Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  22/01/2012

logo_avvenireQuando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave.

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Ciò che stiamo scoprendo oggi è la sofferenza degli imprenditori, di cui i suicidi di questi tempi rappresentano la punta dell’iceberg.

L’altra sera facevo un pezzo di strada in compagnia di una imprenditrice di una media azienda industriale, una delle tante che tengono ancora in piedi l’Italia grazie al 'made in Italy' che funziona e piace nel mondo. Una donna che ha ereditato l’impresa dai genitori, e cerca di portarla avanti con talento e responsabilità.

Mi ha colpito in modo tutto particolare avvertire la sofferenza psicologica e quindi profonda che questa persona vive negli ultimi tre anni, a causa della crisi che ha ridotto di metà il fatturato, mettendo a rischio decine di posti di lavoro nella sua azienda. Se questa imprenditrice fosse stata una speculatrice, probabilmente avrebbe sofferto molto meno o punto, e magari avrebbe svenduto quell’azienda al migliore offerente.

L’imprenditore, l’imprenditrice, invece patisce veramente, perché in quella impresa che soffre e rischia di non farcela c’è racchiusa una buona parte della sua vita, della sua storia, del futuro proprio e della sua famiglia. Non è normale, nella nostra cultura, vedere gli imprenditori soffrire. A vederli 'piangere' e lamentarsi siamo abituati, ma sappiamo che in certi momenti è anche una parte di un gioco nella contrattazione sociale e politica. Ma il dolore di questi tempi è un’altra cosa, alla quale non siamo invece abituati. C’è, infatti, qualcosa d’altro, e di più profondo, in questa forma di sofferenza degli imprenditori, e in generale della dirigenza.

La nostra cultura sta sempre più espellendo la vulnerabilità dalla sfera pubblica, soprattutto dal mondo delle imprese, per non parlare di quello della finanza. Nelle grandi imprese capitalistiche non c’è posto per la dimensione della fragilità, per il limite (negli orari di lavoro, ad esempio). Si fa carriera se si appare illimitati nella gestione del tempo, delle energie, dell’efficienza: guai a dire a un manager, soprattutto se si è giovani o addirittura neo-assunti, che alle nove di sera ci sono dei bambini a casa che attendono, o che la domenica si ha diritto a non lavorare; per non parlare degli effetti devastanti che produce, nei colleghi o dipendenti, l’ammissione di disagio psicologico, di una malattia seria o di una depressione. Il mondo economico vede tutto ciò che sa di vulnerabilità come una faccenda che non ha diritto di cittadinanza nel mondo, tutto maschile, dell’impresa (e delle istituzioni). È la famiglia, secondo la cultura dominante, il luogo dove scaricare le vulnerabilità e le fragilità, una famiglia che continua a essere pensata come il regno della donna, come lo spazio possibile della ferita e dell’accudimento. Ma la vulnerabilità è la condizione dell’umano, anche dell’economico, e se non viene accolta e accudita, a un certo punto esplode, e nel far di un mattino si passa da manager o imprenditori di successo a una clinica psichiatrica, completamente bruciati (l’ormai tristemente noto burn out), non più utili né all’impresa né alla vita familiare (o di ciò che ne resta).

Questa crisi potrebbe offrirci, allora, l’occasione per trovare un rapporto giusto e nuovo con la dimensione della vulnerabilità nella sfera pubblica: ne ha bisogno il mondo dell’impresa che senza persone intere non ha futuro; e ne ha bisogno urgente il mondo della famiglia, che fa sempre più fatica a curare tra le mura domestiche quelle dimensioni di vulnerabilità che, non accolte dal mondo del lavoro, stanno diventando sempre più pesanti e ingestibili. A tutto ciò è legato un grande discorso sulla donna e sul femminile nella vita economica e istituzionale, attorno al quale stanno lavorando un numero crescente di studiosi (tra cui in Italia anche l’economista Alessandra Smerilli). Un femminile che non può e non deve più essere considerato il 'monopolista' della cura delle fragilità proprie e di quelle dei mariti e figli. Solo una vulnerabilità condivisa è sostenibile e feconda, soprattutto nei tempi di crisi.

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Commenti - Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa

di Luigino Bruni

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Il coraggio della debolezza

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Commenti - Alcuni studi indicano la via per superare egoismo e cinismo di massa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  15/01/2012

logo_avvenireUn recente studio sperimentale svolto in Inghilterra (Robin Cubitt e colleghi, Journal of Public Economics, vol. 95, 2011), ha fatto emergere aspetti non ovvi e che hanno cose serie da dire anche per l’evasione fiscale in Italia. Questi ricercatori hanno mostrato che il giudizio morale nei confronti di chi non contribuisce ai beni pubblici, come nel caso dell’evasione fiscale, dipende molto dalle nostre credenze e aspettative sul comportamento degli altri. In particolare, nei vari esperimenti condotti, in tutti si riscontra una condanna morale nei confronti degli evasori, tranne che in un solo caso: quando, cioè, l’evasione fiscale di Anna avveniva dopo aver osservato l’evasione dell’altro soggetto, Bruno, con il quale Anna interagiva. Si tende, cioè, a condannare meno e a giustificare di più l’evasione fiscale, degli altri e nostra, quando si crede che le persone del nostro stesso gruppo siano anch’esse evasori.

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Generalizzando un po’ i risultati di questi esperimenti, e guardando anche a cosa dicono altri studi sui medesimi temi, è come se la società fosse, idealmente, suddivisa in tre gruppi di persone (o di comportamenti). Il primo è composto da coloro che non evadano mai in nessun contesto e a ogni costo; nel secondo gruppo ci sono invece coloro che evadono sempre e in ogni caso; nel terzo infine, normalmente il più numeroso, ritroviamo coloro che evadono se credono che nella loro comunità (locale e/o nazionale) non ci siano abbastanza persone che pagano le tasse. Le persone di questo gruppo hanno tutte un livello di abbastanza (detto anche valore soglia), ma ciascuna persona ha il suo valore.

Ad esempio, per Anna può bastare pensare che il 50% di concittadini siano onesti perché anch’essa paghi le tasse; per Bruno il 30%, e per Carla il 95%. Ciò che si dimostra è che la cultura di legalità di un Paese dipende quasi interamente da due fattori: (a) dalla numerosità del primo gruppo (gli "onesti" incondizionali): se questi sono troppo pochi, la cultura della legalità non si affermerà mai; (b) dai livelli dei valori soglia (dall’ abbastanza ) dei cittadini medi (appartenenti al gruppo 3), poiché se questi sono molto alti, se cioè queste persone hanno bisogno di credere che siano molti, moltissimi, ad essere onesti per esserlo anche loro, è molto difficile ottenere cambiamenti positivi nella cultura fiscale e della legalità della popolazione.

Va poi notato che questi valori soglia dipendono decisamente dall’educazione famigliare nei primi anni di vita, ma dipendono molto dai segnali che emettono la politica e la classe dirigente (i condoni, ad esempio, li alzano terribilmente). È mia impressione che negli ultimi decenni, e in Italia in modo tutto particolare e massiccio, si stia sbagliando nella comunicazione pubblica relativa all’evasione fiscale. Se, infatti, prendiamo sul serio questi studi, dovremmo trarne alcune indicazioni molto chiare. Innanzitutto dovremmo sottolineare di meno che in Italia ci sono tanti evasori fiscali; non perché non sia (in buona parte) vero, ma perché porre l’accento soprattutto o unicamente su questo dato non fa altro che 'convertire' alcuni dei cittadini del gruppo intermedio (il terzo), che se hanno l’impressione di essere circondati da evasori, cambiano marginalmente il loro giudizio morale sul fenomeno, ed evadono anch’essi. Quindi, per un esempio molto concreto, dovremmo ritirare o cambiare quegli spot che continuano a parlarci della presenza in mezzo a noi dei parassiti sociali. Quale dovrebbe essere il loro scopo? Non quello di convertire gli evasori incondizionali del gruppo "due", che non cambieranno di certo strategia per il senso di colpa dopo aver visto lo spot. Ciò che invece producono con certezza, al di là delle buone intenzioni di chi li ha pensati, è aumentare la credenza nei cittadini medi che il mondo è pieno di evasori.

Oggi l’Italia e l’Occidente soffrono per un cinismo e un pessimismo di massa, che è anche alla radice di questa crisi. Per curarlo può anche essere utile iniziare a raccontare di più nei media le buone pratiche di cittadini onesti, di imprenditori civili, di banche virtuose, ma senza presentarli (come si tende a fare) come eroi o eccezioni, o, peggio, come storie innocue e irrilevanti da collocare nelle apposite trasmissioni dei buoni sentimenti, ma come la normalità. Nei tempi di grave crisi morale, come sono i nostri, si ricostruisce il tessuto civile di speranza mettendo anche in luce che insieme alla zizzania, che rimarrà fino alla fine dei tempi, c’è tanto grano buono. 

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Commenti - Alcuni studi indicano la via per superare egoismo e cinismo di massa

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pubblicato su Avvenire il  15/01/2012

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Contro l’evasione non spot ma spazio alla tanta sana normalità

Contro l’evasione non spot ma spazio alla tanta sana normalità

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Commenti - A proposito di accumulazione e uso delle risorse, di merito e di cultura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  10/01/2012

logo_avvenireRicchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.

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La domanda più importante da fare a chi parla, legittimamente, di merito è: merito in che cosa? Le imprese e la finanza hanno remunerato, soprattutto in questi ultimi decenni, con stipendi altissimi professionisti certamente meritevoli sotto il profilo tecnico e delle competenze, ma che a causa di prassi spregiudicate nella gestione dei rischi, dell’etica e dei rapporti, hanno prodotto i disastri che tutti conosciamo. Un’azienda che deve assumere un nuovo lavoratore guarda senz’altro ai meriti del curriculum vitae e degli strumenti, ma guarda anche – e nei momenti di crisi soprattutto – al merito e alla capacità di sapere lavorare in gruppo, di risolvere e accudire i conflitti, e alla generosità nella gestione dei rapporti, cose che le imprese buone sanno molto bene. Dimensioni, queste, difficilmente misurabili e oggettive, e per questo essenziali.

La democrazia, anche quella economica e organizzativa, si gioca molto sulla nostra capacità di dar vita a più registri di meritorietà. L’arte di un manager o di un educatore è soprattutto saper far emergere la dimensione di merito racchiusa in ogni persona, i suoi talenti o il suo daimon (direbbe Socrate), perché se il merito diventa monodimensionale, la meritocrazia diventa inevitabilmente oligarchia, e confligge con la democrazia e con la libertà. Ricchezza e merito sono quindi legati ai talenti di ogni persona.

Il rapporto tra talenti e frutti (tra cui la ricchezza) dipende soprattutto dalla qualità della famiglia, delle comunità e della società nella quale cresciamo, dalle opportunità di educazione e di istruzione, dall’amore e dalla cura che riceviamo soprattutto nei primi anni di vita. Chissà quanti Mozart o Steve Jobs non sono sbocciati perché nati nel luogo sbagliato! Tutte queste dimensioni non dipendono dal nostro merito soggettivo, ma ci sono date in modo gratuito (i talenti sono "ricevuti", come ci dice la Parabola evangelica), e fanno sì che le potenzialità fioriscano e maturino.

È questa, allora, la radice umanistica profonda del principio di solidarietà nell’uso della ricchezza, che non va ascritta al registro dell’altruismo e del sacrificio, ma a quello della giustizia: la ricchezza va condivisa perché prima è stata ricevuta. Il modello sociale ed economico italiano – comunitario e cattolico – ha sviluppato nei secoli un suo modo di condivisione della ricchezza, che a differenza di quello calvinista di tipo americano, non ha al suo centro la categoria della restituzione di una parte di ricchezza alla società e agli esclusi. Mentre il capitalismo Usa distingue nettamente l’economico dal sociale (business is business), con la filantropia-restitutiva che fa da ponte tra i due, la parola-chiave del nostro umanesimo è economia civile, cioè un’economia che nasce dalla comunità e una comunità che fa impresa (si pensi al made in Italy, alle imprese familiari, o alle cooperative sociali che sono un gioiello dell’Italia di oggi). Il modello economico italiano è stato ed è ancora un meticciato tra famiglia, impresa, Stato, comunità.

Questo modello ha portato frutti straordinari in passato, ma nella modernità si è ammalato dando vita alle varie mafie e a certi ben noti e ben determinati familismi amorali, che sono una sorta di nevrosi del nostro corpo sociale. Nelle nevrosi, però, la malattia nasce spesso da una patologia di una parte buona della persona, a volte la migliore (ad esempio: il genio che diventa narcisismo); e se la terapia uccide questa parte buona, la cura si "mangia" la persona. Usciremo allora da questa crisi guardando in faccia le nostre malattie, capendo il nostro genius loci, stimandolo, accogliendo e trasformando le nostre nevrosi collettive, e non imitando altri modelli di capitalismo. Se non daremo vita a un nuovo Umanesimo civile, insieme all’Europa e al Mediterraneo, gli spread aumenteranno, e non soltanto quelli tra i titoli ma pure quelli tra le civiltà.

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Commenti - A proposito di accumulazione e uso delle risorse, di merito e di cultura

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  10/01/2012

logo_avvenireRicchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.

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Ricchezza, conta il «come»

Ricchezza, conta il «come»

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Commenti - Ben oltre la «cultura» delle scommesse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  04/01/2012

logo_avvenire«Vizi privati, pubbliche virtù» è il sottotitolo della nota Favola delle api (1714), di Bernard de Mandeville, che aprì un dibattito tra economia ed etica che coinvolse le migliori menti del Settecento europeo. L’idea che dai vizi dei cittadini si possa ricavare qualcosa di buono per la collettività è ancora tra le più radicate nella cultura contemporanea, che informa spesso anche l’azione dei governi (tassazione dei giochi e delle lotterie). Ieri il cardinal Bagnasco ha richiamato l’attenzione sulla «piaga» dei giochi d’azzardo, invitando con forza a un’azione urgente «a tutti i livelli»..

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Esistono legami evidenti, a chi li vuole vedere, tra le scommesse nello sport, il business delle slot machine, certa speculazione finanziaria, oroscopi e maghi, i giochi d’azzardo online e gli “innocui” gratta–e–vinci.

Il primo fattore che lega assieme questi fenomeni solo apparentemente distanti si chiama dipendenza (addiction): quando si è in presenza di dipendenza sappiamo che esiste un problema etico enorme, poiché se si lascia la gestione di questi ambiti al solo mercato, il risultato è lo sfruttamento a scopo di lucro dei più deboli e fragili, con gravissime conseguenze individuali, familiari e sociali. L’adrenalina che prova il giocatore di slot machine all’udire il tintinnio della cascata di monete, è molto simile a quella che prova chi specula overnight sui cambi delle monete o sul prezzo del grano. Un secondo legame è l’enorme giro d’affari che questo mondo muove: in Italia questo affare vale certamente più di 75 miliardi, in aumento esponenziale. Un terzo comune denominatore è la forte infiltrazione della criminalità organizzata in tutto questo territorio ambiguo.

La proliferazione dei giochi d’azzardo è un vero e proprio scandalo, e da troppi punti di vista, una piaga molto più pervasiva e grave di quanto comunemente si creda, e le cui radici sono profonde e serie. Stiamo, infatti, assistendo passivi a una crescita massiccia di una vera e propria “cultura” delle scommesse e della fortuna. Pensiamo, ad esempio, alla ricorrente vicenda del calcio scommesse. Questa è profondamente legata a una visione mercantile che sta trasformando il calcio da “bene relazionale” (cioè un incontro non commerciale) in bene di mercato altamente speculativo. Grazie soprattutto alla dittatura incontrastata delle televisioni commerciali, che oggi dominano il calcio professionistico determinandone vita e morte, la dimensione della gratuità è ormai scomparsa dal gioco (di cui dovrebbe invece costituirne l’essenza). Le partite di calcio stanno invadendo tutti gli altri programmi in tutti i giorni della settimana, svuotando così gli stadi per riempire le case di individui sempre più soli davanti a televisori sempre più grandi.

Uno sport ridotto a semplice merce finisce poi per rendere eticamente meno riprovevoli comportamenti invece in sé molto gravi, anche perché gli stessi tifosi vedono società di scommesse come sponsor delle loro squadre del cuore. Per non dire poi che queste imprese speculative hanno preso via via il posto dei prodotti dell’economia reale italiana che nei decenni passati erano su quelle magliette. Il mercato è un’invenzione meravigliosa, finché resta un principio accanto ad altri della vita in comune, e nei suoi spazi: diventa una grave malattia civile quando è l’unico criterio per governare tutti i rapporti sociali.

Che fare allora? Innanzitutto occorre agire “a tutti i livelli”. Un primo livello è quello politico: come mai, ad esempio, non si estende ai giochi d’azzardo (poker tv, scommesse online…) la proibizione della pubblicità che vige per il tabacco? Le dipendenze sono simili, e gli effetti di queste nuove dipendenze sono oggi forse più gravi. Perché poi non pensare anche a forme di “obiezione di coscienza” da parte di quei campioni che potrebbero rifiutarsi di fare da testimonial in tali pubblicità? C’è poi la dimensione educativa, familiare e scolastica, ma è sempre il livello civile quello davvero cruciale. Dovrebbero, ad esempio, essere gruppi di cittadini a premiare con un marchio di qualità etica quei locali e bar che rinunciano a sicure entrate eliminando le slot machine, un marchio che poi potrebbe attrarre verso quegli stessi locali più consumatori civilmente responsabili.

È la nostra ricorrente idea di «premiare gli onesti», parallelamente alla co–essenziale punizione dei disonesti. La sfida è grande. L’Occidente ha iniziato la sua straordinaria storia quando ha affermato che la «virtù batte la fortuna», che la vita buona (l’eudaimonia) non dipende dal fato, ma dalle nostre scelte improntate alla virtù, che sono la sola vera risposta di fronte alla incertezza della vita. L’invasione della cultura della fortuna dice allora, e con grande forza, la profonda crisi della cultura occidentale, e un forte ritorno di irrazionalità e di fede nel “fato”. Le pubbliche virtù, ieri come oggi, nascono solo dalle virtù private, ancor più nei tempi di crisi.

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Commenti - Ben oltre la «cultura» delle scommesse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  04/01/2012

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La virtù batte la fortuna

La virtù batte la fortuna

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Commenti - Capire cosa c'è all'origine della crisi. Per tornare a costruire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  24/12/2011

logo_avvenireSiamo ancora troppo dentro l’occhio del ciclone per poter vedere i danni che la tempesta sta procurando al nostro sistema finanziario, economico e sociale, o per capire quanto durerà e in quale direzione ci sta portando. Abbiamo però il dovere di iniziare a dire qualcosa di diverso rispetto alle analisi, un po’ tutte troppo simili, che leggiamo da mesi sui giornali e ascoltiamo nei talk show. C’è una teoria, sviluppata originariamente da un biologo, Garrett Hardin (Science, 1968), che può gettare luce sulla comprensione di che cosa è accaduto in questi anni di crisi, e anche su come uscirne. Il titolo di quell’articolo è già di per sé eloquente: «La tragedia dei beni comuni».

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Il suo centro teorico è il racconto della tragedia di un’ipotetica comunità di allevatori che utilizzano, insieme, un pascolo comune nel quale ognuno porta liberamente a pascolare le proprie mucche. Hardin dimostrava che la scelta migliore dal punto di vista dell’interesse individuale di ciascun allevatore è aumentare di un’unità il bestiame al pascolo. In questo caso, infatti, il vantaggio per il singolo pastore è un numero intero (una mucca in più) mentre la diminuzione del bene comune (l’erba) è per lui soltanto una frazione, perché la perdita di erba si ripartisce su tutti gli allevatori che usano il pascolo. Il beneficio individuale di aumentare l’uso del bene comune è dunque maggiore del costo individuale. Da qui l’incentivo per tutti e per ciascuno ad aumentare sempre più i capi di bestiame al pascolo, fino ad arrivare alla distruzione del pascolo stesso.

In altre parole, è come se gli utilizzatori del pascolo, nel compiere le proprie scelte individuali, non considerassero la riduzione del bene comune (erba) che il loro consumo produce: si guarda il beneficio individuale, e non ci rende conto che si sta, giorno dopo giorno, distruggendo il bene comune che alla lunga impedirà di ottenere anche il beneficio individuale. A un certo punto arriva la presa di coscienza, ma spesso è troppo tardi, perché la reazione è ormai "esplosa". Sembra che alcuni collassi di civiltà (noto è quello degli abitanti dell’isola di Pasqua nell’Oceano Pacifico) siano spiegabili con la logica della «tragedia dei beni comuni»: individui che massimizzano i benefici individuali e scaricano i costi sociali sull’insieme della collettività, finché non si supera un 'punto critico' e il processo di distruzione del bene comune diventa irreversibile. Credo che la crisi finanziaria che stiamo vivendo possa essere letta come una tipica «tragedia dei beni comuni», in particolare di quel bene comune fondamentale dell’economia di mercato che chiamiamo fiducia.

Per un certo numero di anni (a partire dagli anni Novanta) molti operatori della finanza speculativa hanno "consumato" troppo il bene comune fiducia con comportamenti spregiudicati sotto il profilo del rischio, pensando di ripartire il costo (cioè il rischio del sistema) sulla numerosissima 'comunità' finanziaria mondiale, composta da innumerevoli operatori. A un certo punto qualcuno ha persino prodotto erba artificiale, che ha "intossicato" gli animali, peggiorando la situazione. Finché in quel fatidico 15 settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers) abbiamo superato il punto critico nel consumo della fiducia di sistema, abbiamo brucato tutta l’erba del pascolo, e la corda già sfilacciata si è spezzata (fiducia viene dal latino fides: cioè corda, legame). E come sappiamo dall’analisi di storia delle istituzioni, quando si sopprime un’antica convenzione e si distrugge un bene comune, è molto complicato, se non impossibile, ricostituirla.

Anche noi ci stiamo accorgendo che la fiducia del sistema finanziario globale, costruito nei secoli e distrutto in venti anni, è oggi molto difficile da ricostruire: manca tra imprese cittadini e banche, tra le banche, tra Stati (la crisi europea è soprattutto una crisi di fiducia tra Paesi). La premio Nobel Elinor Ostrom ci ha però indicato qualche pista di soluzione: il bene comune non viene distrutto quando da bene di nessuno diventa bene di tutti.

L’unica strada per poter ricostruire un bene comune distrutto è un cambiamento di cultura che porta la maggioranza delle persone a sentire quel bene comune un bene di tutti, quindi anche come un loro bene individuale. Oggi saremo perciò capaci di rigenerare la fiducia di sistema che abbiamo distrutto se un nuovo patto, a più livelli (mercati, società civile, politica, nazionale e internazionale) farà ricrescere l’erba del credito (credere). E l’erba non si produce ma si semina: richiede quindi tempo e lavoro.

Se vogliamo ricreare fiducia nel sistema e ripartire, dobbiamo quindi lavorare molto, non avere fretta e saper attendere. Durante l’attesa (che sarà lunga) siamo anche disposti a fare sacrifici, ma è essenziale che cittadini e imprese abbiano segnali credibili e buone speranze di rivedere un giorno spuntare l’erba nel pascolo, e non più erba artificiale o velenosa che non nutre. È la speranza civile che ha reso e rende sostenibili i sacrifici dei popoli.

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Commenti - Capire cosa c'è all'origine della crisi. Per tornare a costruire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  24/12/2011

logo_avvenireSiamo ancora troppo dentro l’occhio del ciclone per poter vedere i danni che la tempesta sta procurando al nostro sistema finanziario, economico e sociale, o per capire quanto durerà e in quale direzione ci sta portando. Abbiamo però il dovere di iniziare a dire qualcosa di diverso rispetto alle analisi, un po’ tutte troppo simili, che leggiamo da mesi sui giornali e ascoltiamo nei talk show. C’è una teoria, sviluppata originariamente da un biologo, Garrett Hardin (Science, 1968), che può gettare luce sulla comprensione di che cosa è accaduto in questi anni di crisi, e anche su come uscirne. Il titolo di quell’articolo è già di per sé eloquente: «La tragedia dei beni comuni».

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Quel bene comune che chiamiamo «fiducia»

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Commenti - Banche, Europa, uso delle risorse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  28/12/2011

logo_avvenireLa finanza e l’economia sono troppo importanti per lasciarle soltanto a finanzieri ed economisti: credo potrebbe riassumersi anche in questa battu­ta il messaggio che ci proviene dalla seconda e con­clusiva parte del 2011. Ci siamo accorti, e con più forza rispetto alla prima fase della crisi (2008-2009), che gli indici di Borsa e lo «spread» non sono fac­cende lontane e per addetti ai lavori, ma sono capa­ci di cambiare governi, i nostri bilanci familiari, i no­stri progetti di vita. E allora dobbiamo occuparcene tutti, 'abitando' di più questi luoghi che se restano disabitati dai cittadini alla lunga diventano inuma­ni. Questa crisi ci invia anche tre messaggi specifici. Il primo riguarda direttamente il mondo bancario.

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Studi recenti (Università di Ancona: mofir.univpm.it), hanno messo in luce che dopo il 15 settembre 2008 le banche hanno ridotto il credito alle imprese, ma anche a quelle virtuose.

Questa evidente inefficien­za dipende dalla distanza tra il luogo nel quale si prendono le decisioni e quello dove operano le a­ziende. Banche sempre più concentrate e distanti non hanno più la conoscenza del territorio: così le decisioni sono affidate a indicatori oggettivi che non fanno vedere cose essenziali che diventano visibili soltanto agli occhi di chi abita i territori e conosce per nome la gente.

Il primo messaggio che ci giun­ge è allora la necessità di una 'riduzione delle di­stanze' tra i luoghi delle decisioni e i luoghi di vita delle persone, e quindi una critica a tutta una poli­tica finanziaria che ha invece fortemente voluto la concentrazione delle banche, a quel ’grande, lonta­no e anonimo’ che è stata la parola d’ordine degli ul­timi due decenni. Interessante è poi notare che le banche territoriali per vocazione stanno reggendo meglio alla crisi. Tutto ciò suggerisce una sorta di re­gola aurea: dare diritto di cittadinanza nel quotidia­no alle piccole fragilità relazionali (perdere tempo con i ’pallini’ dei clienti, investire risorse in rappor­ti non sempre finanziariamente remunerativi, etc.), rende meno fragili quando arrivano le grandi crisi; non accogliere, invece, queste piccole fragilità e ’cri­si’ quotidiane, rende le istituzioni molto più fragili di fronte alle grandi crisi.

C’è poi un secondo messaggio chiaro che riguarda l’Europa, che oggi vive la crisi più profonda dalla sua fondazione. Se non si metterà mano a una vera u­nità politica, l’euro non potrà reggere ancora a lun­go. Oggi però mancano i grandi statisti del dopo­guerra, e il loro posto può e deve essere occupato dai cittadini. Spetta a loro, spetta a noi tutti chiedere, dal basso e con maggiore forza, più politica e finanza più regolamentata.

Infine, il terzo messaggio: c’è qualcosa di sba­gliato nel capitalismo cui abbiamo dato vita so­prattutto in Occidente. E questo 'qualcosa' non ha a che fare con la finanza e forse nean­che con l’economia, perché si gioca a un li­vello della nostra cultura molto più profondo. La crisi che stiamo sperimentando è come u­na febbre, che segnala che qualcosa non va nell’organismo. E siccome la febbre dura da tempo, e la temperatura aumenta, la febbre va presa molto sul serio. Sono almeno due le pa­tologie che vanno curate. Negli ultimi decenni abbiamo depredato l’am­biente, lo abbiamo ferito, umiliato. Nel giro di un paio di generazioni stiamo consumando un patrimonio di petrolio e gas che la terra ha generato in milioni di anni; e nel depaupera­re questo patrimonio stiamo anche ferendo l’at­mosfera. Tutto ciò dice che stiamo sbagliando uno dei rapporti fondativi della nostra esistenza, quello con la terra e con la natura. E quando un rapporto così importante non funziona, è impossibile che funzionino gli altri rapporti, come mostra la cre­scente intolleranza nelle nostre città, la solitudine crescente, e come dimostra il rapporto ancora in buona parte predatorio con le risorse dei popoli del­­l’Africa, dove si perpetrano ogni giorno nuove ’stra­gi degli innocenti’. La seconda causa di febbre è la diseguaglianza eco­nomica che sta crescendo nel mondo, anche grazie alla rivoluzione della finanza. Senza uguaglianza e­conomica, che non si gioca solo sull’asse del reddi­to ma anche su quello del lavoro, il principio di u­guaglianza resta troppo astratto, perché le persone non possono realizzare la vita che desiderano vive­re. L’uguaglianza è la seconda parola del trittico del­la modernità, e negarla significa negare anche le al­tre due, poiché o l’uguaglianza, la libertà e la frater­nità stanno assieme, o non se ne realizza autentica­mente nessuna.

L’Europa ritroverà se stessa se sarà capace di ridare vita a questo Umanesimo a tre di­mensioni, da cui fiorisce anche quella 'pubblica fe­licità' posta al centro del programma della Moder­nità, perché, come ci ricorda l’economista napole­tano settecentesco Antonio Genovesi, «è legge del­l’universo che non possiamo far la nostra felicità sen­za far anche quella degli altri».

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Commenti - Banche, Europa, uso delle risorse

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  28/12/2011

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Tre messaggi dalla crisi

Tre messaggi dalla crisi

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Commenti - L'ora della responsabilità di tutti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/12/2011

logo_avvenireIl governo sta facendo gli interventi giusti, quel­li che devono essere fatti. Ma una manovra di questa portata funziona soltanto se è sostenuta dai cittadini, dalla grande maggioranza del Paese, anche da coloro che avrebbero buone ragioni e le­gittimi interessi per protestare, o per chiedere al­tre strategie e altre soluzioni più efficienti e/o e­que. Dobbiamo essere coscienti che qui si tratta di scalare una montagna, irta e difficile, una scalata dall’esito incerto. Ciò che è certo è che la durata sarà lunga, poiché questa crisi richiederà diversi anni prima di essere in qualche modo superata.

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Quando una squadra di alpinisti deve affrontare una vetta, soprattutto se difficile e alta, durante la preparazione i vari componenti possono e deb­bono discutere sulla parete più idonea, l’attrezza­tura e l’equipaggiamento adatti, il momento del­l’anno più favorevole, il cibo e tanti altri aspetti. Ma, una volta partiti, le discussioni terminano e si la­vora tutti nella stessa direzione, si guarda tutti ver­so la sommità della roccia, poiché se ora quella comunità di persone non è coesa, con-corde e non coopera, non solo tutto diventa terribilmente più complicato, ma si rischia seriamente di non rag­giungere la vetta. Il governo ha predisposto strumenti, efficaci, cer­tamente perfezionabili eppure sostanzialmente e­qui, adeguati per la difficoltà della scalata, ma se non scattano l’impegno e l’intesa tra i membri del­la cordata, per quanto robuste siano le corde e buono l’equipaggiamento, non si compie alcuna impresa.

Oggi l’Italia ha senz’altro bisogno di stru­menti tecnici e di equità, ma ha bisogno anche di con-cordia (stesso cuore e corda) tra i cittadini: non dobbiamo commettere l’errore, gravissimo, di pensare che i principali o unici protagonisti di questa sfida siano le istituzioni, l’Europa, il gover­no e le banche, e che ai cittadini sia solo chiesto, passivamente, di fare solo più sacrifici. Non basta l’impegno dei capicordata per fare la scalata. In realtà, c’è un ruolo coessenziale della società civi­le, e di un cambiamento dell’etica pubblica di noi cittadini italiani. Non c’è solo una responsabilità sociale delle imprese e delle istituzioni: c’è oggi bi­sogno di una nuova responsabilità sociale di ogni cittadino.

A questo proposito sono interessanti alcuni studi che provengono dalla recente teoria economica e sociale, che vanno sotto il nome di 'reciprocità forte' (strong reciprocity). Si sta scoprendo che se si vuole mantenere, generare o rigenerare la coo­perazione in un determinato ambito civile (am­biente, fisco, beni comuni …) è necessario che nel­le persone sia presente un’etica pubblica e conse­guenti comportamenti di tipo 'orizzontale' (tra cittadini) e non solo "verticali" (ciascuno nei con­fronti delle istituzioni). Se, per esempio, si vuole mantenere un parco pulito, non è sufficiente con­trollare o delegare il rispetto delle norme coope­rative agli 'organi competenti'; è necessario, e co­essenziale, che tra i cittadini si sviluppi una cultu­ra del prendersi cura dell’altro direttamente. Si è dimostrato che in simili casi, senza lo sviluppo nei cittadini di forme di ringraziamento esplicito per i comportamenti virtuosi degli altri, e senza rim­proverare chi getta cartacce per terra, la coopera­zione non parte o non si mantiene nel tempo.

Questa cultura orizzontale è molto più presente nei popoli nordici (lo sa bene chiunque abbia viag­giato in aereo accanto a una inglese o a un tede­sco, e abbia acceso il cellulare qualche secondo prima dell’avviso ufficiale). Nei popoli latini e me­diterranei, invece, in simili situazioni o non si fa nulla, o in aereo si chiama l’hostess, perché sia lei a rimproverare il vicino inadempiente. Oppure si risponde a chi ci dice «non puoi entrare nel giar­dino della scuola con l’auto», con la triste espres­sione «ma ti hanno assunto in Comune?». E que­sti fatti non sono l’ennesima pagina del libro dei buoni sentimenti civilmente irrilevanti: dietro a essi c’è molto di più e di diverso. Questi segnali, co­munissimi e ordinari, dicono che nel nostro Pae­se l’etica pubblica è troppo demandata e delega­ta alle istituzioni. Non riguarda me in quanto cit­tadino, ma 'l’hostess' o 'il Comune'. Invece, an­che un rimprovero da parte di un concittadino, o un grazie, è espressione di quell’ 'I care' (mi pren­do cura) che Don Milani scrisse sulla lavagna del­la scuola di Barbiana; un "I care" che nel sistema pedagogico e civile di Don Milani era antitetico al fascista "me ne frego". Dove non c’è la cura non c’è nulla di autenticamente umano, perché, come ci ricorda il libro della Genesi, dove non c’è la cu­stodia dell’altro non c’è l’indifferenza, ma da qual­che parte si nasconde il fratricidio di Caino.

Chiediamo allora, e tanto, alle istituzioni coeren­za, equità, di dare il primo esempio nei sacrifici. Ma non chiediamo di meno a noi stessi, né agli al­tri compagni di cordata.

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Commenti - L'ora della responsabilità di tutti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/12/2011

logo_avvenireIl governo sta facendo gli interventi giusti, quel­li che devono essere fatti. Ma una manovra di questa portata funziona soltanto se è sostenuta dai cittadini, dalla grande maggioranza del Paese, anche da coloro che avrebbero buone ragioni e le­gittimi interessi per protestare, o per chiedere al­tre strategie e altre soluzioni più efficienti e/o e­que. Dobbiamo essere coscienti che qui si tratta di scalare una montagna, irta e difficile, una scalata dall’esito incerto. Ciò che è certo è che la durata sarà lunga, poiché questa crisi richiederà diversi anni prima di essere in qualche modo superata.

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Compagni di cordata

Compagni di cordata

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Commenti - Perché una calibrata patrimoniale sarebbe meglio dell'aumento dell'Iva

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/12/2011

logo_avvenireLe  tasse e le imposte sono colonne portanti del patto sociale di uno Stato. Quindi non sono mai faccende tecniche, ma sempre eminentemente e squisitamente politiche. Tra le prime riforme che il nuovo governo sta approntando, vi sono interventi di carattere fiscale e, quindi, importanti, non solo perché in un viaggio il primo (e l’ultimo passo) è quello più rilevante, ma anche perché sbagliare la riforma fiscale significa perdere il consenso della parte migliore del Paese.

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Innanzitutto, non si deve commettere l’errore di contrapporre scelte 'eque' a scelte 'efficienti'. Nelle democrazie post-moderne sono saltate molte dicotomie (economia reale/economia finanziaria, economia/politica), e tra queste anche quella che nel Novecento contrapponeva l’equità all’efficienza.

In questi anni stiamo vedendo molto chiaramente che una scelta di politica economica è sempre per sua natura direttamente una scelta etica, perché se i cittadini non considerano equa una manovra economica pongono in atto comportamenti che in buona parte annullano l’efficacia di quell’intervento. Il bisogno di equità, e oggi lo mostrano anche gli studi di neuro-economia, è tra i più radicati e profondi nelle persone, che ci porta a fare scelte che spesso non seguono i dettami della razionalità economica, ma di quella espressiva e simbolica. E veniamo allora all’aumento dell’Iva e al dibattito sulla tassazione dei patrimoni.

Aumentare l’Iva non è una scelta di mera efficienza economica al fine di ridurre il debito e il deficit. Un aumento dell’Iva (o delle tasse sui carburanti) è per sua natura sempre iniquo, perché va contro la principale caratteristica della giustizia distributiva, e cioè trattare in modo simile situazioni simili, e in modo diverso situazioni diverse. L’Iva sui consumi la pagano il milionario e la famiglia numerosa, il disoccupato e lo speculatore finanziario. Se si vuole aumentare l’Iva, dunque, sarebbe quantomeno necessario disegnare una riforma che preveda aliquote molto più alte (di quelle attuali) per i beni posizionali e demeritori: non si può e non si deve tassare il vino da tavola con la stessa aliquota dei superalcoolici. Insistere, poi, sulle imposte indirette è già di per sé una scelta etica, che, lo sappiamo dalla prassi e dalla teoria, tende ad aumentare l’evasione fiscale, quella evasione fiscale che, con l’altra mano, si vorrebbe combattere.

La prima lotta all’evasione fiscale da parte di un governo, soprattutto se nuovo, è allearsi con la parte onesta del Paese, un’alleanza che passa proprio per il territorio dell’equità. Inoltre, non si possono aumentare l’Iva e le imposte indirette senza mettere mano a una riforma delle imposte sui patrimoni. Tassare oggi i patrimoni ha molti pregi. I principali pregi sono un riequilibrato rapporto tra la tassazione dei redditi e quella dei patrimoni, che anche in Italia è troppo squilibrata a svantaggio dei redditi: la diseguaglianza nei patrimoni è molto maggiore (più del doppio) della diseguaglianza nei redditi. Il 10% più ricco della popolazione detiene circa il 50% del valore totale della ricchezza, mentre per quanto riguarda i redditi (dichiarati!) la distribuzione è più egualitaria (il 20% più ricco detiene circa il 40% del totale dei redditi). Tassare i patrimoni tende allora a riequilibrare i punti di partenza dei cittadini, perché può produrre effetti seri nella riduzione della diseguaglianza (che un aumento dell’Iva invece aumenta). Effetti etici ma anche direttamente economici, perché un ceto medio impoverito non esprime quella domanda interna essenziale per rilanciare lo sviluppo economico. Infine, tassare i patrimoni non ha, almeno nel breve e medio periodo, l’effetto nefasto di ridurre l’impegno nella creazione del reddito, un danno che invece produce ogni ulteriore imposta sul reddito (da lavoro e di impresa).

L’Italia riprenderà la sua corsa e il suo posto nel mondo solo se saremo capaci di riaccendere nelle persone l’entusiasmo, i desideri e la fame di futuro, variabili che i governi non possono controllare direttamente.

Indirettamente, però, la politica può fare molto, proprio lavorando sulla percezione di equità delle leggi e di una riforma fiscale. Il Paese vuole uscire dalla crisi, non ama essere considerato il malato del mondo, di essere irriso come fannullone e irresponsabile dagli altri Stati. Il governo deve allora tener ben presente – come scriveva Giammaria Ortes, economista civile veneziano del Settecento – che «la ricchezza di un popolo è la sua gente» e creare quindi le pre­condizioni perché questa ricchezza produca tutti i suoi frutti.

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Commenti - Perché una calibrata patrimoniale sarebbe meglio dell'aumento dell'Iva

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/12/2011

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La vera ricchezza è la gente: le tasse seguano questo principio

La vera ricchezza è la gente: le tasse seguano questo principio

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Commenti - La sfida che viene dalla crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2011

logo_avvenireIl governo Monti sta muovendo i suoi pri­mi passi, e li sta muovendo tra Roma e l’Europa, la sola direzione giusta e necessa­ria. La crisi, anche quella italiana, va affron­tata rilanciando un grande progetto euro­peo, molto più ambizioso della sola comu­nità economica fondata, poco saldamente, sull’euro: senza politica le monete e le eco­nomie sono troppo fragili, soprattutto nel­l’era della globalizzazione. L’epicentro di questa crisi finanziaria ed economica sono stati gli Usa e uno stile di vita fondato sul de­bito al consumo e sulla finanza creativa, è be­ne ricordarlo ogni tanto; ma l’onda anoma­la che è poi arrivata sulle coste europee ha trovato istituzioni troppo fragili che rischia­no di essere spazzate via, comprese quelle francesi e tedesche, come dicono i recenti se­gnali provenienti dai mercati.

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L’Europa è chiamata, ora e presto, a un salto di scala, a dar vita a un nuovo patto politico europeo, saldamente ancorato al principio di sussi­diarietà, uno dei pilastri dell’Unione Euro­pea. Senza questa rapida evoluzione politi­ca e non più burocratica, i singoli Paesi non riescono e non riusciranno a essere all’al­tezza delle nuove sfide economiche, finan­ziarie e politiche. Alla nascita della modernità le città italiane erano il centro della vita culturale, econo­mica e politica del mondo. Firenze, Venezia, Genova erano i gangli vitali della prima sta­gione dell’economia di mercato, attorno al­le quali si erano costruiti dei veri e propri patrimoni finanziari e politici.

Geni come Machiavelli, Leonardo, Michelangelo, Pa­cioli furono i frutti più maturi di quella ci­viltà capace di innovazione e creatività an­cora oggi in larga parte insuperate. La sco­perta del Nuovo Mondo fu un primo trau­ma per quella civiltà cittadina, e il momen­to del suo apice, il Cinquecento, fu anche l’i­nizio del suo declino. Un elemento cruciale del tramonto della cultura e dell’economia italiana fu la miopia dei governi di quelle città, che non capirono che sebbene ognu­na fosse in sé grande e grandissima, nessu­na però lo era abbastanza per tenere, da so­la, il passo con le nuove potenze commer­ciali e politiche che si affacciavano sulle A­meriche e sulle Indie. La storia vera si fa an­che con i “se”: oggi infatti possiamo dire che “se” quelle straordinarie città avessero trova­to una via all’unità politica con un nuovo pat­to, rinunciando ciascuna a qualche fetta di so­vranità e di orgoglio nazionale, probabil­mente la storia e il peso economico, cultura­le e politico dell’Italia sarebbero stati diversi.

La Germania, la Francia, l’Inghilterra, l’Ita­lia sono oggi in una situazione non sostan­zialmente dissimile a quella nella quale si trovarono quelle città italiane all’alba della modernità. E da questo punto di vista (eco­nomico e culturale) la similitudine tra i no­stri Paesi e le città italiane è oggi più strin­gente di quanto non lo fosse negli anni Cin­quanta, quando era meno evidente che sta­vano sorgendo all’orizzonte nuove super­potenze (Cina, India, Brasile...). Se i Paesi eu­ropei, dalla grande forza economica, politi­ca, commerciale, e dal grande orgoglio na­zionale, non saranno capaci di perdere qual­cosa della propria autonomia per immagi­nare una nuova stagione europea veramen­te politica, in linea con i grandi ideali dei Pa­dri fondatori, il tramonto economico, cul­turale e politico credo arriverà presto. Per e­vitarlo occorrono interventi coraggiosi, ur­genti e di vasta portata. Innanzitutto, lo stia­mo ripetendo da tempo, occorre dar vita a una vera banca centrale forte e con stru­menti capaci di reggere le pressioni alle qua­li è sottoposta una moneta importante co­me l’euro. Ma perché ciò sia possibile e fun­zioni è necessario un cambiamento di rot­ta nella politica e nella cultura europee.

Le rivoluzioni a metà sono peggiori dello sta­tus quo: un’Eurolandia senza Europa non ha futuro né presente. E, ieri come oggi, le e­nergie per compiere questo passo verso un nuovo patto europeo si debbono trovare pri­ma di tutto nei cittadini, nella gente, nei lo­ro desideri e nella loro voglia di futuro, e nel­le loro virtù civili, e anche nella loro capacità di sacrificio. Perché, come scriveva a metà Settecento l’economista napoletano Anto­nio Genovesi, «lo Stato migliore non è quel­lo dove sono le leggi migliori, ma quello do­ve sono gli uomini migliori».

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Commenti - La sfida che viene dalla crisi

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2011

logo_avvenireIl governo Monti sta muovendo i suoi pri­mi passi, e li sta muovendo tra Roma e l’Europa, la sola direzione giusta e necessa­ria. La crisi, anche quella italiana, va affron­tata rilanciando un grande progetto euro­peo, molto più ambizioso della sola comu­nità economica fondata, poco saldamente, sull’euro: senza politica le monete e le eco­nomie sono troppo fragili, soprattutto nel­l’era della globalizzazione. L’epicentro di questa crisi finanziaria ed economica sono stati gli Usa e uno stile di vita fondato sul de­bito al consumo e sulla finanza creativa, è be­ne ricordarlo ogni tanto; ma l’onda anoma­la che è poi arrivata sulle coste europee ha trovato istituzioni troppo fragili che rischia­no di essere spazzate via, comprese quelle francesi e tedesche, come dicono i recenti se­gnali provenienti dai mercati.

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Più Europa per Eurolandia

Più Europa per Eurolandia

Commenti - La sfida che viene dalla crisi di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/11/2011 Il governo Monti sta muovendo i suoi pri­mi passi, e li sta muovendo tra Roma e l’Europa, la sola direzione giusta e necessa­ria. La crisi, anche quella italiana, va affron­tata rilanciando un grande p...
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Commenti - Obiettivi per l'Italia e l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/11/2011

logo_avvenireÈ da qualche mese che il capitalismo è in fiamme. In Europa l’incendio divampa con forza e l’Italia ne è ora al centro. Quando divampa un incendio in una casa o in un quartiere, se si vuole domarlo è indispensabile agire velocemente, chiamare i pompieri e lasciarli lavorare con i loro mezzi. Durante questa crisi, l’Europa, per usare una felice metafora dell’economista Pier Luigi Porta, invece di chiamare subito i pompieri ha fatto diverse riunioni di condominio e di quartiere prima di intervenire. E quando, poi, le istituzioni europee si sono accorte che l’incendio era serio, che non si spegneva da solo e quindi i pompieri erano veramente necessari, ha fatto la triste scoperta che i pompieri non esistevano, o quantomeno non avevano pompe, idranti e camion, e al loro posto c’erano solo impiegati negli uffici e nei call center.

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L’Italia è certamente sotto un forte, tenace e continuato attacco speculativo, di operatori-cacciatori che vedono un animale in difficoltà e cercano di approfittarne, fino a sbranarlo, se ci riescono. La grande incertezza e l’immobilismo della politica, il grande debito e la poca crescita stanno trasformando l’Italia in un grande malato, che i vicini guardano con preoccupazione per paura di infettarsi. Triste sorte per un Paese con il terzo Pil dell’eurozona, co-fondatore dell’idea e delle istituzioni dell’Europa. Ma è altrettanto vero, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, che non usciremo da questa crisi senza una riforma dell’Europa e delle sue istituzioni.

Se in momenti come quelli che stiamo vivendo ci fosse una Banca centrale europea che svolgesse le funzioni di ogni banca centrale, questi attacchi speculativi non potrebbero neanche iniziare, data la forza dell’economia reale europea. Ma in questi giorni si sono aggiunti due elementi nuovi: l’incertezza su che cosa ne sarà del governo italiano nell’imminente futuro, e il fallimento sostanziale del G20.

Le non decisioni prese dall’Europa, l’invocare per l’Italia l’intervento del Fondo monetario internazionale sono stati segnali che per gli esperti sono andati nella direzione esattamente opposta a quella che, forse, si voleva indicare: invece di rassicurare gli operatori, hanno confermato la tesi di un’Europa senza forza politica, di cui l’Italia sta sempre più diventando un anello debole della catena, e quindi più facilmente attaccabile.
Che fare, qui e ora? Non occorre aspettare neanche un minuto in più dello stretto necessario per dare segnali chiari all’opinione pubblica interna e internazionale. E c’è da sperare che l’attuale Parlamento dia dimostrazione di maturità istituzionale e di responsabilità verso il Paese, facendosi carico delle urgenze proposte da una crisi che sta bruciando enormi risorse e mettendo ancora più a rischio il lavoro degli italiani. Il capo dello Stato ha indicato, del resto, con molta nettezza il bivio: o un nuovo governo che in un orizzonte temporale limitato faccia le cose grandi che servono (sul piano economico come su quello istituzionale e della legge elettorale) o elezioni in tempi rapidi. Ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità, sapendo che il conto lo pagano già ora gli italiani.

Ci sono, poi, diverse proposte che emergono in questi giorni dalla società civile e dagli esperti (tra cui quella degli Italian bonds, la mobilitazione nazionale "dal basso" per l’acquisto dei titoli del nostro debito), ma occorrono fatti, il solo linguaggio che i mercati capiscono. Tenendo ben presente, e agendo politicamente di conseguenza, che in Italia si sta giocando una partita più grande di noi, che non può essere vinta senza una nuova politica europea e una nuova Europa. E infine bisogna ricordarci, e ricordare a tutti, che in una catena l’anello più importante è quello più debole, perché da esso dipende la resistenza di tutta la catena, che si spezza proprio quando l’anello debole cede.

Di questo passo, la catena dell’euro si spezzerà presto, con costi altissimi e non prevedibili. Ma non è un esito ineluttabile. A patto che l’Europa apra, subito e con decisione, una fase costituente per la revisione dei Trattati che porti a una nuova e diversa unità politica, a una comune politica monetaria e fiscale, e anche all’emissione di bond europei (magari per finanziare grandi investimenti, che non appesantiscano gli esausti debiti pubblici dei singoli Stati, che però hanno un estremo bisogno di investimenti per rilanciare la crescita). Nessuno, né la politica, né l’economia, né gli speculatori, ha interesse a un crollo dell’euro e dell’Italia. Sarebbe un errore troppo grave, che impoverirebbe tutti e ciascuno.

La storia, però, è piena di errori, anche gravi, che nessuno individualmente voleva ma che collettivamente abbiamo commesso, quando le crisi hanno superato una soglia critica. Facciamo allora di tutto perché oggi questa soglia non si oltrepassi. Diamoci obiettivi limitati – o, meglio, precisi – e grandi.

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Commenti - Obiettivi per l'Italia e l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 10/11/2011

logo_avvenireÈ da qualche mese che il capitalismo è in fiamme. In Europa l’incendio divampa con forza e l’Italia ne è ora al centro. Quando divampa un incendio in una casa o in un quartiere, se si vuole domarlo è indispensabile agire velocemente, chiamare i pompieri e lasciarli lavorare con i loro mezzi. Durante questa crisi, l’Europa, per usare una felice metafora dell’economista Pier Luigi Porta, invece di chiamare subito i pompieri ha fatto diverse riunioni di condominio e di quartiere prima di intervenire. E quando, poi, le istituzioni europee si sono accorte che l’incendio era serio, che non si spegneva da solo e quindi i pompieri erano veramente necessari, ha fatto la triste scoperta che i pompieri non esistevano, o quantomeno non avevano pompe, idranti e camion, e al loro posto c’erano solo impiegati negli uffici e nei call center.

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Limitati e grandi

Limitati e grandi

Commenti - Obiettivi per l'Italia e l'Europa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 10/11/2011 È da qualche mese che il capitalismo è in fiamme. In Europa l’incendio divampa con forza e l’Italia ne è ora al centro. Quando divampa un incendio in una casa o in un quartiere, se si vuole domarlo ...
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Commenti - Quello che serve all’Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/11/2011

logo_avvenireNel marzo 1933, in un momento per l’Europa e per il mondo molto simile a quello attuale (eravamo a poco più di tre anni dalla grande crisi del 1929), il grande economista inglese John M. Keynes, forse il più grande del Novecento, così scriveva sul Times a proposito dalla crisi: «Siamo in una situazione simile a quella di due camionisti che si incrociano nel mezzo della strada stretta, e sono bloccati l’uno di fronte all’altro perché nessuno conosce in quel caso le regole della precedenza. I loro muscoli non servono; un ingegnere non potrebbe aiutarli; ipotizzare una strada più larga non servirebbe a nulla per uscire da quella empasse.

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Servirebbe soltanto una piccola, piccolissima, chiarezza nel pensare. Allo stesso modo, oggi il nostro problema non è un problema di muscoli e di forza. Non è neanche un problema di ingegneria. Non possiamo neanche parlare di un problema di business e di imprese. Non è neanche un problema di banche. Al contrario, il nostro è stricto sensu un problema economico, o, per dirlo meglio, un problema di Economia Politica».

Parole attualissime, perché grandi, sebbene oggi i camion bloccati siano molti più di due, e ci troviamo nel ben mezzo di un ingorgo che dura da parecchie ore, dove tutti gridano, qualcuno ha anche ostruito la corsia di emergenza provocando l’ira di tanti, e qualcuno inizia a sentirsi male per mancanza di cibo e acqua. Ma, anche ora, occorre pensare meglio e di più, e magari insieme: anche in questo caso, «il mondo soffre per mancanza di pensiero» (Paolo VI).

Che cosa dovrebbe dire, allora, oggi una scienza economica che sia Economia Politica, come diceva appunto Keynes, una economia quindi fedele alla sua vocazione originaria, quando si chiamava, in Italia, "Scienza della pubblica felicità" o "scienza del ben vivere sociale"? Innanzitutto, dovrebbe indicare ai politici che esiste un problema specifico nell’aver pensato e creato una banca centrale europea (Bce) inadeguata e insufficiente per gestire una crisi seria, strutturale e lunga.

Le Banche Centrali hanno svolto e svolgono anche e soprattutto la funzione di "prestatori di ultima istanza", cioè intervengono nei momenti di crisi velocemente e efficacemente. La Bce non è stata creata per svolgere questa funzione, e ciò dipende soprattutto dalla mancanza di fiducia tra gli Stati membri della zona euro, in particolare dei più forti nei confronti dei più deboli.

Una comunità, anche quella europea, per durare ha bisogno di patti o alleanze, non bastano i contratti. Quando l’Europa è nata voleva essere fondata su un patto: l’Europa dell’euro invece è stata il frutto di un contratto-senza-patto, che ha retto fino alla prima grande crisi. Senza una riforma della Bce, che richiede però una rifondazione dell’Europa su basi pattizie più solide di quelle offerte dal tenue cash-nexus dell’euro, le soluzione offerte resteranno sempre parziali e inefficaci.

Il "pensiero chiaro" di Keynes portò alla nascita delle nuove istituzioni della finanza nate a Bretton Woods nel 1946, ma che oggi richiedono un urgente aggiustamento a causa dei grandi cambiamenti operati dalla globalizzazione dei mercati. Ma tutto ciò richiede una fiducia vera tra gli Stati, in particolare in Europa, che ancora non si intravvede.

Una buona Economia Politica oggi direbbe poi che in questa crisi esiste anche un problema Italia, del suo governo che, nonostante gli sforzi, non ha le risorse per gestire efficacemente questa crisi. Non c’è la forza politica, né della teoria economica, per fare subito quelle poche riforme che il "chiaro pensiero" da tempo propone, e da più parti. Infine, un "chiaro pensiero" direbbe che la finanza speculativa va ridimensionata e rallentata. Non possono essere i finanzieri e le agenzie di rating a dettare le regole del gioco democratico, a far cadere i governi (e a scommettere sulla loro caduta), a decidere se fare o non fare i referundum.

La politica deve mostrarsi oggi più forte dei mercati finanziari, e far passare certi provvedimenti urgenti anche quando i mercati non li vogliono, come la Tobin Tax o qualcosa di simile. Quando si annuncia l’introduzione di queste nuove regole le borse vanno giù, ma in questi casi i mercati sono come Pinocchio, che ha bisogno della medicina ma non vuole berla.

Se dal G20 uscirà, come è fortemente auspicabile, una proposta seria di regolazione dei mercati finanziari e di riforma della BCE, i mercati non saranno felici, ma la politica potrà reggere l’urto e governare i mercati solo se avrà dietro un vero progetto politico, su cui fondare nuove regole e nuovi mercati. Anche Keynes scriveva quell’articolo alla vigilia di una World Conference sulla crisi, e così lo concludeva: «Questa conferenza può arrivare al momento giusto, nonostante il suo ritardo. Il mondo è sempre meno disposto ad attendere un miracolo, a credere che le cose andranno bene da sole senza fare la nostra parte».

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Commenti - Quello che serve all’Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 04/11/2011

logo_avvenireNel marzo 1933, in un momento per l’Europa e per il mondo molto simile a quello attuale (eravamo a poco più di tre anni dalla grande crisi del 1929), il grande economista inglese John M. Keynes, forse il più grande del Novecento, così scriveva sul Times a proposito dalla crisi: «Siamo in una situazione simile a quella di due camionisti che si incrociano nel mezzo della strada stretta, e sono bloccati l’uno di fronte all’altro perché nessuno conosce in quel caso le regole della precedenza. I loro muscoli non servono; un ingegnere non potrebbe aiutarli; ipotizzare una strada più larga non servirebbe a nulla per uscire da quella empasse.

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Patto necessario

Patto necessario

Commenti - Quello che serve all’Europa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 04/11/2011 Nel marzo 1933, in un momento per l’Europa e per il mondo molto simile a quello attuale (eravamo a poco più di tre anni dalla grande crisi del 1929), il grande economista inglese John M. Keynes, forse il ...
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Commenti - Va fatto nascere anche «dal basso»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/02/2012

logo_avvenirePer rilanciare l’Italia e l’Europa occorre creare nuovi posti di lavoro. E fin qui è facile essere tutti d’accordo. Su come e dove crearli le opinioni però divergono, e di mol­to. Ciò che è certo è che nei prossimi anni i due principali settori dell’economia, quello pubblico e quello privato-capitalistico (o, con una espressione fondamentalmente fuorviante, l’economia "for profit"), potran­no assorbire poco più della metà della quo­ta di lavoro che occupavano prima della cri­si. E la ragione è semplice, sebbene un po’ ar­ticolata.

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In primo luogo, c’è l’emergere di nuovi co­lossi economici – come Brasile e India – che nella divisione internazionale del lavoro svol­gono oggi, a costi più bassi, buona parte del­le attività manifatturiere su cui l’Italia ha co­struito, a partire soprattutto dal dopoguer­ra, il suo miracolo industriale. In questi an­ni abbiamo già visto un forte cambiamento dell’industria manifatturiera italiana, desti­nato ad accentuarsi. In secondo luogo, si la­vorerà più a lungo, e la quota di occupazio­ne femminile crescerà, essendo ancora mol­to, troppo, bassa in Italia. Infine, la ragione forse più decisiva è l’inesorabile (e salutare) decrescita dell’occupazione nella Pubblica amministrazione cui assisteremo nei pros­simi anni: tra dieci anni i dipendenti pubblici saranno circa 1/3 meno di quelli del pre-cri­si, e tra venti anni meno della metà.

Il debito pubblico è cresciuto anche come risposta sbagliata a un settore privato in cri­si, che ha determinato una crescita dopata del settore pubblico, evidentemente inso­stenibile (in Grecia, ma anche in Italia, Fran­cia e altri Paesi latini). E qui c’è anche una re­sponsabilità della teoria economica di ori­gine keynesiana, che ha centrato sulla do­manda da parte del settore pubblico il ful­cro della leva economica di un Paese, muovendosi così in direzione opposta a quella indicata da Friedrich Von Hayek. Questo e­conomista austriaco aveva invece capito che se i posti di lavoro non nascono "dal basso", dai cittadini-imprenditori che hanno le informazioni e le conoscenze dei bisogni propri e di quelli degli altri, questi posti di la­voro funzionano, a volte e in parte, per ri­lanciare l’economia nel breve periodo, ma sono posti di lavoro normalmente insoste­nibili nel tempo. Quando il lavoro nasce dal Settore pubblico, questa occupazione è, in larga misura, 'sfasata' di un ciclo tempora­le rispetto ai cambiamenti dei gusti e dei bi­sogni della gente; e in un mondo veloce e globalizzato come il nostro, questa sfasatu­ra significa produrre beni e servizi inadeguati o inutili.

Di Hayek, purtroppo, è stato spesso fatto un uso ideologico a difesa del libero mercato come l’unico meccanismo che assicura sem­pre e in ogni caso il massimo di efficienza e di libertà, una strumentalizzazione che ha allontanato dal suo pensiero molta gente, impedendo così che arrivasse al grande pub­blico la perla nascosta all’interno del suo si­stema teorico, vale a dire il ruolo cruciale svolto nelle società moderne dalla divisione della conoscenza. Questa divisione della co­noscenza (diversa dalla "smithiana" e classi­ca divisione del lavoro ), fa sì che solo chi è vi­cino ai problemi abbia gli elementi rilevan­ti per fare le scelte giuste e sostenibili, anche e soprattutto in faccende economiche e di impresa. Che cosa serve ai coltivatori delle viti delle Langhe lo conosce la comunità dei mestieri che ruota attorno a quella produ­zione, fatta di conoscenza tacita e specifica accumulata nelle scelte quotidiane compiute attraverso i secoli. È questa conoscenza quel­la veramente utile e indispensabile per fare le scelte produttive giuste. Se, quindi, i nuo­vi lavori non nascono dal basso, dai cittadi­ni e dalla società civile, dell’emergere cioè di questo intreccio di cultura e conoscenza con­testualizzata, i posti di lavoro saranno qua­si sempre insostenibili. Se vogliamo, allora, rilanciare davvero l’occupazione in Italia e in Europa, occorre o­perare una rivoluzione pacifica, ma di enor­me portata culturale. Occorre liberare le for­ze civili che sono state occupate in questi ul­timi decenni dalla burocrazia (e da partiti senza partecipazione di base), e far sì che i cittadini si ri-occupino della cosa pubblica.

Nella storia dopo gravi crisi se ne è usciti con un nuovo protagonismo della società civile, che ha dato vita a cooperative, banche, imprese, mutue, formazioni partiti, sindacati: oggi ci attende qualcosa del genere, e subito.

Non per metterci nelle mani del mercato "for profit" o degli speculatori, ma per riattivare l’economia civile, la tradizione che ha fatto grande l’Italia, dal Quattrocento ai distretti del made in Italy. È da qui che rinasceranno anche oggi quei nuovi posti di lavoro, e quindi proprio dai punti di forza del modello italiano-comunitario, che già oggi continua a creare nuovi posti di lavoro nel cosiddetto Terzo Settore. Che merita tutta la giusta considerazione da parte di chi sta traghettando l’Italia fuori dalla tempesta, e che va fatto crescere. C’è infatti bisogno di un nuovo e più ampio Terzo Settore, capace di entrare stabilmente in nuovi ambiti – quali cibo, arte, artigianato, il mondo della creatività, ma anche dell’energia e dei beni comuni – perché esistono, e proprio in questi tempi di crisi, enormi potenzialità ancora non sfruttate. Ogni crisi è «distruzione creatrice», ma è necessario saperla leggere, interpretare, muoversi insieme, e senza aspettare ancora a lungo.

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Commenti - Va fatto nascere anche «dal basso»

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/02/2012

logo_avvenirePer rilanciare l’Italia e l’Europa occorre creare nuovi posti di lavoro. E fin qui è facile essere tutti d’accordo. Su come e dove crearli le opinioni però divergono, e di mol­to. Ciò che è certo è che nei prossimi anni i due principali settori dell’economia, quello pubblico e quello privato-capitalistico (o, con una espressione fondamentalmente fuorviante, l’economia "for profit"), potran­no assorbire poco più della metà della quo­ta di lavoro che occupavano prima della cri­si. E la ragione è semplice, sebbene un po’ ar­ticolata.

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Il lavoro è da rifare

Il lavoro è da rifare

Commenti - Va fatto nascere anche «dal basso» di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 12/02/2012 Per rilanciare l’Italia e l’Europa occorre creare nuovi posti di lavoro. E fin qui è facile essere tutti d’accordo. Su come e dove crearli le opinioni però divergono, e di mol­to. Ciò che è certo è...
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2012-03-03 09:40:24Commenti - Giochi d'azzardo, invadenza dela pubblicità e tutela dei soggetti più deboli

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/03/2012

logo_avvenireSta lievitando il dibattito sulla necessità di vietare la pubblicità dei giochi d’azzardo e di rivedere i criteri di rilascio delle licenze e delle concessioni in materia di giochi e scommesse. E anche nelle sedi parlamentari e di governo l’attenzione si concentra (finalmente!) proprio su questi temi. È veramente un’ottima notizia. La storia ci ha mostrato che i tempi di crisi sociale – e di decadenza morale – vedono sempre la crescita della superstizione, della magia, delle scommesse.

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La stessa sorte ci è toccata in questi decenni di decadenza civile, dove il vuoto lasciato dalle ideologie è stato riempito principalmente dal mercato for-profit e dagli speculatori, che hanno riciclato "a scopo di lucro" anche questi elementi irrazionali e tendenzialmente autodistruttivi degli esseri umani. Tutto fa brodo nella tavola dei ricchi Epuloni. E così in tante zone grigie della periferia dei mercati sono cresciuti, troppo e male, dei cespuglioni che hanno un urgente bisogno di essere potati e riportati entro i limiti richiesti da una società che vuole definirsi (ed essere davvero) civile. Ma è il caso di allargare un po’ il discorso. Una delle zone della 'città dell’uomo' troppo trascurate e inselvatichite è, infatti, quella della pubblicità rivolta ai bambini.

Negli Usa ad esempio, nell’arco di venti anni, la spesa totale in pubblicità tv diretta a questo target è aumentata di oltre 100 volte, e in Europa e in Italia la situazione non è purtroppo diversa. La pubblicità inserita all’interno dei programmi per bambini e ragazzi è una vera e propria anomalia e patologia del nostro sistema capitalistico. L’aspetto più grave (e di difficile comprensione) è la quasi totale assenza di attenzione e protesta nei confronti di questa sistematica e scientifica aggressione verso i nostri figli, se si eccettuano alcune voci troppo isolate (una interrogazione al Parlamento europeo, alcune denunce delle associazioni familiari, ciclici articoli e approfondimenti sulle pagine di questo giornale, il documentato sdegno di studiosi come l’economista Stefano Bartolini). Studi clinici hanno ormai mostrato che indurre al consumo i bambini – soprattutto quelli/e sotto i 12 anni – produce disturbi cognitivi, ansie, obesità, e le tipiche patologie di cui sono sempre più vittime i più piccoli nella società dell’iper-consumo. Tanto che in alcuni Paesi europei (Svezia, Francia) si stanno prendendo provvedimenti seri per combattere il fenomeno, con una particolare attenzione alla pubblicità dei prodotti alimentari.

Quando in Italia? Non si tratterebbe, ovviamente, di abolire tout court la pubblicità sui prodotti rivolti ai bambini (anche queste imprese debbono vivere e crescere), ma semplicemente di regolamentarla. Ad esempio, la pubblicità su tali prodotti non dovrebbe essere rivolta direttamente ai bambini-consumatori ma ai genitori; e quindi non essere inserita nelle fasce orarie e nei programmi specifici per i bambini, ma in quelle per gli adulti. C’è invece qualcosa di immorale e di sbagliato nel rivolgersi, con tecniche di seduzione e persuasione molto sofisticate, ai bambini i quali poi tra l’altro, pongono in essere pressioni di ogni tipo nei confronti dei genitori, una dinamica che deteriora la qualità delle relazioni in famiglia. Un giocattolo produce un miglioramento della qualità relazionale in una famiglia quando è un dono libero dell’adulto al bambino; produce invece effetti opposti quando l’oggetto del desiderio indotto arriva al termine di una estenuante trattativa originata da una pubblicità aggressiva di cui sono oggetto proprio i piccoli. Un discorso analogo riguarda la crescente pubblicità commerciale negli spazi scolastici. Il mercato è una faccenda per adulti, perché richiede la capacità di discernimento e responsabilità. Invece la società dei consumi, per usare l’efficace espressione del politologo americano Benjamin Barber, ha bisogno di «adulti bambini e bambini adulti». Teniamo, allora, i bambini fuori dall’azione dei mercanti cercatori di profitti, e accompagniamoli – a partire dalla famiglia – perché arrivino preparati all’incontro con il mercato e con il consumo, come cittadini responsabili e creativi.

L’infanzia deve essere il regno e il tempo della gratuità, perché se nei primi anni di vita non sperimentiamo la gratuità e il dono da adulti saremo dei pessimi lavoratori e imprenditori. Oggi si parla sempre più di decrescita, ma la decrescita veramente buona e urgente non è quella del Pil, ma quella della dimensione economica e mercantile all’interno della vita. Ci sono troppi venditori che dalla voce della radiosveglia mattutina fino a notte inoltrata cercano di piazzare, promuovere, spingere prodotti.

Dobbiamo proteggere alcuni luoghi del vivere dalla mercificazione del mondo: e un luogo cruciale per il mondo di oggi e di domani è certamente quello dei bambini, che sono troppo importanti per essere ridotti a consumatori. Hanno tutto il diritto, e noi abbiamo tutto il dovere, di crescere in un villaggio 'a più dimensioni' e non in un triste supermercato globale.

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2012-03-03 09:40:24Commenti - Giochi d'azzardo, invadenza dela pubblicità e tutela dei soggetti più deboli

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/03/2012

logo_avvenireSta lievitando il dibattito sulla necessità di vietare la pubblicità dei giochi d’azzardo e di rivedere i criteri di rilascio delle licenze e delle concessioni in materia di giochi e scommesse. E anche nelle sedi parlamentari e di governo l’attenzione si concentra (finalmente!) proprio su questi temi. È veramente un’ottima notizia. La storia ci ha mostrato che i tempi di crisi sociale – e di decadenza morale – vedono sempre la crescita della superstizione, della magia, delle scommesse.

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No al supermercato globale

No al supermercato globale

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Commenti - Pagelle scomode , realtà globale incalzante

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/10/2011

logo_avvenireLa fiducia è sempre stato un fattore decisivo dell’economia e del mercato. L’elemento nuovo di questi tempi di crisi è il ruolo cruciale della fiducia non solo per la singola impresa o banca, ma per gli Stati. Se le agenzie di rating danno voti di affidabilità anche ai debiti pubblici di un Paese, ciò mette in crisi il rapporto tra economia e politica, e quindi ci costringe a ripensare la natura della sovranità e della democrazia. E questo è destinato a diventare il tema centrale del dibattito pubblico dei prossimi anni.

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Non stupisce, allora, che le istituzioni europee abbiano subito voluto annunciare che il declassamento di Moody’s non cambia nulla nell’affidabilità economico-finanziaria dell’Italia: ciò che però conta veramente è se i mercati crederanno più alla politica europea o alle agenzie di rating. Per ora questo ultimo declassamento non ha avuto effetti nei mercati, ma non credo che le dichiarazioni delle istituzioni europee saranno capaci di rassicurare i mercati per lungo tempo. Stiamo vivendo una fase di attesa, che durerà ancora per poco.

Non dobbiamo perciò continuare a commettere l’errore di sottovalutare, sia in Italia che in Europa, il valore di questi declassamenti, che vanno presi seriamente, e non rinviandoli al mittente. È fin troppo ovvio che Moody’s e le altre agenzie di rating sono una via di mezzo tra arbitri e giocatori, poiché i loro proprietari sono anche importanti attori del mondo della finanza e della speculazione. Certo, sarebbe molto meglio, e fortemente auspicabile, che nascessero presto agenzie di rating espressione della società civile internazionale, che non debbano rispondere ad azionistifor-profit ma siano istituzionalmente tesi alla promozione del bene comune. Ma per ora queste nuove agenzie civili di rating non ci sono, né sono all’orizzonte, e non ci conviene delegittimare i messaggi che ci inviano Moody’s e le sue sorelle, soprattutto quando sono più di una e concordi tra di loro.

Salvo situazioni veramente estreme, non è mai una scelta saggia, né utile alla crescita individuale e collettiva, quella di screditare chi pronuncia un parere critico nei nostri confronti. Non conviene normalmente ai genitori criticare l’insegnante che dà un brutto voto al loro figlio, non conviene a una squadra di calcio attribuire la sconfitta all’arbitro, non conviene all’imprenditore accusare i clienti di non essere abbastanza intelligenti per capire e acquistare i suoi prodotti. Anche se avessimo degli elementi oggettivi per criticare professori, arbitri e clienti, rimarrebbe vero che delegittimare i loro comportamenti non aiuta a far studiare di più i nostri figli, a giocare meglio e a innovare nelle nostre imprese. Le partite della vita non si vincono lamentandosi e piangendo: queste cose le fanno i bambini, e noi li rimproveriamo. Non esistono complotti di nemici dell’Italia che ci stanno attaccando e screditando.

La realtà dei fatti è che nonostante i timidi segnali di questa lunga estate, la situazione del debito pubblico italiano, e più in generale del sistema economico, industriale e produttivo rimane seria e grave, come dice anche l’enorme spread (374 punti) tra i Bund tedeschi e i Btp, che continua ad essere troppo alto nonostante le parole rassicuranti dell’Europa. Questo spread è molto più di un numerino, perché dice quanto al nostro Paese costa la sua bassa affidabilità. Che cosa possiamo fare allora, se vogliamo prendere sul serio questi segnali? L’acquisto dei nostri Btp da parte della Banca centrale europea non può durare ancora per molto. Poiché questi acquisti stanno svolgendo una funzione sostitutiva della nostra affidabilità, come Paese dobbiamo assolutamente e velocemente recuperare credibilità, dando presto altri segnali di sacrificio e impegno. Nessuno dei protagonisti dell’economia, della finanza e della politica internazionale crede che potremo raggiungere il pareggio di bilancio solo con la lotta all’evasione fiscale: occorrono strumenti più certi ed efficaci, che hanno nomi noti. Eppure alla fine la via è semplice: deve dare di più chi ha di più (patrimoniale) e chi di più dà, più deve avere riconosciuto (fattore famiglia). Dobbiamo, poi, tener presente che l’uscita da questa crisi richiederà diversi anni, lustri, forse decenni, perché essa è il frutto di un modello economico insostenibile. Occorre evolvere verso un sistema economico con meno finanza speculativa e più imprenditori civili, con meno Stato e più società, con meno individui e più relazioni.

Un elemento che può apparire lontano è l’importanza di migliorare la nostra cultura ed educazione economica. La globalizzazione ha veramente cambiato il funzionamento del mondo, dando all’economia e ai mercati un ruolo nuovo e cruciale. C’è bisogno di una nuova stagione di scuole di formazione civica, nelle quali si possa studiare a fondo la nuova economia. Per cambiare questo sistema economico occorre prima capirlo, e per capirlo occorre comprendere linguaggio e le leggi della casa, l’oikos-nomos del villaggio globale.

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Commenti - Pagelle scomode , realtà globale incalzante

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pubblicato su Avvenire il 06/10/2011

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Non minimizzare, non perder tempo

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