Novecento - Due volumi riportano l’attenzione sul sacerdote modernista e consentono di rilanciare l’appello sulla revisione della scomunica, a partire dalla lettura del dogma come frutto di un’evoluzione storica
di Luigino Bruni
pubblicato su Agorà di Avvenire il 08/06/2025
«Il cristianesimo come grande forza sociale avrebbe già da tempo percorso tutta la sua dinamica traiettoria? Il dramma della sua fruttificazione civile nella tradizione della spiritualità mediterranea è già pervenuto da tempo al suo epilogo?» (Ernesto Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, I, Prefazione). Basterebbero queste poche frasi per darci un’idea veritiera della qualità e dell’attualità del pensiero di Ernesto Buonaiuti, sebbene l’attualità di un autore sia solo una dimensione, e neanche quella più importante, per valutarne il valore.
Buonaiuti scriveva queste parole agli inizi degli anni quaranta del secolo scorso. Era un tempo in cui le chiese erano strapiene, la Christianitas appariva al suo apogeo, tutto dava alla chiesa cattolica l’impressione certa di avere davanti un secolo di ulteriori conquiste e successi, in Italia, in Europa e nel mondo intero (le missioni). Eppure, in quel tempo di grandi speranze cattoliche, Buonaiuti poneva a se stesso e alla chiesa domande radicali che neanche i cattolici di oggi riescono a formulare con la sua stessa onestà e libertà di spirito.
Ecco perché non possiamo che accogliere con gioia ed entusiasmo culturale e civile la pubblicazione di due imponenti libri su Ernesto Buonaiuti. Il primo, dell’editore Gabrielli, Ernesto Buonaiuti. Biografia e antologia, a cura di Pietro Urciuoli (pagine 578, euro 40,00); il secondo, edito da Marsilio, Ernesto Buonaiuti. L’essenza del Cristianesimo, a cura di Enrico Cerasi (pagine 672, euro 55,00). Entrambi sono composti da un’ampia introduzione e da una molto più voluminosa parte antologica con testi di Buonaiuti. Le Introduzioni, oltre a ricostruire la biografia umana e intellettuale di Buonaiuti, ci offrono anche l’interpretazione che Urciuoli e Cerasi fanno della figura e dell’opera del sacerdote e professore romano. Letture diverse, selezioni di testi diversi, due libri estremamente utili, ben curati, di profittevole lettura. L’antologia di Cerasi si compone di pochi lunghi testi della prima parte dell’attività di Buonaiuti (dalle Lettere di un prete modernista a Gioacchino da Fiore). Una selezione non facile, data la sterminata produzione letteraria di Buonaiuti. Il libro di Urciuoli, invece, fa una scelta diversa: riporta oltre una sessantina di brani, articoli o parti di libro, in rigoroso ordine cronologico, dal primo del 1901 ad alcuni testi postumi di fine anni ’40.
Il caso Buonaiuti, che ci accompagna ormai da più di un secolo, è tutt’altro che chiuso. Purtroppo è aperto come una ferita, che quindi fa ancora male. Uno studioso, un prete e un uomo di talento eccezionale e di valore assoluto, la cui esistenza fu stravolta dall’impatto con le istituzioni della Chiesa cattolica del suo tempo, uno scontro dal quale don Ernesto uscì ferito gravemente, amputato, ma ancora capace di fede, speranza e agape, fino alla fine, nonostante il Santo Uffizio. Come ho già avuto modo di scrivere anche su queste colonne, l’anno giubilare – il tempo in cui venivano rimessi i debiti e liberati gli schiavi – potrebbe, dovrebbe essere il tempo propizio per una riabilitazione di Buonaiuti e della cancellazione della sua scomunica, o quantomeno, di una trasformazione post mortem in un atto disciplinare molto meno grave e infamante. La memoria di Buonaiuti è ancora imprigionata dalla condanna del Santo Uffizio, e grida per una liberazione, che sarebbe un vero gesto giubilare di giustizia. E poi estenderla alla numerosa schiera di preti e laici modernisti, le cui vite, a partire da Pio IX fino a Pio XII furono sconvolte e rovinate. Sarebbe questo il tempo per chiedere perdono per aver usato il vangelo, la fede, la teologia e la dottrina come armi improprie per colpire e ferire a morte altri cristiani. Perché la faccenda è davvero seria, e ci costringe a porci veramente una domanda: quale è, oggi, la buona ragione per tenere in vita lo strumento della scomunica? È nato in tempi lontani, quando ci si uccideva tra cristiani per diverse interpretazione della Trinità e delle nature di Cristo. Non possiamo restare tranquilli di fronte a un residuato bellico di una chiesa dei tre regni, della Santa Inquisizione e del Santo Uffizio, del Sillabo e degli anatemi, della sedia gestatoria. Quei papi di ieri hanno scomunicato re e regine, politici, e nel 1949 tutti gli iscritti al Partito Comunista. E se un teologo ricordava la natura comunionale e comunitaria dell’eucarestia dei primi cristiani, era espulso dalla comunità cristiana, scomunicato “espressamente vitando” (da evitare da tutti), non poteva entrare in nessuna chiesa, gli si impediva di insegnare in una università statale (alla Sapienza dove Bonaiuti era diventato professore ordinario per vincita di concorso pubblico statale), costretto a vendere i libri della sua biblioteca per campare e mantenere sua madre vecchia. Questa era la chiesa di inizio Novecento, che, grazie allo Spirito che non l’abbandona, è cambiata. Ha conosciuto un Concilio, preparato anche dal dolore e dalla morte di Buonaiuti, ha poi conosciuto papi diversi, fino a Francesco, fino a Leone XIV.
Dopo il Vaticano II, la scomunica è, nella sostanza, tramontata insieme alla Christianitas, alla Chiesa della Controriforma, alla Chiesa del potere e dei vescovi principi, che legava e scioglieva in ogni luogo, nei fori esterni e in quelli interni. La Chiesa oggi è già altro da molto tempo. È simbolo e sacramento di un altro mondo, di un regno di misericordia, dove le persone vengono prima delle loro idee – è questo il senso vero del principio “la realtà è superiore all’idea” –, a ricordarci che nessuna persona concreta deve venire dopo le sue idee. Lo abbiamo imparato con molta fatica, e non dobbiamo dimenticarlo più. Tutti sappiamo che i tempi della Chiesa sono lenti. Ma in certi momenti la corsa del tempo è diversa, accelera, e non si può più aspettare, pena uscire dal soffio (ruah) buono della storia.
C’è, poi, un altro elemento decisivo. Oggi, alla luce degli studi biblici e storici, nessuno condannerebbe come eretiche le tesi di Buonaiuti su Paolo e sull’eucarestia, al centro del capo d’accusa del Santo Uffizio e della “Civiltà Cattolica”. Le sue idee storiche sull’eucarestia Buonaiuti le espresse già in un libro della sua gioventù, Lettere di un prete modernista, del 1908: «Storicamente i sacramenti sono la solidificazione progressiva del concetto della grazia applicato alle principali contingenze della vita. L’eucaristia, per esempio – e accenno ad essa perché la sua evoluzione è più visibile – ha preso il luogo del banchetto in cui i primi cristiani simboleggiavano la fratellanza che li attendeva nel regno. Col tempo si è venuta formando la dottrina della presenza reale, e più tardi quella della transustanziazione. Si è smarrito, attraverso questa trasformazione, il valore etico primitivo del rito. Noi vogliamo farlo rivivere». Una tesi che Buonaiuti ripeterà in più articoli successivi, in particolare nel suo articolo Le esperienze fondamentali di San Paolo per la rivista “Religio” (1920), che gli costo la scomunica definitiva. Lì scriveva: «Il rito eucaristico, nella concezione nella prassi dell’apostolo, era la sanzione soprannaturale dell’armonia e dell’affratellamento nella vita solidale della comunità». Dal punto di vista storico è innegabile che la dottrina della “presenza reale” di Gesù nell’eucarestia e della transustanziazione siano state sviluppate dopo i tempi dei primi cristiani. Buonaiuti affermava una dimensione primitiva vera della tradizione eucaristica, senza negare lo sviluppo successivo della dottrina sulla eucarestia.
Più in generale, a Buonaiuti interessava riscoprire l’Essenza del cristianesimo, come recita il titolo di due sue conferenze nel 1921, sempre in quell’anno decisivo, che per il professore romano si trova in questo: «Tutto il vangelo è racchiuso in questa parola con cui si apre la predicazione messianica del Cristo: “Convertitevi, perché il regno di Dio è imminente”». E ancora: «Il cristianesimo è essenzialmente un rovesciamento e un capovolgimento dei valori che nella vita normale degli uomini sono i più apprezzati. Tutto il Vangelo, dalla prima parola all’ultima, è basato sulla speranza del Regno. La basileia, il Regno di Dio, è il motivo più familiare della predicazione di Gesù». E poi si chiedeva, con tono retorico: «L’essenza del cristianesimo si è conservata attraverso i secoli, o noi ci siamo definitivamente allontanati dal messaggio cristiano? Non avremmo noi per caso rovesciato il rovesciamento, e non saremmo tornati allo stato anteriore al rovesciamento cristiano?».
Forte di questa certezza sull’essenza, Buonaiuti criticava poi chi voleva fare dell’ascetica il centro o un pilastro di quel Regno diverso: «Il cristianesimo non è ascetico nel significato ellenistico della parola… Nel cristianesimo non c’è nessuna pedagogia, nessun tirocinio, nessun esercizio, perché la rinuncia completa si fa d’un tratto, d’un attimo, attraverso la metanoia, attraverso il passaggio improvviso in una sfera di esperienze superiori, nelle quali non è quasi più possibile, sentire il contraccolpo della vita materiale». Non è difficile immaginare che a chi interpretava il monachesimo e la vita consacrata nella Controriforma come ascetismo e “vie purgative’” quella sua visione non doveva proprio andar giù.
Concludo riportando una delle sue pagine più belle. La troviamo alla fine del suo monumentale trattato sulla Storia del cristianesimo, pubblicato nel 1943, tre anni prima della sua morte, che ha il sapore, la solennità e la forza di un testamento spirituale: «Noi ti invochiamo, innanzitutto, o Padre. Accattoni noi siamo tutti indistintamente. Noi torniamo pertanto a te. Affretta il tuo trionfo perché la nostra vita si è consumata nel desiderio della Tua giustizia. Sappiamo che tu ci attendevi al nostro ritorno: il ritorno di accattoni. Raccoglici nella pace del Tuo perdono e della Tua grazia e che i nostri occhi non dimentichino più la legge eterna del Tuo vangelo che è tutta nel segno di una croce, proiettata su tutta la sconfinata sofferenza e su tutta la sitibonda speranza dell’universo: o crux, ave spes unica!».