Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Via tedesca, nostri valori, scelte da fare

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire l'08/07/2012

logo_avvenire Il presidente Monti ha affermato di condivi­dere con la Germania la visione di una «e­conomia sociale di mercato altamente com­petitiva », facendo così eco ad altre voci che in Italia stanno evocando e invocando quella sug­gestiva espressione. Un’economia che sia so­ciale, di mercato e, per di più, altamente com­petitiva non può che accontentare tutti: quel­li che amano il mercato, quelli che sottolinea­no le esigenze sociali e solidariste, e anche co­loro che vedono il mercato come il regno del­l’efficienza, del merito e della competizione.

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Occorre però essere diffidenti nei confronti di tesi e slogan che vogliono accontentare tutti, perché, soprattutto la politica, è l’arte delle scelte tra alternative con costi e benefici di­versi. L’ economia sociale di mercato è una e­spressione che ha una precisa identità nazio­nale: è un modello economico-politico, pro­posto e in parte applicato da scienziati socia­li tedeschi, tra gli anni Trenta e Cinquanta del secolo scorso. Quando allora la invochiamo per l’Italia e per l’Europa di oggi dobbiamo fa­re lo sforzo, teorico e culturale, di specificare che cosa si ha in mente con mercato e con so­ciale.

Innanzitutto, nel parlare di economia sociale di mercato non dobbiamo dimenticare che al­meno un secolo prima degli autori tedeschi, in Europa e in Italia, è emersa e si è strutturata un’importante tradizione di pensiero e di pras­si economica che ha utilizzato l’espressione e­conomia sociale per esprimere una visione di mercato diversa da quello che stava diventan­do il capitalismo. Un’espressione che ritrovia­mo soprattutto nei Paesi latini, sebbene in I­talia fosse preferita la dicitura economia civi­le, poiché l’aggettivo civile richiama da noi la civitas romana, la cultura cittadina, l’umane­simo civile, e l’incivilimento. Per questa anti­ca tradizione, l’economia era sì di mercato, ma – e qui sta il punto – di mercato non capitali­stico, perché il suo modello di riferimento era normalmente quello cooperativo-comunita­rio. E questa economia sociale ha sempre avuto un rapporto complicato, e in parte conflittua­le, con l’ideologia liberale e capitalistica.

In altre parole, la tradizione dell’economia so­ciale e quella liberal-capitalistica sono e­spressione di due umanesimi diversi: per l’e­conomia sociale tradizionale, il mercato è buo­no e civile quando è in sé espressione di so­cialità, quando è mutualistico e comunitario; per l’economia liberal-capitalistica il mercato è ambito eticamente neutrale, e il sociale è ti­pico della sfera privata e filantropica. Ma c’è di più.

La tradizione classica di economia socialeo civilelegge l’economia come un ambito ret­to dalle stesse leggi che regolano l’intera vita sociale, e non, come invece fa la tradizione li­beral- capitalistica, come un luogo separato e con proprie leggi e diverse (business is busi­ness, gli affari sono affari). Per l’economia so­ciale-civile italiana l’impresa e il mercato non sono luoghi separati dal resto della civitas: l’e­conomia è civile perché l’economia è vita ci­vile. Le cooperative, ma anche le piccole e me­die imprese dei distretti industriali, le casse ru­rali, le aziende a conduzione familiare e l’im­presa sociale sono la nostra economia sociale di mercato, dove l’economia e la vita sociale so­no intrecciati profondamente tra di loro.

Questa tradizione italiana ancora oggi è la stra­grande maggioranza dell’economia del Paese: le imprese con meno di 10 dipendenti sono in Italia il 95% del totale, occupando il 46% dei la­voratori, e se aggiungiamo il 21% che lavora in imprese tra 11 e 50 addetti, l’8% impiegato nel­le cooperative e il 15% nella pubblica ammi­nistrazione, ci accorgiamo subito di che cosa sia fatto il capitalismo italiano. La nostra tra­dizione economica dovrebbe allora essere chiamata economia di mercato sociale (o civi­le), perché il mercato è inerentemente socia­le, e non qualcosa che arriva dall’esterno a li­mitare o a correggere; ed è sociale con tutte le ambivalenze che ogni sociale porta con sé.

È il nostro un modello dove l’impresa si fa ca­rico di problemi sociali e familiari che non tro­vano posto in un modello di business is busi­ness.

Ancora oggi, tra i dipendenti di queste nostre imprese ci sono alcune persone (a vol­te molte) che non dovrebbero esserci sulla ba­se del puro calcolo economico costi-benefici, ma che vi restano perché l’imprenditore por­ta nell’impresa anche e soprattutto brani di vi­ta civile, amici, persone in difficoltà.

Costi, ma anche investimenti che hanno rafforzato le stesse imprese, soprattutto nei tempi di crisi, perché le rendono accessibili a energie e risorse esterne all’impresa. Il modello italiano ha assieme un 'di più' e un 'di meno', ma dove i 'di più' sono stati dominanti fino ad anni recenti, portando l’Italia ad autentici miracoli economici e civili. Fino alla radicale svolta finanziaria del capitalismo, l’economia italiana è cresciuta grazie a un’alleanza tra questa tradizione familiare-comunitaria e quella più capitalistica (le poche grandi imprese), con un ruolo centrale dello Stato. Oggi le cose sono diverse, e anche all’interno del nostro modello economico si vive il conflitto tra una economia finanziarizzata capitalista e l’antica tradizione sociale-civile. Ecco perché Mario Monti e gli altri amanti della suggestiva espressione economia sociale di mercato debbono dirci, con le scelte di politica economica e con la modulazione dei tagli, come si pongono nei confronti dell’economia italiana di oggi, se vogliono puntare e rafforzare la sua anima di mercato sociale o quella finanziaria-capitalista.

Chi vuole davvero una economia che sia di mercato e sociale, dovrebbe semplicemente aiutare – o non ostacolare – le piccole e medie imprese, le aziende famigliari (e le famiglie in generale), la cooperazione, il Terzo Settore, i distretti industriali, le banche di territorio, gli artigiani: solo questa è la 'nostra' economia, non ce ne sono altre in vista. Non è indispensabile guardare alla Germania, basta guardare meglio il Paese reale, per ritrovare una straordinaria economia di mercato sociale, che in questi ultimi decenni non è stata più 'vista' e capita, ma spesso è stata offesa. È un’economia vitale, che non aspetta altro che di ripartire, attingendo alla nostra storia e ai nostri valori, che sono anche valori economici.

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Il modello italiano

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Commenti - Guai  se torna a trionfare la rendita (c’e ricchezza e ricchezza)

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/07/2012

logo_avvenire Se vogliamo capire, e poi magari governare questo capitalismo in crisi, c’e l’urgenza di tornare a riettere sul significato della ricchezza, del mercato e delle rendite. Il giudizio, civile ed etico, sulla ricchezza ha vissuto diverse fasi nel corso della storia. Nel mondo antico la ricerca individuale della ricchezza era considerata sia un vizio privato (avarizia) sia un vizio pubblico del corpo sociale.

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In un mondo statico, senza mobilita sociale e senza mercati, la ricchezza è essenzialmente una faccenda di rendite, di vantaggi legati a status o a posizioni di privilegio acquisite, che non spinge nè direttamente nè indirettamente verso un progresso economico e civile.

Da questo punto di vista, allora, è unanime il giudizio di condanna sull’amore per il denaro che si ritrova in tutte le culture tradizionali, un giudizio che mutava solo quando ad essere ricco era lo Stato o la città (non è certo un caso che il primo tipo di interesse legittimo fu quello sui titoli del debito pubblico delle città italiane).

L’atteggiamento verso la ricchezza inizia a cambiare quando fanno la loro comparsa le prime proto forme di economie di mercato nell’Europa del secondo Medioevo. Comincia cosi a prendere piede l’idea che la ricerca della ricchezza, mentre resta in genere un vizio individuale, può essere, entro certo limiti, una sorta di virtù pubblica.

Una alchimia dovuta soprattutto al mercato, che crea una nuova forma di ricchezza non più basata sulle rendite di posizione, ma sui redditi da commercio e poi da impresa. Quando, infatti, la ricchezza nasce da ussi (reddito) e non è piu legata solo agli stock (rendite), la ricerca della ricchezza produce, indirettamente e senza che sia necessariamente nelle intenzioni delle singole persone, effetti sociali positivi, poiché fa girare il denaro, crea lavoro e opportunità per tanti, una caratteristica dei mercati intuita già dai francescani secoli prima di Adam Smith. In un mondo statico e feudale, ad esempio, quando un principe conduce una vita lussuosa (vizio individuale), consumando beni non crea nessun indotto attorno al palazzo, perché ha schiavi e servi che gli procurano beni e servizi di cui ha bisogno, e che rimarranno sempre schiavi e servi. Se, invece, quel principe inizia ad assumere e a pagare artisti, artigiani, cuochi, camerieri..., quello stesso consumo lussuoso inizia a diventare almeno in parte produttivo e civile, perché l’esistenza di mercati consente alla ricchezza di diffondersi e di redistribuirsi attraverso il lavoro.

La nuova etica del mercato, allora, legittima lo scambio economico per i suoi frutti economici e civili di mobilità sociale e di allargamento delle persone incluse nel gioco sociale, poiché chi possiede ricchezza per poterla consumare deve necessariamente condividerne una parte con i suoi concittadini, non solo per le tasse ma per l’interdipendenza sociale.

I ricchi hanno sempre avuto bisogno dei poveri, ma in un mondo dove esiste la divisione del lavoro il ricco si serve dei "poveri" attraverso il mercato, e questo cambia profondamente il legame sociale, e puo iniziare, veramente, la democrazia. Quando i nostri nonni contadini e semi servi di padroni entrarono per la prima volta in una fabbrica, e iniziarono a percepire uno stipendio, in quel giorno si compiva un  passo fondamentale per le loro vite e per la democrazia. Le motivazioni e le intenzioni di quegli imprenditori e di quei mercanti potevano restare eticamente discutibili, ma ciò che più contava, anche moralmente, erano le conseguenze sociali di quelle loro azioni, tra cui la possibilità che le figlie e i figli di quegli operai potessero diventare ingegneri e politici.

Il capitalismo ha retto fino a pochi decenni fa proprio per questo equilibrio dinamico tra ricchi e poveri, anche perché si sapeva che, entro certo limiti, i ruoli di ricco e di povero potevano alternarsi col passare del tempo, come aveva colto con estrema chiarezza e bellezza Antonio Genovesi nel 1765 a proposito degli effetti del "gioco" del mercato nella societa moderna: "Questo gioco, dove le arti sono protette e il traffico libero, genera tre effetti: I. Fa girare la schiavitù feudale. II. Solleva quella parte del genere umano, che patisce per la pressione dell’altra, che l’è di sopra. III. Rovina le grandi e vecchie famiglie, e ne solleva delle nuove. Non si può per lungo tempo burlar la natura. Il lusso viene perché i ricchi restituiscano a i poveri quel che avevano preso di soverchio del comune patrimonio".

A distanza di qualche secolo, pero, stiamo tornando a una situazione troppo simile a quella feudale, poiché il centro del sistema è di nuovo la rendita. E quando l’asse sociale si sposta dal lavoro e l’impresa alle rendite, l’arricchimento di alcuni non produce più vantaggi sociali per molti, perché sono molto ridotte, o nulle, le ricadute di quella "ricchezza" nei territori e nell’economia circostante. In un mondo fondato sulle rendite, arricchirsi è di nuovo vizio privato e vizio pubblico. Oggi i nuovi ricchi non hanno piu bisogno dei "poveri" delle loro città, perché vivono in loro città segregate, acquistano i beni in tutto il mondo, e pagano le tasse se e dove vogliono.

Si è alzato un velo impermeabile all’interno delle nuove citta del capitalismo finanziario, che non consente più il passaggio di ricchezza e la mobilità sociale. Si sta spezzando la catena dell’interdipendenza sociale, su cui si è fondata l’economia di mercato negli ultimi secoli, con conseguenze per la democrazia che ancora non riusciamo a intravvedere, ma che saranno certamente di portata epocale.

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La catena e il velo

La catena e il velo

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Commenti - L'idea di tagliare le ferie

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 20/07/2012

logo_avvenire Non è facile governare un Paese – né una comunità né tantomeno un’impresa – nei tempi di crisi, perché generalmente si cade nell’errore di esasperare una sola dimensione della crisi (il Pil, o la finanza, oggi), dimenticando che ogni crisi grave è sempre multidimensionale. E quando si dimentica e non si vede qualcosa, normalmente lo si danneggia.

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Uno degli errori più comuni, e spesso molto gravi, è trascurare durante le crisi il ruolo essenziale del linguaggio simbolico, che soprattutto in questi momenti è un registro comunicativo essenziale, un linguaggio indispensabile quando si vogliono attivare le energie più profonde delle persone e dei popoli, senza le quali non si supera alcuna crisi.

Minacciare allora di toccare le feste e le ferie è un altro errore comunicativo e simbolico. Infatti, oltre alle ragioni messe in evidenza nei giorni passati anche su queste colonne (in particolare ricordare che questa crisi è soprattutto crisi di domanda, e non di offerta), è essenziale tener presente che la festa non è soltanto tempo libero dal lavoro, ma è anche fattore fondamentale per la manutenzione del legame sociale, per la ri-creazione del sentimento collettivo e dell’appartenenza a un corpo e a un destino comune.

Quest’anno in Portogallo hanno abolito alcuni giorni di festa, e amici portoghesi mi dicono che la popolazione ha sofferto di più per questo che per la riduzione della tredicesima. Ciò significa che la sofferenza collettiva per la cancellazione delle feste è di una natura diversa dalla sofferenza individuale dovuta alla riduzione del reddito: quando si cancella una festa la gente non soffre (solo) perché ha meno tempo libero, ma perché le arriva un segnale simbolico negativo, e preoccupante, che magari fa fatica a decodificare razionalmente ma che avverte a livello profondo.

Sono convinto che sia un grave errore, economico e culturale, pensare alla festa come al tempo libero: questa è la lettura tipica degli economisti, ma non la più vera. Ci sono persone per le quali festa significa solo più tempo per stare a casa o per riposarsi; ma per la maggior parte della gente la festa è anche il momento per investire in capitali relazionali, simbolici, spirituali, civili, per donare e ricevere tempo nelle comunità e nella famiglia: tutto questo è molto più del tempo libero, è molto più dell’equivalente monetario di un giorno di lavoro. È grave pensare alla festa come tempo libero, ed è grave anche per il lavoro, che finisce per diventare tempo non libero, come lo era – ed è ancora – per lo schiavo.

Il tempo investito nelle feste ha un effetto moltiplicativo e alimenta anche il tempo del lavoro. La grande cultura monastica, ad esempio, sapeva molto bene che senza festa (liturgia) il lavoro non funzionava, perché è nella liturgia e nella festa dove si riattivano e rigenerano le forze e i tessuti del corpo sociale e aziendale. Ogni cultura è stata creata ed è ancora ricreata (dove non è morta) anche dalle feste, e oggi la nostra cultura lavorativa soffre una grave indigenza di liturgie e quindi di capacità di creare legami forti e profondi.

Più si attraversano tempi di crisi, più i responsabili di un Paese devono difendere a denti stretti, e possibilmente aumentare, le feste. Non si attraversa nessun "deserto" senza far festa assieme. Ogni buon imprenditore sa, ad esempio, che durante le crisi l’ultimo budget da tagliare è quello per le feste, poiché celebrare la vita in comune è la più potente energia quando la vita individuale e collettiva si fa dura. Quando invece si tagliano le feste, in un Paese o in un’impresa, si sta tagliando quel capitale immateriale che poi non c’è quando dovrebbe essere attivato per resistere e per lottare assieme. Questo lo sanno molto bene i grandi artisti, come Olivier Messien quando il 15 gennaio 1941, in una baracca dello Stalag di Goerlitz, in Slesia, eseguì per la prima volta con i pochi strumenti semi distrutti il suo splendido Quartetto per la fine del tempo, uno dei tanti concerti composti e suonati nei tanti lager e gulag della storia: per continuare a lottare, a sperare, per non morire.

Ben diverso è quando i lavoratori, per la crisi che sta attraversando l’impresa, rinunciano ai pacchi di Natale: in questo caso questa "ferita" diventa una "benedizione" per tutti e ciascuno. Questi atti, però, richiedono una condizione per potersi attivare: che a rinunciare a qualcosa di importante sia anche l’imprenditore: le crisi sono importanti quando ricreano fraternità, oltre i ruoli e i diritti di proprietà, perché ci si senta accomunati da un destino comune. Ed è quanto manca oggi in Italia: sarebbe necessario, oltre che rispettoso della gente, che assieme alla proposta di ridurre ferie e feste (dopo aumenti di Iva, articolo 18, Imu...), si avanzasse qualche proposta seria di riduzione di stipendi pubblici milionari, perché la percezione di equità sociale è fondamentale se si vuol salvare la tanto evocata unità nazionale.

La vera sfida oggi è ri-imparare a far festa anche collettivamente: la religione (da religo, legare) sa molto bene il valore delle feste, come lo sa anche la grande cultura civile che ha vissuto guerre, dittature, pace, speranze sociali. Oggi lo stiamo dimenticando, perché troppo lontani gli eventi che le nostre feste ricordano; ma se non ri-impariamo a fare festa assieme, come comunità, come Paese e come Europa (chi sa quali sono le feste europee?), potremmo pure ridurre gli spread e il debito, ma non usciremo veramente dalle crisi del nostro tempo.

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Commenti - L'idea di tagliare le ferie

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Ma negare la festa allenta i legami

Ma negare la festa allenta i legami

Commenti - L'idea di tagliare le ferie di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 20/07/2012 Non è facile governare un Paese – né una comunità né tantomeno un’impresa – nei tempi di crisi, perché generalmente si cade nell’errore di esasperare una sola dimensione della crisi (il Pil, o la finanza...
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Commenti - Ciò che serve (non solo) all'Europa per affrontare la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/06/2012

logo_avvenire L’Europa non deve commettere l’errore di pensare che la soluzione alla sua crisi dipenda principalmente dalle proprie faccende interne. Non deve immaginare e progettare il proprio futuro dimenticando che siamo entrati nell’era della globalizzazione dei mercati e soprattutto della finanza, ma non della responsabilità politica e delle regole condivise. La Germania vuole più regole e più responsabilità (è l’antica idea tedesca dell’ ordo­liberismo), ma non ha senso regolamentare la finanza privata e pubblica interna se non si cambiano le regole della finanza globale, che a tutt’oggi vive in una situazione di sostanziale anarchia e in una zona franca dal punto di vista fiscale e legislativo.

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L’Italia non può farcela senza un nuovo patto europeo, ma nemmeno l’Europa può farcela senza un nuovo patto finanziario globale. E a partire da questa prospettiva che si dovrebbe inserire la richiesta di Mario Monti di legare strettamente l’esemplare introduzione di uno strumento riequilibratore come la Tobin Tax alla organizzazione di un 'arsenale' anti­spread della Ue.

Se ci limitiamo invece alla dimensione nazionale o europea, commetteremmo il duplice fatale errore di chi abitando in un appartamento all’interno di un condominio situato nei pressi di un grande fiume con argini inadeguati o inesistenti, di fronte a una piena eccezionale, la più grande degli ultimi secoli, si preoccupasse di mettere sacchetti di sabbia alle finestre del proprio appartamento (Italia), e di organizzare al meglio l’unità di di crisi nel proprio condominio (Europa), ma non rafforzasse o creasse, insieme agli altri abitanti del villaggio, gli argini del fiume.

Dal cruciale incontro di capi di Stato e Governo che da ieri sera è in corso a Bruxelles si rischia di uscire a mani vuote (o quasi), con le immaginabili e pesanti conseguenze. Ci auguriamo che non sia così. Ma non basterebbe nemmeno un risultato qualsiasi. Se, ad esempio, uscissero soltanto nuove misure di politica economica e fiscale di natura interna, fossero anche quelle 'giuste', tali interventi sarebbero di fatto inefficaci nel medio periodo se non venissero accompagnate da forti prese di posizione sul piano della politica finanziaria internazionale. E non ci si continui a dire – in Italia e in Europa – che prima si fa una cosa (mettere a posto i conti) e poi se ne fa un’altra (dare regole ai mercati globali), perché la storia dell’ultimo secolo ci dimostra che questa logica 'dei due tempi' non funziona, e dopo l’intervallo il gioco non riprende mai, e si riinizia un nuovo primo tempo, in un’altra partita. O si agisce subito su tutti i fronti, oppure ciò che si lascia al secondo tempo si perde: lo stiamo sperimentando in questi mesi sulla pelle delle famiglie.

Ormai non abbiamo quasi più voce per dire, da queste colonne, che l’economia europea non ripartirà senza contrastare con decisione la finanza speculativa, un’azione che va fatta a livello globale, coinvolgendo possibilmente tutti gli abitanti del villaggio-mondo; e se qualche importante condominio, magari un po’ più distante dall’alveo del fiume (o qualche famiglia dei piani più alti del condominio), non volesse cooperare per costruire gli argini, sono convinto che la scelta più razionale sarebbe ugualmente mettersi di buzzo buono a costruire gli argini con i compagni che ci stanno, in base all’antica regola di razionalità sociale: 'Meglio io che nessuno'. Se, infatti, la speculazione finanziaria (che non è tutta la finanza) si orientasse verso i Paesi più deregolamentati, le famiglie e i lavoratori europei ne avrebbero solo da guadagnare da tutti i punti di vista, perché ormai i dati parlano chiaro e ci dicono che da alcuni anni la finanza altamente speculativa non è più capace di alimentare la crescita dell’economia reale, ma ne è diventata la principale nemica.

Il capitalismo degli ultimi tre decenni sta sempre più diventando un grande paradiso fiscale, ed è ora che da qualche parte qualcuno reagisca: e dove se non in quell’Europa che ha inventato economia e finanza?

All’Europa seria che lavora e fa impresa, all’Europa della gente per bene, non servono i denari di chi specula in operazioni che durano pochi minuti, perché questa 'ricchezza' non creerà mai alcun posto di lavoro vero, mentre ne distrugge già tanti. Ridurre l’anarchia e il peso di questa finanza avrebbe effetti positivi immediati anche per l’economia reale e per lo sviluppo, perché il degrado tecnologico e produttivo dell’Italia (che dovrebbe farci più paura degli spread) è anche il frutto di scelte di grandi e medie imprese che hanno smesso di investire produttivamente i propri capitali nello sviluppo dell’impresa, perché distratte e attratte dai facili e grandi guadagni che quella certa finanza consentiva fino qualche anno fa.

La deriva selvaggia del capitalismo era stata già prefigurata profeticamente cento anni fa a uno dei più originali economisti italiani, il mantovano Achille Loria, che denunciando la direzione che rischiava di prendere l’economia del suo tempo (e che portò presto alla crisi del 1929), così scriveva: «La verità è che al di sotto del mondo economico sano e normale, al disotto dei poderi e dei latifondi, delle officine e delle fabbriche, in sotterranei tenebrosi si agita e baratta una turba di falsi monetari, che manipola e traffica la ricchezza altrui e ne ritrae con frode larghissimi guadagni».

L’Europa salverà se stessa, la propria moneta e l’economia di mercato se saprà "unire" davvero il suo peso politico, culturale ed economico e lo userà per rimettere il lavoro e l’impresa al centro dell’economia.

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Commenti - Ciò che serve (non solo) all'Europa per affrontare la crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/06/2012

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L’argine e la visione

L’argine e la visione

Commenti - Ciò che serve (non solo) all'Europa per affrontare la crisi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 29/06/2012 L’Europa non deve commettere l’errore di pensare che la soluzione alla sua crisi dipenda principalmente dalle proprie faccende interne. Non deve immaginare e progettare il...
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Commenti - Il rifiuto totale della vulnerabilità, il dilagare dei contratti, la crisi dei patti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/06/2012

logo_avvenire La principale difficoltà per uscire dalla crisi non sta nelle scelte delle istituzioni, né nella politica né nell’Europa, ma nei nostri stili di vita, che negli ultimi anni hanno subito un cambiamento radicale. E per questo è molto difficile trovare una via d’uscita, perché, mentre con le parole ci lamentiamo, con i nostri comportamenti alimentiamo giorno dopo giorno quel modello di sviluppo contro cui ci lamentiamo, e che procura a tanti (non a tutti) molta sofferenza. E’ questo forse il principale paradosso di questa fase del capitalismo.

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Prendiamo, per un esempio importante, le assicurazioni. È evidente che le assicurazioni svolgono un’importante funzione di bene comune: l’esistenza della possibilità di assicurarsi di fronte a eventi rischiosi e incerti migliora generalmente il benessere delle persone, e il bene comune.

Un ipotetico mondo senza assicurazioni sarebbe peggiore, da tutti i punti di vista, e sarebbe peggiore soprattutto per i più fragili. Ma come in tutte le cose buone della vita è cruciale il tema della giusta misura, sapere individuare quella soglia o quel punto critico da non superare per non trasformare quel bene in un male.

A questo riguardo, dovremmo riflettere di più su quel fenomeno crescente che potremmo chiamare ‘l’assicurarizzazione del mondo’, e cioè il progressivo e veloce allargamento dell’area della vita sociale coperta da contratti assicurativi. E questo non lo vediamo soltanto con la polizza auto che è passata in pochi anni dalla semplice RC alla copertura di atti vandalici, eventi atmosferici anomali, o al bisogno di un “tecnico” per montare le catene in caso di improvvisa nevicata. Ma lo vediamo anche, e sempre di più, negli insegnanti che debbono assicurarsi contro possibili incidenti di studenti durante le gite scolastiche, e molto altro ancora. Bene!, qualcuno potrebbe dire, perché con queste nuove assicurazioni riusciamo a far cose che oggi non faremmo se non ci fossero questi nuovi contratti. Attenzione!, dico io, perché questo processo, oltre ad aumentare e non di poco i costi delle famiglie, tende a logorare i rapporti interpersonali, e a creare sempre maggiori insicurezze per le quali ci verranno poi proposti altri contratti, e cosi via.

Ma c’è di più. Se il cittadino sa che quel determinato luogo della vita sociale è coperto dalle assicurazioni tenderà, ce lo dicono i dati (e le nostre esperienze), ad aumentare le richieste di risarcimenti, le cause, i conflitti. Finché restiamo nel campo delle auto tutto ciò, anche se grave (e lo sanno bene gli assicuratori), riguarda comunque ambiti non sempre centrali e cruciali della nostra vita. Ma se questi fenomeni (cause, richieste di danni, azzardo morale…) iniziano ad estendersi alla sanità, alla scuola, alla vita civile, gli effetti possono iniziare ad essere molto seri, come già accade, se vogliamo vederlo. Per non parlare poi della logica che è alla base dei titoli derivati (una delle principali cause di instabilità finanziaria) che sono forme sofisticate di assicurazioni (o meglio di  scommesse) dove si guadagna anche sulle sciagure altrui.

Infine, la iper-copertura assicurativa produce un ulteriore effetto che ha a che fare con il cuore della vita sociale e relazionale. Qualche anno fa, un mio amico subì un incendio di una parte della casa. Iniziarono ad arrivare amici ad offrirgli un aiuto, ma non appena seppero che era assicurato, tornarono tranquilli a casa, perché ‘qualcun altro’ se ne sarebbe occupato. Peccato che il tempo speso con amici per rimettere in piedi un pezzo di casa è un investimento in un capitale relazionale che poi produce frutti in molti altri ambiti della vita, un capitale che l’ipertrofia assicurativa tende invece oggi a intaccare e ridurre. Così i nostri capitali sociali (e quelli finanziari!) diminuiscono, aumentano le solitudini, e così il mercato arriva ad offrire nuovi contratti per nuovi eventi incerti (ci assicureremo un giorno anche contro l’evento di non essere più stimati, amati, da familiari e colleghi?), precipitando in una trappola sociale i cui effetti sono molto più gravi per i più poveri, che subiscono come tutti il deterioramento dei patrimoni civili, ma che non hanno la disponibilità finanziaria per assicurarsi.

Che fare allora? Vedo due strade, una interna e una esterna al mondo assicurativo. Le assicurazioni, non dobbiamo dimenticarlo, sono nate come strumenti a garanzia soprattutto dei più fragili e dei più vulnerabili: all’origine è stato così. Oggi c’è bisogno di rilanciare una nuova stagione di assicurazione etica, sulla scia del Nobel M. Yunus, che sta inventando assicurazioni per i poveri, con premi di pochi dollari. Le società assicurative sarebbero per natura imprese civili, cioè non a scopo di lucro, proprio perché i contratti che vendono hanno a che fare con un bene primario, proteggersi contro la vulnerabilità cattiva devastante, e renderla più sostenibile; un bene che è un diritto fondamentale di ogni persona, e non si dovrebbe speculare sui diritti fondamentali dell’uomo. Ciò non è fantascienza (come verrebbe da dire oggi pensando a chi ha in mano le grandi imprese assicurative), ma democrazia e libertà.

La seconda strada è più culturale ed etica: dobbiamo reagire al sogno, pericoloso, di voler costruire una vita in comune ‘a rischio relazionale zero’, perché questo sogno si trasforma presto in incubo. La vita civile è fatta di contratti (compresi quelli assicurativi), ma vive anche e soprattutto di patti (famiglia, cittadinanza, ma anche nelle imprese), e il patto non può evitare una certa vulnerabilità, perché i patti sono faccende di fiducia, e la fiducia vera è sempre aperta al rischio e al tradimento, altrimenti non serve a niente, o a troppo poco. Ma la cultura dominante non capisce più il senso del rischio e dell’inevitabile dolore associato alla vita con gli altri (come ben sanno le famiglie), e insegue così il sogno ingenuo e mostruoso di un mondo a vulnerabilità zero, un’illusione che non fa altro che rendere la vita veramente vulnerabile di fronte alle grandi ferite della vita.

Solo accogliendo e facendo spazio alle piccole vulnerabilità della vita in comune, saremo (come accade nella medicina omeopatica) capaci di proteggerci dalle grandi vulnerabilità dell’esistenza; se, invece, rifiutiamo di accogliere le piccole e ‘buone’ vulnerabilità e ferite, siamo molto indifesi di fronte alle grandi vulnerabilità che quando arrivano devastano. I buoni contratti assicurativi sono sussidiari ai patti, i cattivi contratti li sostituiscono, li deteriorano e alla lunga li distruggono. Oggi usciremo da questa crisi con più patti, con meno cattivi contratti, e con più buoni contratti, anche assicurativi.

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Commenti - Il rifiuto totale della vulnerabilità, il dilagare dei contratti, la crisi dei patti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/06/2012

logo_avvenire La principale difficoltà per uscire dalla crisi non sta nelle scelte delle istituzioni, né nella politica né nell’Europa, ma nei nostri stili di vita, che negli ultimi anni hanno subito un cambiamento radicale. E per questo è molto difficile trovare una via d’uscita, perché, mentre con le parole ci lamentiamo, con i nostri comportamenti alimentiamo giorno dopo giorno quel modello di sviluppo contro cui ci lamentiamo, e che procura a tanti (non a tutti) molta sofferenza. E’ questo forse il principale paradosso di questa fase del capitalismo.

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«Assicurati» ma non al sicuro

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Commenti - Il rifiuto totale della vulnerabilità, il dilagare dei contratti, la crisi dei patti di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/06/2012 La principale difficoltà per uscire dalla crisi non sta nelle scelte delle istituzioni, né nella politica né nell’Europa, ma nei nostri stili di v...
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Commenti - Mercanti e monaci: la lezione del passato per la crisi di oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/06/2012

logo_avvenireAll'Europa manca un grande progetto, perché le manca uno spirito. Quando dopo la seconda guerra mondiale nacque la prima comunità europea, le tragedie e l'enorme dolore che avevano preceduto e accompagnato le due Guerre mondiali, crearono le pre condizioni ideali e spirituali per immaginare e poi provare a realizzare una comune terra di pace e di prosperità. Quel grande progetto europeo oggi si sta allontanando sempre più dal nostro orizzonte. E per capirne il perché dobbiamo compiere l'esercizio, oggi molto arduo, di liberarci dalle cronache quotidiane e dalla logica del breve termine, e tornare all'origine, per comprendere oggi la nostra natura, vocazione, e destino.

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L'Europa l'hanno fatta soprattutto mercanti e monaci, e l'hanno fatta assieme. I mercanti, le grandi fiere, gli scambi, i trattati commerciali non avrebbero creato durante il Medioevo nessuna idea di Europa senza l'azione congiunta, complementare e co  essenziale del monachesimo, e poi di Francesco e Domenico.

Il cristianesimo e i suoi carismi (che hanno anche ereditato rielaborandola parte della cultura classica ed ebraica) hanno offerto quel soffio vitale e quel respiro che ha generato e nutrito l'Europa, inclusa la sua economia di mercato, il suo sistema di Welfare (che è stato inventato dai carismi religiosi, non dallo Stato), le sue banche.

Nella modernità a questo spirito cristiano originario si sono aggiunte, anche come sua parziale gemmazione, altre tradizioni ideali, che hanno continuato a nutrire e sviluppare l'Europa e la sua civiltà. Quando nel dopoguerra siamo arrivati al nuovo progetto europeo, le sue radici erano molto profonde: quella cattolica, quella socialista e quella liberale, tradizioni che ritroviamo, in proporzioni diverse, anche nella visione economico sociale che sostiene la nostra Costituzione repubblicana, nata insieme al progetto europeo, e che insieme ad esso deve essere ancora letta.

Questo spirito uno e triplice dell'economia europea è stato capace di alimentarla e di vivicarla, di farle raggiungere risultati straordinari. L'Europa oggi è in crisi non solo per la mancanza di una comune politica fiscale e peri debiti pubblici, ma soprattutto perché sono venute meno queste tradizioni ideali che hanno alimentato nei secoli il suo spirito. Tradizioni che nel sottosuolo sono ancora vive, sebbene le vitalità siano di grado diverso, ma le falde hanno perso contatto con i canali e gli acquedotti, e non dissetano più la terra né i suoi abitanti. Il suo spirito originale è sempre più oco, né si vedono altri "spiriti" all'orizzonte capaci di svolgere la stessa funzione vitale e vivicante.

La gestione della crisi greca è un chiaro segno che lo spirito europeo è troppo debole. Ma, come ci ha insegnato cento anni fa MaxWeber e oggi ci dicono Luc Boltanski e Mauro Magatti, anche l'economia di mercato moderna e post  moderna ha un bisogno essenziale di uno spirito per poter vivere e crescere. Lo spirito, come ci ricorda la cultura biblica, è il soffio vitale, è cio che fa vivere e dice che si è ancora vivi. Ecco allora che quando una cultura perde il suo spirito, si interrompe il suo sviluppo civile ed economico. La carestia di spirito è oggi la prima forma di miseria che sta bloccando l'Europa, spegnando nei suoi cittadini il sogno e l'idea stessa d'Europa. Oggi all'Europa mancano soprattutto "nuovi monaci e "nuovi monasteri" ; manca l'orare per ricreare anche le precondizioni del laborare. E mancando monaci e spirito, il vuoto da loro lasciato nell'anima delle persone e dei popoli (che oggi non meno di ieri sono prima di tutto animali spirituali), lo riempiono i maghi, gli oroscopi, il gioco e le scommesse; cioè il nulla, che non è il nada di Giovanni della Croce, ma il nulla mortifero e del niente.

Eppure sono convinto che questi nuovi monaci e monasteri ci siano, ne conosco tanti, ma non siamo più capaci collettivamente e politicamente di vederli e di ascoltarli, cercandoli nei luoghi tradizionali (molti monasteri e conventi continuano oggi come ieri a vivicare il mondo e la vita civile) e nei tanti luoghi nuovi che, dal basso, generano e rigenerano ogni giorno anche la vita civile ed economica.

Non saremmo mai usciti dalla crisi epocale che seguì il crollo dell'impero romano senza il monachesimo, che trasformò quella grande ferita in benedizione. Oggi l'Europa non uscirà migliore da questa sua crisi epocale senza una nuova stagione spirituale, se non sarà capace di trovare, e di ritrovare, il suo spirito, che come ieri l'ha fondata oggi può rifondarla: «Questa volta, pero, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci stanno governando già da molto tempo. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto›› (A. Mclntyre).

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Commenti - Mercanti e monaci: la lezione del passato per la crisi di oggi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/06/2012

logo_avvenireAll'Europa manca un grande progetto, perché le manca uno spirito. Quando dopo la seconda guerra mondiale nacque la prima comunità europea, le tragedie e l'enorme dolore che avevano preceduto e accompagnato le due Guerre mondiali, crearono le pre condizioni ideali e spirituali per immaginare e poi provare a realizzare una comune terra di pace e di prosperità. Quel grande progetto europeo oggi si sta allontanando sempre più dal nostro orizzonte. E per capirne il perché dobbiamo compiere l'esercizio, oggi molto arduo, di liberarci dalle cronache quotidiane e dalla logica del breve termine, e tornare all'origine, per comprendere oggi la nostra natura, vocazione, e destino.

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All'Europa serve spirito

All'Europa serve spirito

Commenti - Mercanti e monaci: la lezione del passato per la crisi di oggi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 10/06/2012 All'Europa manca un grande progetto, perché le manca uno spirito. Quando dopo la seconda guerra mondiale nacque la prima comunità europea, le tragedie e l'enorme dolore ...
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Commenti - La lezione di Keynes oggi: nuova occupazione dalla società

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/06/2012

logo_avvenireAnche il Presidente Giorgio Napolitano ha richiamato il Paese all’obiettivo della piena occupazione. Un richiamo particolarmente opportuno e urgente, perché ci aiuta a riflettere, e poi, speriamo, ad agire di conseguenza, attorno a un nucleo fondamentale non solo della fase che stiamo vivendo ma dell’intero sistema economico e sociale. Chi ci ha insegnato l’importanza cruciale di puntare sulla piena occupazione per uscire dalle crisi sistemiche, è stato negli anni trenta del secolo scorso il grande economista inglese John Maynard Keynes.

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Quella crisi (del 1929) fu preceduta, accompagnata e seguita da grandi dibattiti tra i maggiori politici ed economisti del tempo, il cui comun denominatore era rappresentato dalla centralità che veniva da loro assegnata alla dimensione monetaria e finanziaria. Si voleva evitare, gestire e poi superare la crisi operando su variabili finanziarie; in particolare molto forte era la querelle sull’opportunità di mantenere o abolire l’oro come riferimento e ancoraggio delle monete nazionali (il cosiddetto "gold standard").

Si vedeva, dai fatti, che la crisi investiva monete, banche e finanza, e la si voleva risolvere agendo su quello stesso registro. Ma mentre i ministri dell’economia e gli esperti discutevano di come fissare le parità delle monete all’oro, se ristabilire o no le condizioni pre-belliche, l’economia reale affondava e l’Occidente sprofondava in una crisi che risultò devastante soprattutto per le imprese e per il lavoro. Questo perché gli economisti degli anni trenta pensavano che la crisi che si stava manifestando sul piano monetario e finanziario (grande e molto più grave di oggi era la crisi delle banche e del sistema finanziario) dovesse essere risolta agendo sullo stesso piano monetario e finanziario. Keynes, esperto di moneta ma anche di filosofia, fu letteralmente geniale quando mostrò a colleghi e a governi che la soluzione stava invece altrove.

L’economista e filosofo inglese applicò all’economia del suo tempo una regola di natura molto più generale: la soluzione di un problema che si manifesta in un determinato ambito non la si trova in genere restando all’interno di quello stesso ambito, ma cercandola al di fuori di esso, mettendosi prima, e agendo poi, su di un piano diverso, normalmente (ma non sempre) di ordine superiore.

Keynes, infatti, dimostrò teoricamente e argomentò pubblicamente che quando si è nel mezzo di una crisi di sistema, la vera crisi è nelle aspettative negative della gente, e quindi nella fiducia, nel non dare più credito e nel non credere più nel sistema e nelle sue istituzioni (banche e politica). Perché quando mancano la fiducia e la confidenza (confidence) gli interventi di natura monetaria e finanziaria sono generalmente inefficaci: «Puoi portare il cavallo alla fontana», diceva Keynes, «ma non puoi costringerlo a bere». La politica finanziaria porta solo "il cavallo alla fontana", ma può far poco o nulla per farlo "bere". Keynes nel 1936 dimostrò allora che il piano di livello superiore era l’intervento governativo, il lancio cioè di una grande stagione di spesa pubblica, che sola avrebbe fatto uscire il sistema economico dalla trappola di sfiducia e di pessimismo nella quale era caduto. Lanciare, dall’esterno, un processo di interventi verso la piena occupazione era allora la sola vera soluzione a quella crisi finanziaria.

Oggi stiamo commettendo gli stessi errori dei colleghi di Keynes: di fronte ad una crisi di sistema, diversa ma con molti tratti analoghi a quella del 1929, governi ed economisti discutono di euro, di politiche fiscali e monetarie, di "parità" e pesi dei singoli Paesi all’interno dell’euro, dimenticandosi, oggi come ieri, che senza rilanciare l’occupazione e con essa la fiducia il sistema non ripartirà. Ecco perché, tra parentesi, continuo ad essere convinto che sia stato sbagliato toccare ora l’articolo 18 (andava fatto dopo), perché è stato un segnale che ha ridotto la fiducia e l’ottimismo delle famiglie.

Occorre oggi una nuova politica europea che inizi seriamente a regolare la finanza e non continui a ricapitalizzare le banche, e che inizi a distinguere tra la spesa pubblica dovuta unicamente agli sprechi e la spesa pubblica, nazionale ed europea, che oggi potrebbe servire a rilanciare l’occupazione. Una nuova politica che non pensi più che la soluzione a questa crisi dipenda dagli spread, dai mercati finanziari e dalle banche. Il problema enorme che oggi un nuovo Keynes deve affrontare è come far ripartire da fuori l’economia con Stati così indebitati e una finanza così potente e anarchica. Ciò che è certo è che la spesa pubblica non può essere l’unico attore, poiché rispetto al 1929 il mondo è molto più decentrato e differenziato.

Occorre un’azione concertata dove la nuova occupazione rinasca dal civile, dalle famiglie, dalla gente, che possono e debbono fare di più, proporzionalmente alle loro possibilità e patrimoni. Ma, oggi come ieri, usciremo da questa crisi finanziaria e dei mercati guardando più in alto di finanza e mercati: uno sguardo diverso che, ieri come oggi, solo la politica alta può darci, in Italia e in Europa.

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Commenti - La lezione di Keynes oggi: nuova occupazione dalla società

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 17/06/2012

logo_avvenireAnche il Presidente Giorgio Napolitano ha richiamato il Paese all’obiettivo della piena occupazione. Un richiamo particolarmente opportuno e urgente, perché ci aiuta a riflettere, e poi, speriamo, ad agire di conseguenza, attorno a un nucleo fondamentale non solo della fase che stiamo vivendo ma dell’intero sistema economico e sociale. Chi ci ha insegnato l’importanza cruciale di puntare sulla piena occupazione per uscire dalle crisi sistemiche, è stato negli anni trenta del secolo scorso il grande economista inglese John Maynard Keynes.

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Il concerto che ci serve

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Commenti - La malattia del business e dell'azzardo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/05/2012

logo_avvenireL’ennesimo, e ogni volta più esteso e grave, scandalo del calcio scommesse è sintomo di una malattia molto seria del calcio e di gran parte dello sport professionistico. Una malattia che è così pervasiva e ormai così avanzata da non essere forse più curabile, a meno di un "miracolo". Gli arresti, le perquisizioni e gli avvisi di garanzia sono, infatti, la punta d’iceberg di una cultura calcistica totalmente in mano al business, e alla sua parte più speculativa. I principali segni della malattia sono due: la pay-tv che ha ormai occupato tutti i campionati professionistici, e le società di scommesse che sono diventate grandi sponsor delle squadre di vertice.

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Quando le televisioni for-profit prendono in mano il calcio, i guadagni per i diritti televisivi diventano i veri dittatori di società e della stessa Lega calcio: determinano calendari e ritmi e orari delle partite, che fuoriuscite dalla domenica pomeriggio non sono state spostate al sabato come si auspicava un tempo, ma stanno occupando tutti i giorni della settimana, scompaginando i palinsesti televisivi e gli stili di vita delle famiglie. In troppe case si pranza la domenica in compagnia della partita di mezzogiorno, e si cena assieme a quella serale: addio festa della relazioni! Ottima immagine del mercato capitalistico, a sua volta fuoriuscito dal proprio ambito occupando la vita dei popoli.

Ancor più grave, sebbene collegato a questa prima anomalia, è l’abbraccio mortale tra mondo delle scommesse e calcio professionistico. Un intreccio grave per molte ragioni. Innanzitutto, alimenta la cultura della scommessa, che sta prendendo piede in modo esponenziale soprattutto tra i soggetti più fragili, producendo tragedie di cui troppe famiglie sono testimoni e vittime, anche perché le stesse società sponsor delle squadre di calcio sono anche proprietarie delle concessioni di slot machine, del pocker online, e di molta altra roba. Questi circenses rubano il panem dei poveri, con la grave connivenza della politica e delle istituzioni, e di noi cittadini silenti e inermi. Inoltre, per questa via si rafforza l’illusione che ci siano scommesse buone (quelle legali delle grandi società) e scommesse cattive, dimenticando quanto ci dicono i dati, e cioè che si passa molto rapidamente dalle scommesse lecite a quelle illecite, e che il mercato delle scommesse "buone" e quello delle scommesse "cattive" hanno ampie aree di sovrapposizione. Per questo è ridicolo, se non fosse eticamente molto grave, ascoltare le patetiche raccomandazioni sul non giocare troppo a conclusione delle omnipresenti pubblicità di scommesse: viene da chiedersi se tra poco non leggeremo anche nei pacchetti di sigarette "fuma senza esagerare" o "fuma il giusto". Nelle scommesse ci sono gli stessi fenomeni di dipendenza e assuefazione presenti nel fumo e nelle droghe, lo andiamo ripetendo su queste colonne, flatus vocis, da troppo tempo, e continueremo a farlo.

È questa stessa cultura che porta i dirigenti delle società di calcio e delle istituzioni calcistiche a stracciarsi ogni volta le vesti di fronte allo scandalo di turno. Ma tutti restano sempre al loro posto. Nessuno si dimette e nessuno ha la forza e, forse, la voglia, di cambiare un sistema calcistico dove non si cerca più lo sponsor per giocare, ma si gioca per far guadagnare gli sponsor e far andare a mille il business che ruota attorno.

Il mercato for-profit non deve entrare in tutti i luoghi dell’umano. Ci sono ambiti che sono eminentemente civili, dove cioè l’aspetto economico è funzionale all’attività non economica che si svolge – istruzione, arte, cultura, sanità, sport – e non viceversa; perché quando l’ordine mezzo-fine si inverte, si finisce per riempire questi mondi non con persone appassionate e con un po’ di vocazione, ma con cercatori di profitti che trattano le squadre di calcio e lo sport con la stessa logica con la quale trattano i fondi speculativi e le slot machine. Quel qualcosa di civile, e di innocuo, che ci può anche essere nelle scommesse (che hanno sempre accompagnato lo sport), quando viene catturato da agenti speculativi senza scrupoli produce soltanto cattivi frutti, individuali e sociali.

La storia ci racconta che il movimento del mercato non è unidirezionale: non ha solo e sempre occupato nuovi territori, ne ha anche abbandonato alcuni, retrocedendo. Tra medioevo e modernità due tra i principali mercati erano quello delle reliquie dei santi e quello degli schiavi. Oggi i popoli e i Paesi democratici hanno allontanato i mercanti da quei "luoghi" (sebbene sia necessario vigilare perché non ci tornino, sotto altre spoglie). E questo significa che cambiare si può. Se oggi vogliamo salvare il calcio dalla sua terribile malattia, dobbiamo far retrocedere il business speculativo, di cui le scommesse sono un’espressione. Ma occorre un autentico "miracolo", che si chiama volontà e forza della politica, delle istituzioni sportive e, non per ultimi, di noi cittadini, che possiamo e dobbiamo fare di più per pretendere uno sport vero e pulito.

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Commenti - La malattia del business e dell'azzardo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/05/2012

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Al calcio serve un miracolo

Al calcio serve un miracolo

Commenti - La malattia del business e dell'azzardo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 30/05/2012 L’ennesimo, e ogni volta più esteso e grave, scandalo del calcio scommesse è sintomo di una malattia molto seria del calcio e di gran parte dello sport professionistico. Una malattia che è cos...
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Una riflessione di Luigino Bruni sul terremoto, sul lavoro e la festa: argomenti che si legano alla famiglia nella sua prolusione alla VII Giornata mondiale delle famiglie che comincia oggi a Milano

Commenti - Quelle quattro morti, la nostra vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/05/2012

logo_avvenireQuattro dei morti nel terremoto emiliano stavano lavorando. Lavoravano alle quattro del mattino, lavoravano di domenica. C’è qualcosa di diverso quando si muore nei luoghi di lavoro. In questi tempi di crisi e di sofferenza del lavoro, queste morti di operai ci dicono molte cose, ci lanciano più messaggi.

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Innanzitutto, ci dicono con la forza delle tragedie che in questa nostra età, tutta incentrata su consumi e finanza, le fabbriche esistono ancora, ed esistono ancora persino i turnisti, lavoratori di turni che questa crisi ha inasprito e reso ancora più duri; turni di cittadini e di imprese che, con la fatica del lavoro, tengono ancora a galla il nostro Paese, e che offrono ragioni serie per sperare di potercela fare. Quei lavoratori sono morti alle quattro, di una domenica mattina. Morire lavorando di domenica, e di notte, invece di profanare o compromettere il valore e il significato della domenica e della festa, paradossalmente lo innalza e lo nobilita.

Avremmo avuto parole e sentimenti diversi, sempre tragici ma diversi, se questi lavoratori, italiani e stranieri, fossero morti sommersi dalle macerie divertendosi in una discoteca o facendo shopping negli ipermercati aperti 24 ore al giorno. Qualcuno avrebbe aggiunto alcuni "se" e alcuni "ma" a quelle ipotetiche morti; ma morire lavorando di domenica e di notte ha solo aumentato il dolore, e il valore, di quelle vite, di quelle morti, di quella notte, e anche di quella domenica.

Nella nostra società non sono la fatica e il lavoro umano i nemici della festa e della domenica, non lo sono mai stati. I loro veri avversari sono stili di vita fondati sempre più sul consumo e sulla ricerca dei profitti e delle rendite, che poi asserviscono anche lavoratori ai quali viene rubata sia la domenica, sia la festa. Chi vive e ama il lavoro, vive e ama anche la festa e i tempi della festa. La stessa parola festa proviene infatti da fesia, che è la radice anche di feria, cioè i giorni lavorativi. E una società che nega e rende troppo fragile il lavoro, finisce per negare anche la festa e la domenica. Non dimentichiamoci che la prima ladra della domenica, e della festa, è la disoccupazione, non il lavoro, poiché quando si è disoccupati o sotto-occupati non ci viene tolto solo il lavoro, ma anche la festa: la festa senza lavoro non è mai vera e piena festa. E viceversa.

Se chi lavora non conosce la festa non lavora più, ma fa l’esperienza dello schiavo, anche quando è superpagato. Invece è ormai sempre più normale che le grandi imprese capitalistiche assumano giovani, con ottimi stipendi, auto di lusso e prospettive di rapida carriera, ma ad un prezzo (invisibile eppure realissimo) troppo alto, quello di rinunciare ai tempi della festa, e alla lunga della vita. Se saltano i tempi della festa, e quindi quelli della famiglia e della vita, magari lasciando qualche spazio solo alla distrazione e al divertimento, in questi lavoratori si essiccano progressivamente i pozzi dai quali attingono anche le energie lavorative, per ritrovarsi, così, dopo pochi anni spremuti ed esausti come persone, e come lavoratori.

La vita individuale e collettiva funziona solo quando la festa e il lavoro sono alleati tra di loro, quando i tempi dell’uno scandiscono e preparano i tempi dell’altra, anche negli stessi luoghi – lo sapeva molto bene la cultura contadina e artigiana. C’è invece troppa poca festa oggi nella società e nei luoghi di lavoro, che senza la sua forza simbolica non sanno creare quel vero senso di appartenenza a un destino comune e quei legami che tengono assieme ogni comunità umana. E occorre far festa soprattutto quando si soffre, e i tempi sono duri. Ecco perché dobbiamo reimparare tutti a fare festa nella società e nell’economia tardo-moderne, anche dentro i luoghi del lavoro. Dove se non si è capaci di "sprecare" ogni tanto un po’ di tempo per la festa, è tutto il tempo lavorativo che si impoverisce e si spreca davvero. Chi lavora sa, per un esempio, che smettere di festeggiare nascite e matrimoni dei colleghi è un segnale forte e nitido che quella comunità lavorativa si sta intristendo.

Se in questa età di crisi vogliamo vincere il cinismo e il pessimismo, che sono le vere malattie di ogni crisi, dobbiamo riscoprire, anche politicamente, la grande forza simbolica e di legame della vera festa, anche nei luoghi del lavoro, nelle scuole, negli uffici, negli altiforni, nei reparti e con i panni impolverati: «Il lavoro non insudicia. Non dir mai d’un operaio che vien dal lavoro: "è sporco". Devi dire: ’ha su i panni i segni, le tracce del suo lavoro’. Ricordatene». (Edmondo De Amicis, Cuore).

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Una riflessione di Luigino Bruni sul terremoto, sul lavoro e la festa: argomenti che si legano alla famiglia nella sua prolusione alla VII Giornata mondiale delle famiglie che comincia oggi a Milano

Commenti - Quelle quattro morti, la nostra vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/05/2012

logo_avvenireQuattro dei morti nel terremoto emiliano stavano lavorando. Lavoravano alle quattro del mattino, lavoravano di domenica. C’è qualcosa di diverso quando si muore nei luoghi di lavoro. In questi tempi di crisi e di sofferenza del lavoro, queste morti di operai ci dicono molte cose, ci lanciano più messaggi.

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I panni del lavoro

I panni del lavoro

Una riflessione di Luigino Bruni sul terremoto, sul lavoro e la festa: argomenti che si legano alla famiglia nella sua prolusione alla VII Giornata mondiale delle famiglie che comincia oggi a Milano Commenti - Quelle quattro morti, la nostra vita di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/05/2...
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Commenti - Più democrazia, meno finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2012

logo_avvenireDa questa crisi usciremo solo con più democrazia e meno finanza. Ce lo ha ricordato nei giorni scorsi Amartya Sen, l’economista-filosofo forse più influente in questa fase della vita del mondo, in diverse conferenze che ha tenuto in Italia. Il suo discorso è stato a tratti duro nei nostri confronti (Italia, Grecia, Spagna) poiché, ha sottolineato con forza, «voi avete inventato la democrazia e ora state abdicando a essa sotto la dittatura di finanza, mercati e spread».

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Citando John Stuart Mill, Sen ha ricordato che la democrazia è essenzialmente e prima di tutto: government by discussion (governare attraverso la discussione) e quindi non è soltanto il governo delle maggioranze, né delle quote di Pil (come accade nelle società di capitali dove non contano le persone o le parole, ma le quote di capitale), né tanto meno il governo dei mercati finanziari. Parole sante, se pensiamo a quanta poca democrazia nella gestione di questa crisi c’è oggi in Europa e nel mondo.

Siamo in pieno G8, un evento che può avere la sua importanza in questo momento cruciale del capitalismo, anche per gli Usa che, sebbene abbiano una situazione economica privata e pubblica sostanzialmente diversa dalla nostra, non possono, né devono dimenticare, che la crisi finanziaria globale ha avuto il suo baricentro negli States in uno stile di vita fondato sul debito al consumo e in una finanza speculativa ipertrofica. Per questo Obama e gli americani non possono né devono esimersi dalla loro corresponsabilità, nella genesi della crisi e quindi nella sua gestione e nel superamento.

Da questa riunione dei Grandi dovrebbe uscire finalmente una proposta di riforma dell’architettonica della finanza: finché le sorti dell’economia mondiale saranno in mano ai centri di potere finanziari cercatori di profitto di breve periodo, sia direttamente che attraverso le tante grandi imprese che ormai controllano indisturbati, non si realizzeranno le pre-condizioni per un vero rilancio dell’economia e dell’occupazione. Ed è qui che si comprende l’importanza della democrazia. La democrazia politica e civile oggi dipende anche e soprattutto da una maggiore democrazia economica: la ricchezza è sempre più concentrata in mano di pochi, sempre più lontani dai luoghi del lavoro e della vita, i quali però determinano con i loro umori e i loro interessi le sorti di famiglie, comunità e Stati.

Va ricordato ogni tanto che i famosi "indici di borsa" che stanno dominando da anni le nostre cronache, occupando spazi che andrebbero dedicati a temi non meno urgenti come la crisi ambientale e morale del nostro tempo, rappresentano la preoccupazione di una quota molto esigua della popolazione. Le società quotate in Borsa non sono che pochi punti percentuali rispetto al numero totale delle società (Italia 0,01, Germania 0,06), i cui proprietari sono a loro volta una percentuale irrisoria della popolazione di quei Paesi. Ciò non significa ovviamente che questi indici non dicano qualcosa di importante, ma non parlano di democrazia e quindi non devono dire troppo, come invece stanno dicendo di questi tempi, quando i mercati finanziari con i loro alti e bassi condizionano elezioni politiche, gradimenti dei governi, destino di popoli. C’è urgente bisogno di una decrescita della finanza e dei suoi indici, e della crescita della democrazia e dei suoi indicatori (uno su tutti: la quantità e la qualità dell’occupazione in un Paese), indici che non transiteranno mai nei mercati finanziari.

Si comprende, allora, che non possiamo lasciare alla finanza, alle banche e ai soli "addetti ai lavori" tecnici la sorte dei popoli. La Grecia e la Spagna, che in questo momento stanno vivendo giorni drammatici, si trovano in queste condizioni non solo per un evidente malgoverno politico e per loro proprie responsabilità: sono state anche vittime di una bufera finanziaria ed economica mondiale che le ha travolte e della quale certamente non avevano e non hanno specifica responsabilità. Per di più, il modo con cui l’Europa e le istituzioni internazionali hanno gestito la crisi greca è stato oltre che scandaloso sul piano etico, anche sciocco e irresponsabile sul piano economico, civile e sociale. Il Pil della Grecia corrisponde al 2 per cento del Pil europeo: se si fosse intervenuti subito con decisione e con vera solidarietà, quella crisi sarebbe stata riassorbita con pochi sacrifici. Se oggi la Grecia fosse costretta a uscire dall’euro, i danni più gravi li avrebbe l’Europa, non la Grecia. A salvare la Grecia ma anche la Spagna non saranno i mercati, ma solo la politica e quindi la democrazia. I mercati sanno risolvere e gestire cose semplici, ma quando si ha a che fare con il destino dei popoli e la sorte di istituzioni politiche frutto di sangue, ideali e sacrifici, come nel caso dell’Europa unita, solo la politica può trovare e offrire soluzioni sostenibili, e deve impegnarsi a farlo.

Più democrazia allora, più discussioni allora, più ascolto di chi parla e anche di chi, in questo momento, grida: un ascolto che non arriverà mai dai mercati finanziari, che non hanno queste orecchie, ma che se non arriva neanche dalla politica, i popoli che vogliono “vivere prima di economizzare” saranno costretti a ribellarsi, magari a uscire dall’Euro, con gravi conseguenze per i singoli Stati, per l’Europa e per l’ordine economico mondiale.

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Commenti - Più democrazia, meno finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2012

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La risposta è politica

La risposta è politica

Commenti - Più democrazia, meno finanza di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/05/2012 Da questa crisi usciremo solo con più democrazia e meno finanza. Ce lo ha ricordato nei giorni scorsi Amartya Sen, l’economista-filosofo forse più influente in questa fase della vita del mondo, in divers...
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Commenti - Una grammatica da riscoprire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/05/2012

logo_avvenireC’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei con­fronti del fisco e della politica: una crescen­te intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le proprie scel­te, anche quelle più tipicamente economi­che, non seguono un freddo calcolo mone­tario costi-benefici, ma mettono in campo molte altre risorse emotive, simboliche, eti­che, che ci portano ad esempio a 'punire' i comportamenti che leggiamo come ingiu­sti.

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Tutto ciò è molto evidente in tema fisca­le. Anche se tutta la comunicazione politica (compresi gli spot) cerca di convincerci che lo scopo del pagamento delle tasse è essen­zialmente la produzione di beni pubblici (sa­nità, infrastrutture, sicurezza...) e di beni me­ritori (scuola, cultura, arte...) di cui poi tutti usufruiamo, in realtà la raccolta fiscale è so­lo in parte usata per la realizzazione di que­sti beni pubblici e meritori che poi 'ci ripa­gano' o dovrebbero ripagarci.

Per cogliere, allora, correttamente e sostanzialmente la natura delle tasse occorre scomodare assie­me a quelle del contratto anche la categoria e la grammatica del 'dono', una parola og­gi purtroppo totalmente assente dal dibatti­to pubblico, assente anche perché l’abbia­mo trattata troppo male in questi ultimi de­cenni.

Il dono è qui importante per diverse ragioni, e non solo perché una quota della raccolta fi­scale viene destinata, ed effettivamente usa­ta, a scopi redistributivi (prendere da chi più ha per dare a chi ha meno). Basti pensare al fatto, scritto nelle prime pagine di tutti i (buo­ni) manuali di Scienza della finanze, che l’a­liquota media delle imposte è sempre più al­ta di quella equa, poiché c’è sempre una quo­ta di cittadini che evade o elude le tasse, e u­na parte della pubblica amministrazione che spreca risorse – anche se va ricordato che la decenza di una società si misura da quanto esigua è questa quota di evasione e di spre­co, e da quanto è sostenibile l’extra-tassa che per colpa loro pagano gli altri. Ma proprio a causa di questa sua natura che è anche di do­no, il rapporto tra il cittadino, gli altri concit­tadini e le istituzioni è molto complesso.

Chi pratica e conosce i doni, cioè tutti noi, sa che il dono vero è un intreccio inestricabile di disinteresse e interesse. Quando una per­sona dona qualcosa esce dalla logica delle e­quivalenze e delle garanzie, è disinteressato; al tempo stesso, chi dona si attende un atto di reciprocità verso sé o verso altri, sebbene non lo pretenda, fosse anche solo un grazie: è quindi interessato a un rapporto, perché non è indifferente al che cosa produce il suo dono. E se e quando questo rapporto di re­ciprocità non c’è, il circuito del dono si in­terrompe. Il vero dono si compie sempre al­l’interno di una forma di patto, e quindi di re­ciprocità.

Quando, allora, per tornare al fisco, chi vuo­le genuinamente pagare le proprie tasse ha l’impressione, o la certezza, che molti suoi concittadini non le paghino (anche perché si parla tanto, troppo, di evasione), o che lo Sta­to non faccia la sua parte nel patto, o è ten­tato di non pagarle più (evasione), o fa di tut­to per pagarne il meno possibile (elusione), o, nei casi peggiori, ha reazioni di sdegno che possono diventare anche forti, proprio per­ché essendo l’evasione anche una faccenda di dono e di reciprocità traditi, ci si compor­ta in una maniera molto simile a chi si sente ingannato da un amico importante – è em­blematico che una volta, e forse ancora og­gi, quando due fidanzati di lasciavano si re­stituivano i doni. Oggi gli italiani onesti, cioè la maggioranza, avvertono con forza questa assenza di reciprocità da parte del settore pubblico (nazionale, ma anche europeo). Ed è un fatto che va preso molto più sul serio di quanto non si stia facendo finora.

È serio e grave continuare ad assistere iner­mi allo spettacolo di parlamentari che an­nunciano tagli di stipendi, di privilegi e di seggi che non arrivano mai, o che – quando arrivano – sono talmente irrisori da diventa­re offensivi. Così come è umiliante e frustante continuare ad aumentare le imposte indi­rette alle famiglie o le imposte sulla prima casa, e nemmeno iniziare un dibattito sulle tasse ai grandi patrimoni e alla finanza.

Così come è stato infelice, anche se forse motivato da buone intenzioni, il dibattito interno all’Agenzia delle Entrate (e diventato subito di pubblico dominio) sull’opportunità di introdurre incentivi per chi denuncia i propri concittadini. Le forme di correzione civile che rafforzano il patto sociale sono sempre costose e rischiose per chi le pratica, poiché quel costo esprime la volontà di ripristinare un rapporto di amicizia civile che si è incrinato. Quando, invece, le denunce non costano nulla e anzi rendono qualche quattrino, non servono ad altro che a incattivire e avvelenare i rapporti di cittadinanza; poiché non si premiano le virtù, come sarebbe necessario e urgente fare, ma si incentiva chi denuncia i vizi. Due operazione che sono, civilmente, l’una l’inverso dell’altra.

Per questo bisognerebbe accogliere con grande simpatia l’idea di alcuni Comuni di occuparsi direttamente della riscossione delle imposte, in modo da rendere più sussidiario e comunitario anche questo momento della vita civile, nel quale il 'come' conta almeno quanto il 'che cosa'.

Non ritroveremo, infatti, un nuovo rapporto con il fisco e, in generale, con il pubblico attivando soltanto i registri delle sanzioni e degli incentivi, ma rimettendo il dono nel posto che gli è proprio, cioè al centro del patto sociale e della sfera pubblica, e liberandolo dai luoghi privati troppo angusti nei quali lo abbiamo confinato, poiché è sempre il dono che fonda e rifonda le comunità. La communitas: quel dono (munus) reciproco (cum) che è alla radice anche della scelta civile fondamentale di pagare le tasse.

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Commenti - Una grammatica da riscoprire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/05/2012

logo_avvenireC’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei con­fronti del fisco e della politica: una crescen­te intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le proprie scel­te, anche quelle più tipicamente economi­che, non seguono un freddo calcolo mone­tario costi-benefici, ma mettono in campo molte altre risorse emotive, simboliche, eti­che, che ci portano ad esempio a 'punire' i comportamenti che leggiamo come ingiu­sti.

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Ma le tasse sono pure dono

Ma le tasse sono pure dono

Commenti - Una grammatica da riscoprire di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 13/05/2012 C’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei con­fronti del fisco e della politica: una crescen­te intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le pr...
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Commenti - I numeri e la verità del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2012

logo_avvenireI dati, i numeri, non sono tutti uguali. Alcuni parlano più forte di altri, e dicono cose trop­po serie per dimenticarli non appena la crona­ca ci mostra altri numeri e altri dati. Un tasso di disoccupazione che è quasi raddoppiato in cin­que anni non deve lasciarci in pace. Sotto quel 9.8% ci sono infatti nascosti, ma poi non così tanto, 500mila volti e storie di persone che in un solo anno hanno perso il lavoro, senza ritrovar­ne un altro. Certo, tra questi lavori persi ce ne sa­ranno alcuni finiti perché iniziati male, artifi­cialmente, senza creatività né intelligenza nelle imprese e nei lavoratori. Ma questi saranno un’e­sigua minoranza: tutti gli altri hanno perso sem­plicemente il loro lavoro.

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Il posto di lavoro è un luogo dell’umano dove si soffre e si gioisce non solo per ottenere il salario, ma per dare senso al nostro vivere per anni in quel luogo e all’interno di quei rapporti. Quan­do quel posto di lavoro si perde, e non lo si vole­va perdere, finiscono perse anche persone, sto­ria, rapporti. Non dobbiamo infatti dimenticare che il lavoro, il lavorare e il posto di lavoro non sono mai faccende individuali e individualisti­che. I mestieri non s’imparano studiando libri o, tanto meno, seguendo corsi online, ma solo pra­ticandoli all’interno di comunità lavorative che sono anche queste comunità educanti. Si lavo­ra all’interno di gruppi, uffici, reparti, diparti­menti; e imparare un mestiere significa, anche e soprattutto, apprendere l’arte di costruire rela­zioni significative e serie in quei luoghi, poiché lavorare è soprattutto inserirsi in una rete socia­le.

Ecco perché la produzione e il valore aggiun­to generati da un’impresa o da una organizza­zione non sono mai la somma del prodotto di tanti individui in tanti singoli posti di lavoro, ma il frutto della coralità produttiva di un team, di un gruppo, di una comunità, che va ben oltre l’a­zienda includendo clienti, fornitori, concorren­ti e territorio. Per questo, quando un lavoratore lascia un luo­go di lavoro, si producono due grandi effetti. In­nanzitutto il singolo lavoratore non perde solo il posto di lavoro ma, in un linguaggio un po’ ari­do, perde un investimento in un capitale speci­fico a quel luogo di lavoro, che il lavoratore u­scendo porta con sé solo in minima parte. Il va­lore di un lavoratore in un’impresa – il suo co­siddetto 'capitale umano' – non dipende solo da quanto e cosa ha studiato, dal suo curriculum vitae. Dipende anche, e sempre più con il pas­sare degli anni, dall’insieme di relazioni di cui si compone il suo lavorare, un capitale che non è però di sua proprietà, perché lo possiede solo quando si attivano quelle determinate relazioni, quei beni relazionali.

Ecco perché – il secondo effettoquando un la­voratore lascia il suo posto di lavoro, è tutta la coralità produttiva di quel luogo che si impove­risce, e ci vuole tempo per ricreare il coro, so­prattutto in quelle comunità di lavoro dove la co­noscenza più importante è quella tacita conte­nuta nella testa e nell’anima delle persone, del­la quale non si possono mai dare fino in fondo 'le consegne' quando si parte.

Certo, a volte è bene che i gruppi si scompagino, si rinnovino, e che i lavoratori si ri-assemblino in nuove combinazioni produttive e in nuove comunità lavorative creative; ma quando lo scompaginamento dipende dalla crisi economica, chi esce dal gioco rischia di non rientrarci più, o di rientrarci tardi e a condizioni troppo sfavorevoli. Quando esco da un lavoro dove avevo investito quindici anni di vita e di intelligenza, e rientro con fatica grazie a una agenzia interinale a fare un lavoro stagionale, quei due posti di lavoro sono cose molto diverse, da troppi punti di vista.

Lavorare non è mai solo occupare un generico posto di lavoro, ma un esercizio morale fondamentale per capire il nostro posto e il nostro compito nel mondo. Quando allora in un Paese cinquecentomila persone perdono il lavoro accade qualcosa di molto grave, di molto più grave del calo degli indici di borsa, del calo dei consumi e persino dello spread e del Pil.

Una cultura che mette sullo stesso piano i numeri degli spread, quelli dei consumi e quelli del lavoro è una cultura disorientata e disorientante, perché non capendo la priorità del lavoro non capisce più neanche quelle esperienze umane importanti che sono il consumo e la finanza, ma che se perdono contatto con il mondo del lavoro, con i lavoratori, con la fatica o con il travaglio (una bella parola che evoca la generatività del lavoro), diventano subito consumismo edonista e finanza puramente speculativa. Perché è il lavoro che dà la giusta misura al rapporto con i beni e con il denaro.Quel 9.8% disoccupazione ci grida, insomma, che oggi la grande priorità dell’Italia e dell’Europa è il lavoro, ci obbliga a renderci conto che ormai ci sono milioni di giovani che nel mondo del lavoro non entreranno proprio. A meno che qualcuno - che non può più essere solo lo Stato o la grande impresa - il lavoro, questo benedetto lavoro, non lo crei e in un certo senso non lo reinventi.

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Commenti - I numeri e la verità del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2012

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Altro che spread

Altro che spread

Commenti - I numeri e la verità del lavoro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 06/05/2012 I dati, i numeri, non sono tutti uguali. Alcuni parlano più forte di altri, e dicono cose trop­po serie per dimenticarli non appena la crona­ca ci mostra altri numeri e altri dati. Un tasso di disoccu...
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Commenti - Oltre il Pil, con i capitali civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/04/2012

logo_avvenireAnche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la crescita», anche Angela Merkel si sta convincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, meno male, anche a tanti tra coloro che contano – che basarsi unicamente sul «patto fiscale» non solo è troppo poco, ma rischia di peggiorare ulteriormente la situazione economica e sociale dei Paesi europei più fragili. Crescita, dunque; ma crescita di che cosa? Senza abbracciare le tesi radicali, e a volte ingenue (soprattutto nelle terapie che propone) della cosiddetta decrescita, occorre essere coscienti che la domanda più importante sulla crescita è proprio il «che cosa?». Quando si pensa alla crescita, normalmente si pensa alla crescita del Pil.

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E si sbaglia, perché, anche se non lo si dice mai, questa crisi è stata generata pure da una crescita sbagliata del Pil. In questi ultimi decenni, infatti, il Pil è cresciu­to troppo e male, poiché è cresciuto – e cresce – a spese dell’ambiente natu­rale, sociale, relazionale, spirituale, a­limentando l’ipertrofia della finanza speculativa. In Italia e nell’Europa in crisi, il Pil è poi cresciuto anche grazie a un abnorme aumento del debito pubblico – è troppo comodo e irre­sponsabile far aumentare il Pil au­mentando la spesa della pubblica am­ministrazione.

Oggi non abbiamo alcuna garanzia che rilanciare il Pil significhi anche aumentare i posti di lavoro e il be­nessere delle persone, poiché se la crescita continuasse a essere guidata e drogata dalla speculazione finan­ziaria, e quindi dalle rendite, la vita degli italiani continuerebbe certa­mente a peggiorare anche con qualche punto in più di Pil. Come lo co­nosciamo oggi, il Pil non è né un in­dicatore di benessere umano in ge­nerale (e questo lo si sa), ma neanche un buon indicatore di benessere economico nell’era della finanza (e questo lo si sa meno). Se vogliamo misurare bene la buona crescita, occorre riformare il Pil e soprattutto affiancargli altri indicatori, che però – e qui sta il punto – siano indicatori di stock e non di flussi (com’è il Pil).

In quale senso? Il concetto di «Prodotto interno lordo» nasce nel Settecento in Francia (con i Fisiocratici), con l’intuizione geniale e rivoluzionaria che la forza economica di un Paese non la misurano i capitali o gli stock ma il red­dito annuale (un flusso quindi), poi­ché un Paese non è ricco perché ha miniere, petrolio e foreste, ma solo se è capace di mettere questi capitali «a reddito», il che dipende da molti fattori (persone, tecnologia, cultura...). E da lì siamo arrivati fino al Novecento e alla nascita del Pil, continuando a pensare che per la ricchezza delle nazioni contino i flussi e non gli stock. Quella bella antica idea, però, oggi rischia di essere fuorviante.

Anche volendo lasciare un suo valore a un indicatore di flussi (un nuovo Pil), è più urgente che gli stock e i capitali ritornino a occupare il cuore della sce­na economica sociale e politica. Il te­ma ambientale, ma anche quelli rela­zionale e sociale – drammaticamente centrali – sono forme di stock e non di flussi, capitali accumulati durante millenni (o milioni di anni, nel caso del­l’ambiente), che oggi la corsa per aumentare i flussi di reddito sta danneggiando e deteriorando.

Se vogliamo e dobbiamo rilanciare la crescita, dobbiamo allora concentrar­ci sulla crescita e sulla manutenzione di queste forme di capitali: se esse non venissero rafforzate, mantenute e in molti casi ricreate, i flussi economici non ripartirebbero; o, se anche ripartissero perché drogati dalla finanza o dai fondi europei, continuerebbero ad alimentare le crisi del nostro tempo.

Basterebbe soltanto pensare all’impoverimento di quegli antichi capitali civili che si chiamano relazioni di vicinato e di prossimità e di quella "coralità produttiva" dei territori che hanno generato fino a tempi recenti le tante esperienze di cooperazione e i distretti industriali del Made in Italy. Il deterioramento di questi capitali sta determinando una progressiva sterilità del nostro tessuto civile, che non è capace di generare alcun flusso, né culturale, né spirituale, né economico.

Per poter ricostruire, e presto, questi indispensabili capitali, occorre prima saperli vedere, e poi magari misurare, dando vita a nuovi misuratori di stock o, meglio, di patrimoni, parola più suggestiva perché, se intesa come patrum-munus, cioè il dono dei padri, ci ricorda simbolicamente che questi patrimoni li abbiamo ricevuti in dono dalle generazioni passate, e quindi li dobbiamo custodire e sviluppare, se non vogliamo essere ricordati come la prima generazione ingrata della storia, quella che ha interrotto la grande catena di solidarietà intertemporale.

E questo non possiamo permettercelo anche per rilanciare, oggi, la buona crescita economica.

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Commenti - Oltre il Pil, con i capitali civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/04/2012

logo_avvenireAnche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la crescita», anche Angela Merkel si sta convincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, meno male, anche a tanti tra coloro che contano – che basarsi unicamente sul «patto fiscale» non solo è troppo poco, ma rischia di peggiorare ulteriormente la situazione economica e sociale dei Paesi europei più fragili. Crescita, dunque; ma crescita di che cosa? Senza abbracciare le tesi radicali, e a volte ingenue (soprattutto nelle terapie che propone) della cosiddetta decrescita, occorre essere coscienti che la domanda più importante sulla crescita è proprio il «che cosa?». Quando si pensa alla crescita, normalmente si pensa alla crescita del Pil.

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Cambiare per crescere

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Commenti - Oltre il Pil, con i capitali civili di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 29/04/2012 Anche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la crescita», anche Angela Merkel si sta convincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, meno male, anche ...
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Commenti - La chance del terziario sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2012

logo_avvenireDa più parti giungono ricette per rilanciare la crescita, di fronte all’evidente insufficienza di quelle proposte dal Governo, che sta svolgendo con diligenza il compito assegnatogli, quello cioè di spegnere l’incendio dei mercati finanziari divampato nella seconda metà dell’anno scorso. Le competenze e le abilità necessarie a spegnere gli incendi, però, non sono quelle necessarie a ricostruire la casa una volta domate le fiamme, poiché se i pompieri si dedicano anche a questo compito avremmo una nuova casa piena di sistemi anti-incendio e di scale di fuga, ma probabilmente non una bella casa nella quale vivere e far crescere i figli. Se vogliamo ricostruire e rendere vivibile la casa comune dobbiamo far ripartire presto la politica.

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Occorre, cioè, scoprire o riscoprire una idea di Italia, del suo genio e della sua vocazione civile ed economica, e poi da lì, e solo da lì, ripartire. Le ricette offerte sono invece normalmente idee per vestiti pensati senza aver prima osservato bene e prese le misure della persona che dovrebbe poi indossarli.

Si prenda, per fare un esempio recente, la proposta lanciata da Maurizio Ferrera sul Corriere del 16 Aprile che individua nel "terziario sociale" un possibile settore dove investire per la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e così rilanciare la crescita. Nel formularla si nota, giustamente, che in Italia resiste ancora (fino a quando?) una ricchezza privata delle famiglie che potrebbe essere indirizzata verso una nuova domanda di servizi di cura, oggi non più soddisfatta dalla famiglia né dallo Stato sociale. Il punto cruciale di questa (e di altre, simili proposte) è però il "perché", il "come" e quindi il "chi" dovrebbe soddisfare questa domanda potenziale. Diversamente da quanto sostiene Ferrera, non è infatti per nulla indifferente se a rispondere a questa nuova domanda sarà il mercato capitalistico "for profit" oppure sarà il mercato civile e di comunità. Quando, infatti, si entra con i linguaggi e con gli strumenti puramente mercantili in territori umani decisivi quali la cura di bambini e degli anziani, la malattia e la sofferenza, il "come" si opera, le motivazioni che muovono quelle imprese e quelle persone a operare (il "perché"), sono molto importanti e, in certi, casi sono l’essenziale.

Negli ultimi anni la società italiana ha soddisfatto in due modi questa nuova domanda di cura: con le badanti e con la cooperazione sociale. L’arrivo di oltre di un milione di badanti straniere è stato un fenomeno di portata epocale, che rivela anche come nelle pieghe della nostra società si sia creato un mare sotterraneo di solitudine e di dolore. Prima ancora, però, l’Italia aveva generato un suo modello originale di "terziario sociale", la cosiddetta cooperazione sociale, come risposta a questa "nuova" domanda, con dei "come", "perché" e "chi" diversi da quelli che operano in altri Paesi del mondo, in culture più individualistiche e meno comunitarie. Ma, come le cronache di Avvenire segnalano con crescente e preoccupata attenzione, è proprio questa specificità italiana, la cooperazione sociale, che ora rischia di essere fortemente ridimensionata e minata dai tagli del welfare generati dalla crisi.

Certo, oggi, anche il mercato può e deve essere un alleato prezioso nel soddisfare i nuovi bisogni relazionali delle fasce più fragili delle nostre città, ma deve essere un mercato civile, cooperativo, comunitario e sussidiario, dove il contratto non si sostituisce al dono e alla reciprocità, ma è a loro servizio (lo sussidia, lo aiuta). Sia le badanti sia la cooperazione sociale sono mercato, ma, pur nelle loro inevitabili ambiguità, sono mercato civile, perché accanto al necessario contratto e al denaro si scambiano anche parole, emozioni, attenzione e affetti.

Ho conosciuto una badante rumena che parlava un ottimo italiano, perché, ho scoperto dopo un po’, riceveva lezioni dalla (ex) maestra novantenne di cui si prendeva cura, una signora con cui era nato un rapporto molto più ricco del 'badare', come porterebbe invece a pensare il triste sostantivo che qualcuno ha affibbiato a queste signore. Il mercato capitalistico non funziona per la cura delle fragilità e per l’accudimento, perché tende inevitabilmente a trasformare queste relazioni in merci: ma le dimensioni più importanti della cura non si comprano né si vendono, possono essere solo donate e accolte, anche se si svolgono all’interno di un necessario e legittimo contratto di lavoro. Posso, infatti, comprare la prestazione ma non la cura, che è invece un incontro umano molto più ricco e complesso di quanto può prevedere o offrire uno scambio mercantile. Il binomio cooperazione sociale-badanti non è tuttavia più sufficiente per rispondere ai nuovi bisogni di cura. Se politicamente non verrà fatto nulla, il vuoto che si sta creando finirà per occuparlo, e anche presto, il mercato 'per profitto', con gravi conseguenze. Per rispondere adeguatamente alla crescente domanda di cura, occorre, allora, una nuova alleanza tra famiglie, politica, società civile e mercato. Occorrono nuove imprese, nuove anche per civiltà, e per questo servono leggi che ancora non ci sono né si intravvedono; ma occorre anche rivitalizzare le reti di vicinato, la prossimità, la reciprocità non mercantile nei nostri territori. In quei luoghi del vivere dove si producono, gratuitamente, i beni relazionali che sono sempre la prima cura di ogni forma di indigenza. E un motore indispensabile per tornare a crescere bene.

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Commenti - La chance del terziario sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2012

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Serve «cura», è urgente

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