Le virtù capovolte

Le virtù capovolte

Commenti - L'autentica lezione senese

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/02/2013

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Per capire che cosa significa per Siena e per l’Italia quanto sta accadendo in questi giorni al Monte dei Paschi, dovremmo leggere i giornali all’interno del Palazzo Pubblico di Siena, nelle sale dove si trovano gli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. Quando il Monte dei Paschi fu fondato (nel 1472) quel dipinto era già lì, al centro della città, da ben oltre un secolo (dal 1339), e avrà accompagnato anche i dibattiti e le speranze che portarono alla costituzione del Monte, che nacque come Monte di Pietà o Monte Pio. 

Siena, infatti, fu una delle capitali del grande movimento dei Monti di Pietà, un vasto movimento popolare animato dai frati francescani. Il suo ispiratore indiscusso fu San Bernardino da Siena, le cui ‘Prediche volgari’ (popolari), pronunciate ai suoi concittadini, costituirono una vera e propria summa per quella lotta alla miseria che generò, pochi decenni dopo Bernardino, l’azione dei tanti fondatori dei Monti. A Siena il Monte nacque per iniziativa del Comune, ma l’eco della figura e delle parole infuocate di Bernardino contro usurai e avari nei venerdì di quaresima di ogni anno, furono decisive per la fondazione di quella banca pubblica, a servizio dei cittadini senesi. Se Lorenzetti avesse dipinto la sua Allegoria dopo il 1472 avrebbe certamente collocato il Monte sulla parete del Buon Governo, perché la banca e la finanza civili sono state e sono istituzioni essenziali per il benvivere sociale.

L’asse delle allegorie del Buono e del Cattivo governo è la dialettica virtù-vizi, che si trovano nella stessa sala, le une di fronte agli altri, a ricordarci, con la forza del simbolo e dell’arte, che l’albero delle virtù è lo stesso albero su cui crescono i vizi, e per questo occorre essere sempre vigilanti nella vita privata e pubblica, in modo da scoprire per tempo quando una virtù si sta tramutando in vizio. L’affresco ci mostra un Buon governo che è il frutto, il figlio, della pratica delle virtù cardinali, un elenco che mi piace riportare in questa fase della nostra vita pubblica: Giustizia, Prudenza, Temperanza, Fortezza, parole da scrivere sempre con l’iniziale maiuscola. Gli effetti del buongoverno sono la prosperità e la concordia, e soprattutto lo sviluppo della laboriosità, dell’artigianato, del commercio, dell’edilizia, degli studi, della festa, dell’arte, dell’agricoltura, dei matrimoni, che popolano le scene del Lorenzetti.

Di fronte agli affreschi sul buongoverno e i suoi effetti, troviamo quelle del Cattivo governo, con al centro la tirannide, e sopra di essa i grandi vizi civili. Il primo è, non a caso, l’avarizia, una sorta di arpia con in mano un lungo uncino per arpionare avidamente il denaro della gente. Ai piedi dell’edificio dei vizi troviamo la Giustizia, pestata e umiliata, con le mani legate. Questa giustizia vinta e soggiogata è legata con una corda tenuta da un solo individuo, mentre nell’affresco del Buon Governo la corda che lega il sovrano alla città è tenuta da tutti i cittadini assieme. In latino fides significava, infatti, sia fiducia che corda, a dire che la reciproca confidenza tra i cittadini è il primo legame sociale della civil convivenza, un legame che diventa il laccio del cacciatore in mancanza di Buon governo.

Non occorrono altre “parole” di queste di Lorenzetti per commentare le cronache di questi giorni. A noi però, nell’era della finanza speculativa, manca il vocabolario giusto, perché l’ideologia dominante ha trasformato l’avarizia (far del denaro il fine, non più un mezzo) da vizio capitale a virtù pubblica, a valore su cui si sono scelti amministratori privati e pubblici, valutati bilanci, approvati licenziamenti, assegnati premi Nobel, fissati stipendi e bonus. E mancandoci le parole adatte, succede che dopo tutto quanto è accaduto in questi ultimi anni continuiamo a pensare che la crisi del Monte dei Paschi sia un’eccezione, un episodio triste che dipende da incompetenza e corruzione, o magari dalla sfortuna.

In realtà basterebbe usare l’antico linguaggio delle virtù e dei vizi, e capiremmo che abbiamo a che fare con un vizio antico, l’avarizia, che però non è più solo vizio individuale, bensì un vizio di sistema, che ha trasformato in questi ultimi decenni troppe banche da istituzioni per il bene civile in imprese speculative, smarrendo così la propria identità e vocazione. Che ci siano pure banche speculative (non troppe), e se falliscono non si salvino con soldi pubblici; ma proteggiamo, anche con adeguate leggi che ancora mancano, le banche commerciali, la banca e la finanza popolare, territoriale e civile, che rischia di essere totalmente fagocitata dall’uncino arpionante. Ho visto alcuni miei amici di Siena profondamenti affranti e addolorati dalle vicende del Monte.

Poche città al mondo (se ce ne sono) hanno, come Siena, un legame così profondo con una banca, che viene solo dopo (se non accanto) a quello con il Palio. Questo è il modello italiano, una cultura complessa e ricca, dove anche le banche sono (state?) pezzi di vita, di cuore, di passioni e di amore civile. Il rammarico per la crisi del Monte nasce allora, per i senesi e per noi, dal prendere definitivamente atto di un tradimento, che si è consumato ormai da tempo, che tocca radici e identità. Gli esseri umani, gli italiani senz’altro, gioiscono e soffrono anche per le piazze e i monumenti delle proprie città; e qualche volta anche per le loro banche, e non solo perché temono per la sorte dei propri risparmi, ma perché i nostri beni e il nostro bene sono più grandi di quelli della nostra casa, e inglobano anche beni e simboli pubblici. E perché il nostro vero patrimonio è più grande del conto corrente e proprietà personali. Per questo le crisi delle istituzioni e la distruzione dei beni pubblici ci impoveriscono, e molto. Il nuovo CDA del Monte per le prime riunioni chieda in prestito la sala del Palazzo Pubblico di Siena: quella buona estetica potrà servire l’etica, e con essa l’economia.

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