Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Più democrazia, meno finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2012

logo_avvenireDa questa crisi usciremo solo con più democrazia e meno finanza. Ce lo ha ricordato nei giorni scorsi Amartya Sen, l’economista-filosofo forse più influente in questa fase della vita del mondo, in diverse conferenze che ha tenuto in Italia. Il suo discorso è stato a tratti duro nei nostri confronti (Italia, Grecia, Spagna) poiché, ha sottolineato con forza, «voi avete inventato la democrazia e ora state abdicando a essa sotto la dittatura di finanza, mercati e spread».

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Citando John Stuart Mill, Sen ha ricordato che la democrazia è essenzialmente e prima di tutto: government by discussion (governare attraverso la discussione) e quindi non è soltanto il governo delle maggioranze, né delle quote di Pil (come accade nelle società di capitali dove non contano le persone o le parole, ma le quote di capitale), né tanto meno il governo dei mercati finanziari. Parole sante, se pensiamo a quanta poca democrazia nella gestione di questa crisi c’è oggi in Europa e nel mondo.

Siamo in pieno G8, un evento che può avere la sua importanza in questo momento cruciale del capitalismo, anche per gli Usa che, sebbene abbiano una situazione economica privata e pubblica sostanzialmente diversa dalla nostra, non possono, né devono dimenticare, che la crisi finanziaria globale ha avuto il suo baricentro negli States in uno stile di vita fondato sul debito al consumo e in una finanza speculativa ipertrofica. Per questo Obama e gli americani non possono né devono esimersi dalla loro corresponsabilità, nella genesi della crisi e quindi nella sua gestione e nel superamento.

Da questa riunione dei Grandi dovrebbe uscire finalmente una proposta di riforma dell’architettonica della finanza: finché le sorti dell’economia mondiale saranno in mano ai centri di potere finanziari cercatori di profitto di breve periodo, sia direttamente che attraverso le tante grandi imprese che ormai controllano indisturbati, non si realizzeranno le pre-condizioni per un vero rilancio dell’economia e dell’occupazione. Ed è qui che si comprende l’importanza della democrazia. La democrazia politica e civile oggi dipende anche e soprattutto da una maggiore democrazia economica: la ricchezza è sempre più concentrata in mano di pochi, sempre più lontani dai luoghi del lavoro e della vita, i quali però determinano con i loro umori e i loro interessi le sorti di famiglie, comunità e Stati.

Va ricordato ogni tanto che i famosi "indici di borsa" che stanno dominando da anni le nostre cronache, occupando spazi che andrebbero dedicati a temi non meno urgenti come la crisi ambientale e morale del nostro tempo, rappresentano la preoccupazione di una quota molto esigua della popolazione. Le società quotate in Borsa non sono che pochi punti percentuali rispetto al numero totale delle società (Italia 0,01, Germania 0,06), i cui proprietari sono a loro volta una percentuale irrisoria della popolazione di quei Paesi. Ciò non significa ovviamente che questi indici non dicano qualcosa di importante, ma non parlano di democrazia e quindi non devono dire troppo, come invece stanno dicendo di questi tempi, quando i mercati finanziari con i loro alti e bassi condizionano elezioni politiche, gradimenti dei governi, destino di popoli. C’è urgente bisogno di una decrescita della finanza e dei suoi indici, e della crescita della democrazia e dei suoi indicatori (uno su tutti: la quantità e la qualità dell’occupazione in un Paese), indici che non transiteranno mai nei mercati finanziari.

Si comprende, allora, che non possiamo lasciare alla finanza, alle banche e ai soli "addetti ai lavori" tecnici la sorte dei popoli. La Grecia e la Spagna, che in questo momento stanno vivendo giorni drammatici, si trovano in queste condizioni non solo per un evidente malgoverno politico e per loro proprie responsabilità: sono state anche vittime di una bufera finanziaria ed economica mondiale che le ha travolte e della quale certamente non avevano e non hanno specifica responsabilità. Per di più, il modo con cui l’Europa e le istituzioni internazionali hanno gestito la crisi greca è stato oltre che scandaloso sul piano etico, anche sciocco e irresponsabile sul piano economico, civile e sociale. Il Pil della Grecia corrisponde al 2 per cento del Pil europeo: se si fosse intervenuti subito con decisione e con vera solidarietà, quella crisi sarebbe stata riassorbita con pochi sacrifici. Se oggi la Grecia fosse costretta a uscire dall’euro, i danni più gravi li avrebbe l’Europa, non la Grecia. A salvare la Grecia ma anche la Spagna non saranno i mercati, ma solo la politica e quindi la democrazia. I mercati sanno risolvere e gestire cose semplici, ma quando si ha a che fare con il destino dei popoli e la sorte di istituzioni politiche frutto di sangue, ideali e sacrifici, come nel caso dell’Europa unita, solo la politica può trovare e offrire soluzioni sostenibili, e deve impegnarsi a farlo.

Più democrazia allora, più discussioni allora, più ascolto di chi parla e anche di chi, in questo momento, grida: un ascolto che non arriverà mai dai mercati finanziari, che non hanno queste orecchie, ma che se non arriva neanche dalla politica, i popoli che vogliono “vivere prima di economizzare” saranno costretti a ribellarsi, magari a uscire dall’Euro, con gravi conseguenze per i singoli Stati, per l’Europa e per l’ordine economico mondiale.

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Commenti - Più democrazia, meno finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/05/2012

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La risposta è politica

La risposta è politica

Commenti - Più democrazia, meno finanza di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/05/2012 Da questa crisi usciremo solo con più democrazia e meno finanza. Ce lo ha ricordato nei giorni scorsi Amartya Sen, l’economista-filosofo forse più influente in questa fase della vita del mondo, in divers...
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Commenti - Una grammatica da riscoprire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/05/2012

logo_avvenireC’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei con­fronti del fisco e della politica: una crescen­te intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le proprie scel­te, anche quelle più tipicamente economi­che, non seguono un freddo calcolo mone­tario costi-benefici, ma mettono in campo molte altre risorse emotive, simboliche, eti­che, che ci portano ad esempio a 'punire' i comportamenti che leggiamo come ingiu­sti.

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Tutto ciò è molto evidente in tema fisca­le. Anche se tutta la comunicazione politica (compresi gli spot) cerca di convincerci che lo scopo del pagamento delle tasse è essen­zialmente la produzione di beni pubblici (sa­nità, infrastrutture, sicurezza...) e di beni me­ritori (scuola, cultura, arte...) di cui poi tutti usufruiamo, in realtà la raccolta fiscale è so­lo in parte usata per la realizzazione di que­sti beni pubblici e meritori che poi 'ci ripa­gano' o dovrebbero ripagarci.

Per cogliere, allora, correttamente e sostanzialmente la natura delle tasse occorre scomodare assie­me a quelle del contratto anche la categoria e la grammatica del 'dono', una parola og­gi purtroppo totalmente assente dal dibatti­to pubblico, assente anche perché l’abbia­mo trattata troppo male in questi ultimi de­cenni.

Il dono è qui importante per diverse ragioni, e non solo perché una quota della raccolta fi­scale viene destinata, ed effettivamente usa­ta, a scopi redistributivi (prendere da chi più ha per dare a chi ha meno). Basti pensare al fatto, scritto nelle prime pagine di tutti i (buo­ni) manuali di Scienza della finanze, che l’a­liquota media delle imposte è sempre più al­ta di quella equa, poiché c’è sempre una quo­ta di cittadini che evade o elude le tasse, e u­na parte della pubblica amministrazione che spreca risorse – anche se va ricordato che la decenza di una società si misura da quanto esigua è questa quota di evasione e di spre­co, e da quanto è sostenibile l’extra-tassa che per colpa loro pagano gli altri. Ma proprio a causa di questa sua natura che è anche di do­no, il rapporto tra il cittadino, gli altri concit­tadini e le istituzioni è molto complesso.

Chi pratica e conosce i doni, cioè tutti noi, sa che il dono vero è un intreccio inestricabile di disinteresse e interesse. Quando una per­sona dona qualcosa esce dalla logica delle e­quivalenze e delle garanzie, è disinteressato; al tempo stesso, chi dona si attende un atto di reciprocità verso sé o verso altri, sebbene non lo pretenda, fosse anche solo un grazie: è quindi interessato a un rapporto, perché non è indifferente al che cosa produce il suo dono. E se e quando questo rapporto di re­ciprocità non c’è, il circuito del dono si in­terrompe. Il vero dono si compie sempre al­l’interno di una forma di patto, e quindi di re­ciprocità.

Quando, allora, per tornare al fisco, chi vuo­le genuinamente pagare le proprie tasse ha l’impressione, o la certezza, che molti suoi concittadini non le paghino (anche perché si parla tanto, troppo, di evasione), o che lo Sta­to non faccia la sua parte nel patto, o è ten­tato di non pagarle più (evasione), o fa di tut­to per pagarne il meno possibile (elusione), o, nei casi peggiori, ha reazioni di sdegno che possono diventare anche forti, proprio per­ché essendo l’evasione anche una faccenda di dono e di reciprocità traditi, ci si compor­ta in una maniera molto simile a chi si sente ingannato da un amico importante – è em­blematico che una volta, e forse ancora og­gi, quando due fidanzati di lasciavano si re­stituivano i doni. Oggi gli italiani onesti, cioè la maggioranza, avvertono con forza questa assenza di reciprocità da parte del settore pubblico (nazionale, ma anche europeo). Ed è un fatto che va preso molto più sul serio di quanto non si stia facendo finora.

È serio e grave continuare ad assistere iner­mi allo spettacolo di parlamentari che an­nunciano tagli di stipendi, di privilegi e di seggi che non arrivano mai, o che – quando arrivano – sono talmente irrisori da diventa­re offensivi. Così come è umiliante e frustante continuare ad aumentare le imposte indi­rette alle famiglie o le imposte sulla prima casa, e nemmeno iniziare un dibattito sulle tasse ai grandi patrimoni e alla finanza.

Così come è stato infelice, anche se forse motivato da buone intenzioni, il dibattito interno all’Agenzia delle Entrate (e diventato subito di pubblico dominio) sull’opportunità di introdurre incentivi per chi denuncia i propri concittadini. Le forme di correzione civile che rafforzano il patto sociale sono sempre costose e rischiose per chi le pratica, poiché quel costo esprime la volontà di ripristinare un rapporto di amicizia civile che si è incrinato. Quando, invece, le denunce non costano nulla e anzi rendono qualche quattrino, non servono ad altro che a incattivire e avvelenare i rapporti di cittadinanza; poiché non si premiano le virtù, come sarebbe necessario e urgente fare, ma si incentiva chi denuncia i vizi. Due operazione che sono, civilmente, l’una l’inverso dell’altra.

Per questo bisognerebbe accogliere con grande simpatia l’idea di alcuni Comuni di occuparsi direttamente della riscossione delle imposte, in modo da rendere più sussidiario e comunitario anche questo momento della vita civile, nel quale il 'come' conta almeno quanto il 'che cosa'.

Non ritroveremo, infatti, un nuovo rapporto con il fisco e, in generale, con il pubblico attivando soltanto i registri delle sanzioni e degli incentivi, ma rimettendo il dono nel posto che gli è proprio, cioè al centro del patto sociale e della sfera pubblica, e liberandolo dai luoghi privati troppo angusti nei quali lo abbiamo confinato, poiché è sempre il dono che fonda e rifonda le comunità. La communitas: quel dono (munus) reciproco (cum) che è alla radice anche della scelta civile fondamentale di pagare le tasse.

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Commenti - Una grammatica da riscoprire

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 13/05/2012

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Ma le tasse sono pure dono

Ma le tasse sono pure dono

Commenti - Una grammatica da riscoprire di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 13/05/2012 C’è un tratto che accomuna molti dei fenomeni di più sano disagio nei con­fronti del fisco e della politica: una crescen­te intolleranza e avversione verso l’iniquità. Gli esseri umani nel compiere le pr...
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Commenti - I numeri e la verità del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2012

logo_avvenireI dati, i numeri, non sono tutti uguali. Alcuni parlano più forte di altri, e dicono cose trop­po serie per dimenticarli non appena la crona­ca ci mostra altri numeri e altri dati. Un tasso di disoccupazione che è quasi raddoppiato in cin­que anni non deve lasciarci in pace. Sotto quel 9.8% ci sono infatti nascosti, ma poi non così tanto, 500mila volti e storie di persone che in un solo anno hanno perso il lavoro, senza ritrovar­ne un altro. Certo, tra questi lavori persi ce ne sa­ranno alcuni finiti perché iniziati male, artifi­cialmente, senza creatività né intelligenza nelle imprese e nei lavoratori. Ma questi saranno un’e­sigua minoranza: tutti gli altri hanno perso sem­plicemente il loro lavoro.

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Il posto di lavoro è un luogo dell’umano dove si soffre e si gioisce non solo per ottenere il salario, ma per dare senso al nostro vivere per anni in quel luogo e all’interno di quei rapporti. Quan­do quel posto di lavoro si perde, e non lo si vole­va perdere, finiscono perse anche persone, sto­ria, rapporti. Non dobbiamo infatti dimenticare che il lavoro, il lavorare e il posto di lavoro non sono mai faccende individuali e individualisti­che. I mestieri non s’imparano studiando libri o, tanto meno, seguendo corsi online, ma solo pra­ticandoli all’interno di comunità lavorative che sono anche queste comunità educanti. Si lavo­ra all’interno di gruppi, uffici, reparti, diparti­menti; e imparare un mestiere significa, anche e soprattutto, apprendere l’arte di costruire rela­zioni significative e serie in quei luoghi, poiché lavorare è soprattutto inserirsi in una rete socia­le.

Ecco perché la produzione e il valore aggiun­to generati da un’impresa o da una organizza­zione non sono mai la somma del prodotto di tanti individui in tanti singoli posti di lavoro, ma il frutto della coralità produttiva di un team, di un gruppo, di una comunità, che va ben oltre l’a­zienda includendo clienti, fornitori, concorren­ti e territorio. Per questo, quando un lavoratore lascia un luo­go di lavoro, si producono due grandi effetti. In­nanzitutto il singolo lavoratore non perde solo il posto di lavoro ma, in un linguaggio un po’ ari­do, perde un investimento in un capitale speci­fico a quel luogo di lavoro, che il lavoratore u­scendo porta con sé solo in minima parte. Il va­lore di un lavoratore in un’impresa – il suo co­siddetto 'capitale umano' – non dipende solo da quanto e cosa ha studiato, dal suo curriculum vitae. Dipende anche, e sempre più con il pas­sare degli anni, dall’insieme di relazioni di cui si compone il suo lavorare, un capitale che non è però di sua proprietà, perché lo possiede solo quando si attivano quelle determinate relazioni, quei beni relazionali.

Ecco perché – il secondo effettoquando un la­voratore lascia il suo posto di lavoro, è tutta la coralità produttiva di quel luogo che si impove­risce, e ci vuole tempo per ricreare il coro, so­prattutto in quelle comunità di lavoro dove la co­noscenza più importante è quella tacita conte­nuta nella testa e nell’anima delle persone, del­la quale non si possono mai dare fino in fondo 'le consegne' quando si parte.

Certo, a volte è bene che i gruppi si scompagino, si rinnovino, e che i lavoratori si ri-assemblino in nuove combinazioni produttive e in nuove comunità lavorative creative; ma quando lo scompaginamento dipende dalla crisi economica, chi esce dal gioco rischia di non rientrarci più, o di rientrarci tardi e a condizioni troppo sfavorevoli. Quando esco da un lavoro dove avevo investito quindici anni di vita e di intelligenza, e rientro con fatica grazie a una agenzia interinale a fare un lavoro stagionale, quei due posti di lavoro sono cose molto diverse, da troppi punti di vista.

Lavorare non è mai solo occupare un generico posto di lavoro, ma un esercizio morale fondamentale per capire il nostro posto e il nostro compito nel mondo. Quando allora in un Paese cinquecentomila persone perdono il lavoro accade qualcosa di molto grave, di molto più grave del calo degli indici di borsa, del calo dei consumi e persino dello spread e del Pil.

Una cultura che mette sullo stesso piano i numeri degli spread, quelli dei consumi e quelli del lavoro è una cultura disorientata e disorientante, perché non capendo la priorità del lavoro non capisce più neanche quelle esperienze umane importanti che sono il consumo e la finanza, ma che se perdono contatto con il mondo del lavoro, con i lavoratori, con la fatica o con il travaglio (una bella parola che evoca la generatività del lavoro), diventano subito consumismo edonista e finanza puramente speculativa. Perché è il lavoro che dà la giusta misura al rapporto con i beni e con il denaro.Quel 9.8% disoccupazione ci grida, insomma, che oggi la grande priorità dell’Italia e dell’Europa è il lavoro, ci obbliga a renderci conto che ormai ci sono milioni di giovani che nel mondo del lavoro non entreranno proprio. A meno che qualcuno - che non può più essere solo lo Stato o la grande impresa - il lavoro, questo benedetto lavoro, non lo crei e in un certo senso non lo reinventi.

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Commenti - I numeri e la verità del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 06/05/2012

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Altro che spread

Altro che spread

Commenti - I numeri e la verità del lavoro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 06/05/2012 I dati, i numeri, non sono tutti uguali. Alcuni parlano più forte di altri, e dicono cose trop­po serie per dimenticarli non appena la crona­ca ci mostra altri numeri e altri dati. Un tasso di disoccu...
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Commenti - Oltre il Pil, con i capitali civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/04/2012

logo_avvenireAnche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la crescita», anche Angela Merkel si sta convincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, meno male, anche a tanti tra coloro che contano – che basarsi unicamente sul «patto fiscale» non solo è troppo poco, ma rischia di peggiorare ulteriormente la situazione economica e sociale dei Paesi europei più fragili. Crescita, dunque; ma crescita di che cosa? Senza abbracciare le tesi radicali, e a volte ingenue (soprattutto nelle terapie che propone) della cosiddetta decrescita, occorre essere coscienti che la domanda più importante sulla crescita è proprio il «che cosa?». Quando si pensa alla crescita, normalmente si pensa alla crescita del Pil.

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E si sbaglia, perché, anche se non lo si dice mai, questa crisi è stata generata pure da una crescita sbagliata del Pil. In questi ultimi decenni, infatti, il Pil è cresciu­to troppo e male, poiché è cresciuto – e cresce – a spese dell’ambiente natu­rale, sociale, relazionale, spirituale, a­limentando l’ipertrofia della finanza speculativa. In Italia e nell’Europa in crisi, il Pil è poi cresciuto anche grazie a un abnorme aumento del debito pubblico – è troppo comodo e irre­sponsabile far aumentare il Pil au­mentando la spesa della pubblica am­ministrazione.

Oggi non abbiamo alcuna garanzia che rilanciare il Pil significhi anche aumentare i posti di lavoro e il be­nessere delle persone, poiché se la crescita continuasse a essere guidata e drogata dalla speculazione finan­ziaria, e quindi dalle rendite, la vita degli italiani continuerebbe certa­mente a peggiorare anche con qualche punto in più di Pil. Come lo co­nosciamo oggi, il Pil non è né un in­dicatore di benessere umano in ge­nerale (e questo lo si sa), ma neanche un buon indicatore di benessere economico nell’era della finanza (e questo lo si sa meno). Se vogliamo misurare bene la buona crescita, occorre riformare il Pil e soprattutto affiancargli altri indicatori, che però – e qui sta il punto – siano indicatori di stock e non di flussi (com’è il Pil).

In quale senso? Il concetto di «Prodotto interno lordo» nasce nel Settecento in Francia (con i Fisiocratici), con l’intuizione geniale e rivoluzionaria che la forza economica di un Paese non la misurano i capitali o gli stock ma il red­dito annuale (un flusso quindi), poi­ché un Paese non è ricco perché ha miniere, petrolio e foreste, ma solo se è capace di mettere questi capitali «a reddito», il che dipende da molti fattori (persone, tecnologia, cultura...). E da lì siamo arrivati fino al Novecento e alla nascita del Pil, continuando a pensare che per la ricchezza delle nazioni contino i flussi e non gli stock. Quella bella antica idea, però, oggi rischia di essere fuorviante.

Anche volendo lasciare un suo valore a un indicatore di flussi (un nuovo Pil), è più urgente che gli stock e i capitali ritornino a occupare il cuore della sce­na economica sociale e politica. Il te­ma ambientale, ma anche quelli rela­zionale e sociale – drammaticamente centrali – sono forme di stock e non di flussi, capitali accumulati durante millenni (o milioni di anni, nel caso del­l’ambiente), che oggi la corsa per aumentare i flussi di reddito sta danneggiando e deteriorando.

Se vogliamo e dobbiamo rilanciare la crescita, dobbiamo allora concentrar­ci sulla crescita e sulla manutenzione di queste forme di capitali: se esse non venissero rafforzate, mantenute e in molti casi ricreate, i flussi economici non ripartirebbero; o, se anche ripartissero perché drogati dalla finanza o dai fondi europei, continuerebbero ad alimentare le crisi del nostro tempo.

Basterebbe soltanto pensare all’impoverimento di quegli antichi capitali civili che si chiamano relazioni di vicinato e di prossimità e di quella "coralità produttiva" dei territori che hanno generato fino a tempi recenti le tante esperienze di cooperazione e i distretti industriali del Made in Italy. Il deterioramento di questi capitali sta determinando una progressiva sterilità del nostro tessuto civile, che non è capace di generare alcun flusso, né culturale, né spirituale, né economico.

Per poter ricostruire, e presto, questi indispensabili capitali, occorre prima saperli vedere, e poi magari misurare, dando vita a nuovi misuratori di stock o, meglio, di patrimoni, parola più suggestiva perché, se intesa come patrum-munus, cioè il dono dei padri, ci ricorda simbolicamente che questi patrimoni li abbiamo ricevuti in dono dalle generazioni passate, e quindi li dobbiamo custodire e sviluppare, se non vogliamo essere ricordati come la prima generazione ingrata della storia, quella che ha interrotto la grande catena di solidarietà intertemporale.

E questo non possiamo permettercelo anche per rilanciare, oggi, la buona crescita economica.

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Commenti - Oltre il Pil, con i capitali civili

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/04/2012

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Cambiare per crescere

Cambiare per crescere

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Commenti - La chance del terziario sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2012

logo_avvenireDa più parti giungono ricette per rilanciare la crescita, di fronte all’evidente insufficienza di quelle proposte dal Governo, che sta svolgendo con diligenza il compito assegnatogli, quello cioè di spegnere l’incendio dei mercati finanziari divampato nella seconda metà dell’anno scorso. Le competenze e le abilità necessarie a spegnere gli incendi, però, non sono quelle necessarie a ricostruire la casa una volta domate le fiamme, poiché se i pompieri si dedicano anche a questo compito avremmo una nuova casa piena di sistemi anti-incendio e di scale di fuga, ma probabilmente non una bella casa nella quale vivere e far crescere i figli. Se vogliamo ricostruire e rendere vivibile la casa comune dobbiamo far ripartire presto la politica.

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Occorre, cioè, scoprire o riscoprire una idea di Italia, del suo genio e della sua vocazione civile ed economica, e poi da lì, e solo da lì, ripartire. Le ricette offerte sono invece normalmente idee per vestiti pensati senza aver prima osservato bene e prese le misure della persona che dovrebbe poi indossarli.

Si prenda, per fare un esempio recente, la proposta lanciata da Maurizio Ferrera sul Corriere del 16 Aprile che individua nel "terziario sociale" un possibile settore dove investire per la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e così rilanciare la crescita. Nel formularla si nota, giustamente, che in Italia resiste ancora (fino a quando?) una ricchezza privata delle famiglie che potrebbe essere indirizzata verso una nuova domanda di servizi di cura, oggi non più soddisfatta dalla famiglia né dallo Stato sociale. Il punto cruciale di questa (e di altre, simili proposte) è però il "perché", il "come" e quindi il "chi" dovrebbe soddisfare questa domanda potenziale. Diversamente da quanto sostiene Ferrera, non è infatti per nulla indifferente se a rispondere a questa nuova domanda sarà il mercato capitalistico "for profit" oppure sarà il mercato civile e di comunità. Quando, infatti, si entra con i linguaggi e con gli strumenti puramente mercantili in territori umani decisivi quali la cura di bambini e degli anziani, la malattia e la sofferenza, il "come" si opera, le motivazioni che muovono quelle imprese e quelle persone a operare (il "perché"), sono molto importanti e, in certi, casi sono l’essenziale.

Negli ultimi anni la società italiana ha soddisfatto in due modi questa nuova domanda di cura: con le badanti e con la cooperazione sociale. L’arrivo di oltre di un milione di badanti straniere è stato un fenomeno di portata epocale, che rivela anche come nelle pieghe della nostra società si sia creato un mare sotterraneo di solitudine e di dolore. Prima ancora, però, l’Italia aveva generato un suo modello originale di "terziario sociale", la cosiddetta cooperazione sociale, come risposta a questa "nuova" domanda, con dei "come", "perché" e "chi" diversi da quelli che operano in altri Paesi del mondo, in culture più individualistiche e meno comunitarie. Ma, come le cronache di Avvenire segnalano con crescente e preoccupata attenzione, è proprio questa specificità italiana, la cooperazione sociale, che ora rischia di essere fortemente ridimensionata e minata dai tagli del welfare generati dalla crisi.

Certo, oggi, anche il mercato può e deve essere un alleato prezioso nel soddisfare i nuovi bisogni relazionali delle fasce più fragili delle nostre città, ma deve essere un mercato civile, cooperativo, comunitario e sussidiario, dove il contratto non si sostituisce al dono e alla reciprocità, ma è a loro servizio (lo sussidia, lo aiuta). Sia le badanti sia la cooperazione sociale sono mercato, ma, pur nelle loro inevitabili ambiguità, sono mercato civile, perché accanto al necessario contratto e al denaro si scambiano anche parole, emozioni, attenzione e affetti.

Ho conosciuto una badante rumena che parlava un ottimo italiano, perché, ho scoperto dopo un po’, riceveva lezioni dalla (ex) maestra novantenne di cui si prendeva cura, una signora con cui era nato un rapporto molto più ricco del 'badare', come porterebbe invece a pensare il triste sostantivo che qualcuno ha affibbiato a queste signore. Il mercato capitalistico non funziona per la cura delle fragilità e per l’accudimento, perché tende inevitabilmente a trasformare queste relazioni in merci: ma le dimensioni più importanti della cura non si comprano né si vendono, possono essere solo donate e accolte, anche se si svolgono all’interno di un necessario e legittimo contratto di lavoro. Posso, infatti, comprare la prestazione ma non la cura, che è invece un incontro umano molto più ricco e complesso di quanto può prevedere o offrire uno scambio mercantile. Il binomio cooperazione sociale-badanti non è tuttavia più sufficiente per rispondere ai nuovi bisogni di cura. Se politicamente non verrà fatto nulla, il vuoto che si sta creando finirà per occuparlo, e anche presto, il mercato 'per profitto', con gravi conseguenze. Per rispondere adeguatamente alla crescente domanda di cura, occorre, allora, una nuova alleanza tra famiglie, politica, società civile e mercato. Occorrono nuove imprese, nuove anche per civiltà, e per questo servono leggi che ancora non ci sono né si intravvedono; ma occorre anche rivitalizzare le reti di vicinato, la prossimità, la reciprocità non mercantile nei nostri territori. In quei luoghi del vivere dove si producono, gratuitamente, i beni relazionali che sono sempre la prima cura di ogni forma di indigenza. E un motore indispensabile per tornare a crescere bene.

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Commenti - La chance del terziario sociale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/04/2012

logo_avvenireDa più parti giungono ricette per rilanciare la crescita, di fronte all’evidente insufficienza di quelle proposte dal Governo, che sta svolgendo con diligenza il compito assegnatogli, quello cioè di spegnere l’incendio dei mercati finanziari divampato nella seconda metà dell’anno scorso. Le competenze e le abilità necessarie a spegnere gli incendi, però, non sono quelle necessarie a ricostruire la casa una volta domate le fiamme, poiché se i pompieri si dedicano anche a questo compito avremmo una nuova casa piena di sistemi anti-incendio e di scale di fuga, ma probabilmente non una bella casa nella quale vivere e far crescere i figli. Se vogliamo ricostruire e rendere vivibile la casa comune dobbiamo far ripartire presto la politica.

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Serve «cura», è urgente

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Commenti - Come nel 1951 ma per la finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire  il 15/04/2012

logo_avvenireL’instabilità e l’incertezza finanziaria ed economica che stanno caratterizzando, e caratterizzeranno ancora a lungo, l’attuale stagione dei mercati e della società, dipende anche da una grande domanda sul presente e sul futuro dell’Europa, dell’Europa economica, civile e politica. Quando nel 1951 fu creata la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, dietro questo evento epocale, passo fondamentale verso il "Trattato di Roma" e, quindi, la Comunità Europea, ci fu un’intuizione geniale e profetica, di enorme portata politica, culturale e anche spirituale: creare un patto di comunità proprio sulle risorse strategiche che erano state al centro dei due grandi conflitti mondiali, quel carbone e quell’acciaio che avevano alimentato le guerre.

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L’Europa sta vivendo, ormai da qualche anno, la crisi civile più grave dal dopoguerra. La globalizzazione dei mercati, e stili di vita insostenibili sul piano dei consumi individuali e collettivi (debiti pubblici), hanno destabilizzato, forse minato, l’equilibrio su cui si era fondata la Comunità europea generata dai primi trattati. Se oggi l’Europa vuole veramente uscire da questa grave crisi e immaginare una nuova stagione di benessere e di civiltà, è chiamata a fare qualcosa di simile a quanto fatto nel 1951 dai nostri padri e nonni: deve veramente mettere in comune la principale risorsa strategica che sta procurando in questi anni una nuova forma di guerra tra i popoli del Vecchio continente e, sempre più, del mondo: la finanza. Quanto fatto finora con l’euro, la Bce, il fondo salva-Stati, non è evidentemente sufficiente. Un patto di comunità sulla finanza significherebbe molte cose, tra cui dar vita agli eurobond e ad una vera Banca centrale europea, che però per essere creati hanno bisogno di un elemento fondamentale, tanto essenziale quanto evidentemente assente o quantomeno insufficiente, vale a dire la fiducia vera tra Stati e istituzioni europee.

La finanza europea e mondiale ha, insomma, urgente bisogno di una vera e propria riforma strutturale. Questo capitalismo finanziario che ha sempre più in mano (o sotto scacco) grandi imprese, istituzioni e politica, sta diventando un "male comune globale", che rende insostenibile il nostro sviluppo e si basa sul dogma della massimizzazione dei profitti di breve periodo. Un dogma, che in passato era implicito e normalmente taciuto, e che oggi, invece e senza alcuna vergogna, è esplicitamente dichiarato come l’unica via possibile all’efficienza e alla crescita.

Un vero patto europeo "sulla e per la finanza", potrebbe rappresentare un primo e deciso passo verso la necessaria e urgente regolamentazione della speculazione finanziaria, richiamando le banche alle loro funzioni fondamentali per il bene comune (accesso al credito, gestione prudente dei risparmi, sostegno agli investimenti delle imprese produttive), funzioni che sono state negli ultimi decenni tradite dalla grande finanza speculativa che sta snaturando l’intero settore finanziario, e quindi l’economia e la società.

Luigi Einaudi ricordava spesso che la scienza economica dovrebbe studiare soprattutto i "punti critici", vale a dire quelle soglie superate le quali una realtà da positiva diventa negativa (e viceversa). Oggi la finanza ha certamente oltrepassato questa soglia e da fondamentale ancella dell’economia e delle famiglie, sta diventando tiranno del mondo. Sono questi i momenti nei quali l’alta politica deve tornare a svolgere il suo compito dando vita a processi istituzionali che ripongano al centro della vita civile le istanze del bene comune, un bene comune oggi talmente evidente da non dover scomodare alcuna disputa teologica o filosofica sulla sua natura. In questi anni si sta giocando una partita decisiva per la democrazia.

Il forte terremoto provocato dalla globalizzazione dei mercati e della ideologia capitalistico-finanziaria ha dato uno scossone potente all’edificio democratico. Le misure che stiamo prendendo in questi anni e mesi sono solo puntelle per impedire all’edificio di crollare definitivamente, senza che si intravvedano vere operazioni di ricostruzione delle strutture portanti.

Un patto europeo "sulla e per la finanza" ne sarebbe il primo e fondamentale pilastro, ma non si vedono negli attuali leader politici né la forza delle idee né il coraggio civile di dar vita a una tale impresa, lasciando così alle giovani generazioni una casa comune pericolante e in costante rischio di crollo di fronte alla prossima scossa. Occorre allora continuare a parlare, e sempre di più, di questi temi fondamentali e assenti dai dibattiti pubblici poiché se ci sarà una rinascita dell’Europa e un nuovo ordine economico mondiale, questa volta non potrà sorgere dalla sfera politica (troppo debole dopo la fine delle ideologie): la speranza sta tutta nella società civile e quindi nella voglia di vita e di futuro della gente.

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Commenti - Come nel 1951 ma per la finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire  il 15/04/2012

logo_avvenireL’instabilità e l’incertezza finanziaria ed economica che stanno caratterizzando, e caratterizzeranno ancora a lungo, l’attuale stagione dei mercati e della società, dipende anche da una grande domanda sul presente e sul futuro dell’Europa, dell’Europa economica, civile e politica. Quando nel 1951 fu creata la Ceca, la Comunità del carbone e dell’acciaio, dietro questo evento epocale, passo fondamentale verso il "Trattato di Roma" e, quindi, la Comunità Europea, ci fu un’intuizione geniale e profetica, di enorme portata politica, culturale e anche spirituale: creare un patto di comunità proprio sulle risorse strategiche che erano state al centro dei due grandi conflitti mondiali, quel carbone e quell’acciaio che avevano alimentato le guerre.

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Nuovo patto per l'Europa

Nuovo patto per l'Europa

Commenti - Come nel 1951 ma per la finanza di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire  il 15/04/2012 L’instabilità e l’incertezza finanziaria ed economica che stanno caratterizzando, e caratterizzeranno ancora a lungo, l’attuale stagione dei mercati e della società, dipende anche da una grande ...
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Commenti - L’«impoverimento» in atto è anche antropologico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2012

logo_avvenireLa politica e la società italiana stanno soffrendo per incapacità di futuro. Lo sguardo con cui si analizzano crisi e ricette di crescita è sempre a corto raggio, mentre sarebbe necessario, proprio perché stiamo vivendo una tempo di grande cambiamento, la virtù di saper delineare, e presto, prospettive e scenari di un nuovo modello di sviluppo e di stili di vita.

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E invece si continua a ragionare anche sulla base di aspettative ingenue, come l’idea che il rilancio dell’economia italiana nascerà dai grandi flussi internazionali di capitali, che dovrebbero tornare o arrivare da noi grazie ad una più flessibile regolamentazione del "mercato" del lavoro, dimenticando la evidente verità che i grandi capitali speculativi hanno troppe ragioni "for profit" per andare a investire altrove – a meno che qualcuno voglia rendere i diritti del lavoratori italiani simili a quelli della Cina o del Kenya, e battere così la concorrenza...

Dovremmo, invece, cogliere l’opportunità nascosta tra le sofferenze di questo tempo per pensare la vita economica più in profondità.

Cresce infatti l’impressione che politica e opinione pubblica quando parlano del lavoro si riferiscano, troppo frequentemente, a qualcosa di astratto e di sostanzialmente immaginato, anche perché la classe dirigente (compresi molti capi sindacali) è sempre più lontana dai veri luoghi del lavoro e dalle sue antiche e nuove fatiche. E chi non "vede" il lavoro fa fatica a comprenderne le tante luci e le vere ombre.

C’è, in altre parole, un problema di rappresentazione pubblica del mondo del lavoro, la cui immagine corretta non arriva più a chi dovrebbe regolamentarlo. Se chi vuole e deve riformare il lavoro entrasse di più nei luoghi del lavoro, si renderebbe conto, ad esempio, che il mondo del lavoro si sta impoverendo sul piano relazionale e simbolico. Il lavoro, infatti, finché si svolge in luoghi che possiamo e vogliamo chiamare umani, vive non solo di incentivi e di sanzioni, ma si alimenta anche, e soprattutto, di riti, di simboli, di cerimonie. Nelle botteghe degli artigiani delle città italiane ed europee dei secoli scorsi, i linguaggi per riconoscere la qualità di un manufatto erano molteplici, e quelli più importanti non erano certo quelli dei denari.

L’apprendista terminava il periodo di prova con un "capo d’opera" che veniva prima giudicato da una giuria e poi esposto nel palazzo delle corporazioni, per ricevere il giudizio dell’intera città. E così per gli altri passaggi di "carriera", fino allo status di "mastro", attribuito sempre all’interno di rappresentazione simboliche e in un certo senso artistiche (fino a tutto il Settecento, la parola 'artista' era usata in italiano indistintamente per gli artisti e per gli artigiani). Esisteva, poi, una grande varietà di premi (molto più che monetari) per riconoscere il valore di un’opera che dipendeva non tanto dalla qualità tecnica ma da quanto essa fosse "viva", poiché, come ci ricorda Richard Sennett nei suoi libri, al manufatto ci si rivolgeva come a un "tu" non come a un "esso".

La cultura capitalistico-speculativa sta intristendo i luoghi del lavoro anche perché sta eliminando tutta questa dimensione simbolica, rituale e premiale del lavoro. In realtà, a guardar bene, le grandi imprese multinazionali sembrano ricorrere molto a riti, premi e cerimonie, perché colgono che per legare i lavoratori al destino dell’azienda (un elemento essenziale per ogni successo), non bastano i contratti: occorre la forza dei simboli. Ma queste pratiche hanno perso ogni valore intrinseco e di gratuità, e vengono usate prevalentemente (anche se non sempre) a fini strumentali, e quindi finiscono per rendere ancora più tristi e poveri i luoghi del lavoro. Il problema cruciale, invece, è che i simboli producono appartenenza a un destino comune solo quando sono gratuità, quando hanno cioè un valore intrinseco (come ben sa chi vive – e legge – bene una liturgia nelle nostre chiese). Ma una cultura che perde i densi linguaggi dei simboli-gratuità, o perché non ne coglie più il senso o perché, peggio, li strumentalizza, non sa più capire, né parlare, né motivare adeguatamente l’animale simbolico homo sapiens.

La cultura della fabbrica aveva costruito, nelle sue contraddizioni, un suo codice simbolico e i suoi rituali, essenzialmente religiosi e ideologici, in buona parte ancora eredità del mondo contadino, che hanno reso sopportabile la fatica del lavoro, e consentito a centinaia di milioni di lavoratori di crescere in luoghi faticosi, duri, aspri, ma 'vivi' e quindi umani. L’indigenza simbolica del nostro tempo va oltre il mondo del lavoro, sebbene la cultura economica sia forse la principale responsabile della morte del simbolo-gratuità.

Penso, per un esempio autobiografico, a molte delle nostre università dove le sedute di laurea hanno perso tutta la loro dimensione rituale (cura della cerimonia, degli abiti dei professori, e degli studenti…), e in pochi minuti, o secondi, si liquida uno dei riti di passaggio più importanti della nostra tradizione umanistica. Ed è triste, o commovente, vedere parenti, nonne e nonni che ancora continuano tenaci ad assistere alle lauree dei nipoti, ormai totalmente disorientati da queste nostre non­cerimonie, dove il posto del simbolo e del rito lo sta occupando la goliardia banale, alta espressione della cultura del frivolo, che è l’anti­simbolo. Non possiamo pretendere che questo governo riformi il lavoro a questo livello antropologico e culturale; ma come cittadini responsabili dovremmo sempre porre queste domande difficili. Saremo noi, con le nostre domande e scelte, a determinare se i luoghi del lavoro del futuro saranno più simili a "botteghe" di artigiani post-moderne e creative, o ai non-luoghi della finanza con i loro finti simboli.

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Commenti - L’«impoverimento» in atto è anche antropologico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 07/04/2012

logo_avvenireLa politica e la società italiana stanno soffrendo per incapacità di futuro. Lo sguardo con cui si analizzano crisi e ricette di crescita è sempre a corto raggio, mentre sarebbe necessario, proprio perché stiamo vivendo una tempo di grande cambiamento, la virtù di saper delineare, e presto, prospettive e scenari di un nuovo modello di sviluppo e di stili di vita.

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L’altra riforma del lavoro: restituirgli luoghi e simboli

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Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/04/2012

logo_avvenireDi lavoro si discute molto, ma ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi: precario, dipendente, autono­mo, nero, eccetera. Mentre è elusa la do­manda decisiva: che cosa è il lavoro? Eppu­re senza tentare di rispondere a questa domanda si resta solo sulla superficie del "fat­to tutto umano" del lavoro, terminando co­sì il discorso proprio sull’uscio dei suoi luo­ghi più rilevanti. Innanzitutto, dovremmo ricordarci che il la­voro è sempre attività spirituale, perché pri­ma e dietro una qualsiasi attività lavorativa, da una lezione universitaria alla pulizia di un bagno, c’è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi atti­vità umana altissima in ogni contesto nel quale si compie.

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Persino, e paradossalmen­te, in un lager, come ricordava Primo Levi in una sua memoria molto nota: «Ma ad Au­schwitz ho notato spesso un fenomeno cu­rioso: il bisogno del "lavoro ben fatto" è tal­mente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore i­taliano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto per sei mesi, detestava i na­zisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guer­ra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale».

Sono proprio la "dignità professionale" e il "bi­sogno del lavoro ben fatto" che si stanno pro­gressivamente e inesorabilmente allontanan­do dall’orizzonte della nostra civiltà, che era stata invece fondata eminentemente su quei pilastri. L’etica delle virtù, che ha dato vita nei secoli anche all’etica delle professioni e dei me­stieri, si basava su una regola aurea, una vera e propria pietra angolare dell’intera fabbrica civile: la prima motivazione del lavoro ben fat­to si trova nella dignità professionale stessa.

La risposta alla ipotetica domanda: «Perché questo tavolo o questa visita medica vanno fatti bene?» era, in una tale cultura, tutta in­terna, intrinseca, a quel lavoro e a quella de­terminata comunità o pratica professionale. La necessaria e importante ricompensa, mo­netaria o di altro tipo, che si riceveva in con­traccambio di quella opera, non era – e qui sta il punto – la motivazione del lavoro ben fat­to, ma era solo una dimensione, certamente importante e co-essenziale, che si poneva su di un altro piano: era, in un certo senso, un premio o un riconoscimento che quel lavoro era stato fatto bene, non il suo "perché".

La cultura economica capitalistica domi­nante, e la sua teoria economica, sta ope­rando su questo fronte una rivoluzione si­lenziosa, ma di portata epocale: il denaro di­venta il principale o unico "perché", la mo­tivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità e quantità. Tutta la teoria economica del personale, che si basa esattamente su questa ipotesi antropologica, sta producen­do lavoratori sempre più simili alla teoria.

È questa la cultura dell’incentivo, che si sta estendendo anche ad ambiti tradizional­mente non economici, come la sanità e la scuola, dove è divenuto normale pensare, e agire di conseguenza, che un maestro o un medico diventano buoni (eccellenti), solo se e solo in quanto adeguatamente remunera­ti e/o controllati. Peccato che una tale antropologia, parsimo­niosa e quindi errata, sta producendo il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro u­mano alla servitù se non alla schiavitù antica, perché chi paga non compra solo le presta­zioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi la loro libertà. E dopo oltre un seco­lo e mezzo in cui abbiamo combattuto batta­glie epocali di civiltà per la difesa dei diritti dei lavoratori dalla loro mercificazione e asservi­mento, oggi restiamo silenti e inermi di fron­te al capitalismo contemporaneo che nel si­lenzio ideologico sta riducendo veramente il lavoro a merce, e non solo quello degli operai ma anche dei manager, sempre più proprietà delle imprese che li pagano, e li comprano.

Il disagio del mondo del lavoro è anche il frut­to del dilagare incontrastato di questa anti­cultura del lavoro, che non vedendo il 'biso­gno del lavoro ben fatto' come la vocazione più radicale presente nelle persone, tratta i lavo­ratori come moderni animali domabili con ba­stone (sanzione-controllo) e carota (incentivo).

E se trasformiamo così i lavoratori, non dobbiamo poi stupirci se le imprese si ritrovano persone pigre, opportuniste e (o perché?) infelici. Il capitalismo, a causa degli 'occhiali antropologici' sbagliati che ha purtroppo inforcato, non capisce che quell’animale simbolico che chiamiamo homo sapiens ha bisogno di molto di più del denaro per dare il meglio di sé al lavoro, ha pensato di poterlo "addestrare" (parola oggi di nuovo troppo usata da manager e ministri) e controllare, senza ancora riuscirci del tutto.

Grazie a Dio. C’è, allora, un urgente bisogno di una nuova-antica cultura del lavoro, che, senza guardare nostalgicamente indietro guardi politicamente avanti, torni a scommettere sulle straordinarie risorse morali presenti in tutti i lavoratori, che si chiamano libertà e dignità, che non possono essere comprate, ma solo donate dal lavoratore. Risorse morali che bisogna valorizzare e alle quali bisogna saper educare, con la parola (anche quella che transita per le leggi) e con l’esempio. Senza questa nuova­-antica cultura del lavoro, continueremo a discutere di articolo 18 e dintorni, ma resteremo troppo distanti dalle officine, dalle fabbriche, dagli uffici, che ancora vanno avanti perché, in barba alla teoria economica, tanti continuano a lavorare e a tirar su "muri dritti" prima di tutto per dignità professionale, anche quando non dovrebbero farlo sulla base degli incentivi monetari. Fino a quando resisteranno?

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Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/04/2012

logo_avvenireDi lavoro si discute molto, ma ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi: precario, dipendente, autono­mo, nero, eccetera. Mentre è elusa la do­manda decisiva: che cosa è il lavoro? Eppu­re senza tentare di rispondere a questa domanda si resta solo sulla superficie del "fat­to tutto umano" del lavoro, terminando co­sì il discorso proprio sull’uscio dei suoi luo­ghi più rilevanti. Innanzitutto, dovremmo ricordarci che il la­voro è sempre attività spirituale, perché pri­ma e dietro una qualsiasi attività lavorativa, da una lezione universitaria alla pulizia di un bagno, c’è un atto intenzionale di libertà, che è ciò che fa la differenza tra un lavoro ben fatto e un lavoro fatto male. Ed è quindi atti­vità umana altissima in ogni contesto nel quale si compie.

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La cultura dei muri dritti

La cultura dei muri dritti

Commenti - Il lavoro e le lenti sbagliate di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 01/04/2012 Di lavoro si discute molto, ma ci si sofferma troppo, se non esclusivamente, sui suoi aggettivi: precario, dipendente, autono­mo, nero, eccetera. Mentre è elusa la do­manda decisiva: che cosa è il lavo...
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Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/03/2012

logo_avvenireOra che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiamo dimenticare una verità tanto evidente quanto trascurata: nella società contemporanea il centro o l’asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori, ma quello tra rendite e mondo dell’impresa.

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Chiunque guarda la distribuzione dei redditi e, soprattutto, quella della ricchezza e dei patrimoni, si accorge subito che la fetta di torta che si spartiscono imprenditori e lavoratori è sempre più piccola, poiché la parte del leone la fanno le grandi rendite finanziarie, ma anche quelle dei top manager, e quelle delle varie corporazioni e categorie protette.

Uno dei dati che distingue l’era moderna da quella post-moderna (o della globalizzazione) è proprio lo spostamento dell’asse del potere economico. Oggi il grande capitale è in mano ai finanzieri e agli speculatori, che dominano non solo la finanza, ma l’intera economia. Che il conflitto fondamentale del capitalismo non fosse tra profitti e salari ma tra rentier e imprenditori, era la tesi del più influente economista liberale inglese della prima metà dell’Ottocento, David Ricardo.

Questo grande economista dimostrò che era proprio la crescita della quota di valore economico assegnato alle rendite a caratterizzare il capitalismo, una crescita che andava a ridurre inesorabilmente la quota di valore aggiunto destinato all’impresa, e quindi allo sviluppo dell’economia. I lavoratori, invece, non potevano entrare in conflitto con le altre classi sociali semplicemente perché questa quota era fissata al livello della "sussistenza".

Quella duplice intuizione di Ricardo è oggi tornata decisamente cruciale, quando osserviamo l’aumento esponenziale delle rendite, ma anche il progressivo ritorno dei salari dei lavoratori ai livelli di sussistenza, grazie al continuo aumento delle imposte indirette e dei tagli al welfare. Certo, in molte imprese capitalistiche, soprattutto quelle multinazionali, la proprietà appartiene sempre più alla finanza speculativa, che tratta il lavoratore spesso solo come un costo (e sempre meno come un investimento), una considerazione che dovrebbe portare, tra l’altro, a porre soglie tra tipologie di imprese non semplicemente sulla base al numero di lavoratori (15), ma anche sulla base della proprietà del capitale.

Nei dibattiti di questi giorni attorno all’articolo 18 si ha l’impressione forte che si stia continuando a leggere il sistema socio-economico attuale a partire dal conflitto imprenditore-lavoratori, ancora visto come il fulcro dell’anatomia della società. Si perde così un’ottima occasione (la crisi) per rifocalizzare i grandi temi dell’economia e del lavoro nella nostra società.

Oggi, il mondo dell’impresa soffre non tanto perché non riesce a licenziare i lavoratori fannulloni, ma soffre per un’eccessiva, abnorme tassazione del lavoro, e per una profonda crisi di speranza e di fiducia che non spinge la gente a intraprendere nuove attività economiche. Le imprese che vivono sui territori, e che non sono predatori, ma abitanti dei luoghi, sanno molto bene che i lavoratori prima di essere un costo sono il loro primo capitale, e che se non investono nel lavoro l’impresa non cresce e involve.

C’è poi un secondo aspetto di cui si parla troppo poco. Il "mercato" del lavoro risente della cultura e della storia di un Paese. L’Italia ha una forte vocazione comunitaria e territoriale. Da noi il lavoro è stato sempre visto all’interno di un patto sociale più ampio, nel quale l’impresa non viene confinata in una "zona industriale" lontana e immune dalla "città", ma come un luogo del vivere, un brano di vita che ospita le stesse virtù e gli stessi vizi della società intera.

Non dobbiamo inseguire il sogno di costruire aziende abitate dalle sole virtù (merito, efficienza, flessibilità), espellendo tutti i difetti ("fannulloni", fragilità, inefficienze) al di fuori della zona industriale. Fuori dove? Nella famiglia? Nello Stato? Dove?

È questo il modello che il capitalismo contemporaneo sta provando e imponendo ai vari Paesi, che però, dove è applicato massicciamente, sta sempre più lasciando lungo la strada una fiumana di vinti, che sono fuori non solo dalla cittadella del lavoro, ma dalla città e dalla dignità. Le fragilità, i limiti, le imperfezioni ci sono nell’impresa perché ci sono nella famiglia, nelle comunità, nella scuola: e ci sono perché sono la condizione dell’umano, e quindi sono anche la condizione dell’economia finché la vogliamo tenere dentro il territorio dell’umano.

L’accordo sul lavoro è importante: c’è tutta una serie di vizi da estirpare che si sono insediati nel mondo dell’impresa in questi decenni di mal governo, di mal società civile e di mal sindacato. Ma attenzione a non farsi vincere sotto la pressione dei mercati e degli spread dalla tentazione di una sfera economica pura, al riparo dalle scorie della storia, che è l’eterna tentazione del "perfettismo", che ha prodotto e produce luoghi invivibili e alla lunga disumani.

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Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/03/2012

logo_avvenireOra che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiamo dimenticare una verità tanto evidente quanto trascurata: nella società contemporanea il centro o l’asse della dialettica sociale non è più il conflitto imprenditore-lavoratori, ma quello tra rendite e mondo dell’impresa.

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Tra rendite e perfettismo

Tra rendite e perfettismo

Commenti - Lavoro, altro che conflitto di classe di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 22/03/2012 Ora che è stato raggiunto un accordo sul "mercato" del lavoro – faticoso, cruciale e ampio sebbene non del tutto condiviso per l’opposizione di un sindacato importante come la Cgil – non dobbiam...
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Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/03/2012

logo_avvenireIl rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buo­na notizia per il Paese. Emerge un familismo mora­le, che è meno raccontato e famoso del familismo a­morale di cui si parla e straparla per descrivere il mo­dello italiano. Le relazioni, quelle familiari e comuni­­tarie, sono poste in cima ai valori. E – ciò che il Censis non dice ma che è emerso da una ricerca svolta con un collega dell’Università di Milano-Bicocca (Luca Stan­ca) – le persone che attribuiscono im­portanza alla famiglia e alle relazioni sono mediamente anche quelle più felici.

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Dopo alcuni decenni che han­no visto l’ipertrofia della finanza e del consumismo, questi primi anni di crisi stanno risvegliando una vo­cazione nazionale che non era morta, ma che si era soltanto assopita, covando viva e calda sotto la cene­re.

L’Italia ha una storia di relazioni che dura da oltre due­mila anni: la cultura mediterranea, il cristianesimo, lo scambio e il commercio, la cultura cittadina e borghi­giana, hanno creato nei secoli una identità dove il va­lore della relazione è al centro del suo dna. È stata que­sta rete di 'relazioni tra diversi' che ha fatto grande l’I­talia quando è stata grande (Umanesimo civile, Sette­cento riformatore, Risorgimento, Ricostruzione...); e anche le sue patologie (come certi familismi amorali e alcune forme di mafia), possono anche essere lette co­me malattie e degenerazioni di questa stessa vocazio­ne alle relazioni. Oggi, allora, in questi tempi di crisi e in questi giorni duri, ci stiamo accorgendo che è molto più interes­sante e appagante investire tempo nelle relazioni che consumare denaro negli ipermercati. Un secondo da­to del rapporto, infatti, si sposa perfettamente con il pri­mo (relazioni): il 57% degli italiani ritiene che nella pro­pria famiglia il desiderio di consumare è meno inten­so rispetto a qualche anno fa. E, cosa molto importan­te, lo pensa indipendentemente dalla diminuzione del proprio reddito.

È come se ci stessimo accorgendo del bluff di un mo­dello di economia fondato sui consumi: il gioco di pen­sare di rilanciare una economia in crisi di fiducia e di entusiasmo civile e spirituale rilanciando consumi è durato poco, e ha lasciato tutti scontenti e delusi. È dav­vero bizzarro, se non offensivo, pensare che in questi tempi di seria diminuzione del reddito reale delle fa­miglie qualcuno possa pensare che una strada di ri­lancio dell’economia possa essere tenere aperti i negozi 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.

Il consumismo sostenuto dai debiti, va ricordato, è la malattia della crisi: come può diventarne ora la cura? Certo, c’è bisogno di più crescita economica, ma c’è bisogno soprattutto che la gente ritrovi l’entusiasmo delle relazioni, si rimetta assieme in modo creativo per generare posti di lavoro, e non di gente che passa le se­rate e i week end nei centri commerciali a sognare, fru­strati e con sempre meno soldi in tasca, stili di vita tri­sti e irreali. I sogni oggi vanno orientati verso la produzione e la ge­neratività, non solo verso i consumi, se vogliamo spe­rare in meglio. Dovremmo, infatti, ricordare di tanto in tanto che una economia non regge a lungo se trascu­ra i settori primario (agricoltura) e secondario (produ­zione), e punta troppo sul terziario (commercio e ser­vizi). I Paesi che oggi sono in grave crisi, lo sono anche, e forse soprattutto, perché, anche a causa di politiche europee non sempre lungimiranti, hanno nei decenni passati abbandonato settori tradizionali nei quali ave­vano saperi e competenze antichi (penso alla pesca e all’agricoltura in Portogallo), per gettarsi su servizi e commercio, settori spesso molto fragili e a basso valo­re aggiunto reale. Le relazioni familiari e comunitarie non reggono se non sono sostenute da relazioni lavo­rative serie, che generano reddito e riducono l’incer­tezza della gente, risorse queste che poi alimentano tutte le altre relazioni della vita.

Il grande economista Albert Hirschman ci ha mostra­to che i Paesi non conoscono soltanto i cicli economi­ci (recessione-espansione), ma anche i «cicli della fe­licità »: fasi storiche nelle quali prevale la ricerca della felicità privata (individuo) che si alternano ad altre nel­le quali prevale invece la voglia di felicità pubblica (re­lazioni). E, come nei cicli economici, una fase prepara l’altra, e quando si arriva al culmine della felicità pri­vata si creano le premesse per il suo superamento ver­so una stagione di felicità pubblica. Per Hirschman il principale meccanismo che produce il cambio di fase è la delusione.

Oggi siamo nel bel mezzo di uno di questi momenti di "flesso" del ciclo, ma affinché questo desiderio di "fe­licità pubblica" sia sostenibile e influenzi anche il ci­clo economico, occorre subito una nuova politica. Die­tro la loro apparente anti-politica gli italiani non stan­no chiedendo meno politica, ne stanno chiedendo di più ma diversa, sussidiaria e più leggera. Senza ade­guate relazioni politiche, le relazioni civili, comunita­rie e familiari non diventano mai motore di quello svi­luppo economico e civile di cui abbiamo un vitale bi­sogno.

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Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/03/2012

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Familismo morale

Familismo morale

Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/03/2012 Il rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buo­na notizia per il Paese. Emerge un familismo mora­le, che è meno raccontato e famoso del familismo a­morale di cui si parla e straparla per...
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Commenti - Perché la cura non sia inutile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/03/2012

logo_avvenireLa crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un mo­mento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccu­pazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente. 

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L’Italia sta vivendo – sul piano internazionale, un po’ meno su quello politico interno – giorni di calma apparente e anche lo spread tra i nostri titoli del debito e quel­li tedeschi è tornato finalmente sotto «quota 300». Tuttavia recenti preoccupazioni espresse dal presidente Monti e dai ministri economici sono molto serie, e un po’ sottovalutate. C’è, poi, l’annosa – e ormai davvero lancinante – questione delle imposte indirette. E, nonostante la presenza del governo di eminenti economisti, su questo punto sembra si stia commettendo un errore di stima

Si fanno i calcoli sulle entrate che l’aumento dell’Iva (di 2 punti percentuali) dovrebbe generare, tenendo fermo, o quasi, l’ammontare dei consumi, e si sbaglia. Perché? Il popolo italiano, o la cosiddetta “classe media” (una “media” in caduta libera...), sta vivendo da anni una grave situazione di sofferenza economica e sociale. Per capirlo non servono i Centri studi: basterebbe che di tanto in tanto la nostra classe dirigente si recasse, in incognita, nei sempre più popolati mercati di piazza, in un’impresa industriale, in una cooperativa sociale, nei dispensari e nelle mense parrocchiali o leg­gesse bene i dati sull’aumento di furti alimentari nei supermercati.

Il Paese è sotto stress da tempo, e sta con di­gnità ma con enorme fatica assorbendo la diminuzione del potere di acquisto reale degli stipendi, e l’insostenibilmente alto (anche a causa di imposte indirette) costo della benzina. A ciò si aggiungono i tagli agli enti locali, che continuano a impoverire le persone per un peggioramento dei servizi pub­blici accompagnato dall’aumento dei costi (a Milano il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici è aumentato del 50%!). 

Non finiremo mai di ricordare che i cittadini impoveriscono non solo quando dimi­nuisce il reddito pro-capite, ma anche quando peggiora e si riduce la quantità e la qualità di beni pubblici e di beni comuni. In un tale scenario, l’aumento dell’Iva, e magari di altre imposte indirette può allora produrre effetti molto gravi – sarebbe utile che ci si spiegasse con un po’ di calma e di argomenti perché una imposizione indiretta, che di certo è meno equa, è almeno più efficiente o efficace di un’imposizione diretta.

Innanzitutto, la gente consumerà di meno, e quindi se oggi aumento del 2% l’Iva sui consumi, non debbo stimare le entrate prendendo come base imponibile quella attuale, diciamo 1.000, ma una base ridotta, e di molto, forse in alcuni settori 700. Questo significa che la vera entrata attesa non è 20, ma 14. È ovvio che i bravi economisti che oggi sono al Governo sanno tutto ciò, ma lo dicono poco, e, soprattutto, appunto, paiono sottostimare l’effetto di riduzione dei consumi, in particolare la riduzione indiretta o di medio termine. Perché quel - 6 (20 - 14) non ha solo un effetto diretto e immediato nel reddito di chi oggi vende i prodotti (commercio). Tra breve, quell’aumento dell’Iva avrà effetti recessivi, maggiori di quelli stimati, sull’intera economia: maggiore disoccupazione, minor consumo, e così via in quella 'trappola di povertà' di cui ogni tanto la storia, anche recente, ci narra. 

Probabilmente tutto ciò è la conferma che nessuna manovra economica può davvero funzionare con la logica dei due tempi: prima i tagli e la contrazione dei consumi e dei redditi; poi le misure per la crescita. 

Occorre far subito tutto assieme, durante e non dopo, perché la seconda fase arriva sempre troppo tardi, e con costi troppo elevati. La tradizione economica italiana, con note culturali proprie e ben diverse da quella anglosassone, poggiava su un muro maestro: la rinuncia alle cosiddette «approssimazioni successive» ai problemi. Maffeo Pantaleoni, il “principe degli economisti italiani”, ma anche Luigi Einaudi o Giorgio Fuà, denunciarono ripetutamente il grave errore di rimandare dimensioni essenziali dei problemi a una seconda fase, poiché – dicevano – ciò che si perde nella prima fase non lo si recupera più, o quando arriva è troppo tardi e ha ormai perso molto della sua efficacia. Non si può, in un anno, rientrare da una situazione prodotta in decenni. 

All’Italia serve più tempo, un tempo che va anche contrattato nelle opportune sedi, un tempo che non può essere solo quello delle banche e della finanza, ma deve tornare a essere soprattutto quello della vita della gente. Ma se oggi la politica economica non abbina, mentre chiede i sacrifici, politiche serie di sostegno alle famiglie (a quando è rimandato il “fattore famiglia”?), al mondo dell’economia sociale (era proprio indispensabile chiudere l’Agenzia del Terzo Settore e si può non farsi carico delle difficoltà crescenti di questa straordinaria risorsa?), alle imprese piccole e artigiane in grande sofferenza, la cura risulterà con ogni probabilità insopportabile. E, quindi, inutile se non addirittura dannosa.

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Commenti - Perché la cura non sia inutile

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/03/2012

logo_avvenireLa crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un mo­mento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccu­pazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente. 

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Attenti alla trappola

Attenti alla trappola

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Commenti - Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/02/2012

logo_avvenireL’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "mercato" del lavoro, liberalizzazioni, riforma dei partiti, ma anche lotta alla corruzione e all’evasione, e nuovo e antico welfare. Negli ultimi decenni abbiamo attraversato una fase troppo lunga di inimicizia civile, è questa è anche una delle ragioni della gravità con la quale la crisi si è abbattuta sul nostro Paese.

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L’Italia che uscirà dalle votazioni del 2013, che saranno inevitabilmente l’inizio di qualcosa di nuovo (e ci auguriamo di migliore), dipenderà in gran parte dalla qualità dell’impegno civile che, tutti e ciascuno, metteremo nel riscrivere questi nuovi brani di patto sociale.

Simili passaggi forti (e fondativi) possono essere i più favorevoli per rendere molto concreta e operativa la teoria politica più importante del XX secolo, quella del filosofo americano John Rawls. Nel suo trattato "Una teoria della giustizia" (1971), Rawls ha introdotto, tra l’altro, una regola generale per operare le scelte politiche quando si vuol dar vita a una società giusta. Egli propone ai cittadini che stanno stipulando il patto sociale di ragionare come se fossero sotto «un velo di ignoranza», un espediente teorico che ha lo scopo di non far vedere, o non far vedere chiaramente, il posto (in termini di reddito, risorse, opportunità...) che quei cittadini occuperanno nella società di domani. In un tale contesto artificiale e reale (perché verosimile in tante esperienze storiche di fondazione di una nuova impresa o comunità), il filosofo americano dimostra che esiste una regola generale, che lui chiama del maximin, per costruire le regole del gioco.

Questa regola consiste nel prevedere nella società futura il miglior trattamento possibile (max) per coloro che si trovano agli ultimi posti della società (min). Una tale regola è per Rawls una declinazione diretta del principio di fraternità, il più dimenticato nel trittico della modernità, una regola che è espressione di giustizia sociale ma anche di razionalità individuale, poiché domani quel minimo potrei essere io, mio figlio o mia nipote. Da qui deriva il corollario che la giustizia di una società la si misura principalmente sulla base di come vengono trattati gli ultimi.

Questa grande lezione etico-razionale dovrebbe oggi essere posta al centro dei nostri dibattiti. Dovrebbe indurci a domandarci chi sono, qui e ora, i minimi della nostra società. Nel mondo che abbiamo costruito gli ultimi sono sempre più numerosi e vulnerabili, e i primi sempre meno e sempre più ricchi e forti. I minimi sono senz’altro i poveri di risorse e gli svantaggiati: quindi oggi lo sono anche, come forse mai prima, i giovani. La questione giovanile va posta al centro del nuovo patto sociale. Basta pensare al tema del lavoro, sul quale – e non a caso – su queste pagine tanto si insiste. Ma il discorso è ancora più ampio e generale. Dobbiamo fare in modo, ad esempio, che l’ondata di nuovo entusiasmo liberista (dimenticando, tra l’altro, che questa crisi finanziaria è scoppiata in America e in Inghilterra per troppo libero mercato finanziario, non per troppo poco), non finisca per estendere anche all’Italia la riforma degli studi universitari che si è realizzata in Gran Bretagna.

In quello Stato, anche in seguito a una nuova stagione ideologica, si è pensato di eliminare i contributi pubblici a fondo perduto per le università, e trasformare – nella logica del mercato – quei sussidi in prestiti agli studenti, rimborsabili nel lungo periodo (fino a trent’anni). Così le tasse, per ogni ordine e grado di studi universitari, sono lievitate enormemente, e oggi uno studente inglese non paga meno di 10-12.000 euro annui. Ciò significa che quando questo giovane uomo entrerà nel mondo del lavoro inizierà la sua carriera con un peso di almeno 50.000 euro, a cui si sommano quelli della giovane donna che è sua moglie, e quelli del mutuo per la casa (e qualcuno dovrebbe anche ricordare come sono nati i tristemente famosi mutui sub-prime...).

Inoltre, dovremmo rivedere la politica di sconti e vantaggi economici, associati in molti Paesi all’età. Un mio collega sessantenne, grande sportivo e in piena salute, ha appena ricevuto la carta argento, di cui avrebbero molto più bisogno i suoi figli vicini ai trent’anni, con lavori precari e con famiglia. Senza penalizzare ulteriormente molti pensionati (anche perché un Paese che mette in competizione tra di loro anziani e giovani non ha futuro, perché sono entrambi minimi), dovremmo però capire che la rivoluzione della longevità ha delle cose importanti e nuove da dire anche su come si assegnano le "carte" del gioco della vita e delle opportunità di futuro. Pure questo è un aspetto del patto sociale.

Tra pochi mesi, ripartirà la competizione politica: se vogliamo che non sia anche questa volta una hobbesiana "guerra di tutti contro tutti", dobbiamo ricreare presto una unità e una amicizia civile sulla quale deve poggiare la cum-petizione politica, se vogliamo che sia tesa al «bene comune», il bene di tutti e di ciascuno, e quindi anche dei giovani. Dei nostri figli e nipoti.

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Commenti - Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 21/02/2012

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Dalla parte dei "minimi"

Dalla parte dei "minimi"

Commenti - Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 21/02/2012 L’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "me...
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Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2012

logo_avvenireCiò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una per­sona cade in disgrazia economica la sua li­bertà è messa a repentaglio. Nel mondo an­tico si poteva diventare schiavi del credito­re per debiti non pagati. Il diritto fallimen­tare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per e­vitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.

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Esiste nei sistemi democratici moderni anche un diritto individuale al fal­limento, quando l’impresa di cui si è titola­ri non dà più speranze di potercela fare. Si pagano i debitori con quel che resta del pa­trimonio, in base a delle regole precise e ga­ranzie; e, così, non si è in balìa dei più forti, e non si diventa schiavi di nessuno. Oggi dobbiamo stare attenti perché ciò che ab­biamo conquistato sul terreno dei diritti in­dividuali rischia di essere smentito nei rap­porti tra gli Stati, che, di fatto, non potendo fallire finiscono per cadere in nuove forme di schiavitù (lo abbiamo visto nei decenni passati con il debito dei Paesi in via di svi­luppo, per i quali nel 2000 la Chiesa cattoli­ca auspicò – nella vasta indifferenza dei po­tenti, seppur con qualche coraggiosa ecce­zione – un “condono” in occasione del gran­de Giubileo).

Pochi sembrano sentire (e capire) questo rumore di catene. Ed esiste una domanda che è al centro del dibattito greco, ma non abbastanza in quello europeo e internazio­nale: è giusto che i cittadini greci siano co­stretti a non poter fallire, quando pensiamo che chi oggi più soffre in Grecia e più soffrirà per il regime imposto al Paese sono i pove­ri e i fragili, e non certo gli ex–politici e i ban­chieri? Che cosa pesa nella bilancia della nostra civiltà?

Ovviamente nella bilancia va anche messa, e lo dicono in tanti, la poca se­rietà (per usare un eufemismo) di governi greci che hanno consumato troppo, truc­cato i conti, commettendo reati da banca­rotta fraudolenta, e di cui bisogna che i re­sponsabili rispondano. Su quella stessa bi­lancia va però anche posta, e questo si dice troppo poco, la straordinaria leggerezza da parte delle istituzioni europee che hanno fatto entrare a suo tempo la Grecia nell’eu­ro quando era evidente che non era ancora pronta, anche perché il tessuto culturale tra­dizionale e comunitario di molti Paesi del Mediterraneo non era – e non è – orientato ad abbracciare l’ethos individualistico che domina sui mercati finanziari. Infine, su quella bilancia va poggiata anche la dolosa leggerezza delle banche europee e interna­zionali (speculative) che hanno investito massicciamente sui titoli del debito greco, molto redditizi sebbene evidentemente troppo rischiosi: l’offerta scellerata di titoli pubblici tossici ha incontrato la domanda altrettanto scellerata di speculatori.

Se si vuole veramente evitare il fallimento della Grecia, occorre dar vita a un progetto sostenibile e solidale, non uccidendo il ma­lato con la cura. Ma per far questo occorre che l’Europa sia più presente, e che, soprat­tutto, inizi a parlare. Quando un Paese vive un momento difficile e grave è necessario che la politica svolga la sua funzione sim­bolica, sappia parlare alla gente per rende­re comprensibili e possibili anche grandi sa­crifici. Lo hanno saputo fare alcuni leader politici del passato, da Churchill a De Ga­speri e a Mandela. Statisti che hanno sapu­to parlare al cuore della loro gente, in gran­di momenti di sofferenza individuale e col­lettiva. Ma chi sta parlando ora ai greci a no­me dell’Europa? Non può né deve parlare la Bce, non ci riesce il debolissimo Parlamen­to di Straburgo, né la Commissione di Bruxelles, i cui leader sono totalmente as­senti dai dibattiti e dai media in questi me­si cruciali, dove invece spopolano i capi dei governi nazionali. E quando parlano solo le istituzioni economiche e finanziarie, le pa­role sono spesso quelle del “servo spietato” di cui ci parla il Vangelo.

Ciò che poi più colpisce quando osservia­mo la Grecia è la solitudine di quel popolo: dov’è sono gli altri Stati fratelli? Dove sono i con–cittadini europei?

Ci sarebbe più bisogno di solidarietà orizzontale tra i cittadini europei, espressione concreta di quel principio di fraternità su cui si è costruita l’Europa moderna. Sarebbe, infatti, impensabile che davanti a una bancarotta di una regione italiana le istituzioni e i cittadini italiani abbandonassero altri cittadini italiani al proprio destino e ai propri debitori. Per l’Europa questo abbandono sembra naturale, semplicemente perché l’Europa dei popoli e della gente ancora è da costruire.

Se l’Europa fosse vissuta come terra comune di uno stesso popolo, sarebbe evidente la forza dei Patti e non solo quella dei contratti. E dire Patto significa anche dire parole come perdono: parola troppo assente (per-dono, in molte lingue rimanda a dono, for­give…), parola oggi scomparsa dal dibattito, perché cancellata da contratti, prestiti e debiti. Le istituzioni e i cittadini europei hanno una grande chance, con questa grave crisi: riattivare quel patto fondativo all’origine dell’Europa, che oggi sembra diventato una utopia, una terra di nessuno. Se non vogliamo far fallire la Grecia oggi, e altri Paesi europei più fragili domani, e se non vogliamo massacrare la vita dei popoli non bastano, né servono nel medio periodo, prestiti spietati e quindi insostenibili. Dobbiamo saper affiancare Patti ai contratti, per-doni a inter-essi e usare in modo proprio e sensato il verbo ri-sanare. Dobbiamo cercare di trasformare l’attuale utopia europea in eutopia, la buona terra comune.

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Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2012

logo_avvenireCiò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una per­sona cade in disgrazia economica la sua li­bertà è messa a repentaglio. Nel mondo an­tico si poteva diventare schiavi del credito­re per debiti non pagati. Il diritto fallimen­tare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per e­vitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.

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Il rumore delle catene

Il rumore delle catene

Commenti - La Grecia, il suo popolo, l'Europa di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/02/2012 Ciò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando...
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Commenti - Giovani, formazione, posto fisso

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  03/02/2012

logo_avvenireC’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivise – in quanto afferma il presidente del Consiglio Mario Monti, sia nelle dichiarazioni ufficiali sia nelle apparizioni televisive. Si pensi, soprattutto, a quella che sottolinea la grave asimmetria che esiste oggi in Italia tra chi sta dentro il mondo del lavoro e chi sta fuori e non riesce a entrare.

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Saggio è anche porre l’accento sull’urgenza di rendere il "mercato del lavoro" (non dimentichiamo mai le virgolette quando accostiamo la parola mercato al lavoro umano e ai lavoratori) più efficiente, più veloce, con meno rendite di posizione, e quindi più moderno e più capace di rispondere alle nuove sfide poste dalla globalizzazione. Il discorso, invece, relativo al lavoro dei giovani e al «posto fisso» avrebbe bisogno di meno fretta, di più mediazione sociale e di una valutazione più approfondita e meditata.

Il lavoro che una persona svolge è molto più di un mezzo per procurarsi il necessario per vivere: il lavoro dice a noi stessi e agli altri anche chi siamo, non solo che cosa facciamo. E in una cultura dove i luoghi identitari tradizionali sono in crisi (comunità, famiglia), il lavoro resta tra i pochi linguaggi sociali per trovare e raccontare il nostro posto al mondo. Ciò è vero sempre, addirittura anche quando si è in pensione; ma vale soprattutto, e in modo tutto speciale, per un giovane. Ma chi oggi osserva il mondo dei giovani scopre una grande sofferenza anche su questo terreno identitario, per una scuola e una università sempre meno capaci di formare lavoratori e per politiche miopi che hanno moltiplicato quei contratti di lavoro precari e frammentati che stanno caratterizzando questa fase del capitalismo. È molto triste vedere tanti diplomati e laureati che a distanza di dieci anni dal diploma o dalla laurea fanno una gran fatica a dire ad amici e parenti, e a se stessi, quali siano il proprio lavoro e le proprie competenze, quale sia il proprio mestiere.

La società tradizionale era stata capace di creare una forte etica del lavoro basata sui mestieri, che ha retto la nostra civiltà per secoli: fabbri, panettieri, maestre, operai e dottori hanno dato serietà e ordine non solo all’economia ma all’Umanesimo dell’occidente. È, infatti, il mestiere il grande tema che va posto al centro del dibattito sul lavoro, senza guardare nostalgicamente indietro, ma con la consapevolezza che senza mestieri, antichi, nuovi e nuovissimi, non c’è sviluppo. Ma che mestiere fa oggi un laureato in economia che ha trascorso due anni in stage, uno in amministrazione di una impresa, due in una società di consulenza, tre in una assicurazione? Che mestiere fa un perito (cioè un esperto diplomato) che non trova neanche un posto da apprendista? Che cosa sa fare e in che cosa è competente? Se un giovane quando si affaccia sul mondo del lavoro non ha davanti alcuni anni nei quali apprendere un mestiere, dal falegname al professore universitario, corre fortemente il rischio di ritrovarsi in età matura a non avere nessun mestiere, a non essere quindi competente in nulla. Dagli studi sul benessere lavorativo sappiamo che il sentirsi competente è ciò che più pesa nella felicità di una persona, anche più dello stipendio. Non riuscire ad acquisire un mestiere da giovani ha allora enormi effetti sull’identità delle persone, e sulla qualità della vita.

Ecco perché in questa fase critica del nostro tempo, per i giovani è fondamentale sapere che un’impresa o una istituzione sta investendo in loro, e loro in essa, dando loro del tempo per poter apprendere un mestiere, ed essere così davvero utili all’impresa e alla società civile. E se si è precari e senza competenze da giovani lo si sarà ancora di più da adulti, quando perdere il lavoro diventa un dramma anche perché il valore del proprio capitale umano è molto basso. Occorre, infatti, ricordare che il nostro valore in quanto lavoratori, quello che l’economia chiama il "capitale umano" (che è solo un sotto-insieme del valore globale di una persona), lo si accumula solo in minima parte a scuola, perché la parte più consistente di esso la si acquisisce lavorando.

Un ottimo studente universitario che a distanza di cinque anni è ancora precario, si ritrova con un capitale umano deteriorato e minore di quello che aveva il giorno della laurea. E questo è un grave fallimento per la persona, ma soprattutto per un sistema-Paese che se non apprezza (anche nel senso di aumentarne il valore) i suoi giovani, sta sperperando la sua ricchezza più grande. I giovani oggi hanno bisogno di fiducia, soprattutto in questo tempo di crisi, che loro non hanno causato ma di cui subiscono le gravi conseguenze. E il primo atto di fiducia verso un giovane è dargli la possibilità di coltivare la sua vocazione lavorativa, da cui dipende la felicità (eu-daimonia) individuale e pubblica.​

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Commenti - Giovani, formazione, posto fisso

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il  03/02/2012

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E sì, ci vuole mestiere

E sì, ci vuole mestiere

Commenti - Giovani, formazione, posto fisso di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il  03/02/2012 C’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivis...