Lavoro cioè cura

Lavoro cioè cura

Commenti - Oltre diseguaglianza e povertà

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire del 01/05/2014

donne-tra-lavoro-e-famiglia ridSe vogliamo continuare a scrivere lavoro come prima parola del nostro Patto sociale, oggi dobbiamo affiancargli altre parole prime. Tra queste c’è la cura, che va declinata assieme al lavoro. Per ricreare lavoro la prima operazione da fare è riconoscere che l’esperienza lavorativa di una persona deve oltrepassare il lavoro remunerato (job) per includere attività di cura prestate in famiglia e nelle comunità. Nel Novecento abbiamo confinato il lavoro al posto di lavoro, alla fabbrica e all’ufficio, lasciando fuori dal lavoro tutto quel lavoro che non veniva valorizzato né conteggiato solo perché avveniva fuori del “mercato del lavoro”.

Oggi, invece, il lavoro rinascerà violando i confini che gli abbiamo assegnato finora, e incontrandosi – o re-incontrandosi – con il grande e decisivo mondo della cura e dei legami sociali primari non mercantili.

La nostra società di mercato sta creando una crescente diseguaglianza soprattutto in termini di libertà e di opportunità. Chi oggi possiede sufficiente denaro ha il potere di comprare, sul mercato, tempo libero e persone per la propria cura. Chi non ne possiede abbastanza, soprattutto se è donna e mamma, è sempre più schiacciata in “trappole di povertà” nelle quali precipitano anche matrimoni, famigliari, bambini. È questa una forma grave di neo-feudalismo, molto sottovalutata.

Il lavoro è stato il grande strumento e il principale luogo per far diventare libertà e uguaglianza principi sostanziali e non solo formali delle nostre democrazie. Ma quell’umanesimo del lavoro è nato e cresciuto in una società costruita su una forte divisione sociale del lavoro: gli uomini lavoravano fuori casa e le donne garantivano la cura di bambini, malati e anziani. Negli ultimi decenni stiamo rivedendo la parte del patto sociale relativa al lavoro, per garantire pari opportunità di lavoro e fioritura civile anche alle donne. Un cambiamento epocale che però non sta avvenendo sull’asse della cura e dell’accudimento, e quindi del welfare. Con la grave conseguenza che le donne, in particolare le donne sposate con bambini e ragazzi (e magari con anziani) si trovano oggi in una condizione di discriminazione sostanziale, che determina un forte svantaggio sociale e professionale negli anni cruciali della vita della persona (25-40), e che mette in grande difficoltà non soltanto loro ma anche i loro bambini, tutta la famiglia, le relazioni, e quindi le comunità. Infatti, queste donne non solo lavorano di più a casa, ma dormono meno (in media circa 10 ore in meno alla settimana), hanno meno tempo da dedicare alla vita politica ed economica, e soffrono di più (degli uomini) quando per poter e dover lavorare sentono di non dare abbastanza tempo e cura ai figli e ai loro genitori anziani. E le conseguenze non finiscono qui: un recente studio nord-americano, ad esempio, ha messo in luce che oggi, in questa situazione, per la prima volta le malattie psichiche dei bambini hanno superato le altre malattie.

C’è proprio bisogno di ripensare il lavoro di tutti in rapporto alla cura che ogni cittadino adulto dovrebbe offrire. Per migliorare la qualità delle relazioni familiari e sociali, e ridurre le asimmetrie tra uomini e donne, dovremmo quindi ridurre le ore di lavoro e poter così ridistribuire tra tutti le attività di cura e di accudimento di se stessi, dei propri famigliari ma anche dei bambini e degli anziani dei nostri vicini di casa, della comunità, dei beni comuni. E “cura part-time per tutti” vuol dire veramente per tutti: medici e magistrati, operai e politici; giovani, adulti, anziani... Dobbiamo iniziare a pensare che occuparsi di se stessi e degli altri sia parte del dovere di cittadinanza di ogni persona, ed espressione concreta del principio di fraternità e di solidarietà. E che crescere bambini e assistere anziani è lavoro, e un grande contributo al bene comune che va pubblicamente riconosciuto.

La filosofa canadese Jennifer Nedelsky propone, ad esempio, che questo part-time della cura consista in almeno 12 ore settimanali per ogni persona adulta, di cui almeno due ore al di fuori della famiglia. Ore di lavoro che sarebbero sottratte a quelle lavorative fuori casa, ma considerate all’interno del “pacchetto di ore di lavoro” di ogni cittadino (quelle offerte sul mercato-impresa e quelle spese nella cura delle famiglie-comunità).

Utopie, dicono in tanti. Progetti politici e democrazia sostanziale, diciamo in pochi. Ciò che è certo è che il lavoro va ripensato insieme alla cura, che non può più essere "appaltata” alle famiglie o allo Stato o, magari, ad aziende for-profit. Il prendersi cura può e deve diventare anche compito ordinario di ogni uomo e di ogni donna. La domanda di cura nel mondo è in grande crescita, ma la sua offerta è in continuo progressivo calo. E così il suo “prezzo” sta diventando troppo alto.  Ripensare il lavoro in rapporto alla cura significa, allora, essere coscienti che le nostre società post-moderne e frammentate hanno bisogno di nuovi legami sociali, di nuovi incontri e intrecci nelle relazioni ordinarie. Altrimenti il lavoro non si crea più, o non se crea abbastanza per tutti. Buon primo maggio.


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