stdClass Object ( [id] => 6662 [title] => La sfida più urgente è la diseguaglianza [alias] => la-sfida-piu-urgente-e-la-diseguaglianza [introtext] =>Commenti - Il tardo capitalismo si rivela simile al tardo feudalesimo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/09/2012
La crescita è una sfida, la diseguaglianza ancor di più. L’aumento della diseguaglianza nelle economie capitalistiche sta diventando il primo vero ostacolo allo sviluppo economico e sociale, perché a causa della grande diseguaglianza di opportunità, diritti e libertà, la ricchezza dopata che abbiamo creato non è feconda e generativa di lavoro e di autentico sviluppo. Del resto, come avrebbe potuto esserlo? Solo il lavoro genera lavoro.
[fulltext] =>Se si ripercorre il cammino che abbiamo compiuto dalla rivoluzione industriale a oggi, ci si rende conto di quanto sia preoccupante nelle economie di mercato l’indice delle diseguaglianze. Dopo una sostanziale diminuzione nelle economie occidentali del Novecento, dovuta al passaggio da economie e strutture sociali feudali a una economia di mercato molto più dinamica, negli ultimi decenni il capitalismo trionfante sta facendo di nuovo aumentare le diseguaglianze, riportandole a livelli molto vicini a quelli iniziali.
Negli Stati Uniti i primi 500 top manager guadagnano in media 10 milioni di dollari l’anno, e i 20 più ricchi manager di hedge funds (i fondi d’investimento più speculativi) guadagnano in totale più della somma dei redditi di quei 500 manager. E c’è di più: oggi la diseguaglianza presente all’interno degli Usa è molto simile a quella di Paesi che stanno solo ora uscendo da strutture sociali feudali. Insomma, il nostro tardo capitalismo sta assomigliando troppo al tardo feudalesimo, come se due secoli di sviluppo economico e di diritti non fossero serviti a nulla, o a troppo poco, in termini di diseguaglianza. Troppo mercato sta producendo gli stessi frutti incivili dell’assenza di mercato. E questo è un messaggio urgente e grave, anche perché contraddice l’utopia riformista profondamente associata alla nascita dell’economia politica moderna, quando lo sviluppo dei mercati era visto dagli illuministi come il principale strumento per superare il mondo feudale, e avviarsi verso quella società democratica di persone libere e uguali da loro non intravista, ma agognata.
E, infatti, finché lo sviluppo dei mercati è stato anche sviluppo del lavoro e dei diritti, l’economia è stata complessivamente fedele alla sua vocazione originaria; ma un capitalismo di ultima generazione, fondato sulle rendite finanziarie e sul debito, sta riportando il mondo in una polarizzazione rigida tra classi che credevamo di aver superato. Perché? Innanzitutto i 4/5 dei cosiddetti poveri assoluti (i circa due miliardi di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno) non si trovano più nei cosiddetti ‘Paesi poveri’, ma in Paesi a reddito medio e alto. Ciò dice un fatto nuovo e di portata epocale: la linea di demarcazione tra ricchi e poveri è sempre meno legato alla geografia (Nord–Sud) ed è sempre più spostata all’interno di ogni Paese: la globalizzazione ha infatti profondamente cambiato la morfologia della povertà.
Per questa ragione oggi il rapporto tra Pil dei Paesi e i vari indicatori di benessere e di malessere è sempre meno significativo e utile. Se prendiamo il Pil dei Paesi a reddito pro–capite medio alto (ad esempio i Paesi Ocse) e li incrociamo con indici fondamentali per la vita della gente come quello dell’aspettativa di vita, di benessere dei bambini, di malattie mentali, di obesità, di criminalità, di risultati scolastici dei giovani, di mobilità sociale, scopriamo che non viene fuori quasi nulla di significativo, perché i dati sono molto simili tra di loro. Il discorso invece cambia drammaticamente se invece del Pil prendiamo gli indicatori di diseguaglianza (tra cui il famoso ‘Indice di Gini’), perché scopriamo grandi differenze in quegli indici fondamentali all’interno di questi stessi Paesi.
In altre parole, in termini di aspettativa di vita, di salute, di capitale umano, di capabilities (direbbe Amartya Sen), c’è molta più differenza tra un impiegato inglese e una donna inglese di origini caraibiche con lavoro precario, di bassa educazione, che vive in quartieri poveri di Londra e magari single–mother (madre sola), che tra un impiegato inglese e uno peruviano. Una differenza che, poi, diventa ancora più piccola se confrontiamo un top manager inglese con uno sudamericano. La diseguaglianza è un grave male pubblico, di cui soffre l’intera popolazione di un dato Paese, inclusa – come dicono molti dati recenti – anche la classe più ricca, perché con la diseguaglianza aumenta l’invidia sociale, la mentalità posizionale, l’insicurezza, e l’infelicità di tutti.
Quindi, venendo all’oggi dell’Italia e dell’Europa, chi ama veramente il bene comune e lavora per la vera ripresa economica, deve preoccuparsi un po’ meno di Pil e assai più di fare in modo di ridurre la diseguaglianza. Se continueremo a tassare il lavoro, la benzina, le prime case, ad alzare le imposte indirette e a non tassare i grandi patrimoni, le rendite finanziarie e le rendite di ogni natura (comprese quelle di posizione delle tante categorie feudali protette), continueremo a guardare gli indicatori sbagliati, a confondere gli effetti con le cause, a misurare cose che ci distraggano dalle grandi sfide del momento cruciale che stiamo vivendo.
La speranza risiede soprattutto nei giovani, che hanno una minore tolleranza per la diseguaglianza: dalla loro sdegnata non rassegnazione può iniziare una nuova stagione economica e sociale, dove l’égualité, non solo formale ma sostanziale, torni ad essere uno dei grandi valori della nostra civiltà.
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Commenti - Il tardo capitalismo si rivela simile al tardo feudalesimo
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/09/2012
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Commenti - L’economia non è tutto (e non basta), serve la buona e civile politica
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/09/2012
Anche la politica sta vivendo una lunga stagione di profondo disagio, a molti livelli. Un primo livello di disagio è quello che vive un’intera generazione di politici nata e cresciuta nella stagione delle grandi ideologie, con i suoi linguaggi, simboli, liturgie, che oggi si ritrova a operare in un mondo post-ideologico e disincantato, troppo diverso per comprendere le loro parole, che non sono più capaci di dire quei contenuti dai quali erano state plasmate.
[fulltext] =>Questo primo disagio della politica – una parola che, questa volta, può essere usata senza ulteriori qualificazioni – ci dice già una cosa importante: non basta mandare in pensione (il triste verbo "rottamare" usiamolo per le macchine) l’attuale classe dirigente, perché se non diamo vita a nuovi linguaggi, riti e simboli politici il rischio di ritrovarci dopo i pensionamenti con un rimedio peggiore del male è davvero molto grande, poiché avremo con ogni probabilità nuovi politici con gli stessi difetti degli attuali, e probabilmente senza la formazione che davano le antiche scuole ideologiche di partito e i tradizionali luoghi vitali. E potremmo continuare, con altri tipi di disagio, fino ad arrivare ai più noti e sotto gli occhi di tutti (corruzione, rendite di posizione, etc.).
Ma c’è un malessere più radicale, e che alla base di buona parte dello sbandamento e della sofferenza che la politica (e con essa la società tutta) sta attraversando. È questo un problema centrale, di cui misteriosamente si parla troppo poco, forse perché distratti dai disagi e mali più superficiali di cui sono piene le cronache. La politica, il politico, soffre anche, e a mio avviso soprattutto, perché non è più capace di fare sintesi, di offrire una lettura del mondo e della storia del nostro tempo.
E ciò dipende in larga misura dall’economia e dalla finanza, che sono sempre più pervasive e cruciali nella vita della gente e nelle scelte politiche, ma che sono diventate sempre meno comprensibili, date la loro complessità e radicale novità rispetto a soli pochi decenni fa. Per millenni la funzione della politica era soprattutto quella di offrire una visione sintetica dei problemi del proprio tempo per poter così agire e indicare direzioni di bene comune. Nel Novecento, per svolgere questa funzione era sufficiente conoscere il linguaggio filosofico, avere basi di diritto, di scienze politiche e anche di economia, la quale nella sua parte essenziale e utile per fare buona politica era tutto sommato semplice: leggere Smith, Marx e Keynes era sufficiente per essere un buon politico. E, infatti, la politica aveva familiarità con queste discipline e con questi autori, e quindi sapeva offrire sintesi, sapeva raccontare storie e grandi narrazioni, indicare direzioni, e sapeva così passare dal molteplice all’uno.
Oggi la vocazione della politica e del politico non è cambiata, ma ci sono elementi del "molteplice" che la politica non capisce più, perché sono diventate incomprensibili le leggi (ma ci sono?) che governano economia, finanza, mercati, spread. E tutto ciò provoca una vera sofferenza perché non è in discussione un discorso o intervista più o meno riusciti, ma l’identità stessa del mestiere del politico, la sua vocazione. E così sentiamo dire che quello attuale non è "il vero valore dello spread", o che i mercati finanziari ci stanno "ingiustamente" attaccando, perché questi politici hanno in mente il concetto classico del ’giusto prezzo’ che purtroppo non ha più diritto di cittadinanza nell’era degli hedge fund e dei derivati, dove parole come "giusto" e "vero" non hanno semplicemente più senso. Sono due le vie di fuga da questo profondo disagio. La prima è esperienza comune a molti Paesi europei, dove si affida tutta la politica a chi conosce il linguaggio del particolare economico-finanziario diventato esoterico e incomprensibile: tecnici, finanzieri ed economisti a cui si appalta la funzione politica. Rischiando così seriamente di dimenticare – e questo è l’errore fatale – che l’economico è sempre soltanto una dimensione della vita politica; è sempre frammento, molteplice, non è mai l’uno che è chiesto alla politica.
Si fa così del particolare il tutto, senza tener presente gli altri particolari (semplicemente perché anche chi conosce il linguaggio dell’economia non conosce gli altri linguaggi necessari per la sintesi politica). Ma così si rischia di far morire la politica e con essa la democrazia, se l’economico non si trascende e umilmente si mette all’ascolto di altri linguaggi particolari, poiché il bene economico non è mai direttamente bene comune. «Un economista che è solo economista è un cattivo economista», amavano ripetere molti dei migliori economisti del passato, tra cui Luigi Einaudi, grande economista, che fu anche ottimo politico proprio perché più grande della sola economia.
La seconda via di fuga è stata e continua a essere una fuga nel senso letterale del termine: in questa fase di smarrimento, troppi cittadini – molti di loro cattolici impegnati – che avrebbero una vocazione politica, negli ultimi anni l’hanno abbandonata per dedicarsi ad altre forme di servizio, soprattutto nell’ambito civile, dell’economia sociale, del volontariato, in quello che una volta si chiamava il "pre-politico" e che invece è diventato troppo spesso un "post-politica". Oggi l’Italia, anche per la sua storia millenaria fecondata da tanti carismi, ha nel civile una ricchezza umana ed economica formidabile. Se vogliamo che la fase che si sta aprendo sia veramente l’inizio di qualcosa di nuovo, occorre allora liberare queste forze presenti nel civile, saperle accogliere e valorizzare.
Qualcosa accenna a muoversi finalmente in questa direzione, qualcosa comincia ad accadere. Occorre capire l’urgenza storica, far sì che questo processo si rafforzi. Bisogna che ci si possa innamorare o ri-innamorare della politica e sentire che è possibile "farla", perché senza una nuova politica, senza politiche e politici nuovi da queste crisi potremo uscire solo peggiori. Se invece sapremo propiziare e fare qualcosa di simile a quanto si realizzò nel secondo dopoguerra del Novecento, quando dalla parte migliore della società vennero forze ideali e spirituali capaci di rifondare Italia e Europa, allora da questo duro inverno potrà sbocciare una nuova primavera politica, economica e civile.
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Commenti - L’economia non è tutto (e non basta), serve la buona e civile politica
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/09/2012
Anche la politica sta vivendo una lunga stagione di profondo disagio, a molti livelli. Un primo livello di disagio è quello che vive un’intera generazione di politici nata e cresciuta nella stagione delle grandi ideologie, con i suoi linguaggi, simboli, liturgie, che oggi si ritrova a operare in un mondo post-ideologico e disincantato, troppo diverso per comprendere le loro parole, che non sono più capaci di dire quei contenuti dai quali erano state plasmate.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/09/2012
Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La necessarissima riduzione della spesa pubblica associata alla spending review non farà aumentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Italia era cresciuta anche grazie all’aumento ipertrofico della spesa pubblica.
[fulltext] =>Se poi aggiungiamo l’aumento dei costi che la manovra ha messo sulle spalle delle famiglie, la preoccupante crescente disoccupazione giovanile, i più facili licenziamenti, la crisi di competitività e l’obsolescenza di troppe nostre imprese, qualcuno dovrebbe spiegare dove i tecnici dei grandi centri di ricerca economica avrebbero fondato le loro previsioni di ripresa dell’economia italiana nel 2013; a meno che non ricorrano alle solite ingegnerie contabili e statistiche che torturano i dati fino a farli confessare quanto chi interroga vuol sentirsi dire.
La realtà purtroppo è ben diversa e meno rosea, e per capirlo basterebbe leggere i dati sul benessere soggettivo di europei e italiani in caduta libera in questi anni, ma soprattutto guardare i nostri concittadini in volto, magari anche ascoltarli, per capire immediatamente, se si è dotati di un minimo di empatia, che il malessere è grande. Ce lo dice anche il continuo aumento dei giochi e delle scommesse, segno grave di degrado, anche in luoghi tradizionalmente custodi e coltivatori di valori (ho visto in Toscana “slot machine” anche dentro centri ricreativi di grande storia civile, politica ed etica). Ma, non dobbiamo dimenticarlo mai, se anche con qualche miracolo economico dovessimo riuscire a far ripartire tra qualche mese il Pil, ciò non significherebbe l’uscita dalla crisi. Il perché è troppo semplice: se non creiamo oggi nuovo lavoro, in modo ecologicamente sostenibile e socialmente equo, potremo anche uscire da questa crisi finanziario–economica, cioè dalla crisi con la ‘c’ piccola, ma continueremo a rafforzare la Crisi con la “C” grande.
Uno dei grandi problemi di questi tempi è che si parla molto, troppo, della crisi (spread, borse, finanza nazionale ed europea…) e poco, troppo poco, della Crisi. Dobbiamo ricordarci e ricordare che quella ormai storica data del 15 settembre 2008 non è stata meno significativa e epocale dell’11 settembre 2001: nel rumore creato dalla crisi terroristica internazionale, la speculazione ha continuato a operare indisturbata dall’opinione pubblica. Anche per questa lezione della storia, chi oggi ha a cuore il bene comune, e quindi riconosce il valore del mercato, delle imprese, del lavoro e della finanza civile, deve parlare e far parlare meno di crisi, e tornare con forza a parlare e far parlare della Crisi del nostro modello di sviluppo economico– sociale. Come? Facendo in modo che, a tutti i livelli, si mettano al centro dell’agenda pubblica e politica, compresa quella delle prossime elezioni nazionali, i temi e le sfide della Crisi del nostro tempo, tra cui le crisi ambientali, la crescita delle rendite, ma anche il deterioramento dei rapporti sociali – frutto diretto della svalutazione dei grandi valori cardine e la crisi dell’amicizia civile: ho provato a Milano a salutare («Buongiorno!») un signore lungo i navigli, si è impaurito ed è scappato, non più abituato a tali antiche pratiche di cittadinanza...
Ma soprattutto la Crisi è del lavoro, che non è solo quella delle emergenze presentate come casi particolari e drammatici: è una intera fase storica che sta tramontando, perché è in corso un cambiamento strutturale e di lungo periodo. Ma restiamo – istituzioni e cittadini – a guardare, a stupirci dei dati e dei fatti, a sperare di essere vicini alla fine del tunnel e che si riparta, senza avere né una lettura profonda e condivisa di quanto sta accadendo, né quindi alcuna proposta sistemica, strutturale, ed efficace.
Ma se, come è evidente, la grande impresa e lo Stato non potranno creare lavoro oggi né tanto meno domani, e se le piccole e medie imprese del Made in Italy sono in grande difficoltà, la domanda cruciale diventa: da dove nascerà l’occupazione per ripartire? Una domanda tragica, non tanto perché manca la risposta, ma perché viene negata la domanda stessa. E si attende, neanche capaci non dico di creare lavoro ma di tener in vita quello che ancora rimane in piedi e traballa.
Ci sarebbero tuttavia delle operazioni molto urgenti da fare, e certo non impossibili. Altre ricette sono state già abbozzate, anche su queste colonne di giornale. Ne propongo alcune dal mio punto di vista. La prima riguarda la terra: questo capitalismo l’ha dimenticata, trascurata, abusata, violentata (pensiamo all’Africa), e invece da essa può e deve nascere il lavoro che manca. Bisogna tornare ad occuparci diversamente di agricoltura e di cibo, guardando e coltivando i territori e i loro beni comuni (acqua, verde, zone montagnose, mari) come luoghi che possono nutrirci, facendoci lavorare. C’è poi l’energia: possono e debbono nascere migliaia di lavori dalle nuove fonti di energia (e francamente colpisce che, invece, nell’abbozzo di Piano energetico nazionale che è circolato in questi giorni sembri destinato a prevalere l’orientamento per il mantenimento di un ruolo larghissimamente egemone dei combustibili fossili…). Bisogna puntare con lungimiranza anche su queste nuovo fonti e farlo rendendole meno concentrate, più 'democratiche' e popolari, territoriali, e quindi sostenibili.
Ma per queste due operazione c’è bisogno che le istituzioni – prima di pensare di vendere il Colosseo… – mettano semplicemente a disposizione i tanti terreni, gli immobili, le strutture pubbliche spesso sottoutilizzate, ferme, costose. Ci sono poi i beni culturali: ad Ascoli Piceno – come in altre parti d’Italia – sono delle cooperative a gestire i musei civici: perché non imitarli nella gestione dei mille musei, pinacoteche, siti archeologici, che hanno un bisogno vitale di imprenditori civili (non di speculatori) perché non degradino e muoiano, e creino anche lavoro sostenibile (che non dipenda cioè dalle finanze pubbliche)?
C’è, infine, una questione molto urgente che riguarda direttamente il mondo cattolico. Ci sono oggi in Italia centinaia di ordini religiosi che, per l’evoluzione radicale e veloce che hanno vissuto in questi ultimi anni, si trovano in serie difficoltà nella gestione di scuole, ospedali, immobili, terreni. C’è il rischio, in qualche caso incombente, che migliaia di splendidi luoghi, che hanno fatto e fanno la vita spirituale e civile dell’Italia, vadano in mano di faccendieri e pseudoconsulenti, che lucrano lauti guadagni da questo stato di necessità. Questi immobili rischiano, insomma, una 'confisca' da parte di questi speculatori peggiore di quella napoleonica. C’è bisogno di un’azione concertata, sistematica, lungimirante, generosa, rispettosa dei carismi e della loro natura preziosa, che dia vita ad alleanze vere tra queste istituzioni e la parte più sensibile delle comunità che vivono attorno a esse.
Potrebbero, e dovrebbero, nascere presto centinaia, migliaia, di nuove imprese sociali, di nuove cooperative, che, ben formate e con le giuste motivazioni e regole sulla destinazione dei profitti, insieme ai religiosi (non sostituendosi a essi) consentirebbero a quelle stesse opere e ai loro carismi di continuare a dare il loro specifico e essenziale apporto al bene comune (che è molto più di una erogazione di servizi), e si creerebbe anche molto nuovo lavoro. Necessario, sostenibile, esemplare.
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Commenti - Tempo di necessaria lungimiranza
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 02/09/2012
Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La necessarissima riduzione della spesa pubblica associata alla spending review non farà aumentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Italia era cresciuta anche grazie all’aumento ipertrofico della spesa pubblica.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/08/2012
In economia si usano spesso metafore sportive, e normalmente portano fuori strada perché il mercato non è una gara sportiva. Il caso del doping, invece, è una eccezione, perché l’analogia doping/evasione fiscale se ben usata può essere efficace.
[fulltext] =>Sono ovviamente molte le ragioni che portano atleti al doping. Due sembrano essere quelle più comuni e generali. La prima tipologia di doping, quella più presente nei media, è quella dell’atleta che usa sostanze proibite per vincere, per avvantaggiarsi scorrettamente sulla concorrenza. Ma c’è anche una seconda ragione che porta al doping, quella dell’atleta che si convince che i suoi concorrenti più forti sono tali perché usano doping, e che quindi, se anche lui/lei non fa altrettanto sarà sempre un perdente.
In questo secondo caso ci si dopa non tanto per vincere, ma per non perdere. Scatta, cioè, nella mente dell’atleta una sorta di equazione micidiale: «in un sistema in cui va forte solo chi si dopa, se non mi dopo anche io non andrò mai forte». Drogarsi diventa così una sorta di male necessario o di costo morale per poter svolgere quel mestiere che si ama ma che si considera ormai corrotto. Ma c’è di più: in seguito a questa logica "di tipo 2" ci si potrebbe ritrovare con atleti tutti dopati anche se la maggioranza di essi, presi uno a uno, ha iniziato il doping come scelta difensiva, pensando che tutti gli altri si dopassero. Si finisce così in una situazione nella quale ciascuno individualmente se potesse scegliere tra le due alternative: "nessuno di noi si dopa" e "tutti ci dopiamo" sceglierebbe la prima, ma collettivamente finiscono tutti nella seconda, con gravi danni individuali e collettivi: i record vengono falsati, i giovani migliori si allontano da quelle pratiche sportive, si spende sempre di più per controlli sempre più severi e sempre più elusi, ecc. Ci si ritrova in trappole di povertà nelle quali nessuno individualmente voleva cadere, e dalle quali – questo è un problema cruciale – è complicatissimo liberarsi una volta catturati. Lasciando il doping ai sociologi dello sport (che ci direbbero che non ci sono solo le ragioni di tipo 1 e 2, ma anche altre), pensiamo all’evasione fiscale in Italia.
L’imprenditore che evade le tasse arriva a questa scelta sulla base di ragionamenti molto simili alla logica del doping del tipo 1 e quella del tipo 2; ma, a differenza dello sport professionistico dove prevale la prima logica di doping (ci si dopa per vincere), nell’evasione fiscale è la seconda forma di "doping" che prevale (si evade per non perdere e fallire). Raramente un imprenditore - che non sia un faccendiere o semplicemente un delinquente - inizia ad evadere all’inizio della sua attività. Ogni vero imprenditore sa che se riesce a stare in regola con il fisco, la sua azienda e la sua vita funzionano molto meglio, e da ogni punto di vista (basti pensare, ad esempio, al fatto che i soldi che entrano in nero non possono essere usati produttivamente e per l’investimento nell’impresa, che si avvia così a diventare un bonsai). Alcuni imprenditori – come gli atleti dopati "di tipo 1" – evadono perché disonesti e vogliono vincere a tutti i costi. Ma per molti altri l’evasione inizia quando prendono piede ragionamenti simili a quelli descritti per il doping di tipo 2. In questi casi, il primo tarlo si insinua quando l’imprenditore inizia a pensare che i concorrenti di successo evadono e sono, a qualche livello, scorretti. Normalmente questa ipotesi non è suffragata da dati oggettivi, ma si alimenta di voci, dicerie, singoli episodi, che nella mente dell’imprenditore e della sua cerchia più intima diventano presto certezze.
Ci sono dati seri che dicono che la percezione soggettiva della disonestà degli altri è molto maggiore di quella reale. Se poi questo ragionamento è rafforzato dall’ipotesi ulteriore che i giudici sono corrotti, che i controlli non ci sono o sono iniqui, che l’introito fiscale alimenta sprechi e privilegi della classe dominante, l’ipotesi diventa teoria e prassi certissime. Si può ragionevolmente sostenere che dietro il boom di evasione fiscale degli ultimi anni non ci sia solo il deterioramento delle nostre virtù civili o di quelle della classe imprenditoriale, né tanto meno una diminuzione dei controlli.
L'evasione fiscale è aumentata anche per fenomeni di "doping di tipo 2"; ma – e questo è il problema principale che abbiamo di fronte – ora ci troviamo effettivamente bloccati in una situazione di alta evasione fiscale, uno stato dal quale non riusciamo a muoverci, in cui le previsioni e le congetture di evasione si sono auto-realizzate: il sistema ormai è dopato, e oggi in Italia l’imprenditore leale e corretto verso il fisco, rischia troppe volte di fare la fine dell’atleta onesto in una gara di atleti dopati. Occorre allora invertire la rotta, spezzare questo processo perverso. Ma come? Agendo a più livelli, ricordandoci però che oggi qualsiasi messaggio proveniente dalle istituzioni che alimenta l’idea popolare che "siamo (quasi) tutti corrotti ed evasori" non fa altro rafforzare lo status quo, e così mostrare l’opzione evasione come l’unica scelta per non finire tra i vinti, per non fallire. Dobbiamo subito invertire la rotta comunicativa, parlando meno di evasione genericamente e in generale, aumentando le notizie che parlano di successi alla lotta all’evasione, e soprattutto mostrando casi di buone pratiche, di imprenditori e cittadini che le tasse le pagano e che "vincono", e magari – insistiamo – introdurre forme premiali per questi. Certo, l’evasione fiscale non è tutta qua: ma è anche qua. Sono parole delicate e difficili da dire di questi tempi, ma occorre avere coraggio, perché, come ricordava tra gli altri il grande cooperatore Luigi Luzzati: «Chi non ha il coraggio di dire ciò che pensa, finisce col non pensare se non quello che avrà il coraggio di dire».
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Processo perverso da spezzare
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/08/2012
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/08/2012
La difficoltà di capire la crisi economica, finanziaria, civile e politica che stiamo vivendo, nasce soprattutto dal fatto che il nostro capitalismo finanziario-individualista presenta, accanto a tratti antichi, dei tratti inediti, che sfuggono e impediscono a tanti di capire quanto sta accadendo. La lettura classica del sistema economico- sociale moderno, o democratico, era basata sulle classi sociali, espressione a loro volta di classi economiche. La minoranza che detiene la ricchezza – si diceva – ha in mano anche il potere politico, e lo esercita con il consenso della maggioranza di cittadini-lavoratori che accettano di essere governati dagli interessi dei ricchi e potenti, perché, nella sostanza, ogni alternativa migliore o non è intravista o considerata troppo rischiosa e costosa.
[fulltext] =>A questo proposito così scriveva l’economista Achille Loria nel 1902: «Chiunque osservi con animo spassionato la società umana (…) vi ritrova lo strano fenomeno di una assoluta, irrevocabile scissione in due classi rigorosamente distinte; l’una delle quali, senza far nulla, s’appropria redditi enormi e crescenti, laddove l’altra, più numerosa d’assai, lavora dal mattino alla sera della sua vita in contraccambio di una misera mercede; l’una, cioè, vive senza lavorare, mentre l’altra lavora senza vivere, o senza vivere umanamente».
Marxismo e socialismo, cattolicesimo sociale, cooperativismo, ma anche pensiero liberale (ieri, John Stuart Mill e, oggi, Amartya Sen) condividevano questa diagnosi, sebbene divergessero sulla natura del rapporto tra le classi, per alcuni di tipo cooperativo e armonico per altri antagonistico e violento. Alcuni autori, il più noto è l’italiano Vilfredo Pareto, avevano anche teorizzato che questa distinzione in due (o più) classi contrapposte non fosse limitata all’economia e alla politica, ma si estendesse all’intelligenza, ai talenti, fino a rappresentare una sorta di legge generale di natura, di fatto immodificabile. Altri, invece, la pensavano diversamente, e la storia della democrazia di questi ultimi due secoli può anche essere letta come una lotta per ridurre progressivamente o eliminare la rigida divisione della società in ricchi/ potenti versus poveri/deboli, anche se grandi erano e restano le differenze sul 'come' fare.
Le teorie liberali ipotizzavano che il mercato stesso, maturando ed evolvendo, avrebbe reso più ugualitario e democratico il capitalismo, mentre quelle marxiste proponevano la rivoluzione. In ogni caso entrambe erano 'teorie del progresso', basate sulla convinzione che la società moderna avrebbe in qualche modo superato l’oppressione di una classe sulle altre. La storia recente ha però dimostrato che entrambi questi umanesimi hanno tradito la loro grande promessa, perché le società moderne (comprese quelle collettiviste del recente passato, e del presente) non si trovano, al di là delle retoriche, in una situazione sostanzialmente diversa da quella descritta 110 anni fa da Loria. La contrapposizione tra classi non è oggi meno radicata di quella tipica dell’era del capitalismo industriale, o della società feudale. Ma ci sono delle novità, che se non viste e comprese rischiano di nasconderci la reale modalità di permanenza delle classi e le conseguenze che ne derivano.
La principale novità consiste nell’invisibilità della classe dominante attuale. Nelle società passate, i ricchi e potenti erano ben individuabili e presenti: erano i padroni, i nobili, i patrizi. Erano visti e all’occorrenza anche combattuti e rovesciati dal trono nei loro luoghi concreti (palazzi, castelli, ultimo piano degli uffici …). Oggi i veri ricchi e i veri potenti vivono in città invisibili, sebbene molto reali, in non-luoghi: chi incontra mai per le strade delle nostre città i veri ricchi (top-manager, finanzieri…)? Diversamente dal passato, non vestono (troppo) diversamente da tutti, non hanno auto troppo diverse dagli altri, e anche se hanno case molto diverse dalle nostre, non le vediamo se non in tv (o sulle riviste patinate) – e quindi, sul piano civile, è come se non esistessero.Tutto ciò rende difficile intercettare la nuova classe dominante, e così si pensa e si scrive che le classi sociali, i padroni e i sudditi, siano oggi scomparsi; e quando la frustrazione cresce li si va a cercare nei luoghi sbagliati (piccoli e veri imprenditori, amministratori locali, parlamentari…). E invece la classe dominante continua ad esistere, e i suoi membri agiscono a tutti i livelli per consolidare privilegi, potere e soprattutto le rendite di posizione. Sia chiaro: non si tratta di tirar fuori la solita favola dei complotti, ma solo di prendere sul serio la categoria del potere, di cui si parla sempre meno. È infatti troppo evidente che a una esigua minoranza della popolazione questa crisi non ha creato nessun problema, anzi ha solo rafforzato ricchezza e potere. L’insicurezza, la vulnerabilità, la paura del presente e del domani – i tipici segnali che dicono indigenza, ieri e oggi – non riguardano la classe dominante, ma tutti gli altri. Tranne, e qui sta il punto, nelle fasi acute della crisi (lo scorso autunno, ad esempio), quando di fronte al rischio che saltasse il banco (e le banche), anche la classe dominante ha avuto paura, e ha agito subito, "commissariando" (con esigenti liste di 'compiti a casa') le nostre democrazie che non hanno opposto resistenza perché fiacche, qualche volta colluse, comunque senza visione. E infatti, se non ce ne fossimo ancora accorti, a pagare il conto per riportare il sistema sotto-controllo non è la classe dominante, ma l’altra, tutti gli altri. Ecco perché sotto questa crisi si nasconde una domanda campale per la democrazia: dobbiamo prendere coscienza che dietro a quanto sta accadendo non c’è nulla di inevitabile e nessun destino, ma solo scelte concrete, che vanno capite, discusse, e poi democraticamente votate.
C’è oggi, almeno come ieri e persino di più, una élite di popolazione, sempre più transnazionale, consociata ma senza volto e volti, che vuole evitare il «default» del sistema senza mettere in discussione i propri privilegi, ricchezza, potere, ma solo, e semplicemente, la democrazia. Ragionava lo scorso gennaio con motivato e saggio allarme un osservatore "non tecnico" ma attento come il presidente della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco, come tra clamorose disattenzioni, cortine fumogene e mode culturali si stia favorendo «il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa». E così, mentre «dovrebbe essere decisiva», essa si ritrova messa all’angolo. Perché la (quasi) invisibile classe dominante ha deciso «di tagliarla fuori e renderla irrilevante, quasi inutile». Che fare allora? Innanzitutto prendere coscienza del problema economico-sociale e democratico che si pone, e poi agire anche politicamente. Usando, però, categorie culturali che siano all’altezza della fase storica che stiamo attraversando.
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Economia, democrazia, «poteri»
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 19/08/2012
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/08/2012
Si sta profilando all’orizzonte una nuova crisi nei prezzi delle materie prime alimentari. Il prezzo del pane è sempre stato qualcosa di più di un gioco fra domanda e offerta.
[fulltext] =>Il pane è certamente un bene, ma non è automaticamente una merce da lasciare alle pure dinamiche di mercato: in questo il pane assomiglia al lavoro, che non a caso gli viene spesso associato. Il cibo, il mangiare, non sono faccende soltanto umane, ma comuni a tutte le specie viventi. Gli esseri umani, però, danno un significato simbolico al cibo, ed è attorno ad esso che si articola la trama delle relazioni sociali più importanti, a partire dai pasti quotidiani in famiglia, dove si ricostruiscono e si accudiscono i beni relazionali primari.
Anche per questo in tutte le civiltà il consumo del cibo e il mangiare sono atti che si svolgono in comunità - o che si sono svolti in comune per millenni, sino all’invenzione della "cultura" del fast-food. Ecco perché dietro a questa imminente impennata del prezzo del grano e di altre materie prime alimentari non c’è solo siccità e riscaldamento globale, ma si nasconde una crisi delle relazioni sociali, e quindi una domanda di fondo sul nostro modello di sviluppo.
Se si guardano i dati di lungo e di lunghissimo periodo, si nota che negli ultimi vent’anni i prezzi delle materie prime hanno iniziato a crescere progressivamente fino ad annullare la diminuzione che quegli stessi prezzi avevano subito dalla rivoluzione industriale fino agli anni Novanta del secolo scorso. Ciò dice, se vogliamo ascoltare, che stiamo entrando in una nuova era (l’«era dei beni comuni») dove la gestione delle materie prime, compreso il cibo, diventerà una sfida cruciale per lo sviluppo economico e per la pace dei popoli. Il messaggio, tanto forte quanto inascoltato, è insomma esplicito: dobbiamo rallentare. Il pianeta da qualche decennio non sta più al passo con la fame di benessere di una minoranza dell’umanità. Siamo entrati in una dinamica simile al famoso gioco che gli economisti chiamano "Dilemma del prigioniero": ogni Paese vuole crescere, ma la crescita di tutti i Paesi sta producendo una insostenibilità globale, cioè per tutti e per ciascuno. La teoria ci insegna che in questi casi la strada maestra per evitare l’implosione è un patto sociale mondiale dove ciascun soggetto si auto-limiti e crei un sistema che gli impedisca di cambiare idea nel tempo, mentre a livello individuale occorre sviluppare una ’etica del limite’ interiorizzata da ogni cittadino del pianeta.
È in questo contesto che va letta la crisi dei prezzi dei prodotti agricoli, che sono appunto una fotografia di una crisi più profonda di relazioni. Nelle grandi civiltà della storia si è arrivati a comprendere che le risorse più preziose per la vita individuale e collettiva non vanno date in balìa dei cercatori di profitti, e per questo si è data vita a sistemi sociali e giuridici molto articolati per gestire, soprattutto nei tempi di crisi, l’acqua, i mulini e la terra, che era fonte di cibo, di energia, di materie prime.
In questa nostra età virtuale e tecnologica dobbiamo ritrovare un nuovo rapporto di reciprocità e amicizia con la terra (e quindi con cibo, con le materie prime e con l’energia), se vogliamo evitare di diventare ostaggi di speculatori che usano a loro vantaggio i grandi cambiamenti ambientali e sociali. Perché - l’abbiamo già intravisto all’alba della "primavera araba" - quando si arriva al punto che non solo isolati speculatori, ma un intero sistema economico-finanziario specula sul cibo e sulla terra, a scapito soprattutto dei più poveri, dobbiamo fermarci tutti e ricominciare. Dobbiamo ridare fiato alla terra, come ben sapeva la tradizione contadina fondata sulla cultura del maggese. Senza la cura e la custodia della terra, non c’è più cura e custodia nella convivenza umana: non a caso il Genesi usa lo stesso verbo (shamar) quando si riferisce ad Adamo "custode" della terra (2,15) e a Caino che non fu "custode" di suo fratello (4,9).
Il nostro modello economico ha dunque un urgente bisogno di una "cultura della cura", perché dove non c’è la cura dell’altro, della terra, del pane, da qualche parte si nasconde e si prepara il fratricidio.
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Gli alimenti e una cultura da ritrovare
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 14/08/2012
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/08/2012
Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani.
[fulltext] =>E mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza, alla wellness e la forma fisica, capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono tanti, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di eclissare o di allontanare dal suo orizzonte, che così si impoverisce e si intristisce. Una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra società è la prima che sta sommando queste due stoltezze. Che la nostra cultura non ami i giovani lo si vede da come li tratta nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nei partiti politici, dove i giovani sono sempre più assenti e tenuti distanti.
È questo il paradosso di un mondo adulto che vorrebbe restare giovane e di giovani che non riescono a diventare adulti, determinando così una patologia sociale che complica la vita degli adulti e dei giovani. Mia madre non hai vissuto il Sessantotto, sebbene avesse 25 anni, e perché nella campagna marchigiana non esisteva ancora la gioventù. Certo esisteva l’età biologica corrispondente, i giovani si innamoravano e sognavano; ma non c’era quella sorta di categoria o gruppo sociale che oggi chiamiamo "gioventù": questa l’hanno in un certo senso inventata il rock, il Beatles e il Sessantotto. Prima con il matrimonio o con il militare si passava direttamente da ragazzi ad adulti. Quella della gioventù è stata una delle più grandi invenzioni sociali della storia, che ha cambiato società, politica, economia. Oggi però è urgente re-inventare la vita adulta, perché finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità, compresa quella alta forma di responsabilità individuale e sociale che ci si assume sposandosi. E un lavoro che arriva tardi, e che – se e quando arriva – è troppo spesso insicuro, frammentario, precario e fragile, non fa altro che alimentare artificialmente e prolungare una giovinezza oltre i suoi orizzonti biologici. Tutto ciò fa perdere al mondo dell’economia e delle istituzioni l’energia vitale e morale fondamentale che proviene dai giovani, e rende per questi accidentato e troppo rischioso quel processo e passaggio fondamentale che dallo studio dovrebbe portare, presto, al lavoro vero.
Non è semplice uscire da questa trappola epocale e collettiva. Ma dobbiamo innanzitutto vederla, e poi rifletterci di più, adulti e giovani assieme, e a tutti i livelli. Certamente occorre ripensare, e profondamente, il significato del lavoro e del lavorare per un giovane oggi. Ci sono due tradizioni consolidate che oggi vanno cambiate. La prima è la radicata convinzione che un giovane quando sceglie di intraprendere un indirizzo di studio dovrebbe chiedersi di che cosa il mercato del lavoro ha bisogno, e quindi scegliere di conseguenza. Questa pratica di buon senso, che forse funzionava in un mondo più statico e tradizionale, sta progressivamente perdendo qualsiasi rilevanza effettiva, anche se facciamo fatica ad accorgercene, imprese e famiglie. La probabilità che esista una correlazione significativa tra la mia scelta di oggi e il mio lavoro tra 5-7 anni è sempre più bassa, per le semplici ragioni che in questo lasso di tempo cambia troppo velocemente il mondo economico, e cambio molto velocemente anch’io. Quando un amico mi chiede qual è la facoltà migliore per il proprio figlio, rispondo con sempre maggiore convinzione: «È quella che più ama e per la quale si sente portato; e se tuo figlio/a non lo sa ancora, dedicagli più tempo, ascoltalo, ascoltala, e soprattutto invitala ad ascoltarsi con più attenzione e più in profondità. E poi, qualsiasi scelta faccia, la sola cosa davvero importante è che studi bene e seriamente». Non si può scegliere di intraprendere una professione soltanto, o soprattutto, perché il mercato tra qualche anno avrà, forse, bisogno di qualcosa, e quando pensiamo e agiamo così finiamo senza volerlo per assomigliare ai servi se non agli schiavi. La ricerca genuina della propria vocazione nella vita e nel lavoro è la ricerca più importante dell’intera esistenza.
È qui però che va introdotto il secondo cambiamento culturale, che completa questo primo discorso, che riguarda il rapporto che dobbiamo imparare ad avere con gli studi e con i titoli. Un consiglio che dovrebbe essere dato, soprattutto in questa età di crisi, a un neo-laureato è il seguente: «Non far diventare il titolo appena conseguito un ostacolo. Considera quanto studiato soprattutto un investimento su di te, che ti sarà utilissimo per la tua libertà e felicità, ma non farlo diventare una pretesa per accettare solo i lavori che tu consideri adeguati. Se riesci a trovare subito il lavoro che senti come tuo e per cui hai studiato, bene; ma se non lo trovi subito accetta qualsiasi lavoro che sia utile alla società e a chi ti remunera; ma mentre lavori con serietà e impegno non smettere di coltivare le sue speranze profonde, i tuoi sogni, il tuo daimon».
Il "mercato del lavoro" di domani sarà sempre meno legato ai titoli di studio e sempre più alla nostra capacità di rispondere e anticipare i bisogni e i gusti degli altri, dimostrando ai nostri interlocutori che, qui ed ora, abbiamo qualcosa di valido e utile da scambiare con loro, in rapporti di mutuo vantaggio, dignità e reciprocità.
Avremo presto giardinieri umanisti, artigiani con il dottorato, imprenditori filosofi, e gli anni di studio e i titoli saranno soprattutto investimenti in libertà, opportunità e cultura, e sempre meno associati al "pezzo di carta" e al posto di lavoro. Queste trasformazioni sono molto profonde e complesse, e non dobbiamo lasciare i giovani da soli ad attraversare questo guado. Altrimenti continueremo ad amare la giovinezza, ma a rendere molto difficile il futuro e il presente dei nostri giovani.
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Reinventiamo la vita adulta
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 12/08/2012
Se mettiamo insieme lo spettacolo di queste Olimpiadi con i dati sulla disoccupazione giovanile, ci accorgiamo subito che la nostra società ama la gioventù, non i giovani.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/08/2012
Immaginiamo, con un esperimento mentale, che la Sicilia, il Lazio e la Lombardia possano emettere Brd (Buoni regionali decennali), totalmente indipendenti, e poi immessi sul mercato internazionale. Ci dovremmo aspettare dai mercati gli stessi interessi per i tre titoli? Perché allora ci stupiamo dello spread tra Bund teschi e Btp italiani? Lo spread continua, sostanzialmente, a rappresentare un cambio ombra lira/marco e continua ad essere ben presente tra gli operatori dei mercati (amplificato, ma non creato, da una lunga stagione di speculazione).
[fulltext] =>In una Europa con una politica confusa e fiacca, ci sarebbe bisogno di un vero processo politico che dicesse con la forza dei fatti che l’Italia, la Germania e la Spagna sono regioni di un’Unione – anzi, come è stato di recente auspicato dal presidente della Cei, cardinal Bagnasco, una vera Comunità – che non è solo una "espressione geografica", ma una realtà economica, finanziaria e quindi politica.
Tutto ciò si nasconde dietro i controversi "eurobond", cioè, per tornare alla metafora, la scelta politica di superare i Brd siciliani, laziali e lombardi. Ci sarebbe però bisogno di un’azione politica estremamente lungimirante e coraggiosa da parte soprattutto della Germania, qualcosa di simile a quanto fatto negli anni novanta con l’ex Ddr, quando la scelta della unificazione politica fu dettata senz’altro dalla lungimiranza economica, ma anche, e forse soprattutto, da quel principio di fraternità che dovrebbe stare sempre a cuore dell’Europa moderna. Ci sarebbe bisogno di fare altrettanto con l’intera Europa, e compiere così un passo decisivo in quella "europeizzazione della Germania" (e non una "germanizzazione dell’Europa"), che Helmut Kohl annunciò alla nascita dell’euro. Questo coraggio oggi non c’è. Ma nell’invocarlo non dobbiamo dimenticare le ragioni profonde dello spread tra Germania e i Paesi mediterranei, Italia inclusa, ragioni che rendono molto difficile, se non impossibile, orientare la politica europea verso una maggiore unità.
Queste ragioni sono molte e strutturali. Come di tanto in tanto Avvenire non manca di ricordare, il modello economico italiano (e di altri Paesi a matrice cattolica) ha tratti di diversità rispetto a quello anglosassone o nordico, tratti che negli ultimi decenni non riusciamo più a tradurre in sviluppo economico. Il modello economico italiano ha funzionato quando ha messo assieme le sue grandi anime culturali, sostenute dal basso dalla famiglia e dall’alto dallo Stato: il made in Italy, il movimento cooperativo, ma anche le poche grandi imprese, sono stati soprattutto il frutto di questo modello integrato. La crisi delle ideologie (e con esse dei grandi partiti di massa) e la crisi della famiglia, il tutto amplificato da un notevole invecchiamento del Paese, hanno innescato una decadenza strutturale del nostro modello di sviluppo, che è prima di tutto decadenza etica e morale. Una crisi che si manifesta in troppi imprenditori trasformatisi in speculatori smarrendo così la loro vocazione territoriale e sociale, e in una crescente sfiducia nei confronti della classe dirigente, che è alla base anche della parte più preoccupante e grave dell’evasione fiscale.
L’avventura dell’euro, iniziata quando questa crisi sociale ed etica del nostro Paese era appena partita, è stata un importante tentativo di dar vita a una nuova era, allargando lo sguardo, guardando a Nord (e forse troppo poco a Sud, nel Mediterraneo). Oggi possiamo e dobbiamo dire che il progetto Eurolandia non è da solo sufficiente per ritrovare una vocazione economica in un mondo che negli ultimi trent’anni è cambiato molto, troppo, velocemente. Se vogliamo ridurre lo spread finanziario, malattia oggi seria ma che se non curata può diventare presto fatale, dobbiamo più decisamente ridurre gli altri spread che l’Italia ha accumulato nei confronti degli altri grandi Paesi.
Il primo spread, che è fondativo di tutti gli altri, è sempre di carattere morale o etico. Chi gira il mondo sa che la Germania, l’Inghilterra, gli Stati Unitihanno tassi più alti di virtù civili, di lealtà con le proprie istituzioni, di onestà. I valori su cui l’Italia ha fondato la propria identità e successi - laboriosità, cooperazione, creatività - sono invece affievoliti se non quasi scomparsi dall’orizzonte, e non se ne intravvedono altri. Ma senza valori non si genera neanche valore economico, come ci ricordava nel 1927 l’economista civile Luigi Einaudi: «Prima e al fondo di ogni ricchezza materiale esiste un fattore morale. I genovesi e i veneziani non dominarono per secoli il commercio del Mediterraneo e del levante perché fossero ricchi. Che ricchezza v’era per le rocce sterili del genovesato o sulle palafitte della laguna veneta? Ma vivevano per quelle rocce e tra quelle lagune uomini laboriosi, tenaci, ardimentosi i quali acquistarono potenza, e nel tempo spesso ricchezza». Possiamo e dobbiamo ripartire da qui.
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Italia e Unione europea, spread e valori
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 05/08/2012
Immaginiamo, con un esperimento mentale, che la Sicilia, il Lazio e la Lombardia possano emettere Brd (Buoni regionali decennali), totalmente indipendenti, e poi immessi sul mercato internazionale. Ci dovremmo aspettare dai mercati gli stessi interessi per i tre titoli? Perché allora ci stupiamo dello spread tra Bund teschi e Btp italiani? Lo spread continua, sostanzialmente, a rappresentare un cambio ombra lira/marco e continua ad essere ben presente tra gli operatori dei mercati (amplificato, ma non creato, da una lunga stagione di speculazione).
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/07/2012
Gli imprenditori oggi non debbono solo chiedere piu garanzie al governo, ma debbono chiedere, e ottenere, una loro nuova centralità nel patto sociale. E' necessario: perché non si esce da nessuna crisi economica senza nuovi imprenditori e senza imprenditori nuovi. Imprenditori, però. E' necessario ri-semantizzare questa parola perché, a essere sinceri, quando oggi si parla di "imprenditori" spesso ci si riferisce a speculatori e a cercatori di protti di breve termine.
[fulltext] =>La crisi in cui si trova in Italia non l’hanno creata gli errori di Angela Merkel né un euro malamente piazzato nelle nostre tasche di europei (certo, possono averla complicata, ma in Italia siamo ottimi nell’attribuire ad altri la colpa delle nostre disgrazie). La crisi l’hanno prodotta soprattutto scelte precise di grandi imprese che trent’anni fa pensarono, sbagliando, di fare soldi facili lasciando il loro progetto imprenditoriale e buttandosi sulla nanza.
La grave crisi di produttività e di obsolescenza tecnica di non poche imprese italiane, non meno grave della crisi dello spread, è anche frutto di "imprenditori" e banche (complici Stato e partiti) che hanno smesso di investire nelle imprese e nel lavoro. In Italia ci sono ancora luoghi di eccellenza produttiva e tecnologica, e sono questi luoghi che ci tengono ancora lontani dal precipizio; ma ce ne potevano essere di più e di più forti. A patto che la classe imprenditoriale e industriale italiana avesse continuato a innovare nell’impresa e nel lavoro.
Ecco perché servono, e urgentemente, nuovi imprenditori. Nuovi anche nel pensiero, nelle motivazioni, e soprattutto negli ideali. Senza ideali possono, infatti, nascere operazioni speculative, ma non nascono imprese, che sono generate e alimentate da ideali piu grandi dei profitti. Per concepire e dare vita a un’impresa, a qualsiasi impresa (non solo economica), non bastano i protti, perché gli esseri umani chiedono molto di piu alla vita, e il denaro è troppo poco. E gli ideali si generano e si rigenerano soprattutto nei tempi di crisi e di dolore: difcilmente in Italia avremmo avuto il miracolo economico senza la sofferenza del fascismo, della guerra e della resistenza. Prezzi e costi altissimi, ma risultati civili, morali ed economici straordinari, miracolosi. Un patrimonio che stiamo deteriorando e consumando in questi ultimi due tre decenni.
E', questa, una strana, paradossale e per qualcuno anche ingiusta regola della vita. Si sa che le cose alte necessitano del pungolo del dolore, come ben sapeva Antonio Genovesi che vedeva nel dolore (e non nel piacere) la molla delle azioni umane, soprattutto di quelle grandi, come sono le azioni che fanno nascere le imprese, e che poi le fanno durare e non morire (e molto triste e preoccupante vedere quanto breve sia la vita media delle nuove aziende in Italia negli ultimi anni).
La grande crisi sta creando, insieme a tanto dolore per tanti, anche enormi opportunità, inedite solo qualche anno fa. La gestione creativa e innovativa dei beni comuni, dall’acqua all’energia rinnovabile, dall’abitare all’alimentazione: sono settori che non aspettano altro che imprenditori civili, magari giovani e possibilmente in squadra (la forma cooperativa e forma d’impresa ideale soprattutto quando si passano crisi, perché il principale capitale richiesto dalle cooperative sono le persone). Nuovi imprenditori che creino opportunità e che creino lavoro, con motivazioni piu grandi del protto.
ll lavoro oggi non va cercato, ma va creato. Dal basso. Dalla gente. Da imprenditori veri. L’imprenditore fa impresa non solo perché vuole rispondere ai bisogni della gente (questo potrebbe farlo anche la pubblica amministrazione o uno Stato collettivista), ma perché vuole dire qualcosa di sé, vuole raccontare una storia, vuole parlare, comunicare.
L’artista lo fa dipingendo o suonando, l’imprenditore facendo manufatti, agriturismo, macchinari, energia eolica, inclusione lavorativa di giovani immigrati... Se, invece, fosse vero che le imprese rispondono a bisogni già presenti ed evidenti nella popolazione, avremmo imprese routinarie e molto poco creative. Come ricordava Ford, se i suoi esperti avessero fatto un’indagine di mercato per conoscere i bisogni di trasporto degli americani, e avessero chiesto di che cosa avevano bisogno, gli avrebbero risposto: "Cavalli e carrozze piu veloci", non l’automobile.
L’imprenditore ha come principale dote l’anticipazione, e quando non anticipa ma segue e asseconda gusti e desideri, non è un buon imprenditore o imprenditrice.
L’ltalia e stata una grande realtà economica e civile quando ha generato migliaia di questi imprenditori, anche se li chiamavamo mercanti, artigiani, artisti o monaci, che hanno visto nelle crisi opportunita per nuove intraprese, risorse da valorizzare per crescere, per vivere. Come creare qui ed ora questi nuovi imprenditori? Forse tanti ci sono già, e aspettano solo che li vediamo, e che si lasci loro un po’ di spazio. Altri sono latenti, e con più concordia civile e visione politica potrebbero orire.
Anche perché i luoghi generativi di ogni imprenditore / imprenditrice sono la comunità, i territori, gli ambienti vitali: è qui, non dalle business schools, che nascono i valori, anche il valore economico. L’ltalia ha bisogno di riattivare presto i luoghi, di riabitare i territori, oggi troppo deserti di passioni positive e pieni di rivalità e particolarismi.
Anche per questo ciò che sta accadendo a Taranto è grave, perché quando si mettono in conitto tra di loro il diritto al lavoro con il diritto alla salute, si stanno facendo due operazioni di una gravità inedita. Si sta portando il conitto sociale dentro le famiglie, dove convivono sotto lo stesso tetto persone che vogliono e devono lavorare con i gli e le mogli e i mariti che non vogliono e non devono ammalarsi. In secondo luogo quel conitto che nell’era industriale era fra Capitale che inquinava e ambiente, diventa anche un conitto fra famiglie e terra, dove si porta inimicizia fra i lavoratori e la salvaguardia del creato.
Solo se sapremo ricreare concordia nei territori e fra impresa, lavoro, famiglia, politica e ambiente ripartirà anche l’economia, che non è altro che la rappresentazione delle relazioni sociali nei luoghi del vivere.
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Purchè siano veri, e sappiano produrre anche concordia
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/07/2012
Gli imprenditori oggi non debbono solo chiedere piu garanzie al governo, ma debbono chiedere, e ottenere, una loro nuova centralità nel patto sociale. E' necessario: perché non si esce da nessuna crisi economica senza nuovi imprenditori e senza imprenditori nuovi. Imprenditori, però. E' necessario ri-semantizzare questa parola perché, a essere sinceri, quando oggi si parla di "imprenditori" spesso ci si riferisce a speculatori e a cercatori di protti di breve termine.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/07/2012
Per vedere chiaramente cosa sta accadendo in questi giorni nei mercati finanziari, dobbiamo dotarci di occhiali con lenti giuste, possibilmente bifocali. Occorre infatti veder meglio da vicino ciò che in questi mesi e giorni destabilizza e perturba i mercati delle economie europee più fragili (e su queste pagine di analisi, anche originali, ne sono apparse ormai molte), ma occorre anche curare la miopia che porta spesso a veder male o non vedere affatto i grandi cambiamenti epocali di lungo periodo da cui discendono questi di breve.
[fulltext] =>Non capiremo mai, ad esempio, che cosa sta accadendo in Spagna, senza guardare alla grave crisi morale e sociale che attraversa quel Paese da qualche decennio, un Paese cresciuto troppo e male, puntando su turismo e servizi e dimenticando (anche a causa di una politica europea non lungimirante) i settori primario (agricoltura) e secondario (industria).
Le economie fondate sul terziario e commercio sono e saranno sempre più fragili e instabili. Questa crisi deve farci riflettere sulle vocazioni economico-produttive dei Paesi mediterranei, se non vogliamo diventare soltanto un enorme parco-giochi dove i cittadini di altri Paesi, quelli ricchi davvero, fanno vacanza e si riposano.
Se vedessimo meglio da lontano, capiremmo, poi, che l’operazione euro – per come è stata condotta istituzionalmente – ha finito per indebolire gli Stati europei più deboli, cheoggi non dovrebbero aspettare di essere messi dalla Germania in una "Eurolandia di serie B", ma giocare d’anticipo e chiedere, subito, una revisione dei Trattati che impedisca attacchi speculativi come quelli di questi giorni.
Come capiremmo – lo abbiamo detto ormai troppe volte – che l’Europasalverà i suoi Paesi in crisi, e quindi se stessa, solo spendendo la sua forza politica per unarevisione della architettura finanziaria mondiale, che a cinque anni dalla crisi è rimasta di fatto la stessa, e questo è davvero troppo grave.
Sono convinto che l’opinione pubblica debba fare di più: il bombardamento di indici di Borsa, spread, numeri che sta dominando l’orizzonte della nostra civiltà sortisce un effetto ipnotico, che blocca sul nascere ogni iniziativa civile e popolare tesa a chiedere più partecipazione nelle scelte, manovre, a chiedere più democrazia. E una delle ragioni, credo, è la quasi totale ignoranza economica-finanziaria dei cittadini, che crea insicurezza di fronte alla classica risposta dell’esperto: "La questione è molto più complessa". Ma la complessità non va subìta, va affrontata, perché è vero che una delle lezioni più grandi del mondo contemporaneo è averci mostrato un cambiamento radicale, forse sostanziale, dell’economia e quindi del mondo.
La vita economica come la conosciamo oggi è profondamente diversa da quella che conoscevamo fino agli anni Settanta: il mercato sta diventando sempre di più la principale grammatica delle relazioni sociali (basterebbe considerare linguaggio e cultura delle scuole, degli ospedali, della politica per capire cos’è il mercato oggi).
Continuare a leggere il mondo senza capire la centralità di questa nuova economia è semplicemente sbagliato, e quindi producediagnosi e terapie errate, come lo sono la grande maggioranza di quelle che ascoltiamo in questi giorni. Si continua a pensare all’economia, ai suoi linguaggi alle sue tecniche, come a qualcosa che riguarda un ambito separato dalla vita civile, competenza di addetti ai lavori, per poi venire sommersi quotidianamente da tutta un’informazione (e una simbolica) economica che riempie le nostre colazioni, pranzi e cene.
C’è allora un urgente bisogno di investire in educazione economico-finanziaria, perché l’unico modo per ridurre il peso e l’invadenza dell’economiae della finanza nelle nostre vite, e magari governarle con la democrazia, è conoscerle bene o almeno meglio. Dovremmo inserire la conoscenza dell’economia e della finanza nelle scuole di ogni ordine e grado, e trasformare profondamente quella esistente nelle facoltà di economia, dove si studia troppo business, ma non diamo strumenti adeguati per orientarsi nel mondo, per imparare a «parlare economia», come dice l’economista americano Robert Frank. I nostri laureati in economia fanno un’esperienza simile a quella che facevamo nella mia generazione con lo studio dell’inglese: nella prima gita scolastica all’estero scoprire drammaticamente che, dopo anni di grammatica e sintassi, si era totalmente incapaci di qualsiasi primitivo dialogo con gli inglesi veri. È infatti molto amaro constatare che oggi si può arrivare a una laurea in economia senza mai aver sentito parlare, se non in qualche accenno fugace, delle cose più importanti degli ultimi quarant’anni di ricerca in questa scienza: le asimmetrie informative, la finanza comportamentale, i beni comuni, che sono strumenti essenziali, non solo utili, per capire che cosa sta accadendo oggi al mondo e in Europa (che cosa sta producendo l’impennata degli spread in questi giorni se non l’uso di asimmetrie informative da parte di alcuni grandi attori speculativi?).
Questa crisi dovrebbe portare a riscrivere interamente i manuali di economia e di finanza, aggiornandoli, ma anche cancellando teoremi e dogmi errati che sono anche alla base della crisi di questi tempi. Ma non basta: c’è bisogno di far partire scuole popolari di economia e di finanza (ma di quelle "buone" e non di quelle vecchie e sbagliate) nelle comunità, nelle associazioni, nelle parrocchie. La democrazia è cominciata veramente nei banchi di scuola, con la letteratura, con la poesia, con la matematica, che ci hanno trasformato da servi in cittadini. Oggi la nuova democrazia richiede di formarsi anche all’economia e alla finanzase vogliamo essere veramente liberi e non in balia di tecnici, di indici e di "ferree leggi". La nostra libertà sostanziale oggi passa anche per una maggiore e migliore cultura economica e finanziaria, se non vogliamo tornare sudditi di nuovi re e nuovi principi, senza volto ma non meno spietati.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/07/2012
Per vedere chiaramente cosa sta accadendo in questi giorni nei mercati finanziari, dobbiamo dotarci di occhiali con lenti giuste, possibilmente bifocali. Occorre infatti veder meglio da vicino ciò che in questi mesi e giorni destabilizza e perturba i mercati delle economie europee più fragili (e su queste pagine di analisi, anche originali, ne sono apparse ormai molte), ma occorre anche curare la miopia che porta spesso a veder male o non vedere affatto i grandi cambiamenti epocali di lungo periodo da cui discendono questi di breve.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l'08/07/2012
Il presidente Monti ha affermato di condividere con la Germania la visione di una «economia sociale di mercato altamente competitiva », facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella suggestiva espressione. Un’economia che sia sociale, di mercato e, per di più, altamente competitiva non può che accontentare tutti: quelli che amano il mercato, quelli che sottolineano le esigenze sociali e solidariste, e anche coloro che vedono il mercato come il regno dell’efficienza, del merito e della competizione.
[fulltext] =>Occorre però essere diffidenti nei confronti di tesi e slogan che vogliono accontentare tutti, perché, soprattutto la politica, è l’arte delle scelte tra alternative con costi e benefici diversi. L’ economia sociale di mercato è una espressione che ha una precisa identità nazionale: è un modello economico-politico, proposto e in parte applicato da scienziati sociali tedeschi, tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso. Quando allora la invochiamo per l’Italia e per l’Europa di oggi dobbiamo fare lo sforzo, teorico e culturale, di specificare che cosa si ha in mente con mercato e con sociale.
Innanzitutto, nel parlare di economia sociale di mercato non dobbiamo dimenticare che almeno un secolo prima degli autori tedeschi, in Europa e in Italia, è emersa e si è strutturata un’importante tradizione di pensiero e di prassi economica che ha utilizzato l’espressione economia sociale per esprimere una visione di mercato diversa da quello che stava diventando il capitalismo. Un’espressione che ritroviamo soprattutto nei Paesi latini, sebbene in Italia fosse preferita la dicitura economia civile, poiché l’aggettivo civile richiama da noi la civitas romana, la cultura cittadina, l’umanesimo civile, e l’incivilimento. Per questa antica tradizione, l’economia era sì di mercato, ma – e qui sta il punto – di mercato non capitalistico, perché il suo modello di riferimento era normalmente quello cooperativo-comunitario. E questa economia sociale ha sempre avuto un rapporto complicato, e in parte conflittuale, con l’ideologia liberale e capitalistica.
In altre parole, la tradizione dell’economia sociale e quella liberal-capitalistica sono espressione di due umanesimi diversi: per l’economia sociale tradizionale, il mercato è buono e civile quando è in sé espressione di socialità, quando è mutualistico e comunitario; per l’economia liberal-capitalistica il mercato è ambito eticamente neutrale, e il sociale è tipico della sfera privata e filantropica. Ma c’è di più.
La tradizione classica di economia sociale – o civile – legge l’economia come un ambito retto dalle stesse leggi che regolano l’intera vita sociale, e non, come invece fa la tradizione liberal- capitalistica, come un luogo separato e con proprie leggi e diverse (business is business, gli affari sono affari). Per l’economia sociale-civile italiana l’impresa e il mercato non sono luoghi separati dal resto della civitas: l’economia è civile perché l’economia è vita civile. Le cooperative, ma anche le piccole e medie imprese dei distretti industriali, le casse rurali, le aziende a conduzione familiare e l’impresa sociale sono la nostra economia sociale di mercato, dove l’economia e la vita sociale sono intrecciati profondamente tra di loro.
Questa tradizione italiana ancora oggi è la stragrande maggioranza dell’economia del Paese: le imprese con meno di 10 dipendenti sono in Italia il 95% del totale, occupando il 46% dei lavoratori, e se aggiungiamo il 21% che lavora in imprese tra 11 e 50 addetti, l’8% impiegato nelle cooperative e il 15% nella pubblica amministrazione, ci accorgiamo subito di che cosa sia fatto il capitalismo italiano. La nostra tradizione economica dovrebbe allora essere chiamata economia di mercato sociale (o civile), perché il mercato è inerentemente sociale, e non qualcosa che arriva dall’esterno a limitare o a correggere; ed è sociale con tutte le ambivalenze che ogni sociale porta con sé.
È il nostro un modello dove l’impresa si fa carico di problemi sociali e familiari che non trovano posto in un modello di business is business.
Ancora oggi, tra i dipendenti di queste nostre imprese ci sono alcune persone (a volte molte) che non dovrebbero esserci sulla base del puro calcolo economico costi-benefici, ma che vi restano perché l’imprenditore porta nell’impresa anche e soprattutto brani di vita civile, amici, persone in difficoltà.
Costi, ma anche investimenti che hanno rafforzato le stesse imprese, soprattutto nei tempi di crisi, perché le rendono accessibili a energie e risorse esterne all’impresa. Il modello italiano ha assieme un 'di più' e un 'di meno', ma dove i 'di più' sono stati dominanti fino ad anni recenti, portando l’Italia ad autentici miracoli economici e civili. Fino alla radicale svolta finanziaria del capitalismo, l’economia italiana è cresciuta grazie a un’alleanza tra questa tradizione familiare-comunitaria e quella più capitalistica (le poche grandi imprese), con un ruolo centrale dello Stato. Oggi le cose sono diverse, e anche all’interno del nostro modello economico si vive il conflitto tra una economia finanziarizzata capitalista e l’antica tradizione sociale-civile. Ecco perché Mario Monti e gli altri amanti della suggestiva espressione economia sociale di mercato debbono dirci, con le scelte di politica economica e con la modulazione dei tagli, come si pongono nei confronti dell’economia italiana di oggi, se vogliono puntare e rafforzare la sua anima di mercato sociale o quella finanziaria-capitalista.
Chi vuole davvero una economia che sia di mercato e sociale, dovrebbe semplicemente aiutare – o non ostacolare – le piccole e medie imprese, le aziende famigliari (e le famiglie in generale), la cooperazione, il Terzo Settore, i distretti industriali, le banche di territorio, gli artigiani: solo questa è la 'nostra' economia, non ce ne sono altre in vista. Non è indispensabile guardare alla Germania, basta guardare meglio il Paese reale, per ritrovare una straordinaria economia di mercato sociale, che in questi ultimi decenni non è stata più 'vista' e capita, ma spesso è stata offesa. È un’economia vitale, che non aspetta altro che di ripartire, attingendo alla nostra storia e ai nostri valori, che sono anche valori economici.
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Commenti - Via tedesca, nostri valori, scelte da fare
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire l'08/07/2012
Il presidente Monti ha affermato di condividere con la Germania la visione di una «economia sociale di mercato altamente competitiva », facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella suggestiva espressione. Un’economia che sia sociale, di mercato e, per di più, altamente competitiva non può che accontentare tutti: quelli che amano il mercato, quelli che sottolineano le esigenze sociali e solidariste, e anche coloro che vedono il mercato come il regno dell’efficienza, del merito e della competizione.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/07/2012
Se vogliamo capire, e poi magari governare questo capitalismo in crisi, c’e l’urgenza di tornare a riettere sul significato della ricchezza, del mercato e delle rendite. Il giudizio, civile ed etico, sulla ricchezza ha vissuto diverse fasi nel corso della storia. Nel mondo antico la ricerca individuale della ricchezza era considerata sia un vizio privato (avarizia) sia un vizio pubblico del corpo sociale.
[fulltext] =>In un mondo statico, senza mobilita sociale e senza mercati, la ricchezza è essenzialmente una faccenda di rendite, di vantaggi legati a status o a posizioni di privilegio acquisite, che non spinge nè direttamente nè indirettamente verso un progresso economico e civile.
Da questo punto di vista, allora, è unanime il giudizio di condanna sull’amore per il denaro che si ritrova in tutte le culture tradizionali, un giudizio che mutava solo quando ad essere ricco era lo Stato o la città (non è certo un caso che il primo tipo di interesse legittimo fu quello sui titoli del debito pubblico delle città italiane).
L’atteggiamento verso la ricchezza inizia a cambiare quando fanno la loro comparsa le prime proto forme di economie di mercato nell’Europa del secondo Medioevo. Comincia cosi a prendere piede l’idea che la ricerca della ricchezza, mentre resta in genere un vizio individuale, può essere, entro certo limiti, una sorta di virtù pubblica.
Una alchimia dovuta soprattutto al mercato, che crea una nuova forma di ricchezza non più basata sulle rendite di posizione, ma sui redditi da commercio e poi da impresa. Quando, infatti, la ricchezza nasce da ussi (reddito) e non è piu legata solo agli stock (rendite), la ricerca della ricchezza produce, indirettamente e senza che sia necessariamente nelle intenzioni delle singole persone, effetti sociali positivi, poiché fa girare il denaro, crea lavoro e opportunità per tanti, una caratteristica dei mercati intuita già dai francescani secoli prima di Adam Smith. In un mondo statico e feudale, ad esempio, quando un principe conduce una vita lussuosa (vizio individuale), consumando beni non crea nessun indotto attorno al palazzo, perché ha schiavi e servi che gli procurano beni e servizi di cui ha bisogno, e che rimarranno sempre schiavi e servi. Se, invece, quel principe inizia ad assumere e a pagare artisti, artigiani, cuochi, camerieri..., quello stesso consumo lussuoso inizia a diventare almeno in parte produttivo e civile, perché l’esistenza di mercati consente alla ricchezza di diffondersi e di redistribuirsi attraverso il lavoro.
La nuova etica del mercato, allora, legittima lo scambio economico per i suoi frutti economici e civili di mobilità sociale e di allargamento delle persone incluse nel gioco sociale, poiché chi possiede ricchezza per poterla consumare deve necessariamente condividerne una parte con i suoi concittadini, non solo per le tasse ma per l’interdipendenza sociale.
I ricchi hanno sempre avuto bisogno dei poveri, ma in un mondo dove esiste la divisione del lavoro il ricco si serve dei "poveri" attraverso il mercato, e questo cambia profondamente il legame sociale, e puo iniziare, veramente, la democrazia. Quando i nostri nonni contadini e semi servi di padroni entrarono per la prima volta in una fabbrica, e iniziarono a percepire uno stipendio, in quel giorno si compiva un passo fondamentale per le loro vite e per la democrazia. Le motivazioni e le intenzioni di quegli imprenditori e di quei mercanti potevano restare eticamente discutibili, ma ciò che più contava, anche moralmente, erano le conseguenze sociali di quelle loro azioni, tra cui la possibilità che le figlie e i figli di quegli operai potessero diventare ingegneri e politici.
Il capitalismo ha retto fino a pochi decenni fa proprio per questo equilibrio dinamico tra ricchi e poveri, anche perché si sapeva che, entro certo limiti, i ruoli di ricco e di povero potevano alternarsi col passare del tempo, come aveva colto con estrema chiarezza e bellezza Antonio Genovesi nel 1765 a proposito degli effetti del "gioco" del mercato nella societa moderna: "Questo gioco, dove le arti sono protette e il traffico libero, genera tre effetti: I. Fa girare la schiavitù feudale. II. Solleva quella parte del genere umano, che patisce per la pressione dell’altra, che l’è di sopra. III. Rovina le grandi e vecchie famiglie, e ne solleva delle nuove. Non si può per lungo tempo burlar la natura. Il lusso viene perché i ricchi restituiscano a i poveri quel che avevano preso di soverchio del comune patrimonio".
A distanza di qualche secolo, pero, stiamo tornando a una situazione troppo simile a quella feudale, poiché il centro del sistema è di nuovo la rendita. E quando l’asse sociale si sposta dal lavoro e l’impresa alle rendite, l’arricchimento di alcuni non produce più vantaggi sociali per molti, perché sono molto ridotte, o nulle, le ricadute di quella "ricchezza" nei territori e nell’economia circostante. In un mondo fondato sulle rendite, arricchirsi è di nuovo vizio privato e vizio pubblico. Oggi i nuovi ricchi non hanno piu bisogno dei "poveri" delle loro città, perché vivono in loro città segregate, acquistano i beni in tutto il mondo, e pagano le tasse se e dove vogliono.
Si è alzato un velo impermeabile all’interno delle nuove citta del capitalismo finanziario, che non consente più il passaggio di ricchezza e la mobilità sociale. Si sta spezzando la catena dell’interdipendenza sociale, su cui si è fondata l’economia di mercato negli ultimi secoli, con conseguenze per la democrazia che ancora non riusciamo a intravvedere, ma che saranno certamente di portata epocale.
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Guai se torna a trionfare la rendita (c’e ricchezza e ricchezza)
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 17/07/2012
Se vogliamo capire, e poi magari governare questo capitalismo in crisi, c’e l’urgenza di tornare a riettere sul significato della ricchezza, del mercato e delle rendite. Il giudizio, civile ed etico, sulla ricchezza ha vissuto diverse fasi nel corso della storia. Nel mondo antico la ricerca individuale della ricchezza era considerata sia un vizio privato (avarizia) sia un vizio pubblico del corpo sociale.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/07/2012
Non è facile governare un Paese – né una comunità né tantomeno un’impresa – nei tempi di crisi, perché generalmente si cade nell’errore di esasperare una sola dimensione della crisi (il Pil, o la finanza, oggi), dimenticando che ogni crisi grave è sempre multidimensionale. E quando si dimentica e non si vede qualcosa, normalmente lo si danneggia.
[fulltext] =>Uno degli errori più comuni, e spesso molto gravi, è trascurare durante le crisi il ruolo essenziale del linguaggio simbolico, che soprattutto in questi momenti è un registro comunicativo essenziale, un linguaggio indispensabile quando si vogliono attivare le energie più profonde delle persone e dei popoli, senza le quali non si supera alcuna crisi.
Minacciare allora di toccare le feste e le ferie è un altro errore comunicativo e simbolico. Infatti, oltre alle ragioni messe in evidenza nei giorni passati anche su queste colonne (in particolare ricordare che questa crisi è soprattutto crisi di domanda, e non di offerta), è essenziale tener presente che la festa non è soltanto tempo libero dal lavoro, ma è anche fattore fondamentale per la manutenzione del legame sociale, per la ri-creazione del sentimento collettivo e dell’appartenenza a un corpo e a un destino comune.
Quest’anno in Portogallo hanno abolito alcuni giorni di festa, e amici portoghesi mi dicono che la popolazione ha sofferto di più per questo che per la riduzione della tredicesima. Ciò significa che la sofferenza collettiva per la cancellazione delle feste è di una natura diversa dalla sofferenza individuale dovuta alla riduzione del reddito: quando si cancella una festa la gente non soffre (solo) perché ha meno tempo libero, ma perché le arriva un segnale simbolico negativo, e preoccupante, che magari fa fatica a decodificare razionalmente ma che avverte a livello profondo.
Sono convinto che sia un grave errore, economico e culturale, pensare alla festa come al tempo libero: questa è la lettura tipica degli economisti, ma non la più vera. Ci sono persone per le quali festa significa solo più tempo per stare a casa o per riposarsi; ma per la maggior parte della gente la festa è anche il momento per investire in capitali relazionali, simbolici, spirituali, civili, per donare e ricevere tempo nelle comunità e nella famiglia: tutto questo è molto più del tempo libero, è molto più dell’equivalente monetario di un giorno di lavoro. È grave pensare alla festa come tempo libero, ed è grave anche per il lavoro, che finisce per diventare tempo non libero, come lo era – ed è ancora – per lo schiavo.
Il tempo investito nelle feste ha un effetto moltiplicativo e alimenta anche il tempo del lavoro. La grande cultura monastica, ad esempio, sapeva molto bene che senza festa (liturgia) il lavoro non funzionava, perché è nella liturgia e nella festa dove si riattivano e rigenerano le forze e i tessuti del corpo sociale e aziendale. Ogni cultura è stata creata ed è ancora ricreata (dove non è morta) anche dalle feste, e oggi la nostra cultura lavorativa soffre una grave indigenza di liturgie e quindi di capacità di creare legami forti e profondi.
Più si attraversano tempi di crisi, più i responsabili di un Paese devono difendere a denti stretti, e possibilmente aumentare, le feste. Non si attraversa nessun "deserto" senza far festa assieme. Ogni buon imprenditore sa, ad esempio, che durante le crisi l’ultimo budget da tagliare è quello per le feste, poiché celebrare la vita in comune è la più potente energia quando la vita individuale e collettiva si fa dura. Quando invece si tagliano le feste, in un Paese o in un’impresa, si sta tagliando quel capitale immateriale che poi non c’è quando dovrebbe essere attivato per resistere e per lottare assieme. Questo lo sanno molto bene i grandi artisti, come Olivier Messien quando il 15 gennaio 1941, in una baracca dello Stalag di Goerlitz, in Slesia, eseguì per la prima volta con i pochi strumenti semi distrutti il suo splendido Quartetto per la fine del tempo, uno dei tanti concerti composti e suonati nei tanti lager e gulag della storia: per continuare a lottare, a sperare, per non morire.
Ben diverso è quando i lavoratori, per la crisi che sta attraversando l’impresa, rinunciano ai pacchi di Natale: in questo caso questa "ferita" diventa una "benedizione" per tutti e ciascuno. Questi atti, però, richiedono una condizione per potersi attivare: che a rinunciare a qualcosa di importante sia anche l’imprenditore: le crisi sono importanti quando ricreano fraternità, oltre i ruoli e i diritti di proprietà, perché ci si senta accomunati da un destino comune. Ed è quanto manca oggi in Italia: sarebbe necessario, oltre che rispettoso della gente, che assieme alla proposta di ridurre ferie e feste (dopo aumenti di Iva, articolo 18, Imu...), si avanzasse qualche proposta seria di riduzione di stipendi pubblici milionari, perché la percezione di equità sociale è fondamentale se si vuol salvare la tanto evocata unità nazionale.
La vera sfida oggi è ri-imparare a far festa anche collettivamente: la religione (da religo, legare) sa molto bene il valore delle feste, come lo sa anche la grande cultura civile che ha vissuto guerre, dittature, pace, speranze sociali. Oggi lo stiamo dimenticando, perché troppo lontani gli eventi che le nostre feste ricordano; ma se non ri-impariamo a fare festa assieme, come comunità, come Paese e come Europa (chi sa quali sono le feste europee?), potremmo pure ridurre gli spread e il debito, ma non usciremo veramente dalle crisi del nostro tempo.
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L'idea di tagliare le ferie
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 20/07/2012
Non è facile governare un Paese – né una comunità né tantomeno un’impresa – nei tempi di crisi, perché generalmente si cade nell’errore di esasperare una sola dimensione della crisi (il Pil, o la finanza, oggi), dimenticando che ogni crisi grave è sempre multidimensionale. E quando si dimentica e non si vede qualcosa, normalmente lo si danneggia.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 29/06/2012
L’Europa non deve commettere l’errore di pensare che la soluzione alla sua crisi dipenda principalmente dalle proprie faccende interne. Non deve immaginare e progettare il proprio futuro dimenticando che siamo entrati nell’era della globalizzazione dei mercati e soprattutto della finanza, ma non della responsabilità politica e delle regole condivise. La Germania vuole più regole e più responsabilità (è l’antica idea tedesca dell’ ordoliberismo), ma non ha senso regolamentare la finanza privata e pubblica interna se non si cambiano le regole della finanza globale, che a tutt’oggi vive in una situazione di sostanziale anarchia e in una zona franca dal punto di vista fiscale e legislativo.
[fulltext] =>L’Italia non può farcela senza un nuovo patto europeo, ma nemmeno l’Europa può farcela senza un nuovo patto finanziario globale. E a partire da questa prospettiva che si dovrebbe inserire la richiesta di Mario Monti di legare strettamente l’esemplare introduzione di uno strumento riequilibratore come la Tobin Tax alla organizzazione di un 'arsenale' antispread della Ue.
Se ci limitiamo invece alla dimensione nazionale o europea, commetteremmo il duplice fatale errore di chi abitando in un appartamento all’interno di un condominio situato nei pressi di un grande fiume con argini inadeguati o inesistenti, di fronte a una piena eccezionale, la più grande degli ultimi secoli, si preoccupasse di mettere sacchetti di sabbia alle finestre del proprio appartamento (Italia), e di organizzare al meglio l’unità di di crisi nel proprio condominio (Europa), ma non rafforzasse o creasse, insieme agli altri abitanti del villaggio, gli argini del fiume.
Dal cruciale incontro di capi di Stato e Governo che da ieri sera è in corso a Bruxelles si rischia di uscire a mani vuote (o quasi), con le immaginabili e pesanti conseguenze. Ci auguriamo che non sia così. Ma non basterebbe nemmeno un risultato qualsiasi. Se, ad esempio, uscissero soltanto nuove misure di politica economica e fiscale di natura interna, fossero anche quelle 'giuste', tali interventi sarebbero di fatto inefficaci nel medio periodo se non venissero accompagnate da forti prese di posizione sul piano della politica finanziaria internazionale. E non ci si continui a dire – in Italia e in Europa – che prima si fa una cosa (mettere a posto i conti) e poi se ne fa un’altra (dare regole ai mercati globali), perché la storia dell’ultimo secolo ci dimostra che questa logica 'dei due tempi' non funziona, e dopo l’intervallo il gioco non riprende mai, e si riinizia un nuovo primo tempo, in un’altra partita. O si agisce subito su tutti i fronti, oppure ciò che si lascia al secondo tempo si perde: lo stiamo sperimentando in questi mesi sulla pelle delle famiglie.
Ormai non abbiamo quasi più voce per dire, da queste colonne, che l’economia europea non ripartirà senza contrastare con decisione la finanza speculativa, un’azione che va fatta a livello globale, coinvolgendo possibilmente tutti gli abitanti del villaggio-mondo; e se qualche importante condominio, magari un po’ più distante dall’alveo del fiume (o qualche famiglia dei piani più alti del condominio), non volesse cooperare per costruire gli argini, sono convinto che la scelta più razionale sarebbe ugualmente mettersi di buzzo buono a costruire gli argini con i compagni che ci stanno, in base all’antica regola di razionalità sociale: 'Meglio io che nessuno'. Se, infatti, la speculazione finanziaria (che non è tutta la finanza) si orientasse verso i Paesi più deregolamentati, le famiglie e i lavoratori europei ne avrebbero solo da guadagnare da tutti i punti di vista, perché ormai i dati parlano chiaro e ci dicono che da alcuni anni la finanza altamente speculativa non è più capace di alimentare la crescita dell’economia reale, ma ne è diventata la principale nemica.
Il capitalismo degli ultimi tre decenni sta sempre più diventando un grande paradiso fiscale, ed è ora che da qualche parte qualcuno reagisca: e dove se non in quell’Europa che ha inventato economia e finanza?
All’Europa seria che lavora e fa impresa, all’Europa della gente per bene, non servono i denari di chi specula in operazioni che durano pochi minuti, perché questa 'ricchezza' non creerà mai alcun posto di lavoro vero, mentre ne distrugge già tanti. Ridurre l’anarchia e il peso di questa finanza avrebbe effetti positivi immediati anche per l’economia reale e per lo sviluppo, perché il degrado tecnologico e produttivo dell’Italia (che dovrebbe farci più paura degli spread) è anche il frutto di scelte di grandi e medie imprese che hanno smesso di investire produttivamente i propri capitali nello sviluppo dell’impresa, perché distratte e attratte dai facili e grandi guadagni che quella certa finanza consentiva fino qualche anno fa.
La deriva selvaggia del capitalismo era stata già prefigurata profeticamente cento anni fa a uno dei più originali economisti italiani, il mantovano Achille Loria, che denunciando la direzione che rischiava di prendere l’economia del suo tempo (e che portò presto alla crisi del 1929), così scriveva: «La verità è che al di sotto del mondo economico sano e normale, al disotto dei poderi e dei latifondi, delle officine e delle fabbriche, in sotterranei tenebrosi si agita e baratta una turba di falsi monetari, che manipola e traffica la ricchezza altrui e ne ritrae con frode larghissimi guadagni».
L’Europa salverà se stessa, la propria moneta e l’economia di mercato se saprà "unire" davvero il suo peso politico, culturale ed economico e lo userà per rimettere il lavoro e l’impresa al centro dell’economia.
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Commenti - Ciò che serve (non solo) all'Europa per affrontare la crisi
di Luigino Bruni
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