli possono fare miliardi di profitti inquinando e uccidendo territori e persone). Chi ha generato e fatto crescere un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di attesa di una salvezza e di speranza contro gli eventi, contro i consigli prudenti degli amici ('ma chi te lo fare?'), contro le previsioni degli esperti ('ma perché non vendi?'), quando ha avuto la forza di insistere e credere nel suo progetto. Il mondo - e in esso l’Italia - vive ancora perché esistono persone capaci di attendere e di sperare in una salvezza, in attesa di un’alba, di un Natale.

 Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire

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Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento"

Commenti - Questo tempo e la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/12/2012

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Economia e attesa

Economia e attesa

Da questa domenica Luigino Bruni accompagnerà i lettori di Avvenire con commenti legati a "Economia e Avvento" Commenti - Questo tempo e la crisi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/12/2012 L’Avvento – ogni avvento, e ogni ve­ra attesa di salvezza – è una e­sperienza fondamentale sopra...
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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2012

logo avvenireFinalmente, anche in Italia, il sistema fi­scale ha accolto il principio del cosid­detto 'contrasto di interessi'. Si arriverà co­sì a dedurre stabilmente dalle imposte alcu­ne spese che i cittadini sostengono per l’ac­quisto di beni e servizi. Chiedere la fattura o la ricevuta a meccanici ed elettricisti non do­vrà più essere un atto quasi eroico del citta­dino onesto.

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Introdurre la deduzione, con modalità adeguate, di queste fatture e rice­vute è importante anche per i tanti rappor­ti ordinari e abituali con meccanici, idrauli­ci, altri artigiani e professionisti delle nostre città. Quando l’elettricista o la parrucchiera non sono sconosciuti ma amici – cosa mol­to comune nelle piccole città e paesi italiani – il richiedere ricevute e scontrini non è sem­pre facile, perché, a causa di una cultura ra­dicata nel nostro Paese e in molti altri Paesi latini (sulle cui ragioni ci sarebbe molto da dire), viene non raramente percepito come un’inutile vessazione nei confronti di un a­mico.

Sono queste le tante 'trappole di po­vertà' sociale, di cui è piena l’Italia, e che u­na buona legge può contribuire a spezzare. Se, infatti, il mio elettrauto sa che io posso scaricare (e con un’aliquota adeguata) quel­la ricevuta, se non è un vero disonesto (con­tinuo ostinatamente a pensare che siano po­chi i disonesti veri), sarà per me più sempli­ce chiederla, e per lui emetterla. Ci sono, al­lora, molte ragioni per gioire di questa pro­posta che dovrebbe anche aumentare il get­tito fiscale. In questa fase iniziale, però, pos­sono essere utili 'avvertimenti per l’uso', perché le ricevute non sono tutte uguali.

Il centro di questo discorso è, e deve poter essere con chiarezza, la famiglia, in partico­lare le famiglie giovani con figli a carico. Dob­biamo entrare nell’ordine di idee che la fa­miglia – in termini esclusivamente econo­mici – non è soltanto un’agenzia di consu­mo e di redistribuzione del reddito, non è mai stato solo questo: la famiglia è sempre stata, e resta, anche una fondamentale isti­tuzione di produzione di beni e servizi. Il problema campale è che la nostra cultura e­conomica e sociale non vede, per la man­canza di occhiali giusti, l’enorme produzio­ne di beni e servizi che accade dentro le mu­ra domestiche. Le ragioni sono molte, non ultima l’associa­re la sfera domestica alla donna e al 'dono', e la sfera pubblica all’uomo e al 'mercato'. Il Pil, ad esempio, non vede e quindi non ri­porta la produzione di beni e servizi dome­stici (dal cibo alla educazione alla cura), e questo è ormai ben noto; ma non vede e non riporta neanche il valore economico della trasformazione di beni e servizi che avviene dentro casa.

Far sì che una scatola di pelati, un pacco di pasta, cipolla, spezie e carne ma­cinata diventino un pasto servito in tavola e, magari, consumato assieme, è un processo di creazione di alto valore aggiunto econo­mico – basta andare ogni tanto a ristorante per averne una prima stima. Ma questo va­lore, e questi valori, non entrano nell’eco­nomia che conta; e così non contano per le scelte pubbliche, perché associati alla fami­glia, a sua volta considerata come faccenda privata, quindi di solo consumo e al massi­mo di risparmio. Ma c’è di più. La famiglia produce anche capitali sempre più importanti e essenzia­li per l’economia. Non mi riferisco al solo capitale 'umano' (i lavoratori), che senza la manutenzione delle emozioni e delle re­lazioni famigliari sarebbero, e spesso sono, lavoratori di bassa qualità (sono curioso di vedere tra qualche anno quali lavoratori u­sciranno dalle nostre famiglie infragilite...). Ci sono anche i capitali relazio­nali e sociali, prodotti in gran parte dalle famiglie, e che gli studi mostrano come fat­tori essenziali di svi­luppo economico e sociale.

Quindi, molte delle spese che una famiglia so­stiene non sono troppo diverse da quelle di al­tre 'imprese civili'; certo lo scopo della famiglia non è il profitto né la sua natura è commercia­le, ma in questo sono in compagnia di molte altre istitu­zioni di rilevanza economica (da tante scuole alle Ong). Due ultime note a piè di pagina. Non dovremmo chia­mare questa buona legge 'contrasto' o 'conflitto' di in­teresse, di contrasti e conflitti veri ne abbiamo già trop­pi in Italia e nel mondo. Quando un cittadino chiede u­na ricevuta e quando un professionista la emette, non c’è alcun vero contrasto e nessun conflitto di interessi, ma mutua convenienza e interesse ( inter-esse, cioè sta­re- tra). Perché se un’impresa paga tasse eque e possibi­li, cresce meglio e in modo sostenibile (il 'nero' con­danna a restare bonsai, a meno che non si tratti dei 'gran­di neri' della criminalità). Infine, mentre facciamo emergere il 'nero' – che so? – di meccanici e idraulici non dimentichiamoci che – al di là degli scontrini, delle ricevute e delle fatture – la stra­grande maggioranza della ricchezza, e delle non-tasse, transitano nei mercati finanziari. In quei paradisi fisca­li di pochi che rendono la vita di molti troppo simile a purgatori fiscali, se non a veri e propri inferni; compre­sa la vita dei tanti meccanici, artigiani e professionisti o­nesti.

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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 25/11/2012

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Conviene a tutti

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Commenti -  Il «contrasto di interessi» fiscale di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 25/11/2012 Finalmente, anche in Italia, il sistema fi­scale ha accolto il principio del cosid­detto 'contrasto di interessi'. Si arriverà co­sì a dedurre stabilmente dalle imposte alcu­ne spese che i c...
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Commenti -  A proposito di vera e civile «libertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 18/11/2012

logo_avvenireLe grandi crisi – e la nostra lo è – sono mo­menti di cambiamento di paradigma. La crisi degli anni Trenta del Novecento produsse la rivoluzione keynesiana, ma l’affermazione di quel nuovo paradigma fu preceduta da un lungo periodo di confu­sione metodologica, che scompaginò tesi consolidate da secoli. 

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Lo stesso Keynes di­venne keynesiano, abbandonando le pro­prie precedenti teorie. Durante le epoche di passaggio, i confini tra i precedenti pa­radigmi si confondono, i tradizionali dog­mi diventano opinabili, le certezze si tra­mutano in incertezze. Oggi sta accadendo qualcosa del genere, e le classiche distin­zioni tra politiche economiche di destra e di sinistra sfumano, in certi casi si ribalta­no, si confondono. Ciò è particolarmente evidente in tema di diseguaglianza e libe­ro mercato. La visione tradizionale era molto polariz­zata. Il pensiero socialista associava l’e­spandersi del libero mercato all’aumento della diseguaglianza, il pensiero liberale tollerava di più le diseguaglianze perché dava la priorità alle libertà individuali.

Que­sta visione tradizionale e speculare è sal­tata, e oggi vediamo autori liberali teoriz­zare che l’espansione del libero mercato riduce la diseguaglianza, e intellettuali che si definiscono di sinistra diventare paladi­ni delle liberalizzazioni. E così anche al­l’interno degli stessi schieramenti politici si ritrovano candidati che esprimono tesi radicalmente diverse su questo punto de­cisivo della democrazia e della economia attuali.

Per uscire da questa sorte di 'notte del pen­siero' sarebbe necessario specificare di quale mercato si sta parlando. I mercati non sono tutti uguali, perché sono il frut­to di progetti politici e civili. C’è un mercato che ha ridotto e continua a ridurre le disu­guaglianze, e c’è un mercato che le ha fat­te crescere e che continua a incrementar­le. Il primo lo chiamiamo civile, il secondo capitalistico. E in Europa convivono all’in­terno degli stessi Paesi, Italia compresa.

Il mercato della cooperazione, dell’impre­sa sociale, della finanza etica, dei distretti del 'Made in Italy', è stato e in parte è an­cora un grande strumento di civiltà, che ha al tempo stesso ridotto la diseguaglianza e aumentato le libertà individuali. L’altro mercato, quello capitalistico, in certe bre­vi e felici fasi della storia dell’Occidente è stato anche alleato del mercato civile (si pensi, ad esempio, all’Italia del miracolo e­conomico), ma nella fase attuale di capi­talismo finanziario sta aumentando le di­suguaglianze e riducendo le libertà so­stanziali di troppe persone, soprattutto del­le più povere e fragili.

Come mostrava a fine Ottocento l’econo­mista italiano Maffeo Pantaleoni, a diffe­renza delle corse di cavalli o di atletica, nel­la 'corsa del mercato' non esistono sol­tanto i forti e i deboli, perché chi nel mer­cato vince oggi, domani parte più avanti nella linea di partenza, poiché le posizio­ni finali influenzano anche le posizioni i­niziali. Ecco perché un mercato senza un pubblico che ogni tanto ri-allinei le posi­zioni iniziali (ad esempio con il Patto Fi­scale di cui su 'Avvenire' si è molto scrit­to), non è luogo di libertà, ma di iniquità. C’è, poi, un altro elemento da tener ben presente quando si parla di mercato sen­za aggettivi qualificativi.

Quando ero stu­dente, il programma che introduceva il Tg1 delle 20 si intitolava 'Almanacco del gior­no dopo', e vi si alternavano storia, cultu­ra, etologia. Oggi quella fascia oraria è co­perta da giochi e 'pacchi', autentiche li­turgie alla dea fortuna. Il libero mercato si basa sui gusti dei consumatori (l’audience è una applicazione di questa logica): è que­sta la sua grande forza, che però, se non accompagnato da altro, diventa anche grande debolezza. Affinché il mercato non diventi una gara al ribasso su tutti i fronti, c’è un vitale bisogno di forti investimenti nella scuola e nella cultura, che offrano ai cittadini strumenti per esercitare coscien­za critica e vera libertà di scelta.

Il mercato, perché sia veramente civile e luogo di libertà, ha bisogno di cittadini che siano nelle condizioni di poter effettuare scelte informate.

Se oggi le imprese che investono in settori come arte, cultura, giustizia, ma anche cibo biologico e energie bio-sostenibili, non sono accompagnate dal­la società civile e dallo Stato che offrono educazione e formazione adegua­ta a partire dalle scuole, sono condannate a partire troppo indietro nella 'corsa' del mercato. In Italia, ad esempio, l’educazione musicale, alimentare, ambien­tale, al consumo dei bambini e degli adulti è nulla o tragicamente troppo insuf­ficiente, e se non sappiamo distinguere tra una canzone pop e una sinfonia di Beethoven, o tra un caffè del commercio equo e un caffè che costa poco perché prodotto sfruttando i lavoratori, persino lo 'sviluppo' dei mercati peggiora tut­ti e tutto. Se vogliamo dar vita a un mercato che aumenti sia le libertà sia l’uguaglianza, in­vestiamo di più nella scuola e nella cultura, e cambiamo programmi scolastici. Ma, soprattutto, a chi parla di mercato, politici compresi, chiediamo sempre di quale mercato parlano e quale mercato vogliono; perché i mercati sono molti, e non tutti sono buoni.

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Commenti -  A proposito di vera e civile «libertà»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 18/11/2012

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C'è mercato e mercato

C'è mercato e mercato

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Commenti - Compratori di povertà e opere civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/11/2012

logo_avvenireL’ oro, nella storia di tutte le civiltà, è sem­pre stato più di un metallo. Il suo sim­bolismo è tra i più ricchi e profondi, e si in­treccia anche con i linguaggi religiosi e con quelli di molti miti fondativi delle comunità, a partire dal matrimonio.

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Per questo, vende­re gli ori di famiglia è sempre un atto quali­tativamente diverso dal vendere altre merci, poiché quegli ori raccontano storie familia­ri, eredità, e soprattutto doni. Ed è quasi sem­pre un atto doloroso, perché quel (poco) de­naro che viene dato in contraccambio è in­finitamente più povero e triste di tutta la ric­chezza relazionale, e quindi simbolica, che si celava sotto quelle catenine, quei bracciali, quegli anelli.

Ecco perché se andiamo a ve­dere chi sono coloro che si rivolgono ai com­pro oro, nella quasi totalità si tratta di pove­ri e disperati, persone sulla cui indigenza e di­sperazione prosperano mercanti per profit­to, quando non vere e proprie reti criminali, come è venuto alla luce col blitz di ieri della Guardia di finanza, che con oltre 250 per­quisizioni in tutta Italia ha sequestrato beni per più di 160 milioni di euro. E così il più nobile e ricco dei metalli sigilla l’atto, a volte estremo, dei meno ricchi delle nostre società. Oggi, come ieri.

La vendita degli ori è at­to e fatto antichissimo, come an­tichissima è l’esperienza antro­pologica del cadere in disgrazia, a volta senza colpa. Se andassi­mo a incontrare e a farci raccon­tare le storie di questi venditori di oro, troveremmo disoccupati, im­prenditori indebitati per la crisi, magari pensionati e pensionate soli con un reddito troppo basso per vivere e curarsi; e chissà quanto altro ancora. Fino a po­chi decenni fa, quando ancora il nostro Paese era capace di tra­durre in istituzioni la sua identità cristiana e comunitaria, a racco­gliere questa offerta disperata di ori erano i Monti dei Pegni, o i Monti di Pietà, istituzioni nate a partire dal secondo Quattrocen­to, dapprima nell’Italia centrale (i primi ad Ascoli, Spoleto, Peru­gia), e poi in tutta l’Italia e in altri Paesi europei. Furono inventati dai francescani, i quali, amanti veri di 'madonna povertà' e dei poveri, capirono carismatica­mente che se un povero che vive una fase di grave difficoltà eco­nomica si rivolge al 'mercato for profit', finisce nella grande mag­gioranza dei casi per peggiorare, e di molto, la sua condizione.

Gli scambi effettuati in oggettivo stato di necessità sono immorali e sbagliati, come ci suggerisce an­che una delle letture del grande racconto biblico della vendita di Esau della sua primogenitura per fame (il 'piatto di lenticchie'). Lo scopo di quegli antichi Monti e­ra 'la cura della povertà', poiché le banche non prestavano (e continuano a non prestare) ai poveri, e questo vuoto fini­va per colmarlo l’usura. La presenza dei fran­cescani, e poi nel corso dei secoli di molti al­tri carismi, era essenziale: una garanzia eti­ca ed economica che chi accoglieva quegli ori e quei pegni non avrebbe usato la sua con­dizione di potere e di asimmetria contro quei poveri, ma per loro e per il Bene comune.

I Monti dei Pegni si sono estinti, non solo per una normativa del credito sempre più com­plessa, e sempre meno capace di capire i po­veri e le loro esigenze; ma anche perché so­no venuti meno i carismi civili, persone e i­stituzioni che sentivano di investire rispon­dendo in modo creativo alle stesse 'doman­de' che avevano originato i Monti di Pietà. Oggi, anche per la crisi che stiamo vivendo e che colpisce di più i più poveri, è urgente che il civile faccia di più anche sul fronte dell’ac­cesso al credito dei poveri. Il microcredito moderno, ripartito con Muhammad Yunus in Bangladesh, ha tentato qualcosa del ge­nere, quando ha reso bancabili i poveri sen­za le classiche garanzie bancarie, grazie a ve­re innovazioni civili, e quindi finanziarie ed economiche.

In Italia, e in generale in Occidente, non c’è ancora una risposta economi­co- finanziaria adeguata alle esigenze dei veri poveri, che non può venire in questo momento dallo Stato, ma dalla gente e dalla società civile. Occorro­no nuovi 'francescani', nuovi carismi civili che inventino istituzioni che, ana­logamente agli antichi Monti dei pegni, siano delle innovazioni economiche, non solo assistenza. I Monti di Pietà furono, soprattutto nella prima fase, in­novazioni importanti per lo sviluppo economico dell’Italia moderna, perché in­clusero gli esclusi.

Il mercato svolge veramente la sua funzione civile, e la sua vocazione umanizzante, quando include chi è ancora 'fuori' per un mutuo vantaggio (di chi include e di chi è incluso): la regola d’oro di ogni vera econo­mia civile non è la filantropia unilaterale, ma la reciprocità, anche produttiva. Se non saremo capaci di dar vita, qui ed ora, a queste istituzioni di economia civile, continueremo a lasciare i poveri e i disperati nelle mani dei cercatori di ori e sempre più spesso dell’illegalità, e non saremo all’altezza dei tanti nostri concittadini che in tempi di crisi non si lamentarono, ma diedero vita ad ope­re veramente innovative perché inclusive, quelle che oggi mancano all’Italia.

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Commenti - Compratori di povertà e opere civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/11/2012

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La regola aurea

La regola aurea

Commenti - Compratori di povertà e opere civili di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/11/2012 L’ oro, nella storia di tutte le civiltà, è sem­pre stato più di un metallo. Il suo sim­bolismo è tra i più ricchi e profondi, e si in­treccia anche con i linguaggi religiosi e con quelli di molt...
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Commenti - Saggezza di ieri, nodo di oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/11/2012

logo_avvenireI dati della crisi, che continuano ad alimenta­re i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e con­cordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei problemi, alcuni molto seri. Una spia di colore rosso fuoco si è accesa ormai da tempo, e sarebbe ora di fermarsi per fare qualche inter­vento serio al motore: è la spia del lavoro. Eppu­re in un momento alto della nostra storia politi­ca e civile, lo abbiamo posto come pietra ango­lare della legge fondamentale degli italiani

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Sono molti i significati del primo articolo della nostra Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». In ogni patto, le prime parole che si pronunciano sono quelle più dense di contenuti simbolici e ideali. Si sa­rebbero potute scrivere in quel posto speciale al­tre parole alte, come libertà, giustizia, ugua­glianza o persino fraternità; invece in quell’inci­pit del patto fondativo della nuova società ita­liana fu inserita la parola lavoro.

Una parola u­mile ma forte, associata da sempre alla fatica e al sudore, e persino considerata nell’antichità come attività confacente allo schiavo, perché troppo infima: «Ignobili e abietti, poi, sono i gua­dagni di tutti quei mercenari che vendono, non l’opera della mente, ma il lavoro del braccio... Tutti gli artigiani, inoltre, esercitano un mestie­re volgare: non c’è ombra di nobiltà in una bot­tega » (Cicerone, De Officiis).

Parole pesanti, che certamente erano parte della formazione classi­ca di molti di quei padri costituenti, che però fu­rono capaci di guardare soprattutto alla loro gen­te e così, pace per Cicerone o Aristotele, videro la tanta nobiltà che c’era «nelle botteghe». E co­sì scrissero la parola lavoro come il primo so­stantivo dell’Italia post-fascista – una scelta dop­piamente coraggiosa, se si pensa alla retorica del lavoro che aveva caratterizzato il Ventennio. Nella semantica di quel lavoro c’era la vicenda storica dell’Italia contemporanea, dove la de­mocrazia stava avanzando proprio grazie al gran­de movimento di lavoratori, uomini e (poche) donne, che divennero veramente cittadini quan­do, abbandonando lo status di servi in una cam­pagna ancora per tanti versi sostanzialmente feu­dale, divennero lavoratori nelle fabbriche, nelle officine, nelle scuole, negli uffici e nelle coope­rative.

Non tutto il lavoro fonda la Repubblica, ma solo quello degli uomini e delle donne libere, non quello degli schiavi e dei servi. Ma nelle parole dell’articolo 1, c’era e c’è anche l’espe­rienza di tanti che per amore della democrazia e dei suoi valori, il lavoro l’avevano perso, per­ché combattuti ed emarginati dal fascismo. Il primo strumento che ogni potere anti-demo­cratico ha per togliere la dignità e la libertà è cancellare il lavoro. Furono tanti, troppi, gli italiani e gli europei che dovettero chiudere fabbriche, tipografie, uffici, cattedre, per non piegarsi alle richieste anti-de­mocratiche e illiberali del regime. Molti di que­gli uomini furono poi tra i padri costituenti, e in quella originale e felice formulazione del primo articolo, cercarono di raccontare anche queste storie di amore civile. E nel far questo hanno crea­to la più bella equazione della nostra storia re­pubblicana, quella che pone l’eguaglianza tra democrazia e lavoro: la Repubblica è democra­tica perché fondata sul lavoro, altrimenti la Re­pubblica si fonda su rendite e privilegi, e quindi non è democratica. Non è facile, oggi, leggere seriamente quell’arti­colo, e al contempo restare passivi in una Italia e in una Europa che, da una parte, lasciano trop­pi milioni di persone fuori dalla "città del lavo­ro", e dall’altra fanno troppo poco di fronte a nuove forme di schiavitù e servitù.

Quell’articolo quindi, ci può offrire una chiave di lettura po­tente per comprendere meglio che cosa sta ef­fettivamente accadendo. Ci dovrebbe far capire che la lotta alla disoccupazione deve avere lo stesso posto che occupa il lavoro nella nostra Costituzione: il primo. Non si può barattare il lavoro con i profitti né, tantomeno, con le rendite, perché quando il lavoro della persona umana è negato è in profonda crisi prima di tutto la democrazia. C’è poi un secondo messaggio molto attuale che ci arriva dall’articolo 1 e dalle sue semantiche (oggi, forse, troppo lontane): lavorare non è l’esperienza del servo e dello schiavo. Una tesi che ci chiama a una profonda riflessione quando constatiamo che il capitalismo senza regole e senza misura sta creando nuove forme di schiavitù e di servitù nei livelli più alti e più bassi del mondo del lavoro.

Delle dilaganti e anche inedite forme di schiavitù-servitù di operai e precari nel mondo si parla abbastanza; si parla invece troppo poco delle nuove forme di schiavitù di coloro che vengono considerati privilegiati: dirigenti e impiegati di medio e alto livello nelle grandi imprese multinazionali, che vengono pagati assai bene nei "nuovi mercati", ma che di fatto rinunciano più o meno consapevolmente, a crescenti fette di libertà, di tempo, di festa, di famiglia... La rossa spia del lavoro continua allora a lampeggiare: prendiamola tutti più sul serio, fermiamoci, per poi ripartire nella giusta direzione.

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Commenti - Saggezza di ieri, nodo di oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/11/2012

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Lavoro, pietra angolare

Lavoro, pietra angolare

Commenti - Saggezza di ieri, nodo di oggi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 04/11/2012 I dati della crisi, che continuano ad alimenta­re i nostri dibattiti e le nostre preoccupazioni, sono come spie che dicono, tutti assieme e con­cordemente, che la 'macchina del capitalismo' ha dei prob...
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Commenti -  Nuova normalità: la crisi spinge a rivalutare la condivisione di beni e servizi.

di Luigino Bruni

 pubblicato su Avvenire il 28/10/2012

logo_avvenireI "new normal", i nuovi normali: così l’America chiama quella parte dell’ex ceto medio che a causa della crisi sta cambiando stile di vita, facendo cose che pochi anni fa sarebbero state considerate anormali o tipiche della classe più povera. Fra questi nuovi comportamenti 'normali' non ci sono solo riduzioni del consumo di beni e servizi che fino o poco fa erano considerati ormai assodati e di fatto indispensabili, ma ci sono anche nuove pratiche di condivisione, in rapido aumento nella società americana e un po’ in tutto l’occidente in crisi.

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Tra queste c’è anche il grande sviluppo delle Banche del tempo, quella importante innovazione (che risale a ben prima della crisi), che consiste nel dar vita a una rete di scambi nei quali la moneta, cioè l’unità di conto e di calcolo delle equivalenze, non è il denaro ma il tempo: l’offerta, ad esempio, di un’ora di giardinaggio diventa un credito di un’ora di un’altra attività della stessa durata, sulla base di norme di reciprocità sia diretta che indiretta (dove il credito o il debito di A verso B può essere ricambiato anche da C).

Nelle vere banche del tempo si riporta l’economia alla sua natura originaria di incontro fra persone, dove lo scambio di merci e di servizi è sussidiario ai beni relazionali, che oggi sono sempre più inquinati da mercati troppo anonimi e spersonalizzati. Le banche del tempo sono presenti anche sul nostro territorio, normalmente promosse da associazioni della società civile, quasi sempre all’interno di tessuti con orditi molto articolati, che in certi casi stanno prendendo la forma di veri e propri sistemi di scambio e di sviluppo locale, con reti di gruppi di acquisto solidale (Gas), cooperative, pubbliche amministrazioni lungimiranti, banche territoriali, molte associazioni, Caritas, ecc. 

Così in molti territori, le antiche tradizioni di virtù civili e di mestieri oggi vivono una nuova primavera, con in più un significativo protagonismo di donne e di anziani. Sono questi segnali positivi della crisi, che se estesi su più larga scala e sostenuti da buona politica, potrebbero far sì che diventino di nuovo 'normali' prassi comunitarie e solidali che hanno fondato la nostra cultura occidentale e cristiana, e che nell’era dell’opulenza e dello spreco insostenibile sono state in larga parte distrutte. Dietro questo crescente fenomeno delle banche del tempo si deve allora intravedere un processo di portata più generale e più strutturale, che potrebbe offrire elementi capaci di produrre cambiamenti di vasta portata all’interno del nostro modello economico capitalistico.

Ma per comprendere la sfida che si nasconde dietro queste apparentemente semplici e ancora poco conosciute esperienze, bisogna guardare più in profondità. Anzitutto alla diseguaglianza crescente, che va però anche vista da una prospettiva non abbastanza sottolineata, e quindi molto sottovalutata. È la tendenza radicale in atto nel nostro sistema capitalistico a un progressivo allargamento dell’area coperta dagli scambi monetari. È ormai considerato 'normale', in America (ma non solo lì), pagare un extra nei teatri e musei al fine di saltare la coda; oppure pagare (e qui per fortuna solo in America) gli studenti al fine di incentivarne la performance scolastica; per non parlare della ormai normale penetrazione della logica monetaria nella sanità, nella cultura, e persino nella famiglia, dove sta diventando normale incentivare i ragazzi pagandoli per i lavori di casa.

Senza entrare in questioni etiche fondamentali relative all’allargamento dell’uso della moneta in questi ambiti del civile (siamo sicuri che evitare una coda in un teatro, in un ospedale o in un aeroporto perché si è più ricchi sia compatibile con la democrazia?), c’è una conseguenza diretta di tutto ciò nella vita quotidiana delle persone, soprattutto dei nuovi e antichi poveri e dei nuovi normali. Se la moneta copre sempre più bisogni, se cioè devo pagare per ottenere beni e servizi che una volta erano offerti dalle comunità (cura, educazione, scuola, sanità...), una tanto evidente quanto taciuta conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di vita e dell’esclusione sociale di chi quella moneta non ce l’ha o ne ha troppo poca. Per questo in un mondo che oltre ad essere diseguale nel reddito aumenta il ricorso alla moneta per sempre nuove attività, alcune delle quali essenziali per vivere, la vita dei più poveri diventa tremendamente dura.

È qui allora che si capisce il significato civile ed economico di questi movimenti di reciprocità non mercantile come le banche del tempo e dintorni. Un modo efficace per combattere la mancanza di reddito è ridurre il ricorso alla moneta per ottenere beni e servizi. Se fossimo capaci di organizzare la nostra vita quotidiana sfruttando di più il principio di reciprocità, metterlo più a sistema, potremmo gestire una parte significativa di servizi di cura, di assistenza ma anche di mestieri e competenze, senza ricorrere allo strumento monetario. Anche perché molti dei nuovi 'normali' sono nella condizione, perché giovani, donne e anziani, di avere meno reddito ma più tempo e spesso competenze non richieste oggi dal mercato del lavoro ma molto utili alla gente. Perché allora non far ripartire in Italia una nuova stagione di sistemi locali di scambio basati sul principio di reciprocità? Come cittadini ci riapproprieremo di pezzi importanti di vita associata, di democrazia e quindi di libertà, e metteremmo in moto creatività, innovazione, protagonismo, lavoro, nuova fiducia e capitali civili la cui mancanza è la vera povertà dell’Italia di oggi.

Sarebbe una stagione simile alla nascita del movimento cooperativo di fine ottocento, quando in tempo di profonda crisi industriale e rurale, l’Italia seppe dar vita ad un vero miracolo economico-civile, creando decine di migliaia di nuove imprese in tutto il Paese. Occorrerebbe però anche una politica lungimirante che, ad esempio, non veda queste transazioni come forme di evasione fiscale ma come una espressione del principio di sussidiarietà, di cui tanti parlano ma pochi concretizzano. Da questa crisi sicuramente uscirà una nuova 'normalità': oggi ci troviamo di fronte ad un bivio epocale tra una nuova normalità fatta di miseria per tanti e super privilegi per pochi, e una nuova normalità con maggiore condivisione, democrazia e opportunità per tutti.

Dobbiamo allora operare e sperare affinché si imbocchi questa seconda direzione.

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Commenti -  Nuova normalità: la crisi spinge a rivalutare la condivisione di beni e servizi.

di Luigino Bruni

 pubblicato su Avvenire il 28/10/2012

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Più tempo, meno moneta

Più tempo, meno moneta

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Commenti -  Economia sociale, opere dei carismi.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/10/2012

logo_avvenireÈ ormai evidente che logiche dominanti in Europa influenzano potentemente l’Ita­lia e che ormai anche nel nostro Paese si fa­tica a conoscere e riconoscere una realtà che è ricchezza e fonte di ricchezza per tutti: l’e­conomia sociale e civile. Su di essa non in­combe soltanto il grave (ben 7 punti) au­mento dell’Iva per le cooperative sociali (la principale innovazione economico-sociale i­taliana, e probabilmente continentale, degli ultimi vent’anni).

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C’è anche la recente ap­provazione della 'borsa delle scommesse' e l’imminente legalizzazione delle slot machi­ne online, che rappresentano un segnale an­cora più grave, poiché proprio queste nor­mative radicalmente 'incivili' finiscono per ingrossare le fila di quel disagio sociale che poi arriva alla cooperazione sociale che deve occuparsene con sempre meno risorse. 

È in questo contesto di incomprensione nei confronti del sociale e dell’economia civile che va anche inquadrato il tema dell’Imu sul­le strutture del mondo non profit e delle isti­tuzioni religiose, di cui si è molto parlato, ma di cui è forse bene parlare ancora e più a pro­posito.

Via Tuscolana, Roma. Una comunità di sale­siane, circa 20 suore, porta avanti da decen­ni una scuola elementare e materna. Molte sorelle, alcune ottantenni, lavorano come vo­lontarie nella scuola, assistendo i bambini negli intervalli, o rispondendo al centralino. Ho visto personalmente genitori che il gior­no in cui si aprono le iscrizioni, arrivano la se­ra prima e pernottano di fronte alla scuola per non restar esclusi dai pochi posti a di­sposizione. Perché questa comunità conti­nua a portare avanti questa scuola? Per due principali ragioni: per rispondere a un biso­gno urgente e vitale del territorio, e perché per le salesiane le opere educative non sono un accidens, ma parte essenziale della loro vocazione e del loro carisma. Quando quel­le suore da giovani hanno risposto a una vo­cazione, si sono donate anche ai giovani e al­la loro educazione.

L’Italia, almeno la sua parte migliore, l’han­no edificata anche, e in determinati momenti storici, soprattutto i carismi religiosi. Assieme, in una certa misura, a quelli laici. Quando lo Stato Italiano non c’era ancora, o le sue isti­tuzioni erano inesistenti o troppo fragili, Cot­tolengo, Don Bosco, Don Orione, Scalabrini, Francesca Cabrini, hanno curato e amato le tante forme di povertà e di esclusione del lo­ro tempo, rendendo la società italiana più ci­vile e la vita di tanti, poveri e meno poveri, possibile. Le loro strutture e le loro case so­no diventate dei veri beni pubblici, come e più di fontane, parchi, teatri, musei. E in molti casi lo sono ancora, costituendo un patri­monio del nostro Paese. Centinaia di migliaia di bambini, ragazzi e giovani oggi sono ancora educati e amati da opere nascenti dai cari­smi.

Solo uno sguardo distratto può chiama­re 'attività commerciale' la scuola di un or­dine religioso o la mensa attivata in una par­rocchia: sono espressione diretta e imme­diata del carisma. E sono attività diverse da quella for profit non perché e quando 'non fanno utili' (come recitano i testi normativi circolati in questi giorni), perché il fare o non fare utile non può essere il criterio per capi­re queste realtà, e per capire le tante realtà re­ligiose e laiche (culturali, ricreative, sportive …) che gestiscono attività che hanno anche una dimensione commerciale.

Ecco perché dietro progetti (e polemiche) sul­l’allargamento della tassazione sugli immo­bili agli 'enti non commerciali' (oggi parlia­mo di Imu, ieri di Ici) si nasconde molto di più di una faccenda 'cattolica' (e qui bisogne­rebbe ragionare su quanto male fa all’Italia leggere ogni cosa in chiave ideologica pro o contro la Chiesa!): è una questione che ri­guarda anche e soprattutto la vocazione ci­vile ed economica del Paese, la nostra storia e la nostra cultura.

C’è poi il dato concreto che molte di queste opere carismatiche si muovono da anni sul filo della sopravvivenza: ricevono somme ir­risorie dagli enti pubblici, e sopravvivono per la tanta gratuità che riescono ad attivare. Far pagare l’Imu per gli immobili di queste e di tante altre scuole e opere 'comunitarie' si­gnifica, di fatto, non capire il valore di tali realtà, non stimarle, e rendere la loro vita mol­to difficile, in certi casi insostenibile. Con qua­li conseguenze?

Si renderà più facile la dismissio­ne o svendita di queste struttu­re, magari a speculatori, che rad­doppieranno le rette, impoveriranno ancora le famiglie e impoveriranno anche la cultura e la storia dei nostri territori. È questo che si vuole? È davvero que­sto che l’Europa imporrebbe al patrio governo su richiesta di un manipolo di politici che hanno fatto ricorso contro l’Italia perché colpevole di 'aiuti di Sta­to' alle attività non profit?

Nell’attuale straordinaria fase politica e di governo continua purtroppo e, di fatto, si sviluppa una tradizione vec­chia ormai di decenni, che non ha oc­chiali per 'vedere' il civile italiano (che non è quello inglese né quello Usa). Non a caso il primo taglio della spen­ding review è stata la chiusura dell’A­genzia per le onlus, e l’ultimo (speria­mo) è picconare le opere del 'civile', e quindi i poveri. Non si tratta di 'equità' (trattare la Chiesa e le sue opere come tutti), si tratta di avere o non avere una idea di Italia, una idea della fisiologia del malato da curare. Perché la più grande ingiustizia è trattare allo stesso modo realtà diverse: non distinguere tra il significato civile ed economico di una business school e una scuola di Don Orione o un asilo tenuto in piedi da una parrocchia.

Si agitano mediatica­mente le note e abusate storie dei 'bed e breakfast' di proprietà di ordini reli­giosi ma gestiti con modalità impren­ditoriali e, spesso, da soggetti for profit (che infatti, anche con la legge attual­mente vigente, devono pagare Imu e ogni altra imposta), e non ci si rende conto che con gli interventi normativi oggettivamente contro il non profit sa­ranno proprio le attività for profit che aumenteranno. Pagheranno tutti l’Imu anche quelli che operano senza fini di lucro, ma i cittadini pagheranno un prezzo molto più alto, e il nostro Pae­se finirà per perdere l’apporto di realtà secolari.

Tutto per una radicale rival­sa ideologica abbinata alla voglia di fare un po’ di cassa; una cassa che, di­versamente dalla Francia, non si ha la forza politica di fare aumentando di 20 punti percentuali l’Irpef dei su­per-ricchi, continuando così a chie­dere di più ai poveri e alla sempre più impoverita classe media. Lo spettacolo di corruzione e immo­ralità di questi giorni si cura alimen­tando gli anticorpi, immettendo cel­lule sane nel corpo italiano grave­mente malato, anche per avere e­marginato i carismi dalla vita civile. Non sarà l’allargamento del mercato for profit a salvare l’Italia.

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Commenti -  Economia sociale, opere dei carismi.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/10/2012

logo_avvenireÈ ormai evidente che logiche dominanti in Europa influenzano potentemente l’Ita­lia e che ormai anche nel nostro Paese si fa­tica a conoscere e riconoscere una realtà che è ricchezza e fonte di ricchezza per tutti: l’e­conomia sociale e civile. Su di essa non in­combe soltanto il grave (ben 7 punti) au­mento dell’Iva per le cooperative sociali (la principale innovazione economico-sociale i­taliana, e probabilmente continentale, degli ultimi vent’anni).

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Più rispetto per il civile

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Commenti -  Economia sociale, opere dei carismi. di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 20/10/2012 È ormai evidente che logiche dominanti in Europa influenzano potentemente l’Ita­lia e che ormai anche nel nostro Paese si fa­tica a conoscere e riconoscere una realtà che è ricchezza e font...
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Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/10/2012

logo_avvenireIn Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, un numero destinato, con ogni probabilità, a crescere nei prossimi anni, a meno di svolte che per ora restano nel regno dei desideri. Dovremmo fermarci di più a riflettere su questi numeri fatti di carne e sangue, che possono dirci molte cose, e ci potrebbero spingere all'azione per cambiarli e migliorarli.

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Se pensassimo fino in fondo a questi numeri, senza fermarci alla superficie del fenomeno, ci accorgeremmo presto che il principale costo delle crisi economiche, soprattutto di quelle profonde ed epocali come quella di oggi, è sempre quello umano. Ma il principale ostacolo che si incontra subito è la mancanza di indici di bilancio o di monete capaci di misurarlo, compensarlo, e spesso perno di vederlo. Non entra nel Pil, e solo l’osservazione della vita vera della gente e del mondo del lavoro potrebbe almeno in parte rivelarci.

Le componenti principali di questo costo umano, invisibile ma realissimo, sono due, che aumentano entrambe in tempi di crisi: la disoccupazione in senso stretto e la sofferenza che nasce dal dover fare lavori sbagliati per vivere. Della prima componente, cioè dei costi della disoccupazione, sappiamo abbastanza, ma non sappiamo e non diciamo tutto: si sottolinea poco, ad esempio, il danno di avere un numero crescente di giovani fuori dal mondo del lavoro. E quando i giovani non lavorano sono certamente i giovani stessi a perdere molto, moltissimo, per la mancanza di reddito e per non investire lavorando gli anni migliori e più creativi della vita; ma perde moltissimo anche il  mondo dell'impresa, che quando non ha abbastanza giovani tra i suoi lavoratori  non riesce a innovare veramente, non ha abbastanza entusiasmo, gratuità, voglia di futuro e speranza.

Un Paese come il nostro e come tanti altri in Europa (non nel resto del pianeta) che lasciano troppi giovani fuori dal mondo produttivo, genera allora un grande duplice grave danno: per i giovani (e quindi per tutti) e per le imprese (e quindi per tutti). Ma c'è di più, e per capirlo dobbiamo considerare la seconda componente del costo umano della disoccupazione: la profonda sofferenza di chi, quando il lavoro manca, è costretto ad accettare lavori che non corrispondono alla propria vocazione e ai propri talenti. Pèrché? E in quale senso? Un giorno rividi una mia compagna di liceo, che lavorava, laureata, come cassiera in un supermercato. Al vedermi arrossì, in evidente disagio che nasceva dal sapere, lei per prima, che quel lavoro che stava facendo non era quello che aveva voluto, sognato, per cui aveva studiato e sudato tanti anni. La prima cosa che avrei voluto dirle è farle in qualche modo arrivare, è il valore etico del lavoro, anche quando è svolto "semplicemente" per procurarsi il necessario per vivere, non dipendere dagli altri, e magari far vivere bene le persone alle quali si è legati e di cui si è responsabili.

Milioni di persone vanno tutti i giorni a lavorare per questa ragione, e nel lavorare per vivere e far vivere meglio possibile nobilitano il lavoro, se stessi, la società. Tutto questo può essere già molto; ma il lavoro non è mai solo questo, perché quell'essere simbolico che chiamiamo "persona" è sempre in cerca di senso in quello che fa. E se il lavoro mentre mi dà da vivere non mi dà anche senso (e cioè significato e direzione), il lavoro darà pure un bene (salario, identità sociale), ma procurerà molta sofferenza nel lavoratore e nelle relazioni attorno a lui o a lei, dentro e fuori le imprese. C’è, però, una possibilità  -avrei voluto aggiungere in quel dialogo silenzioso tra due vecchi compagni di scuola- per redimere e dar senso a questa sofferenza: cercare di fare bene ciò che si fa. Anzi, sono convinto che esista una sorta di regola aurea: «Più il lavoro che svolgiamo è sbagliato, più dobbiamo farlo bene, se non vogliamo morire».

Se si lavora nel posto sbagliato, se si fanno cose lontanissime da quelle che si pensa siano la professione che mi farebbe fiorire, l'unico modo per salvarsi è lavorare bene. Perché se lavoro male in un lavoro sbagliato, mi spengo dentro. Perché non rimane più nulla di vero a cui aggrapparmi per continuare a vivere e a crescere. E nel far bene qualsiasi lavoro aiuta pensarlo e viverlo come "servizio", questa parola oggi non più di moda perché non è di moda la vita, ma che è sempre fondativa di ogni vera civiltà.

Tutti, però, cittadini, imprese è istituzioni, dobbiamo fare di più perché un numero sempre maggiore di persone (giovani in particolare) lavorino, è possibilmente nel luogo giusto. Erano soprattutto queste le cose che avrei voluto dire a quella mia compagna di scuola, e che bisognerebbe saper dire ai tanti concittadini che oggi, per vivere o sopravvivere, continuano a rendere sacro e degno il loro lavoro, ogni lavoro. E può anche accadere, fatto non raro, che a forza di far bene un lavoro che non piace, si finisca un giorno per amarlo.

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Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 14/10/2012

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Il lavoro che salva

Il lavoro che salva

Commenti -  Conta ciò che si fa. Di più come. di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 14/10/2012 In Europa ci sono 25 milioni di disoccupati, un numero destinato, con ogni probabilità, a crescere nei prossimi anni, a meno di svolte che per ora restano nel regno dei desideri. Dovremmo ferm...
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Commenti -  Un mondo vitale eppure sottovalutato e maltrattato. È tempo di cambiare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/10/2012

logo_avvenireMentre si continua ad annunciare e ad attendere la ripresa dall’economia “che conta”, in Italia la piccola economia sociale e civile cresce veramente. Il variegato (e ricco) mondo cooperativo, dell’impresa sociale, del privato–sociale, negli ultimi anni ha registrato significativi successi sia in termini di occupazione, sia di Pil.

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Secondo l’ultimo rapporto (in uscita) del Comitato economico e sociale europeo, il numero di lavoratori nell’economia sociale italiana dal 2002 al 2010 è aumentato di circa il 60%, e oggi occupa oltre 2.220.000 persone, contribuendo a circa il 10% del nostro Pil, valori tra i più alti in Europa. E non è poco, se pensiamo che la Fiat occupa, direttamente e con gli indotti, meno del 5% del totale dell’occupazione generata dall’economia sociale italiana. L’economia sociale e civile è un muro maestro dell’intera economia europea, la cui anima è ancora la cooperazione (un’anima che presto potrebbe perdere se non inverte la deriva di omologazione alle imprese capitalistiche, e ai loro livelli di remunerazione dei top manager).

La cooperazione ha offerto in questi due ultimi secoli un contributo fondamentale al modello europeo di economia di mercato, che è diverso da quello statunitense o cinese anche per il peso che hanno in esso la dimensione sociale e la mutualità, espressione del principio di fraternità e delle sue radici cristiane e cattoliche. L’economia sociale, poi, oltre ai posti di lavoro crea inclusione e riduce la diseguaglianza, la malattia più grave delle nostre economie capitalistiche. La buona crescita dell’economia sociale oggi si sta, tuttavia, fermando. E questo per due principali ragioni: i tagli al welfare e l’accesso al credito. I tagli e l’inasprimento della tassazione stanno colpendo duramente l’economia sociale.

Molte di queste imprese, occupandosi direttamente di beni meritori come la cura e l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, vivono grazie a un’alleanza complessa con famiglie, società civile, imprese e pubblica amministrazione. Il “patto di stabilità” colpisce in Italia poco o affatto i ricchi mentre rischia di essere devastante per l’economia sociale e civile, che non ha dalla sua parte i poteri forti che trattano e negoziano nei luoghi che contano. E così quando bisogna decidere dove tagliare si colpisce Lazzaro, e si lascia prosperare il “ricco epulone” con le sue rendite – continuo ad essere allibito, e in certi momenti sdegnato, per la perdurante incapacità di chi regge il timone in Italia e in Europa di capire che il vero “nemico” delle nostre economie e delle nostre società sono le rendite, non i veri imprenditori che continuano a essere trattati come potenziali evasori, mentre i rentiers ringraziano, sorridendo.

C’è poi il problema del credito alle imprese, come ha ricordato con forza anche il presidente Monti. Tra queste imprese che non hanno adeguato accesso al credito, e quindi soffrono e muoiono (falliscono le imprese ma, non dimentichiamolo mai, continuano a morire anche imprenditori e lavoratori), ci sono le piccole e medie imprese e ci sono anche le imprese sociali. Queste, se misurate con i parametri di Basilea e della finanza speculativa, risultano spesso inaffidabili – anche perché questi parametri non sono stati pensati per le piccole e medie imprese, e tantomeno per le imprese sociali. Peccato che in realtà, al di là degli algoritmi, i dati veri ci dicono che queste imprese sono molto più affidabili di tante multinazionali con ottime certificazioni di bilancio, perché la vera fiducia (quella che poi viene ripagata e crea sviluppo) nasce dai territori, e la può concedere solo chi vive in essi, a contatto con la gente, e non in lontani centri decisionali di fronte agli schermi dei pc. Le Banche di credito cooperativo, e altre banche più attente alla dimensione etica e al mondo non profit, già fanno molto, ma non basta.

Occorre fare di più e meglio. Oggi il sistema bancario è troppo malato e intossicato da anni di gestione sbagliata per poter compiere le scelte giuste nel concedere credito. Troppi dirigenti bancari hanno perso il contatto con le imprese vere, con i volti della fatica e del lavoro, e quindi non sanno più distinguere le garanzie vere da quelle finte e di carta, e sbagliano continuando a non concedere credito a chi lo merita e ne ha vitale bisogno, e magari a erogarlo a chi non lo merita e produce danni. E così non crescono né le buone imprese né la buona banca. Che fare?

Occorre riportare il sistema bancario alla sua funzione di interesse pubblico. Questa crisi dovrebbe produrre una riforma radicale del sistema bancario (che di fatto ancora resta quello pre–crisi). Una riforma che, oltre a fissare una chiara distinzione tra banche d’affari e banche ordinarie, dovrebbe prevedere una maggiore prossimità territoriale del processo decisionale, e, tra l’altro, far sì che nei Cda delle banche siedano rappresentanti veri della società civile, riportando così i territori nelle banche e le banche nei territori. A chi rispondono oggi i Cda delle banche? Ai soci? Ai fondi di investimento?

Peccato che siano state quasi tutte “salvate” o, comunque, puntellate con soldi pubblici, cioè dei cittadini, e a questi debbono tornare prima di tutto a rispondere. Riportando i territori e la gente nelle banche, e le banche nei territori, si renderebbe efficace e concreto quel “principio di sussidiarietà” che sta alla base dei trattati politici europei e che, però, le istituzioni e i trattati finanziari stanno tradendo. La politica economico–finanziaria europea è infatti basata su una “sussidiarietà a ritroso”: le scelte si fanno a Francoforte e a Bruxelles e poi si applicano come dogmi nelle realtà nazionali e locali, operando così un ribaltamento e un tradimento grave della sussidiarietà, cui stiamo assistendo in modo troppo passivo.

Per cambiare tutto ciò, e far continuare a crescere l’economia sociale, e con essa le tante buone imprese e banche territoriali che continuano a sostenere l’Italia, ci sarebbe bisogno di una forza delle idee e delle istituzioni che non si intravvedono né in Italia né in Europa. Ma possiamo e dobbiamo continuare a desiderarla, volerla, chiederla. Per ottenerla.

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Commenti -  Un mondo vitale eppure sottovalutato e maltrattato. È tempo di cambiare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/10/2012

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Commenti -  Il mercato non basta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

logo_avvenireL’Italia oggi ha un estremo bisogno di felicità pubblica. Pubblica felicità è una grande 'parola' della tradizione economica e civile italiana, che ha molte importanti cose da dire a questa nostra età. In una fase storica rivoluzionaria (il secondo Settecento) per molti versi simile a quella attuale, gli economisti italiani associando l’economia alla pubblica felicità volevano sottolineare tre aspetti.

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1) Senza sviluppo economico i popoli non possono essere veramente felici e non escono mai dalla condizione del servo. 2) La felicità, sia quella pubblica sia quella personale, nasce dalle virtù, come dice anche la radice latina di felicitas, dove il prefisso fe è lo stesso di femina, fertile, fecondo: la felicità arriva solo coltivando la virtù, come i frutti dalla fatica e dalla cura della terra. 3) La felicità è un bene comune, perché mentre si può essere ricchi anche da soli (soprattutto se si hanno rendite), per essere felici occorre coltivare le relazioni, soprattutto i beni relazionali, politici, civili.

Questi tre messaggi, che provengono dalla nostra vena più ricca e profonda, sono di una attualità e urgenza assolute. Questa crisi non ci sta proprio dicendo che quando l’economia è in crisi, quando il lavoro manca ed è fragile, quando c’è recessione, è l’intera vita delle famiglie e dei popoli che diventa infelice? Non va mai dimenticato che l’economia può essere accostata a felicità solo se e solo quando l’economia e gli economisti conoscono e combattono le parole dell’infelicità, quelle che narrano di poca, sbagliata o troppa economia. L’abbondono delle virtù – il secondo messaggio – e la lode dei vizi hanno avuto e hanno gran parte nel declino economico, etico e politico del nostro Paese. I vizi ci sono sempre stati, ma il genio della nostra generazione è di averne trasformati parecchi (avidità, azzardo morale…) in virtù, eliminando così quella vergogna pubblica che è sempre stata il principale vaccino dei vizi.

E quando si lodano i furbi, quando hanno successo gli opportunisti e i cinici, quando si remunerano lautamente i percettori di rendite, si commette quello che per l’aquilano Giacinto Dragonetti era l’errore civile più grande: «Si nuoce di più con situar male le ricompense, che col sopprimerle» (1766). Infine il terzo cruciale messaggio: l’Italia ripartirà se sarà capace di un grande progetto comune. C’è oggi troppa ricerca di felicità private, che, come tutti i beni privati, sono rivali e a 'somma zero' (cioè la maggiore felicità dell’uno è a scapito di quella degli altri). La ricerca inutile di queste pseudo­felicità 'contro', produce solo inimicizia civile, paura, insicurezza, noia e alla lunga frustrazione e malessere pubblico, e privato. La pubblica felicità ci dice invece qualcosa di diverso e di opposto: non si può essere felici da soli, e che l’infelicità degli altri ci riguarda, soprattutto l’infelicità civile, come quella dovuta alla disoccupazione, che non è mai faccenda privata ma sempre pubblica essendo il lavoro al centro del patto sociale. Se riduciamo questa infelicità pubblica, aumentiamo la felicità di tutti e di ciascuno.

Oggi però all’Italia non basta un progetto comune: occorre anche un grande progetto pubblico. Fermeremo veramente il declino italiano non con più mercato capitalistico ma con più pubblico e più istituzioni locali, nazionali, europee e internazionali (per la finanza): all’economia italiana, da qualche decennio, manca soprattutto una politica industriale (vedi Taranto, Sulcis, Fiat e migliaia di altri casi meno noti), istituzioni più efficienti ed eque, governo del territorio e dei beni comuni, meno corruzione pubblica, una nuova classe politica e una nuova visione politica, una forte e decisa Europa politica. E mancando questi elementi, manca anche il mercato civile. È infatti solo una grande illusione, senza alcun supporto della migliore teoria economica, che l’Italia avrà un futuro migliore solo con più mercato e senza una vera alleanza con il pubblico e con le istituzioni. Le regioni più fragili del nostro Paese non ripartiranno mai economicamente e civilmente se mancherà una forte azione pubblica, che consentirebbe anche al mercato di svilupparsi. Il mercato è prima di tutto una istituzione sociale che ha bisogno di regole, controlli, pesi e contrappesi. Se non c’è buona politica il mercato non è mai buono, ma rafforza nuovi e vecchi feudi e vecchie e nuove rendite che poi impediscono al mercato stesso di funzionare e lo occupano.

Questi ultimi anni di fede quasi religiosa nei dogmi del mercato capitalistico for profit ci hanno mostrato tra l’altro che la corruzione privata e i suoi danni economici e sociali non sono meno gravi di quelli della corruzione pubblica, e che non c’è nessuna garanzia che manager iperpagati siano più efficienti e più equi di quelli pubblici (si pensi all’origine di questa crisi finanziaria). Basterebbero più trasparenza, regole, controllo democratico dal basso, più cultura civile. Sono anche convinto che se negli ultimi due decenni invece di privatizzare e svendere grandi imprese pubbliche, autostrade, suolo pubblico nei centri storici delle nostre città, telefonia, e molti beni comuni, avessimo soltanto fatto in modo che fossero gestiti meglio con più controllo civile e politico, oggi l’Italia sarebbe più forte e più capace di ripartire. Il mercato porta buoni frutti quando vive e cresce dentro un grande progetto comune e pubblico, e con istituzioni mature e forti. Le ferite dell’inefficienza e della corruzione del nostro passato non debbono produrre la più grande stoltezza di immaginare una buona società senza una forte presenza del pubblico. che non significa solo Stato, significa soprattutto società civile ma anche pubblica amministrazione locale e, sempre di più, Europa.

Ce lo dice la storia della Germania, della Francia, di buona parte del Nord del continente, non le storie ideologiche fondate su mercati immaginari che nessuno ha mai visto. Pubblica felicità, allora, per l’oggi e il domani del nostro Paese, ridando fiato a una tradizione nobile e grande, quella nata dal genio italiano, da cui sono sorti i Monti di Pietà, le Casse di Risparmio, la grande storia della cooperazione, i distretti industriali, Adriano Olivetti, il miracolo italiano di ieri e quello di domani.

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Commenti -  Il mercato non basta

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

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Felicità, virtù economica

Felicità, virtù economica

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Commenti -  Guardiamoci e cambiamo registro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

logo_avvenireUna delle questioni che dovremmo porre sempre più al centro del dibattito economico e sociale è quella demografica, cui è legato l’enorme tema delle pensioni, e del lavoro. In particolare, è urgente una riflessione seria e pubblica sui cambiamenti radicali che sta subendo la vecchiaia, cioè la condizione umana negli ultimi anni della vita, quando la vita subisce una svolta, si capisce che si è entrati nell’ultima fase, e si è vicini al suo termine.

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Una questione urgente anche perché la rivoluzione della longevità è tra le più grandi e di portata epocale che la storia umana abbia conosciuto. Nel giro di pochi decenni l’umanità (almeno quella che vive in condizioni decenti) ha rubato alla morte, o guadagnato alla vita, una quantità di anni (almeno 20, e quasi 30 in alcuni Paesi), pari a quelli guadagnati tra il neolitico e il dopoguerra. Qualcosa di straordinario, da lasciare senza fiato.

E questa rivoluzione non ha solo mandato in tilt lo Stato sociale (la crisi del debito è dovuta anche a questo), ma pone domande difficili su come vivere non tanto una vita sempre più lunga, ma una vecchiaia sempre più lunga: oggi qualità della vita è anche e soprattutto qualità della vecchiaia.

Chi conosce da vicino e vive con persone anziane, vede immediatamente che invecchiare nella nostra epoca non è facile, anzi è molto difficile, soprattutto nell’ultima fase. In una cultura centrata sulla giovinezza, l’efficienza, il corpo, l’apparire, l’invecchiamento non ha diritto di cittadinanza, e lo avrà sempre meno, se non invertiamo decisamente la rotta. Nella cultura tradizionale che abbiamo da poco messo alle nostre spalle, invecchiare era un’esperienza diversa, certamente più breve e non per tutti. Un’esperienza complessivamente migliore. Per almeno tre motivi. Innanzitutto il vecchio, in un mondo dove la cultura è soprattutto cumulativa, è detentore di beni comuni che gli vengono riconosciuti dalla comunità, che si chiamano saggezza, esperienza, conoscenza del passato, sapienza, risorse essenziali in quelle società.

Quindi l’invecchiamento era al tempo stesso "un di meno" e "un di più", individuale e collettivo, poiché mentre il corpo degradava (più di oggi), si arricchiva lo spirito e l’anima della persona e della comunità. Il secondo motivo era la visione religiosa del mondo: avvicinarsi alla morte sapendo che è solo un passaggio verso un’altra vita, probabilmente migliore, è ben diverso che morire in una cultura dominante come la nostra dove l’avvicinarsi della morte è sempre più l’avvicinarci al nulla (mi impressionano molto i tanti suicidi di vecchi, che dicono qualcosa di nuovo, poiché tradizionalmente si suicidavano i giovani). Infine, la famiglia: la grande gioia degli anziani è stata sempre la discendenza, vedere che la vita propria stava terminando ma c’era una parte di sé che invece cresceva e continuava, e che dava senso a quel declino. Figlie, figli e nipoti che, nelle tradizioni medio-orientali, circondavano il letto del vecchio morente, a dire che la morte era anche vita e futuro.

Queste tre ragioni di buona vecchiaia stanno inesorabilmente tramontando dal nostro orizzonte: troppa gente invecchia sempre più senza essere stimata, spesso da sola in case di riposo, e a volte senza fede. Ci sarebbe poi molto da dire dalla prospettiva femminile. Molte delle attuali donne anziane, soprattutto di ceto medio e basso, sono delle vere "esodate della cura": da giovani hanno offerto cura a genitori, parenti e figli, rinunciando spesso a una loro carriera e fioritura civile, e ora, per la prima volta nella nostra storia, si trovano in grande credito di cura, poiché, a differenze delle loro mamme, non la ricevono più, o molto meno, da figli e nipoti, e muoiono consumate dalla malinconia in tanti luoghi tristi.

Che fare allora per invertire la rotta? Innanzitutto occorre gestire meglio gli anni dell’invecchiamento cosiddetto "attivo": c’è già, ma sempre più ci sarà, una lunga fase della vita che si collocherà tra la fine del posto di lavoro e la fine della vita attiva di una persona. Ieri come oggi, una persona vive pienamente, prima o dopo la pensione, quando è inserita all’interno di reti sociali nelle quali cresce, coltiva la propria socialità, ed è utile a qualcuno e per qualcosa.

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Commenti -  Guardiamoci e cambiamo registro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2012

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Allo specchio della vecchiaia

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