stdClass Object ( [id] => 3220 [title] => Familismo morale [alias] => familismo-morale [introtext] =>Commenti - Valori che ci uniscono e ci servono
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/03/2012
Il rapporto Censis sui "valori degli italiani" è una buona notizia per il Paese. Emerge un familismo morale, che è meno raccontato e famoso del familismo amorale di cui si parla e straparla per descrivere il modello italiano. Le relazioni, quelle familiari e comunitarie, sono poste in cima ai valori. E – ciò che il Censis non dice ma che è emerso da una ricerca svolta con un collega dell’Università di Milano-Bicocca (Luca Stanca) – le persone che attribuiscono importanza alla famiglia e alle relazioni sono mediamente anche quelle più felici.
[fulltext] =>Dopo alcuni decenni che hanno visto l’ipertrofia della finanza e del consumismo, questi primi anni di crisi stanno risvegliando una vocazione nazionale che non era morta, ma che si era soltanto assopita, covando viva e calda sotto la cenere.
L’Italia ha una storia di relazioni che dura da oltre duemila anni: la cultura mediterranea, il cristianesimo, lo scambio e il commercio, la cultura cittadina e borghigiana, hanno creato nei secoli una identità dove il valore della relazione è al centro del suo dna. È stata questa rete di 'relazioni tra diversi' che ha fatto grande l’Italia quando è stata grande (Umanesimo civile, Settecento riformatore, Risorgimento, Ricostruzione...); e anche le sue patologie (come certi familismi amorali e alcune forme di mafia), possono anche essere lette come malattie e degenerazioni di questa stessa vocazione alle relazioni. Oggi, allora, in questi tempi di crisi e in questi giorni duri, ci stiamo accorgendo che è molto più interessante e appagante investire tempo nelle relazioni che consumare denaro negli ipermercati. Un secondo dato del rapporto, infatti, si sposa perfettamente con il primo (relazioni): il 57% degli italiani ritiene che nella propria famiglia il desiderio di consumare è meno intenso rispetto a qualche anno fa. E, cosa molto importante, lo pensa indipendentemente dalla diminuzione del proprio reddito.
È come se ci stessimo accorgendo del bluff di un modello di economia fondato sui consumi: il gioco di pensare di rilanciare una economia in crisi di fiducia e di entusiasmo civile e spirituale rilanciando consumi è durato poco, e ha lasciato tutti scontenti e delusi. È davvero bizzarro, se non offensivo, pensare che in questi tempi di seria diminuzione del reddito reale delle famiglie qualcuno possa pensare che una strada di rilancio dell’economia possa essere tenere aperti i negozi 7 giorni su 7 e 24 ore su 24.
Il consumismo sostenuto dai debiti, va ricordato, è la malattia della crisi: come può diventarne ora la cura? Certo, c’è bisogno di più crescita economica, ma c’è bisogno soprattutto che la gente ritrovi l’entusiasmo delle relazioni, si rimetta assieme in modo creativo per generare posti di lavoro, e non di gente che passa le serate e i week end nei centri commerciali a sognare, frustrati e con sempre meno soldi in tasca, stili di vita tristi e irreali. I sogni oggi vanno orientati verso la produzione e la generatività, non solo verso i consumi, se vogliamo sperare in meglio. Dovremmo, infatti, ricordare di tanto in tanto che una economia non regge a lungo se trascura i settori primario (agricoltura) e secondario (produzione), e punta troppo sul terziario (commercio e servizi). I Paesi che oggi sono in grave crisi, lo sono anche, e forse soprattutto, perché, anche a causa di politiche europee non sempre lungimiranti, hanno nei decenni passati abbandonato settori tradizionali nei quali avevano saperi e competenze antichi (penso alla pesca e all’agricoltura in Portogallo), per gettarsi su servizi e commercio, settori spesso molto fragili e a basso valore aggiunto reale. Le relazioni familiari e comunitarie non reggono se non sono sostenute da relazioni lavorative serie, che generano reddito e riducono l’incertezza della gente, risorse queste che poi alimentano tutte le altre relazioni della vita.
Il grande economista Albert Hirschman ci ha mostrato che i Paesi non conoscono soltanto i cicli economici (recessione-espansione), ma anche i «cicli della felicità »: fasi storiche nelle quali prevale la ricerca della felicità privata (individuo) che si alternano ad altre nelle quali prevale invece la voglia di felicità pubblica (relazioni). E, come nei cicli economici, una fase prepara l’altra, e quando si arriva al culmine della felicità privata si creano le premesse per il suo superamento verso una stagione di felicità pubblica. Per Hirschman il principale meccanismo che produce il cambio di fase è la delusione.
Oggi siamo nel bel mezzo di uno di questi momenti di "flesso" del ciclo, ma affinché questo desiderio di "felicità pubblica" sia sostenibile e influenzi anche il ciclo economico, occorre subito una nuova politica. Dietro la loro apparente anti-politica gli italiani non stanno chiedendo meno politica, ne stanno chiedendo di più ma diversa, sussidiaria e più leggera. Senza adeguate relazioni politiche, le relazioni civili, comunitarie e familiari non diventano mai motore di quello sviluppo economico e civile di cui abbiamo un vitale bisogno.
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Valori che ci uniscono e ci servono
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 16/03/2012
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stdClass Object ( [id] => 3197 [title] => Attenti alla trappola [alias] => attenti-alla-trappola [introtext] =>Commenti - Perché la cura non sia inutile
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/03/2012
La crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un momento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccupazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente.
[fulltext] =>L’Italia sta vivendo – sul piano internazionale, un po’ meno su quello politico interno – giorni di calma apparente e anche lo spread tra i nostri titoli del debito e quelli tedeschi è tornato finalmente sotto «quota 300». Tuttavia recenti preoccupazioni espresse dal presidente Monti e dai ministri economici sono molto serie, e un po’ sottovalutate. C’è, poi, l’annosa – e ormai davvero lancinante – questione delle imposte indirette. E, nonostante la presenza del governo di eminenti economisti, su questo punto sembra si stia commettendo un errore di stima.
Si fanno i calcoli sulle entrate che l’aumento dell’Iva (di 2 punti percentuali) dovrebbe generare, tenendo fermo, o quasi, l’ammontare dei consumi, e si sbaglia. Perché? Il popolo italiano, o la cosiddetta “classe media” (una “media” in caduta libera...), sta vivendo da anni una grave situazione di sofferenza economica e sociale. Per capirlo non servono i Centri studi: basterebbe che di tanto in tanto la nostra classe dirigente si recasse, in incognita, nei sempre più popolati mercati di piazza, in un’impresa industriale, in una cooperativa sociale, nei dispensari e nelle mense parrocchiali o leggesse bene i dati sull’aumento di furti alimentari nei supermercati.
Il Paese è sotto stress da tempo, e sta con dignità ma con enorme fatica assorbendo la diminuzione del potere di acquisto reale degli stipendi, e l’insostenibilmente alto (anche a causa di imposte indirette) costo della benzina. A ciò si aggiungono i tagli agli enti locali, che continuano a impoverire le persone per un peggioramento dei servizi pubblici accompagnato dall’aumento dei costi (a Milano il prezzo dei biglietti dei mezzi pubblici è aumentato del 50%!).
Non finiremo mai di ricordare che i cittadini impoveriscono non solo quando diminuisce il reddito pro-capite, ma anche quando peggiora e si riduce la quantità e la qualità di beni pubblici e di beni comuni. In un tale scenario, l’aumento dell’Iva, e magari di altre imposte indirette può allora produrre effetti molto gravi – sarebbe utile che ci si spiegasse con un po’ di calma e di argomenti perché una imposizione indiretta, che di certo è meno equa, è almeno più efficiente o efficace di un’imposizione diretta.
Innanzitutto, la gente consumerà di meno, e quindi se oggi aumento del 2% l’Iva sui consumi, non debbo stimare le entrate prendendo come base imponibile quella attuale, diciamo 1.000, ma una base ridotta, e di molto, forse in alcuni settori 700. Questo significa che la vera entrata attesa non è 20, ma 14. È ovvio che i bravi economisti che oggi sono al Governo sanno tutto ciò, ma lo dicono poco, e, soprattutto, appunto, paiono sottostimare l’effetto di riduzione dei consumi, in particolare la riduzione indiretta o di medio termine. Perché quel - 6 (20 - 14) non ha solo un effetto diretto e immediato nel reddito di chi oggi vende i prodotti (commercio). Tra breve, quell’aumento dell’Iva avrà effetti recessivi, maggiori di quelli stimati, sull’intera economia: maggiore disoccupazione, minor consumo, e così via in quella 'trappola di povertà' di cui ogni tanto la storia, anche recente, ci narra.
Probabilmente tutto ciò è la conferma che nessuna manovra economica può davvero funzionare con la logica dei due tempi: prima i tagli e la contrazione dei consumi e dei redditi; poi le misure per la crescita.
Occorre far subito tutto assieme, durante e non dopo, perché la seconda fase arriva sempre troppo tardi, e con costi troppo elevati. La tradizione economica italiana, con note culturali proprie e ben diverse da quella anglosassone, poggiava su un muro maestro: la rinuncia alle cosiddette «approssimazioni successive» ai problemi. Maffeo Pantaleoni, il “principe degli economisti italiani”, ma anche Luigi Einaudi o Giorgio Fuà, denunciarono ripetutamente il grave errore di rimandare dimensioni essenziali dei problemi a una seconda fase, poiché – dicevano – ciò che si perde nella prima fase non lo si recupera più, o quando arriva è troppo tardi e ha ormai perso molto della sua efficacia. Non si può, in un anno, rientrare da una situazione prodotta in decenni.
All’Italia serve più tempo, un tempo che va anche contrattato nelle opportune sedi, un tempo che non può essere solo quello delle banche e della finanza, ma deve tornare a essere soprattutto quello della vita della gente. Ma se oggi la politica economica non abbina, mentre chiede i sacrifici, politiche serie di sostegno alle famiglie (a quando è rimandato il “fattore famiglia”?), al mondo dell’economia sociale (era proprio indispensabile chiudere l’Agenzia del Terzo Settore e si può non farsi carico delle difficoltà crescenti di questa straordinaria risorsa?), alle imprese piccole e artigiane in grande sofferenza, la cura risulterà con ogni probabilità insopportabile. E, quindi, inutile se non addirittura dannosa.
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Perché la cura non sia inutile
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 09/03/2012
La crisi dell’Europa sarà ancora lunga, perché lunga è stata la sua preparazione, e il periodo di incubazione del virus della malattia. La fretta può essere molto pericolosa. La situazione greca, nonostante l’importante sviluppo garantito ieri dall’ampia adesione dei creditori privati all’accordo sul debito, è tutt’altro che risolta. Mentre quella portoghese, può esplodere da un momento all’altro, e la Spagna è in una situazione molto grave: chi può seriamente pensare che un Paese con un tasso di disoccupazione del 25% può dare priorità alla riduzione del debito e non alla crescita? E se qualcuno in Eurolandia oltre a pensarlo lo dice e lo raccomanda, tutto ciò è grave, economicamente ed eticamente.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/02/2012
L’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "mercato" del lavoro, liberalizzazioni, riforma dei partiti, ma anche lotta alla corruzione e all’evasione, e nuovo e antico welfare. Negli ultimi decenni abbiamo attraversato una fase troppo lunga di inimicizia civile, è questa è anche una delle ragioni della gravità con la quale la crisi si è abbattuta sul nostro Paese.
[fulltext] =>L’Italia che uscirà dalle votazioni del 2013, che saranno inevitabilmente l’inizio di qualcosa di nuovo (e ci auguriamo di migliore), dipenderà in gran parte dalla qualità dell’impegno civile che, tutti e ciascuno, metteremo nel riscrivere questi nuovi brani di patto sociale.
Simili passaggi forti (e fondativi) possono essere i più favorevoli per rendere molto concreta e operativa la teoria politica più importante del XX secolo, quella del filosofo americano John Rawls. Nel suo trattato "Una teoria della giustizia" (1971), Rawls ha introdotto, tra l’altro, una regola generale per operare le scelte politiche quando si vuol dar vita a una società giusta. Egli propone ai cittadini che stanno stipulando il patto sociale di ragionare come se fossero sotto «un velo di ignoranza», un espediente teorico che ha lo scopo di non far vedere, o non far vedere chiaramente, il posto (in termini di reddito, risorse, opportunità...) che quei cittadini occuperanno nella società di domani. In un tale contesto artificiale e reale (perché verosimile in tante esperienze storiche di fondazione di una nuova impresa o comunità), il filosofo americano dimostra che esiste una regola generale, che lui chiama del maximin, per costruire le regole del gioco.
Questa regola consiste nel prevedere nella società futura il miglior trattamento possibile (max) per coloro che si trovano agli ultimi posti della società (min). Una tale regola è per Rawls una declinazione diretta del principio di fraternità, il più dimenticato nel trittico della modernità, una regola che è espressione di giustizia sociale ma anche di razionalità individuale, poiché domani quel minimo potrei essere io, mio figlio o mia nipote. Da qui deriva il corollario che la giustizia di una società la si misura principalmente sulla base di come vengono trattati gli ultimi.
Questa grande lezione etico-razionale dovrebbe oggi essere posta al centro dei nostri dibattiti. Dovrebbe indurci a domandarci chi sono, qui e ora, i minimi della nostra società. Nel mondo che abbiamo costruito gli ultimi sono sempre più numerosi e vulnerabili, e i primi sempre meno e sempre più ricchi e forti. I minimi sono senz’altro i poveri di risorse e gli svantaggiati: quindi oggi lo sono anche, come forse mai prima, i giovani. La questione giovanile va posta al centro del nuovo patto sociale. Basta pensare al tema del lavoro, sul quale – e non a caso – su queste pagine tanto si insiste. Ma il discorso è ancora più ampio e generale. Dobbiamo fare in modo, ad esempio, che l’ondata di nuovo entusiasmo liberista (dimenticando, tra l’altro, che questa crisi finanziaria è scoppiata in America e in Inghilterra per troppo libero mercato finanziario, non per troppo poco), non finisca per estendere anche all’Italia la riforma degli studi universitari che si è realizzata in Gran Bretagna.
In quello Stato, anche in seguito a una nuova stagione ideologica, si è pensato di eliminare i contributi pubblici a fondo perduto per le università, e trasformare – nella logica del mercato – quei sussidi in prestiti agli studenti, rimborsabili nel lungo periodo (fino a trent’anni). Così le tasse, per ogni ordine e grado di studi universitari, sono lievitate enormemente, e oggi uno studente inglese non paga meno di 10-12.000 euro annui. Ciò significa che quando questo giovane uomo entrerà nel mondo del lavoro inizierà la sua carriera con un peso di almeno 50.000 euro, a cui si sommano quelli della giovane donna che è sua moglie, e quelli del mutuo per la casa (e qualcuno dovrebbe anche ricordare come sono nati i tristemente famosi mutui sub-prime...).
Inoltre, dovremmo rivedere la politica di sconti e vantaggi economici, associati in molti Paesi all’età. Un mio collega sessantenne, grande sportivo e in piena salute, ha appena ricevuto la carta argento, di cui avrebbero molto più bisogno i suoi figli vicini ai trent’anni, con lavori precari e con famiglia. Senza penalizzare ulteriormente molti pensionati (anche perché un Paese che mette in competizione tra di loro anziani e giovani non ha futuro, perché sono entrambi minimi), dovremmo però capire che la rivoluzione della longevità ha delle cose importanti e nuove da dire anche su come si assegnano le "carte" del gioco della vita e delle opportunità di futuro. Pure questo è un aspetto del patto sociale.
Tra pochi mesi, ripartirà la competizione politica: se vogliamo che non sia anche questa volta una hobbesiana "guerra di tutti contro tutti", dobbiamo ricreare presto una unità e una amicizia civile sulla quale deve poggiare la cum-petizione politica, se vogliamo che sia tesa al «bene comune», il bene di tutti e di ciascuno, e quindi anche dei giovani. Dei nostri figli e nipoti.
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Nodo-giovani e la fondativa importanza della fraternità
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 21/02/2012
L’anno che ci è di fronte può essere un periodo cruciale per iniziare a riscrivere capitoli importanti del patto sociale tra gli italiani, che si chiamano legge elettorale, "mercato" del lavoro, liberalizzazioni, riforma dei partiti, ma anche lotta alla corruzione e all’evasione, e nuovo e antico welfare. Negli ultimi decenni abbiamo attraversato una fase troppo lunga di inimicizia civile, è questa è anche una delle ragioni della gravità con la quale la crisi si è abbattuta sul nostro Paese.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/02/2012
Ciò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una persona cade in disgrazia economica la sua libertà è messa a repentaglio. Nel mondo antico si poteva diventare schiavi del creditore per debiti non pagati. Il diritto fallimentare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per evitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.
[fulltext] =>Esiste nei sistemi democratici moderni anche un diritto individuale al fallimento, quando l’impresa di cui si è titolari non dà più speranze di potercela fare. Si pagano i debitori con quel che resta del patrimonio, in base a delle regole precise e garanzie; e, così, non si è in balìa dei più forti, e non si diventa schiavi di nessuno. Oggi dobbiamo stare attenti perché ciò che abbiamo conquistato sul terreno dei diritti individuali rischia di essere smentito nei rapporti tra gli Stati, che, di fatto, non potendo fallire finiscono per cadere in nuove forme di schiavitù (lo abbiamo visto nei decenni passati con il debito dei Paesi in via di sviluppo, per i quali nel 2000 la Chiesa cattolica auspicò – nella vasta indifferenza dei potenti, seppur con qualche coraggiosa eccezione – un “condono” in occasione del grande Giubileo).
Pochi sembrano sentire (e capire) questo rumore di catene. Ed esiste una domanda che è al centro del dibattito greco, ma non abbastanza in quello europeo e internazionale: è giusto che i cittadini greci siano costretti a non poter fallire, quando pensiamo che chi oggi più soffre in Grecia e più soffrirà per il regime imposto al Paese sono i poveri e i fragili, e non certo gli ex–politici e i banchieri? Che cosa pesa nella bilancia della nostra civiltà?
Ovviamente nella bilancia va anche messa, e lo dicono in tanti, la poca serietà (per usare un eufemismo) di governi greci che hanno consumato troppo, truccato i conti, commettendo reati da bancarotta fraudolenta, e di cui bisogna che i responsabili rispondano. Su quella stessa bilancia va però anche posta, e questo si dice troppo poco, la straordinaria leggerezza da parte delle istituzioni europee che hanno fatto entrare a suo tempo la Grecia nell’euro quando era evidente che non era ancora pronta, anche perché il tessuto culturale tradizionale e comunitario di molti Paesi del Mediterraneo non era – e non è – orientato ad abbracciare l’ethos individualistico che domina sui mercati finanziari. Infine, su quella bilancia va poggiata anche la dolosa leggerezza delle banche europee e internazionali (speculative) che hanno investito massicciamente sui titoli del debito greco, molto redditizi sebbene evidentemente troppo rischiosi: l’offerta scellerata di titoli pubblici tossici ha incontrato la domanda altrettanto scellerata di speculatori.
Se si vuole veramente evitare il fallimento della Grecia, occorre dar vita a un progetto sostenibile e solidale, non uccidendo il malato con la cura. Ma per far questo occorre che l’Europa sia più presente, e che, soprattutto, inizi a parlare. Quando un Paese vive un momento difficile e grave è necessario che la politica svolga la sua funzione simbolica, sappia parlare alla gente per rendere comprensibili e possibili anche grandi sacrifici. Lo hanno saputo fare alcuni leader politici del passato, da Churchill a De Gasperi e a Mandela. Statisti che hanno saputo parlare al cuore della loro gente, in grandi momenti di sofferenza individuale e collettiva. Ma chi sta parlando ora ai greci a nome dell’Europa? Non può né deve parlare la Bce, non ci riesce il debolissimo Parlamento di Straburgo, né la Commissione di Bruxelles, i cui leader sono totalmente assenti dai dibattiti e dai media in questi mesi cruciali, dove invece spopolano i capi dei governi nazionali. E quando parlano solo le istituzioni economiche e finanziarie, le parole sono spesso quelle del “servo spietato” di cui ci parla il Vangelo.
Ciò che poi più colpisce quando osserviamo la Grecia è la solitudine di quel popolo: dov’è sono gli altri Stati fratelli? Dove sono i con–cittadini europei?
Ci sarebbe più bisogno di solidarietà orizzontale tra i cittadini europei, espressione concreta di quel principio di fraternità su cui si è costruita l’Europa moderna. Sarebbe, infatti, impensabile che davanti a una bancarotta di una regione italiana le istituzioni e i cittadini italiani abbandonassero altri cittadini italiani al proprio destino e ai propri debitori. Per l’Europa questo abbandono sembra naturale, semplicemente perché l’Europa dei popoli e della gente ancora è da costruire.
Se l’Europa fosse vissuta come terra comune di uno stesso popolo, sarebbe evidente la forza dei Patti e non solo quella dei contratti. E dire Patto significa anche dire parole come perdono: parola troppo assente (per-dono, in molte lingue rimanda a dono, forgive…), parola oggi scomparsa dal dibattito, perché cancellata da contratti, prestiti e debiti. Le istituzioni e i cittadini europei hanno una grande chance, con questa grave crisi: riattivare quel patto fondativo all’origine dell’Europa, che oggi sembra diventato una utopia, una terra di nessuno. Se non vogliamo far fallire la Grecia oggi, e altri Paesi europei più fragili domani, e se non vogliamo massacrare la vita dei popoli non bastano, né servono nel medio periodo, prestiti spietati e quindi insostenibili. Dobbiamo saper affiancare Patti ai contratti, per-doni a inter-essi e usare in modo proprio e sensato il verbo ri-sanare. Dobbiamo cercare di trasformare l’attuale utopia europea in eutopia, la buona terra comune.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 26/02/2012
Ciò che sta avvenendo in Grecia è molto importante, e richiederebbe molta più attenzione da parte di tutti. Questa crisi ci sta gridando molte cose, tutte molto serie. Sappiamo da sempre che quando una persona cade in disgrazia economica la sua libertà è messa a repentaglio. Nel mondo antico si poteva diventare schiavi del creditore per debiti non pagati. Il diritto fallimentare è stato introdotto non solo a garanzia dei creditori, ma anche, e soprattutto, per evitare la schiavitù o la tragedia globale di chi incorreva in un fallimento o in un dissesto economico.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/02/2012
C’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivise – in quanto afferma il presidente del Consiglio Mario Monti, sia nelle dichiarazioni ufficiali sia nelle apparizioni televisive. Si pensi, soprattutto, a quella che sottolinea la grave asimmetria che esiste oggi in Italia tra chi sta dentro il mondo del lavoro e chi sta fuori e non riesce a entrare.
[fulltext] =>Saggio è anche porre l’accento sull’urgenza di rendere il "mercato del lavoro" (non dimentichiamo mai le virgolette quando accostiamo la parola mercato al lavoro umano e ai lavoratori) più efficiente, più veloce, con meno rendite di posizione, e quindi più moderno e più capace di rispondere alle nuove sfide poste dalla globalizzazione. Il discorso, invece, relativo al lavoro dei giovani e al «posto fisso» avrebbe bisogno di meno fretta, di più mediazione sociale e di una valutazione più approfondita e meditata.
Il lavoro che una persona svolge è molto più di un mezzo per procurarsi il necessario per vivere: il lavoro dice a noi stessi e agli altri anche chi siamo, non solo che cosa facciamo. E in una cultura dove i luoghi identitari tradizionali sono in crisi (comunità, famiglia), il lavoro resta tra i pochi linguaggi sociali per trovare e raccontare il nostro posto al mondo. Ciò è vero sempre, addirittura anche quando si è in pensione; ma vale soprattutto, e in modo tutto speciale, per un giovane. Ma chi oggi osserva il mondo dei giovani scopre una grande sofferenza anche su questo terreno identitario, per una scuola e una università sempre meno capaci di formare lavoratori e per politiche miopi che hanno moltiplicato quei contratti di lavoro precari e frammentati che stanno caratterizzando questa fase del capitalismo. È molto triste vedere tanti diplomati e laureati che a distanza di dieci anni dal diploma o dalla laurea fanno una gran fatica a dire ad amici e parenti, e a se stessi, quali siano il proprio lavoro e le proprie competenze, quale sia il proprio mestiere.
La società tradizionale era stata capace di creare una forte etica del lavoro basata sui mestieri, che ha retto la nostra civiltà per secoli: fabbri, panettieri, maestre, operai e dottori hanno dato serietà e ordine non solo all’economia ma all’Umanesimo dell’occidente. È, infatti, il mestiere il grande tema che va posto al centro del dibattito sul lavoro, senza guardare nostalgicamente indietro, ma con la consapevolezza che senza mestieri, antichi, nuovi e nuovissimi, non c’è sviluppo. Ma che mestiere fa oggi un laureato in economia che ha trascorso due anni in stage, uno in amministrazione di una impresa, due in una società di consulenza, tre in una assicurazione? Che mestiere fa un perito (cioè un esperto diplomato) che non trova neanche un posto da apprendista? Che cosa sa fare e in che cosa è competente? Se un giovane quando si affaccia sul mondo del lavoro non ha davanti alcuni anni nei quali apprendere un mestiere, dal falegname al professore universitario, corre fortemente il rischio di ritrovarsi in età matura a non avere nessun mestiere, a non essere quindi competente in nulla. Dagli studi sul benessere lavorativo sappiamo che il sentirsi competente è ciò che più pesa nella felicità di una persona, anche più dello stipendio. Non riuscire ad acquisire un mestiere da giovani ha allora enormi effetti sull’identità delle persone, e sulla qualità della vita.
Ecco perché in questa fase critica del nostro tempo, per i giovani è fondamentale sapere che un’impresa o una istituzione sta investendo in loro, e loro in essa, dando loro del tempo per poter apprendere un mestiere, ed essere così davvero utili all’impresa e alla società civile. E se si è precari e senza competenze da giovani lo si sarà ancora di più da adulti, quando perdere il lavoro diventa un dramma anche perché il valore del proprio capitale umano è molto basso. Occorre, infatti, ricordare che il nostro valore in quanto lavoratori, quello che l’economia chiama il "capitale umano" (che è solo un sotto-insieme del valore globale di una persona), lo si accumula solo in minima parte a scuola, perché la parte più consistente di esso la si acquisisce lavorando.
Un ottimo studente universitario che a distanza di cinque anni è ancora precario, si ritrova con un capitale umano deteriorato e minore di quello che aveva il giorno della laurea. E questo è un grave fallimento per la persona, ma soprattutto per un sistema-Paese che se non apprezza (anche nel senso di aumentarne il valore) i suoi giovani, sta sperperando la sua ricchezza più grande. I giovani oggi hanno bisogno di fiducia, soprattutto in questo tempo di crisi, che loro non hanno causato ma di cui subiscono le gravi conseguenze. E il primo atto di fiducia verso un giovane è dargli la possibilità di coltivare la sua vocazione lavorativa, da cui dipende la felicità (eu-daimonia) individuale e pubblica.
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Giovani, formazione, posto fisso
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/02/2012
C’è qualcosa di sbagliato, o quanto meno di sfocato, nel dibattito che si è riacceso attorno al mondo del lavoro. Ci sono tesi condivisibili e sagge – e saggio sarà renderle ampiamente condivise – in quanto afferma il presidente del Consiglio Mario Monti, sia nelle dichiarazioni ufficiali sia nelle apparizioni televisive. Si pensi, soprattutto, a quella che sottolinea la grave asimmetria che esiste oggi in Italia tra chi sta dentro il mondo del lavoro e chi sta fuori e non riesce a entrare.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/01/2012
È facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo governo?
[fulltext] =>Liberalizzare un sistema economico significa, in estrema sintesi, aumentare il peso del mercato all’interno della vita civile. L’Italia ha sempre avuto meno mercato dei Paesi anglosassoni (Inghilterra e Usa in particolare), perché il posto del mercato lo hanno occupato non solo uno Stato spesso inefficiente e ipertrofico, ma anche la famiglia e le comunità. È, infatti, questa terza dimensione, che possiamo chiamare «società civile di tipo comunitario», che caratterizza il modello italiano, e in un modo più marcato degli altri Paesi europei di cultura latina. È, il nostro, un modello diverso dal capitalismo americano, ma anche da quello dei Paesi scandinavi, poiché in questi due modelli la dimensione comunitario-familiare è di fatto relegata nella sfera privata delle persone, senza che le venga riconosciuta la natura di principio e di ambito di carattere pubblico e politico.
Nelle politiche economiche che stiamo osservando, allo stato delle cose, non è purtroppo chiaro quale sia la visione relativa a questa terza dimensione, che, giova ripeterlo, è una colonna della nostra identità e storia, e che ha anche importanti effetti economici. Anche se le categorie culturali per "vedere" questa dimensione dell’Italia ci sono – ci sarebbero – si ha come l’impressione che la cura che si sta approntando per il malato Italia potrebbe essere applicata a qualsiasi altro Paese: dall’Argentina alla Finlandia. Se invece si vedesse davvero questa terza dimensione, ad esempio, si dovrebbero considerare diversamente le varie realtà del cosiddetto Terzo Settore. Innanzitutto, si capirebbe che le cooperative o le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti, poiché la cosiddetta economia sociale o civile in Italia non ha la stessa funzione – e, quindi, natura – del non-profit anglosassone.
Il Terzo Settore italiano ha essenzialmente una natura produttiva, non redistributiva come nel modello filantropico-restitutivo degli Usa. In Italia la cooperazione, la finanza etica, il commercio equo, il variegato mondo dell’economia comunitaria è la fioritura moderna della cultura civile che ha prodotto i Monti di Pietà nel Quattrocento, e poi le casse rurali e di risparmio, e quindi la cooperazione di produzione, rurale, di consumo. Oggi come ieri, l’economia civile è l’espressione economica di questa terza dimensione civile-comunitaria del nostro modello di sviluppo. Ma, di questi tempi, quando si sente parlare di impresa è forte l’impressione che nel Governo, in Parlamento e sui giornali ci sia chi ha in mente soltanto l’impresa capitalistica – grande, media o piccola – e che si collochi nel mondo del "sociale" o del "volontariato" quell’altra miriade di soggetti economici che pure creano ricchezza, valore aggiunto e posti di lavoro (oggi più di un milione), attingendo proprio alla nostra vocazione comunitario-famigliare. Occorre, invece, tenere ben presente che l’impresa tradizionale non potrà più creare posti di lavoro come prima della crisi, né, tantomeno, potrà farlo lo Stato. In simili momenti è stata la società civile che ha inventato nuovi lavori e nuova ricchezza (si pensi, ancora, alla cooperazione tra Ottocento e Novecento); qualcosa di simile dovrà avvenire anche oggi, purché il Governo lo veda e agisca di conseguenza anche sul piano fiscale.
È in questo contesto culturale ed economico più generale e profondo che va anche inserita la valutazione della liberalizzazione dell’orario degli esercizi commerciali.
Gli effetti di breve periodo di questa forma di liberalizzazione (diversa dalle altre, ripeto, necessarie e opportune), possono forse essere benèfici per i consumi e quindi per il Pil, anche se, dobbiamo ricordarlo, uno stile di vita centrato sull’aumento dei consumi è la malattia del nostro modello, non la cura. Ma ciò che è certo è che nel medio periodo (3-5 anni) scompariranno tutti quei negozi a conduzione famigliare che già soffrono da decenni, e che da domani non potranno certo tenere il passo di chi ha forza e capitali per gestire personale per turni "24h/7g". È il modello del grande-lontano-anonimo che prenderà sempre più piede, come sta già accadendo nei Paesi anglosassoni. Ma il piccolo-vicino-personale non è soltanto sinonimo di prezzi più alti, è anche espressione di un modello economico-civile che fa parte del nostro Dna borghigiano e cittadino, di città che si chiamano Offida e Lodi, non Miami né San Francisco. E che fa sì, tra l’altro, che i centri storici siano ancora (sebbene con fatica) abitati da persone e da incontri e non solo da uffici, e che gli anziani possano trovare merci e persone sottocasa.
Rendere possibile la vita sia alla grande distribuzione organizzata sia al negozio a conduzione famigliare non è buonismo né nostalgia, ma è questione di democrazia e di libertà, che vivono e si alimentano della biodiversità, anche nelle forme di imprese e di negozi. Trovare un negozio chiuso, magari la domenica, ci ricorda che il mercato è un pezzo di vita, non tutta, che esistono dei limiti al commercio e al consumo, che dietro quelle serrande ci sono non solo merci ma persone, e che i tempi del mercato e del lavoro – come ancora una volta ci ha ricordato lunedì il cardinale Bagnasco – vanno iscritti all’interno dei tempi del vivere e della festa, e non viceversa.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 27/01/2012
È facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo governo?
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/01/2012
Quando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave.
[fulltext] =>Ciò che stiamo scoprendo oggi è la sofferenza degli imprenditori, di cui i suicidi di questi tempi rappresentano la punta dell’iceberg.
L’altra sera facevo un pezzo di strada in compagnia di una imprenditrice di una media azienda industriale, una delle tante che tengono ancora in piedi l’Italia grazie al 'made in Italy' che funziona e piace nel mondo. Una donna che ha ereditato l’impresa dai genitori, e cerca di portarla avanti con talento e responsabilità.
Mi ha colpito in modo tutto particolare avvertire la sofferenza psicologica e quindi profonda che questa persona vive negli ultimi tre anni, a causa della crisi che ha ridotto di metà il fatturato, mettendo a rischio decine di posti di lavoro nella sua azienda. Se questa imprenditrice fosse stata una speculatrice, probabilmente avrebbe sofferto molto meno o punto, e magari avrebbe svenduto quell’azienda al migliore offerente.
L’imprenditore, l’imprenditrice, invece patisce veramente, perché in quella impresa che soffre e rischia di non farcela c’è racchiusa una buona parte della sua vita, della sua storia, del futuro proprio e della sua famiglia. Non è normale, nella nostra cultura, vedere gli imprenditori soffrire. A vederli 'piangere' e lamentarsi siamo abituati, ma sappiamo che in certi momenti è anche una parte di un gioco nella contrattazione sociale e politica. Ma il dolore di questi tempi è un’altra cosa, alla quale non siamo invece abituati. C’è, infatti, qualcosa d’altro, e di più profondo, in questa forma di sofferenza degli imprenditori, e in generale della dirigenza.
La nostra cultura sta sempre più espellendo la vulnerabilità dalla sfera pubblica, soprattutto dal mondo delle imprese, per non parlare di quello della finanza. Nelle grandi imprese capitalistiche non c’è posto per la dimensione della fragilità, per il limite (negli orari di lavoro, ad esempio). Si fa carriera se si appare illimitati nella gestione del tempo, delle energie, dell’efficienza: guai a dire a un manager, soprattutto se si è giovani o addirittura neo-assunti, che alle nove di sera ci sono dei bambini a casa che attendono, o che la domenica si ha diritto a non lavorare; per non parlare degli effetti devastanti che produce, nei colleghi o dipendenti, l’ammissione di disagio psicologico, di una malattia seria o di una depressione. Il mondo economico vede tutto ciò che sa di vulnerabilità come una faccenda che non ha diritto di cittadinanza nel mondo, tutto maschile, dell’impresa (e delle istituzioni). È la famiglia, secondo la cultura dominante, il luogo dove scaricare le vulnerabilità e le fragilità, una famiglia che continua a essere pensata come il regno della donna, come lo spazio possibile della ferita e dell’accudimento. Ma la vulnerabilità è la condizione dell’umano, anche dell’economico, e se non viene accolta e accudita, a un certo punto esplode, e nel far di un mattino si passa da manager o imprenditori di successo a una clinica psichiatrica, completamente bruciati (l’ormai tristemente noto burn out), non più utili né all’impresa né alla vita familiare (o di ciò che ne resta).
Questa crisi potrebbe offrirci, allora, l’occasione per trovare un rapporto giusto e nuovo con la dimensione della vulnerabilità nella sfera pubblica: ne ha bisogno il mondo dell’impresa che senza persone intere non ha futuro; e ne ha bisogno urgente il mondo della famiglia, che fa sempre più fatica a curare tra le mura domestiche quelle dimensioni di vulnerabilità che, non accolte dal mondo del lavoro, stanno diventando sempre più pesanti e ingestibili. A tutto ciò è legato un grande discorso sulla donna e sul femminile nella vita economica e istituzionale, attorno al quale stanno lavorando un numero crescente di studiosi (tra cui in Italia anche l’economista Alessandra Smerilli). Un femminile che non può e non deve più essere considerato il 'monopolista' della cura delle fragilità proprie e di quelle dei mariti e figli. Solo una vulnerabilità condivisa è sostenibile e feconda, soprattutto nei tempi di crisi.Tutti i commenti di Luigino Bruni su Avvenire sono disponibili nel menù Editoriali Avvenire
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Accettare e accogliere la vulnerabilità anche nell'impresa
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 22/01/2012
Quando un Paese attraversa una crisi soffrono tutti, o quasi, sebbene alcuni di più e altri meno. Sono questi i momenti nei quali si capisce, e sulla propria pelle, che una società civile e politica è anche un corpo, dove quindi c’è un legame, un sistema nervoso che trasmette sensazioni piacevoli e dolorose tra tutte le membra. L’abbiamo sempre saputo, poi, che durante una crisi economica è il mondo del lavoro, sono i lavoratori, a soffrire in una maniera tutta particolare e grave.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 15/01/2012
Un recente studio sperimentale svolto in Inghilterra (Robin Cubitt e colleghi, Journal of Public Economics, vol. 95, 2011), ha fatto emergere aspetti non ovvi e che hanno cose serie da dire anche per l’evasione fiscale in Italia. Questi ricercatori hanno mostrato che il giudizio morale nei confronti di chi non contribuisce ai beni pubblici, come nel caso dell’evasione fiscale, dipende molto dalle nostre credenze e aspettative sul comportamento degli altri. In particolare, nei vari esperimenti condotti, in tutti si riscontra una condanna morale nei confronti degli evasori, tranne che in un solo caso: quando, cioè, l’evasione fiscale di Anna avveniva dopo aver osservato l’evasione dell’altro soggetto, Bruno, con il quale Anna interagiva. Si tende, cioè, a condannare meno e a giustificare di più l’evasione fiscale, degli altri e nostra, quando si crede che le persone del nostro stesso gruppo siano anch’esse evasori.
[fulltext] =>Generalizzando un po’ i risultati di questi esperimenti, e guardando anche a cosa dicono altri studi sui medesimi temi, è come se la società fosse, idealmente, suddivisa in tre gruppi di persone (o di comportamenti). Il primo è composto da coloro che non evadano mai in nessun contesto e a ogni costo; nel secondo gruppo ci sono invece coloro che evadono sempre e in ogni caso; nel terzo infine, normalmente il più numeroso, ritroviamo coloro che evadono se credono che nella loro comunità (locale e/o nazionale) non ci siano abbastanza persone che pagano le tasse. Le persone di questo gruppo hanno tutte un livello di abbastanza (detto anche valore soglia), ma ciascuna persona ha il suo valore.
Ad esempio, per Anna può bastare pensare che il 50% di concittadini siano onesti perché anch’essa paghi le tasse; per Bruno il 30%, e per Carla il 95%. Ciò che si dimostra è che la cultura di legalità di un Paese dipende quasi interamente da due fattori: (a) dalla numerosità del primo gruppo (gli "onesti" incondizionali): se questi sono troppo pochi, la cultura della legalità non si affermerà mai; (b) dai livelli dei valori soglia (dall’ abbastanza ) dei cittadini medi (appartenenti al gruppo 3), poiché se questi sono molto alti, se cioè queste persone hanno bisogno di credere che siano molti, moltissimi, ad essere onesti per esserlo anche loro, è molto difficile ottenere cambiamenti positivi nella cultura fiscale e della legalità della popolazione.
Va poi notato che questi valori soglia dipendono decisamente dall’educazione famigliare nei primi anni di vita, ma dipendono molto dai segnali che emettono la politica e la classe dirigente (i condoni, ad esempio, li alzano terribilmente). È mia impressione che negli ultimi decenni, e in Italia in modo tutto particolare e massiccio, si stia sbagliando nella comunicazione pubblica relativa all’evasione fiscale. Se, infatti, prendiamo sul serio questi studi, dovremmo trarne alcune indicazioni molto chiare. Innanzitutto dovremmo sottolineare di meno che in Italia ci sono tanti evasori fiscali; non perché non sia (in buona parte) vero, ma perché porre l’accento soprattutto o unicamente su questo dato non fa altro che 'convertire' alcuni dei cittadini del gruppo intermedio (il terzo), che se hanno l’impressione di essere circondati da evasori, cambiano marginalmente il loro giudizio morale sul fenomeno, ed evadono anch’essi. Quindi, per un esempio molto concreto, dovremmo ritirare o cambiare quegli spot che continuano a parlarci della presenza in mezzo a noi dei parassiti sociali. Quale dovrebbe essere il loro scopo? Non quello di convertire gli evasori incondizionali del gruppo "due", che non cambieranno di certo strategia per il senso di colpa dopo aver visto lo spot. Ciò che invece producono con certezza, al di là delle buone intenzioni di chi li ha pensati, è aumentare la credenza nei cittadini medi che il mondo è pieno di evasori.
Oggi l’Italia e l’Occidente soffrono per un cinismo e un pessimismo di massa, che è anche alla radice di questa crisi. Per curarlo può anche essere utile iniziare a raccontare di più nei media le buone pratiche di cittadini onesti, di imprenditori civili, di banche virtuose, ma senza presentarli (come si tende a fare) come eroi o eccezioni, o, peggio, come storie innocue e irrilevanti da collocare nelle apposite trasmissioni dei buoni sentimenti, ma come la normalità. Nei tempi di grave crisi morale, come sono i nostri, si ricostruisce il tessuto civile di speranza mettendo anche in luce che insieme alla zizzania, che rimarrà fino alla fine dei tempi, c’è tanto grano buono.
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di Luigino Bruni
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/01/2012
Ricchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.
[fulltext] =>La domanda più importante da fare a chi parla, legittimamente, di merito è: merito in che cosa? Le imprese e la finanza hanno remunerato, soprattutto in questi ultimi decenni, con stipendi altissimi professionisti certamente meritevoli sotto il profilo tecnico e delle competenze, ma che a causa di prassi spregiudicate nella gestione dei rischi, dell’etica e dei rapporti, hanno prodotto i disastri che tutti conosciamo. Un’azienda che deve assumere un nuovo lavoratore guarda senz’altro ai meriti del curriculum vitae e degli strumenti, ma guarda anche – e nei momenti di crisi soprattutto – al merito e alla capacità di sapere lavorare in gruppo, di risolvere e accudire i conflitti, e alla generosità nella gestione dei rapporti, cose che le imprese buone sanno molto bene. Dimensioni, queste, difficilmente misurabili e oggettive, e per questo essenziali.
La democrazia, anche quella economica e organizzativa, si gioca molto sulla nostra capacità di dar vita a più registri di meritorietà. L’arte di un manager o di un educatore è soprattutto saper far emergere la dimensione di merito racchiusa in ogni persona, i suoi talenti o il suo daimon (direbbe Socrate), perché se il merito diventa monodimensionale, la meritocrazia diventa inevitabilmente oligarchia, e confligge con la democrazia e con la libertà. Ricchezza e merito sono quindi legati ai talenti di ogni persona.
Il rapporto tra talenti e frutti (tra cui la ricchezza) dipende soprattutto dalla qualità della famiglia, delle comunità e della società nella quale cresciamo, dalle opportunità di educazione e di istruzione, dall’amore e dalla cura che riceviamo soprattutto nei primi anni di vita. Chissà quanti Mozart o Steve Jobs non sono sbocciati perché nati nel luogo sbagliato! Tutte queste dimensioni non dipendono dal nostro merito soggettivo, ma ci sono date in modo gratuito (i talenti sono "ricevuti", come ci dice la Parabola evangelica), e fanno sì che le potenzialità fioriscano e maturino.
È questa, allora, la radice umanistica profonda del principio di solidarietà nell’uso della ricchezza, che non va ascritta al registro dell’altruismo e del sacrificio, ma a quello della giustizia: la ricchezza va condivisa perché prima è stata ricevuta. Il modello sociale ed economico italiano – comunitario e cattolico – ha sviluppato nei secoli un suo modo di condivisione della ricchezza, che a differenza di quello calvinista di tipo americano, non ha al suo centro la categoria della restituzione di una parte di ricchezza alla società e agli esclusi. Mentre il capitalismo Usa distingue nettamente l’economico dal sociale (business is business), con la filantropia-restitutiva che fa da ponte tra i due, la parola-chiave del nostro umanesimo è economia civile, cioè un’economia che nasce dalla comunità e una comunità che fa impresa (si pensi al made in Italy, alle imprese familiari, o alle cooperative sociali che sono un gioiello dell’Italia di oggi). Il modello economico italiano è stato ed è ancora un meticciato tra famiglia, impresa, Stato, comunità.
Questo modello ha portato frutti straordinari in passato, ma nella modernità si è ammalato dando vita alle varie mafie e a certi ben noti e ben determinati familismi amorali, che sono una sorta di nevrosi del nostro corpo sociale. Nelle nevrosi, però, la malattia nasce spesso da una patologia di una parte buona della persona, a volte la migliore (ad esempio: il genio che diventa narcisismo); e se la terapia uccide questa parte buona, la cura si "mangia" la persona. Usciremo allora da questa crisi guardando in faccia le nostre malattie, capendo il nostro genius loci, stimandolo, accogliendo e trasformando le nostre nevrosi collettive, e non imitando altri modelli di capitalismo. Se non daremo vita a un nuovo Umanesimo civile, insieme all’Europa e al Mediterraneo, gli spread aumenteranno, e non soltanto quelli tra i titoli ma pure quelli tra le civiltà.
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A proposito di accumulazione e uso delle risorse, di merito e di cultura
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 10/01/2012
Ricchezza e merito sono parole sempre più al centro del dibattito pubblico. Parole grandi e quindi ambivalenti, per cui affermarne la loro centralità e importanza può e deve essere solo l’inizio di un discorso, non il termine, come invece accade spesso. La ricchezza non è in sé né buona né cattiva, poiché il giudizio civile sulla ricchezza dipende da come la ricchezza nasce, e da come la si usa. I recenti studi sui "paradossi della felicità", ad esempio, ci dicono ormai chiaramente che quando la ricchezza è principalmente possesso di beni di comfort produce nelle persone noia e frustrazione. Se poi la ricchezza nasce non solo da rendite, ma anche da evasione, o da sfruttamenti di ambiente, persone e futuro, o da speculazioni su prezzi dei prodotti e delle monete, questa ricchezza non è buona e certamente non ha nulla a che fare con il merito.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/01/2012
«Vizi privati, pubbliche virtù» è il sottotitolo della nota Favola delle api (1714), di Bernard de Mandeville, che aprì un dibattito tra economia ed etica che coinvolse le migliori menti del Settecento europeo. L’idea che dai vizi dei cittadini si possa ricavare qualcosa di buono per la collettività è ancora tra le più radicate nella cultura contemporanea, che informa spesso anche l’azione dei governi (tassazione dei giochi e delle lotterie). Ieri il cardinal Bagnasco ha richiamato l’attenzione sulla «piaga» dei giochi d’azzardo, invitando con forza a un’azione urgente «a tutti i livelli»..
[fulltext] =>Esistono legami evidenti, a chi li vuole vedere, tra le scommesse nello sport, il business delle slot machine, certa speculazione finanziaria, oroscopi e maghi, i giochi d’azzardo online e gli “innocui” gratta–e–vinci.
Il primo fattore che lega assieme questi fenomeni solo apparentemente distanti si chiama dipendenza (addiction): quando si è in presenza di dipendenza sappiamo che esiste un problema etico enorme, poiché se si lascia la gestione di questi ambiti al solo mercato, il risultato è lo sfruttamento a scopo di lucro dei più deboli e fragili, con gravissime conseguenze individuali, familiari e sociali. L’adrenalina che prova il giocatore di slot machine all’udire il tintinnio della cascata di monete, è molto simile a quella che prova chi specula overnight sui cambi delle monete o sul prezzo del grano. Un secondo legame è l’enorme giro d’affari che questo mondo muove: in Italia questo affare vale certamente più di 75 miliardi, in aumento esponenziale. Un terzo comune denominatore è la forte infiltrazione della criminalità organizzata in tutto questo territorio ambiguo.
La proliferazione dei giochi d’azzardo è un vero e proprio scandalo, e da troppi punti di vista, una piaga molto più pervasiva e grave di quanto comunemente si creda, e le cui radici sono profonde e serie. Stiamo, infatti, assistendo passivi a una crescita massiccia di una vera e propria “cultura” delle scommesse e della fortuna. Pensiamo, ad esempio, alla ricorrente vicenda del calcio scommesse. Questa è profondamente legata a una visione mercantile che sta trasformando il calcio da “bene relazionale” (cioè un incontro non commerciale) in bene di mercato altamente speculativo. Grazie soprattutto alla dittatura incontrastata delle televisioni commerciali, che oggi dominano il calcio professionistico determinandone vita e morte, la dimensione della gratuità è ormai scomparsa dal gioco (di cui dovrebbe invece costituirne l’essenza). Le partite di calcio stanno invadendo tutti gli altri programmi in tutti i giorni della settimana, svuotando così gli stadi per riempire le case di individui sempre più soli davanti a televisori sempre più grandi.
Uno sport ridotto a semplice merce finisce poi per rendere eticamente meno riprovevoli comportamenti invece in sé molto gravi, anche perché gli stessi tifosi vedono società di scommesse come sponsor delle loro squadre del cuore. Per non dire poi che queste imprese speculative hanno preso via via il posto dei prodotti dell’economia reale italiana che nei decenni passati erano su quelle magliette. Il mercato è un’invenzione meravigliosa, finché resta un principio accanto ad altri della vita in comune, e nei suoi spazi: diventa una grave malattia civile quando è l’unico criterio per governare tutti i rapporti sociali.
Che fare allora? Innanzitutto occorre agire “a tutti i livelli”. Un primo livello è quello politico: come mai, ad esempio, non si estende ai giochi d’azzardo (poker tv, scommesse online…) la proibizione della pubblicità che vige per il tabacco? Le dipendenze sono simili, e gli effetti di queste nuove dipendenze sono oggi forse più gravi. Perché poi non pensare anche a forme di “obiezione di coscienza” da parte di quei campioni che potrebbero rifiutarsi di fare da testimonial in tali pubblicità? C’è poi la dimensione educativa, familiare e scolastica, ma è sempre il livello civile quello davvero cruciale. Dovrebbero, ad esempio, essere gruppi di cittadini a premiare con un marchio di qualità etica quei locali e bar che rinunciano a sicure entrate eliminando le slot machine, un marchio che poi potrebbe attrarre verso quegli stessi locali più consumatori civilmente responsabili.
È la nostra ricorrente idea di «premiare gli onesti», parallelamente alla co–essenziale punizione dei disonesti. La sfida è grande. L’Occidente ha iniziato la sua straordinaria storia quando ha affermato che la «virtù batte la fortuna», che la vita buona (l’eudaimonia) non dipende dal fato, ma dalle nostre scelte improntate alla virtù, che sono la sola vera risposta di fronte alla incertezza della vita. L’invasione della cultura della fortuna dice allora, e con grande forza, la profonda crisi della cultura occidentale, e un forte ritorno di irrazionalità e di fede nel “fato”. Le pubbliche virtù, ieri come oggi, nascono solo dalle virtù private, ancor più nei tempi di crisi.
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Ben oltre la «cultura» delle scommesse
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 04/01/2012
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/12/2011
Siamo ancora troppo dentro l’occhio del ciclone per poter vedere i danni che la tempesta sta procurando al nostro sistema finanziario, economico e sociale, o per capire quanto durerà e in quale direzione ci sta portando. Abbiamo però il dovere di iniziare a dire qualcosa di diverso rispetto alle analisi, un po’ tutte troppo simili, che leggiamo da mesi sui giornali e ascoltiamo nei talk show. C’è una teoria, sviluppata originariamente da un biologo, Garrett Hardin (Science, 1968), che può gettare luce sulla comprensione di che cosa è accaduto in questi anni di crisi, e anche su come uscirne. Il titolo di quell’articolo è già di per sé eloquente: «La tragedia dei beni comuni».
[fulltext] =>Il suo centro teorico è il racconto della tragedia di un’ipotetica comunità di allevatori che utilizzano, insieme, un pascolo comune nel quale ognuno porta liberamente a pascolare le proprie mucche. Hardin dimostrava che la scelta migliore dal punto di vista dell’interesse individuale di ciascun allevatore è aumentare di un’unità il bestiame al pascolo. In questo caso, infatti, il vantaggio per il singolo pastore è un numero intero (una mucca in più) mentre la diminuzione del bene comune (l’erba) è per lui soltanto una frazione, perché la perdita di erba si ripartisce su tutti gli allevatori che usano il pascolo. Il beneficio individuale di aumentare l’uso del bene comune è dunque maggiore del costo individuale. Da qui l’incentivo per tutti e per ciascuno ad aumentare sempre più i capi di bestiame al pascolo, fino ad arrivare alla distruzione del pascolo stesso.
In altre parole, è come se gli utilizzatori del pascolo, nel compiere le proprie scelte individuali, non considerassero la riduzione del bene comune (erba) che il loro consumo produce: si guarda il beneficio individuale, e non ci rende conto che si sta, giorno dopo giorno, distruggendo il bene comune che alla lunga impedirà di ottenere anche il beneficio individuale. A un certo punto arriva la presa di coscienza, ma spesso è troppo tardi, perché la reazione è ormai "esplosa". Sembra che alcuni collassi di civiltà (noto è quello degli abitanti dell’isola di Pasqua nell’Oceano Pacifico) siano spiegabili con la logica della «tragedia dei beni comuni»: individui che massimizzano i benefici individuali e scaricano i costi sociali sull’insieme della collettività, finché non si supera un 'punto critico' e il processo di distruzione del bene comune diventa irreversibile. Credo che la crisi finanziaria che stiamo vivendo possa essere letta come una tipica «tragedia dei beni comuni», in particolare di quel bene comune fondamentale dell’economia di mercato che chiamiamo fiducia.
Per un certo numero di anni (a partire dagli anni Novanta) molti operatori della finanza speculativa hanno "consumato" troppo il bene comune fiducia con comportamenti spregiudicati sotto il profilo del rischio, pensando di ripartire il costo (cioè il rischio del sistema) sulla numerosissima 'comunità' finanziaria mondiale, composta da innumerevoli operatori. A un certo punto qualcuno ha persino prodotto erba artificiale, che ha "intossicato" gli animali, peggiorando la situazione. Finché in quel fatidico 15 settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers) abbiamo superato il punto critico nel consumo della fiducia di sistema, abbiamo brucato tutta l’erba del pascolo, e la corda già sfilacciata si è spezzata (fiducia viene dal latino fides: cioè corda, legame). E come sappiamo dall’analisi di storia delle istituzioni, quando si sopprime un’antica convenzione e si distrugge un bene comune, è molto complicato, se non impossibile, ricostituirla.
Anche noi ci stiamo accorgendo che la fiducia del sistema finanziario globale, costruito nei secoli e distrutto in venti anni, è oggi molto difficile da ricostruire: manca tra imprese cittadini e banche, tra le banche, tra Stati (la crisi europea è soprattutto una crisi di fiducia tra Paesi). La premio Nobel Elinor Ostrom ci ha però indicato qualche pista di soluzione: il bene comune non viene distrutto quando da bene di nessuno diventa bene di tutti.
L’unica strada per poter ricostruire un bene comune distrutto è un cambiamento di cultura che porta la maggioranza delle persone a sentire quel bene comune un bene di tutti, quindi anche come un loro bene individuale. Oggi saremo perciò capaci di rigenerare la fiducia di sistema che abbiamo distrutto se un nuovo patto, a più livelli (mercati, società civile, politica, nazionale e internazionale) farà ricrescere l’erba del credito (credere). E l’erba non si produce ma si semina: richiede quindi tempo e lavoro.
Se vogliamo ricreare fiducia nel sistema e ripartire, dobbiamo quindi lavorare molto, non avere fretta e saper attendere. Durante l’attesa (che sarà lunga) siamo anche disposti a fare sacrifici, ma è essenziale che cittadini e imprese abbiano segnali credibili e buone speranze di rivedere un giorno spuntare l’erba nel pascolo, e non più erba artificiale o velenosa che non nutre. È la speranza civile che ha reso e rende sostenibili i sacrifici dei popoli.
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Capire cosa c'è all'origine della crisi. Per tornare a costruire
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 24/12/2011
Siamo ancora troppo dentro l’occhio del ciclone per poter vedere i danni che la tempesta sta procurando al nostro sistema finanziario, economico e sociale, o per capire quanto durerà e in quale direzione ci sta portando. Abbiamo però il dovere di iniziare a dire qualcosa di diverso rispetto alle analisi, un po’ tutte troppo simili, che leggiamo da mesi sui giornali e ascoltiamo nei talk show. C’è una teoria, sviluppata originariamente da un biologo, Garrett Hardin (Science, 1968), che può gettare luce sulla comprensione di che cosa è accaduto in questi anni di crisi, e anche su come uscirne. Il titolo di quell’articolo è già di per sé eloquente: «La tragedia dei beni comuni».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/12/2011
La finanza e l’economia sono troppo importanti per lasciarle soltanto a finanzieri ed economisti: credo potrebbe riassumersi anche in questa battuta il messaggio che ci proviene dalla seconda e conclusiva parte del 2011. Ci siamo accorti, e con più forza rispetto alla prima fase della crisi (2008-2009), che gli indici di Borsa e lo «spread» non sono faccende lontane e per addetti ai lavori, ma sono capaci di cambiare governi, i nostri bilanci familiari, i nostri progetti di vita. E allora dobbiamo occuparcene tutti, 'abitando' di più questi luoghi che se restano disabitati dai cittadini alla lunga diventano inumani. Questa crisi ci invia anche tre messaggi specifici. Il primo riguarda direttamente il mondo bancario.
[fulltext] =>Studi recenti (Università di Ancona: mofir.univpm.it), hanno messo in luce che dopo il 15 settembre 2008 le banche hanno ridotto il credito alle imprese, ma anche a quelle virtuose.
Questa evidente inefficienza dipende dalla distanza tra il luogo nel quale si prendono le decisioni e quello dove operano le aziende. Banche sempre più concentrate e distanti non hanno più la conoscenza del territorio: così le decisioni sono affidate a indicatori oggettivi che non fanno vedere cose essenziali che diventano visibili soltanto agli occhi di chi abita i territori e conosce per nome la gente.
Il primo messaggio che ci giunge è allora la necessità di una 'riduzione delle distanze' tra i luoghi delle decisioni e i luoghi di vita delle persone, e quindi una critica a tutta una politica finanziaria che ha invece fortemente voluto la concentrazione delle banche, a quel ’grande, lontano e anonimo’ che è stata la parola d’ordine degli ultimi due decenni. Interessante è poi notare che le banche territoriali per vocazione stanno reggendo meglio alla crisi. Tutto ciò suggerisce una sorta di regola aurea: dare diritto di cittadinanza nel quotidiano alle piccole fragilità relazionali (perdere tempo con i ’pallini’ dei clienti, investire risorse in rapporti non sempre finanziariamente remunerativi, etc.), rende meno fragili quando arrivano le grandi crisi; non accogliere, invece, queste piccole fragilità e ’crisi’ quotidiane, rende le istituzioni molto più fragili di fronte alle grandi crisi.
C’è poi un secondo messaggio chiaro che riguarda l’Europa, che oggi vive la crisi più profonda dalla sua fondazione. Se non si metterà mano a una vera unità politica, l’euro non potrà reggere ancora a lungo. Oggi però mancano i grandi statisti del dopoguerra, e il loro posto può e deve essere occupato dai cittadini. Spetta a loro, spetta a noi tutti chiedere, dal basso e con maggiore forza, più politica e finanza più regolamentata.
Infine, il terzo messaggio: c’è qualcosa di sbagliato nel capitalismo cui abbiamo dato vita soprattutto in Occidente. E questo 'qualcosa' non ha a che fare con la finanza e forse neanche con l’economia, perché si gioca a un livello della nostra cultura molto più profondo. La crisi che stiamo sperimentando è come una febbre, che segnala che qualcosa non va nell’organismo. E siccome la febbre dura da tempo, e la temperatura aumenta, la febbre va presa molto sul serio. Sono almeno due le patologie che vanno curate. Negli ultimi decenni abbiamo depredato l’ambiente, lo abbiamo ferito, umiliato. Nel giro di un paio di generazioni stiamo consumando un patrimonio di petrolio e gas che la terra ha generato in milioni di anni; e nel depauperare questo patrimonio stiamo anche ferendo l’atmosfera. Tutto ciò dice che stiamo sbagliando uno dei rapporti fondativi della nostra esistenza, quello con la terra e con la natura. E quando un rapporto così importante non funziona, è impossibile che funzionino gli altri rapporti, come mostra la crescente intolleranza nelle nostre città, la solitudine crescente, e come dimostra il rapporto ancora in buona parte predatorio con le risorse dei popoli dell’Africa, dove si perpetrano ogni giorno nuove ’stragi degli innocenti’. La seconda causa di febbre è la diseguaglianza economica che sta crescendo nel mondo, anche grazie alla rivoluzione della finanza. Senza uguaglianza economica, che non si gioca solo sull’asse del reddito ma anche su quello del lavoro, il principio di uguaglianza resta troppo astratto, perché le persone non possono realizzare la vita che desiderano vivere. L’uguaglianza è la seconda parola del trittico della modernità, e negarla significa negare anche le altre due, poiché o l’uguaglianza, la libertà e la fraternità stanno assieme, o non se ne realizza autenticamente nessuna.
L’Europa ritroverà se stessa se sarà capace di ridare vita a questo Umanesimo a tre dimensioni, da cui fiorisce anche quella 'pubblica felicità' posta al centro del programma della Modernità, perché, come ci ricorda l’economista napoletano settecentesco Antonio Genovesi, «è legge dell’universo che non possiamo far la nostra felicità senza far anche quella degli altri».
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 28/12/2011
La finanza e l’economia sono troppo importanti per lasciarle soltanto a finanzieri ed economisti: credo potrebbe riassumersi anche in questa battuta il messaggio che ci proviene dalla seconda e conclusiva parte del 2011. Ci siamo accorti, e con più forza rispetto alla prima fase della crisi (2008-2009), che gli indici di Borsa e lo «spread» non sono faccende lontane e per addetti ai lavori, ma sono capaci di cambiare governi, i nostri bilanci familiari, i nostri progetti di vita. E allora dobbiamo occuparcene tutti, 'abitando' di più questi luoghi che se restano disabitati dai cittadini alla lunga diventano inumani. Questa crisi ci invia anche tre messaggi specifici. Il primo riguarda direttamente il mondo bancario.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/12/2011
Il governo sta facendo gli interventi giusti, quelli che devono essere fatti. Ma una manovra di questa portata funziona soltanto se è sostenuta dai cittadini, dalla grande maggioranza del Paese, anche da coloro che avrebbero buone ragioni e legittimi interessi per protestare, o per chiedere altre strategie e altre soluzioni più efficienti e/o eque. Dobbiamo essere coscienti che qui si tratta di scalare una montagna, irta e difficile, una scalata dall’esito incerto. Ciò che è certo è che la durata sarà lunga, poiché questa crisi richiederà diversi anni prima di essere in qualche modo superata.
[fulltext] =>Quando una squadra di alpinisti deve affrontare una vetta, soprattutto se difficile e alta, durante la preparazione i vari componenti possono e debbono discutere sulla parete più idonea, l’attrezzatura e l’equipaggiamento adatti, il momento dell’anno più favorevole, il cibo e tanti altri aspetti. Ma, una volta partiti, le discussioni terminano e si lavora tutti nella stessa direzione, si guarda tutti verso la sommità della roccia, poiché se ora quella comunità di persone non è coesa, con-corde e non coopera, non solo tutto diventa terribilmente più complicato, ma si rischia seriamente di non raggiungere la vetta. Il governo ha predisposto strumenti, efficaci, certamente perfezionabili eppure sostanzialmente equi, adeguati per la difficoltà della scalata, ma se non scattano l’impegno e l’intesa tra i membri della cordata, per quanto robuste siano le corde e buono l’equipaggiamento, non si compie alcuna impresa.
Oggi l’Italia ha senz’altro bisogno di strumenti tecnici e di equità, ma ha bisogno anche di con-cordia (stesso cuore e corda) tra i cittadini: non dobbiamo commettere l’errore, gravissimo, di pensare che i principali o unici protagonisti di questa sfida siano le istituzioni, l’Europa, il governo e le banche, e che ai cittadini sia solo chiesto, passivamente, di fare solo più sacrifici. Non basta l’impegno dei capicordata per fare la scalata. In realtà, c’è un ruolo coessenziale della società civile, e di un cambiamento dell’etica pubblica di noi cittadini italiani. Non c’è solo una responsabilità sociale delle imprese e delle istituzioni: c’è oggi bisogno di una nuova responsabilità sociale di ogni cittadino.
A questo proposito sono interessanti alcuni studi che provengono dalla recente teoria economica e sociale, che vanno sotto il nome di 'reciprocità forte' (strong reciprocity). Si sta scoprendo che se si vuole mantenere, generare o rigenerare la cooperazione in un determinato ambito civile (ambiente, fisco, beni comuni …) è necessario che nelle persone sia presente un’etica pubblica e conseguenti comportamenti di tipo 'orizzontale' (tra cittadini) e non solo "verticali" (ciascuno nei confronti delle istituzioni). Se, per esempio, si vuole mantenere un parco pulito, non è sufficiente controllare o delegare il rispetto delle norme cooperative agli 'organi competenti'; è necessario, e coessenziale, che tra i cittadini si sviluppi una cultura del prendersi cura dell’altro direttamente. Si è dimostrato che in simili casi, senza lo sviluppo nei cittadini di forme di ringraziamento esplicito per i comportamenti virtuosi degli altri, e senza rimproverare chi getta cartacce per terra, la cooperazione non parte o non si mantiene nel tempo.
Questa cultura orizzontale è molto più presente nei popoli nordici (lo sa bene chiunque abbia viaggiato in aereo accanto a una inglese o a un tedesco, e abbia acceso il cellulare qualche secondo prima dell’avviso ufficiale). Nei popoli latini e mediterranei, invece, in simili situazioni o non si fa nulla, o in aereo si chiama l’hostess, perché sia lei a rimproverare il vicino inadempiente. Oppure si risponde a chi ci dice «non puoi entrare nel giardino della scuola con l’auto», con la triste espressione «ma ti hanno assunto in Comune?». E questi fatti non sono l’ennesima pagina del libro dei buoni sentimenti civilmente irrilevanti: dietro a essi c’è molto di più e di diverso. Questi segnali, comunissimi e ordinari, dicono che nel nostro Paese l’etica pubblica è troppo demandata e delegata alle istituzioni. Non riguarda me in quanto cittadino, ma 'l’hostess' o 'il Comune'. Invece, anche un rimprovero da parte di un concittadino, o un grazie, è espressione di quell’ 'I care' (mi prendo cura) che Don Milani scrisse sulla lavagna della scuola di Barbiana; un "I care" che nel sistema pedagogico e civile di Don Milani era antitetico al fascista "me ne frego". Dove non c’è la cura non c’è nulla di autenticamente umano, perché, come ci ricorda il libro della Genesi, dove non c’è la custodia dell’altro non c’è l’indifferenza, ma da qualche parte si nasconde il fratricidio di Caino.
Chiediamo allora, e tanto, alle istituzioni coerenza, equità, di dare il primo esempio nei sacrifici. Ma non chiediamo di meno a noi stessi, né agli altri compagni di cordata.
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L'ora della responsabilità di tutti
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 07/12/2011
Il governo sta facendo gli interventi giusti, quelli che devono essere fatti. Ma una manovra di questa portata funziona soltanto se è sostenuta dai cittadini, dalla grande maggioranza del Paese, anche da coloro che avrebbero buone ragioni e legittimi interessi per protestare, o per chiedere altre strategie e altre soluzioni più efficienti e/o eque. Dobbiamo essere coscienti che qui si tratta di scalare una montagna, irta e difficile, una scalata dall’esito incerto. Ciò che è certo è che la durata sarà lunga, poiché questa crisi richiederà diversi anni prima di essere in qualche modo superata.
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di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 01/12/2011
Le tasse e le imposte sono colonne portanti del patto sociale di uno Stato. Quindi non sono mai faccende tecniche, ma sempre eminentemente e squisitamente politiche. Tra le prime riforme che il nuovo governo sta approntando, vi sono interventi di carattere fiscale e, quindi, importanti, non solo perché in un viaggio il primo (e l’ultimo passo) è quello più rilevante, ma anche perché sbagliare la riforma fiscale significa perdere il consenso della parte migliore del Paese.
[fulltext] =>Innanzitutto, non si deve commettere l’errore di contrapporre scelte 'eque' a scelte 'efficienti'. Nelle democrazie post-moderne sono saltate molte dicotomie (economia reale/economia finanziaria, economia/politica), e tra queste anche quella che nel Novecento contrapponeva l’equità all’efficienza.
In questi anni stiamo vedendo molto chiaramente che una scelta di politica economica è sempre per sua natura direttamente una scelta etica, perché se i cittadini non considerano equa una manovra economica pongono in atto comportamenti che in buona parte annullano l’efficacia di quell’intervento. Il bisogno di equità, e oggi lo mostrano anche gli studi di neuro-economia, è tra i più radicati e profondi nelle persone, che ci porta a fare scelte che spesso non seguono i dettami della razionalità economica, ma di quella espressiva e simbolica. E veniamo allora all’aumento dell’Iva e al dibattito sulla tassazione dei patrimoni.
Aumentare l’Iva non è una scelta di mera efficienza economica al fine di ridurre il debito e il deficit. Un aumento dell’Iva (o delle tasse sui carburanti) è per sua natura sempre iniquo, perché va contro la principale caratteristica della giustizia distributiva, e cioè trattare in modo simile situazioni simili, e in modo diverso situazioni diverse. L’Iva sui consumi la pagano il milionario e la famiglia numerosa, il disoccupato e lo speculatore finanziario. Se si vuole aumentare l’Iva, dunque, sarebbe quantomeno necessario disegnare una riforma che preveda aliquote molto più alte (di quelle attuali) per i beni posizionali e demeritori: non si può e non si deve tassare il vino da tavola con la stessa aliquota dei superalcoolici. Insistere, poi, sulle imposte indirette è già di per sé una scelta etica, che, lo sappiamo dalla prassi e dalla teoria, tende ad aumentare l’evasione fiscale, quella evasione fiscale che, con l’altra mano, si vorrebbe combattere.
La prima lotta all’evasione fiscale da parte di un governo, soprattutto se nuovo, è allearsi con la parte onesta del Paese, un’alleanza che passa proprio per il territorio dell’equità. Inoltre, non si possono aumentare l’Iva e le imposte indirette senza mettere mano a una riforma delle imposte sui patrimoni. Tassare oggi i patrimoni ha molti pregi. I principali pregi sono un riequilibrato rapporto tra la tassazione dei redditi e quella dei patrimoni, che anche in Italia è troppo squilibrata a svantaggio dei redditi: la diseguaglianza nei patrimoni è molto maggiore (più del doppio) della diseguaglianza nei redditi. Il 10% più ricco della popolazione detiene circa il 50% del valore totale della ricchezza, mentre per quanto riguarda i redditi (dichiarati!) la distribuzione è più egualitaria (il 20% più ricco detiene circa il 40% del totale dei redditi). Tassare i patrimoni tende allora a riequilibrare i punti di partenza dei cittadini, perché può produrre effetti seri nella riduzione della diseguaglianza (che un aumento dell’Iva invece aumenta). Effetti etici ma anche direttamente economici, perché un ceto medio impoverito non esprime quella domanda interna essenziale per rilanciare lo sviluppo economico. Infine, tassare i patrimoni non ha, almeno nel breve e medio periodo, l’effetto nefasto di ridurre l’impegno nella creazione del reddito, un danno che invece produce ogni ulteriore imposta sul reddito (da lavoro e di impresa).
L’Italia riprenderà la sua corsa e il suo posto nel mondo solo se saremo capaci di riaccendere nelle persone l’entusiasmo, i desideri e la fame di futuro, variabili che i governi non possono controllare direttamente.
Indirettamente, però, la politica può fare molto, proprio lavorando sulla percezione di equità delle leggi e di una riforma fiscale. Il Paese vuole uscire dalla crisi, non ama essere considerato il malato del mondo, di essere irriso come fannullone e irresponsabile dagli altri Stati. Il governo deve allora tener ben presente – come scriveva Giammaria Ortes, economista civile veneziano del Settecento – che «la ricchezza di un popolo è la sua gente» e creare quindi le precondizioni perché questa ricchezza produca tutti i suoi frutti.
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