Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/07/2023

Il dibattito sul salario minimo tocca il cuore del patto sociale. Da quando il lavoro libero ha sostituito quello degli schiavi e dei servi, sappiamo che il “mercato del lavoro” non è sufficiente per definire il salario giusto. Il mercato, nel gioco di domanda e offerta, stabilisce un salario, ma affinché quel salario sia giusto c’è bisogno d’altro, il mercato da solo non basta, non è mai bastato per garantire la giustizia del salario e dell’economia. Perché il salario è il primo indicatore dei rapporti di potere in una data economia e società.

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Gli economisti classici, da Smith a Marx, non si ponevano il problema del giusto salario, perché sapevano che il salario era fissato al livello di sussistenza, quindi quello appena sufficiente a far sopravvivere la forza-lavoro. La crescita della democrazia è stata anche un lungo processo di liberazione del salario dalle gabbie della sussistenza e renderlo sempre più degno e giusto, primo strumento di libertà positiva -libertà di vivere la vita che si desidera vivere (Amartya Sen). Questo processo, però, ad un certo punto si inceppato e in alcuni ambiti è regredito. Ci sono oggi settori e mestieri dove i rapporti di forza sono tornati simili a quelli del primo capitalismo, dove quindi affidare il salario alle dinamiche di domanda-e-offerta significa soltanto legittimare rapporti di potere troppo asimmetrici. E quando una società non indovina il rapporto con i salari, sbaglia il rapporto con la vita e manda in crisi il patto sociale.

Questo la Bibbia lo sapeva molto bene. Il salario lo troviamo in rapporto alla generazione della vita: mogli e matrimoni (Genesi 29,15), bambini e allattamenti: «La figlia del faraone le disse: “Porta con te questo bambino [Mosè] e allattalo per me; io ti darò un salario”» (Esodo 2,9). Questioni dunque di vita e di morte. E nel Nuovo Testamento: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi non avete pagato, grida» (Lettera di Giacomo 5,4).

Per capire l’urgenza e l’importanza del salario minimo dobbiamo allora allargare lo sguardo. Per la prima volta nella storia moderna c’è oggi un problema di scarsità di offerta di lavoro, un fenomeno che ha colto tutti di sorpresa. L’avvento dell’informatica, della robotica e dell’IA aveva fatto intravvedere un tempo di insufficiente domanda di lavoro da parte delle imprese, quindi una nuova disoccupazione di massa di un crescente «esercito (post)-industriale di riserva». Dopo il Covid ci siamo accorti che ci eravamo sbagliati: molti di coloro che ieri stavano lavorando oggi si licenziano (le “grandi dimissioni”) e molti imprenditori cercano lavoratori in settori cruciali e non li trovano più. La intravista “fine del lavoro” rischia di avverarsi sul lato opposto a quello immaginato trent’anni fa. Le ragioni sono molte, ma la percezione di un lavoro dipendente remunerato poco e male è di certo una ragione importante.

Se vogliamo evitare una crisi generalizzata per mancanza cronica di lavoratori dobbiamo dar vita ad un nuovo patto sociale, quindi rimettere politicamente in discussione i rapporti di forza che sono dietro i salari.

Ma c’è di più. Come ricordava Vittorio Pelligra su queste pagine (il 9.2.22), Henry Ford nel 1914 raddoppiò il salario giornaliero ai suoi operai. Ma non lo fece solo come una forma di “scambio parziale di doni” per aumentare la produttività del lavoro (che ci fu). Aumentò i salari anche perché sapeva, da buon imprenditore, che i suoi lavoratori erano anche gli acquirenti potenziali delle sue automobili, e incrementando i loro stipendi avrebbe incrementato anche le sue vendite future: la sua scelta fu dettata dal mutuo vantaggio non dall’altruismo. Oggi il mondo e l’economia sono diversi, ma finché l’aumento dei salari verrà letto solo come una diminuzione dei profitti delle imprese in un “gioco a somma zero”, non guarderemo la grande sfida dalla prospettiva giusta. Aumentare la quota di valori che va ai salari significa invece ridiscutere un nuovo patto sociale dove possano vivere meglio i cittadini che producono insieme a quelli che lavorano. Siamo dentro un cambiamento d’epoca; una accelerazione impressionante del tempo ha invecchiato molto velocemente le parole e le categorie dell’economia, dell’impresa, dei sindacati. Il vino nuovo richiede otri culturali nuovi per evitare che cedano si disperda tutto.

Un’ultima nota. Mentre discutiamo, finalmente, di salario minimo non ci dimentichiamo del grande tema del salario massimo. Mentre argomentiamo pro e contro i 9 euro l’ora (un valore che comunque va studiato di più e meglio), ci sono professioni che ne stanno guadagnando 900 o 9.000. Dietro la nuova crisi del lavoro c’è anche la percezione di una diseguaglianza sbagliata e sempre più insostenibile. Oggi il patto sociale è in crisi per salari troppo bassi e per compensi troppi alti - che sono, tra l’altro, profondamente intrecciati. Se il mercato è inadeguato per definire i salari minimi, lo è anche per stabilire i salari massimi. In entrambi i casi c’è di mezzo il potere di cui il mercato è dapprima la foto perfetta e poi amplificatore.

Dover dire la prima e l’ultima parola del “mercato del lavoro” è il buon mestiere della politica del XXI secolo. Al mercato restano tutte le altre parole, ma solo quelle tra la prima e l’ultima. Sono sempre molte, ma comunque non sono tutte, perché se il mercato occupa l’intero abbecedario della vita civile dimentica la lingua madre della democrazia.

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 30/07/2023

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Salari minimi e salari massimi. Paga “giusta” e patto sociale

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Editoriali - Le crisi dei sistemi e delle organizzazioni non si spiegano nè si superano finchè si resta dentro il sistema che la ha generate. Per questo è necessario compiere scelte radicali.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/06/2023

È necessario distogliere lo sguardo da sé stessi, per vedere molto: anche di questa durezza hanno bisogno tutti coloro che salgono le montagne

(F. Nietzsche - Così parlò Zarathustra)

«L’esperienza insegna che il momento più critico per i cattivi governi è quello che registra i primi passi verso la riforma». Questa frase del filosofo e politico Alexis de Tocqueville (L’antico regime e la rivoluzione, 1856), è la base della cosiddetta “Legge” o il paradosso di Tocqueville. Per comprenderla è utile leggerla insieme a un altro brano: «L'odio che gli uomini nutrono nei confronti dei privilegi aumenta in proporzione al ridursi di questi ultimi, cosicché le passioni democratiche sembrano bruciare più ferocemente proprio quando hanno meno combustibile… L’amore per l’uguaglianza cresce costantemente insieme all'uguaglianza stessa» (Democrazia in America, 1840). Il (geniale) paradosso di Tocqueville suggerisce quindi un rapporto complesso tra le intenzioni dei riformatori e gli effetti non-intenzionali della riforma, che sono sempre quelli più importanti. Le aspettative generate nel popolo dai primi segnali di riforma non possono essere soddisfatte dai risultati raggiunti dai riformatori. Questa “legge” non è solo utile per capire la storia e il presente dei regimi dittatoriali che non di rado crollano proprio mentre iniziano le riforme democratiche o solo per comprendere perché altri regimi resistono con violenza di fronte alle prime richieste di diritti. In realtà, l’intuizione di Tocqueville ha una portata molto più ampia, perché può valere per ogni processo di riforma di organizzazioni, imprese e comunità.

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Pensiamo a un’azienda che vive una grave crisi legata alla necessaria uscita di scena dell’imprenditore-fondatore che però continua a detenere potere e controllo. Se il fondatore di fronte alle richieste del corpo aziendale inizia a delegare parte del potere, questo processo partecipativo può finire per far esplodere la crisi. Perché, suggerisce Tocqueville, non appena i collaboratori in crisi per cronica carenza democratica vedono i primi segni di cambiamento, iniziano a chiedere molto di più di quanto l’anziano imprenditore voglia e soprattutto possa fare. Queste richieste vengono quindi da lui percepite come eccessive e ingiuste, e spesso producono l’interruzione del processo partecipativo e esasperano le crisi in corso. Un corollario di Tocqueville direbbe dunque che nelle fasi di “fine regime” la soluzione migliore è il passaggio totale a una nuova proprietà e/o management, il fondatore dovrebbe ritirarsi e rinunciare ai processi di auto-riforma.

Ma l’intuizione di Tocqueville è particolarmente preziosa anche per comprendere qualcosa dei processi che stanno vivendo molte Organizzazioni a Movente Ideale (Omi), comunità carismatiche, associazioni, movimenti spirituali fondati nel ‘900 e che oggi, dopo la scomparsa dei fondatori, si trovano dentro processi di riforma. Questa legge lancia innanzitutto un messaggio ai riformatori: quando iniziate una riforma seria sappiate che le critiche aumentano, esplodono, perché le aspettative di riforma crescono molto più velocemente delle vostre riforme. Ma c’è di più. Se si osservano queste istituzioni ecclesiali e civili ci accorgiamo che molte di quelle che stanno tentando riforme stanno in realtà alimentando la loro crisi. Perché? Per restare alla suggestione del filosofo francese, i governi delle comunità che oggi stanno guidando la transizione sono inevitabilmente “cattivi” – non nel senso morale ma sul piano pratico, in quanto unfit, inadatti per le nuove sfide che devono o dovrebbero affrontare.

Una ragione principale di questa oggettiva inadeguatezza ha a che fare con la difficile gestione dell’eredità del passato. La forma di governo ereditata era stata disegnata sulla base delle persone dei fondatori, delle loro idiosincrasie e caratteristiche carismatiche; e in quanto tale poteva funzionare solo con e per i fondatori. Quella prima governance era un vestito fatto sulle misure della prima generazione. E anche quando, nei casi più felici, i fondatori hanno fatto di tutto per sganciare la “regola” dalle loro persone, non ci sono riusciti perché non potevano riuscirci. La “realtà è superiore all’idea”, e la sola realtà che i fondatori e i loro collaboratori avevano di fronte per immaginare la governance era la loro realtà concreta, il futuro non era una risorsa a loro disposizione. Quindi hanno disegnato una governance a loro immagine e somiglianza, adeguata quindi per gestire un’istituzione in quel particolare periodo storico, con quelle domande e problemi specifici. Non potevano fare altro. Hanno poi immaginato che chi sarebbe venuto dopo di loro avrebbe continuato la stessa dinamica relazionale della prima generazione, che sarebbero cambiate solo le persone ma gli “otri” (strutture) e il “vino” (carisma) sarebbero rimasti gli stessi, dalla funzione di presidenza fino ai ruoli periferici. Ma – e qui sta il punto decisivo – nessun successore può svolgere la funzione del fondatore perché era unica, irripetibile e quindi non-replicabile, come lo era il modello di governance centrato sulla sua figura. E come se non bastasse, in questo inizio di millennio la velocità della storia ha trasformato venti anni in due secoli, stravolgendo tutto.

Da qui un messaggio cruciale: la prima riforma radicale alla quale una comunità post-fondatore dovrebbe mettere mano è proprio quella della governance pensata dai fondatori. Se, invece, considera la prima governance come parte essenziale dell’eredità, come un elemento del nucleo immodificabile del carisma, la transizione tra la prima e seconda generazione può incepparsi e fallire.

Ma c’è un grosso problema: molte comunità spirituali amano le riforme dei piccoli passi, per poter coinvolgere tutti i protagonisti nelle decisioni, ascoltare i dissensi, vagliare e poi alla fine cambiare. E si capisce, perché tutto ciò è un valore. La legge di Tocqueville dice però altro: dopo la scomparsa dei fondatori c’è bisogno di una discontinuità assoluta e radicale di governance e governo, perché le crisi dei sistemi non si spiegano né superano finché si resta dentro il sistema che le ha generate. Siamo quindi di fronte a scelte tragiche: occorre decidere se andare piano per coinvolgere possibilmente tutti col rischio realissimo che quando arriveremo alla fine la “malattia” sarà diventata troppo grave e incurabile; oppure fare scelte parziali, poco partecipate, veloci ma capaci di curare il corpo finché siamo ancora in tempo. Questa seconda opzione richiede che chi riforma abbia una qualche idea della diagnosi e magari della terapia – che raramente c’è, perché non si coglie un fattore essenziale: non deve evolvere soltanto la governance, deve evolvere anche il carisma che cambia perché e finché è vivo (un carisma immodificabile è un carisma morto).

Il giusto re Ezechia quando iniziò la sua grande riforma religiosa si trovò di fronte ad una scelta decisiva: cosa fare dell’eredità di Mosè?! Tra le “reliquie” di Mosè c’era il serpente di bronzo con cui salvò nel deserto il popolo dai serpenti (Numeri 21). Ezechia «fece a pezzi il serpente di bronzo, che aveva fatto Mosè» (2 Re 18,4); quel re giusto fu capace di fare quella riforma decisiva perché ebbe il coraggio di eliminare una parte dell’eredità di Mosè: il serpente aveva svolto una funzione buona nell’origine ma in quella fase di riforma era diventato un ostacolo - aveva assunto tratti idolatrici. Ezechia conservò l’Arca dell’alleanza ma non il serpente: erano stati entrambi voluti e realizzati da Mosè, ma Ezechia distinse, separò, decise, tagliò. Scelse, e la Bibbia lo ha ringraziato.

Ogni riforma si blocca o produce effetti perversi se non si prova a distinguere l’arca dal serpente, se si salva tutto (arca e serpente) o se non si salva nulla (si distruggono entrambi). Occorre scegliere, anche rischiando di salvare il serpente e distruggere l’arca – una scelta sbagliata è preferibile ad una non-scelta. È probabile che la prima governance voluta dal Fondatore sia parte del serpente, anche se spesso viene confusa con l’Arca. E così per timore di tradire l’origine si finisce per tradire il futuro.

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Editoriali - Le crisi dei sistemi e delle organizzazioni non si spiegano nè si superano finchè si resta dentro il sistema che la ha generate. Per questo è necessario compiere scelte radicali.

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 15/06/2023

È necessario distogliere lo sguardo da sé stessi, per vedere molto: anche di questa durezza hanno bisogno tutti coloro che salgono le montagne

(F. Nietzsche - Così parlò Zarathustra)

«L’esperienza insegna che il momento più critico per i cattivi governi è quello che registra i primi passi verso la riforma». Questa frase del filosofo e politico Alexis de Tocqueville (L’antico regime e la rivoluzione, 1856), è la base della cosiddetta “Legge” o il paradosso di Tocqueville. Per comprenderla è utile leggerla insieme a un altro brano: «L'odio che gli uomini nutrono nei confronti dei privilegi aumenta in proporzione al ridursi di questi ultimi, cosicché le passioni democratiche sembrano bruciare più ferocemente proprio quando hanno meno combustibile… L’amore per l’uguaglianza cresce costantemente insieme all'uguaglianza stessa» (Democrazia in America, 1840). Il (geniale) paradosso di Tocqueville suggerisce quindi un rapporto complesso tra le intenzioni dei riformatori e gli effetti non-intenzionali della riforma, che sono sempre quelli più importanti. Le aspettative generate nel popolo dai primi segnali di riforma non possono essere soddisfatte dai risultati raggiunti dai riformatori. Questa “legge” non è solo utile per capire la storia e il presente dei regimi dittatoriali che non di rado crollano proprio mentre iniziano le riforme democratiche o solo per comprendere perché altri regimi resistono con violenza di fronte alle prime richieste di diritti. In realtà, l’intuizione di Tocqueville ha una portata molto più ampia, perché può valere per ogni processo di riforma di organizzazioni, imprese e comunità.

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Dopo la scomparsa dei fondatori l’unica regola è la discontinuità

Dopo la scomparsa dei fondatori l’unica regola è la discontinuità

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L’analisi. Dopo la Festa del Primo Maggio, grande occasione per “pensare” una dimensione fondante della vita di persone e comunità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/05/2023

«Parlateci di miglioramenti materiali, di libertà, di felicità. Predicate invece il Dovere ai nostri padroni, alle classi che ci stanno sopra e che trattando noi come macchine fanno monopolio dei beni che spettano a tutti. A noi parlate invece di diritti, parlate del modo di rivendicarli, lasciate che abbiano esistenza riconosciuta». Questa pagina non è tratta dalla relazione dell’ultimo congresso sindacale; sono parole di Giuseppe Mazzini, dal suo I doveri dell’uomo (1860). Ed è la paradossale attualità di queste antiche parole a dirci la buona ragione che ci ha portato a festeggiare, ancora una volta, il Primo Maggio.

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Le feste non sono tutte uguali. In genere si festeggia con il protagonista della festa: si porta il santo in processione, si onorano i defunti al cimitero, si celebra un compleanno insieme al festeggiato. Il Primo Maggio è invece festa diversa: si onora il lavoro non lavorando, si fa festa senza il festeggiato. La ragione è semplice ed essenziale: il Primo Maggio è la festa del lavoro delle donne e degli uomini liberi, che non erano più schiavi perché potevano non lavorare – nessuno schiavo ha mai festeggiato il suo lavoro. Noi allora festeggiamo il lavoro senza lavorare, e dobbiamo festeggiarlo solo così.

Ma in questo benedetto giorno di non-lavoro abbiamo potuto pensare il lavoro, al lavoro nostro e a quello degli altri, al lavoro di chi lavora e al non-lavoro dei disoccupati. Non c’è il negotium e resta l’otium, rimane il tempo buono per il pensiero libero (la prima libertà del lavoro sta nel poterlo, ogni tanto, anche pensare). Pensare al lavoro-e-basta, perché non accada che l’enfasi sugli aggettivi (sicuro, stabile, degno, buono…) ci faccia dimenticare il sostantivo: il lavoro. Il Primo maggio diventa allora il giorno della grande domanda: che cosa è il lavoro?

Torniamo all’origine delle civiltà e troviamo il lavoro associato al dolore – labor, arbeit, ponos, travaglio sono parole arcaiche che rimandano alla fatica, all’aratro (ar) o «alla parola pre-germanica orbho, servo» (R. Michels, “Economia e Felicità”, 1918, p. 7). La fatica e il dolore sono state per millenni le parole prime del lavoro, fino a ieri, fino a oggi. La festa del lavoro è anche un giorno della memoria delle troppe vittime di un lavoro non amico dell’uomo, della donna e dei bambini. È una festa seria, che ricorda anche e soprattutto ciò che il lavoro non è stato per troppo tempo, e continua a non essere in troppi luoghi del mondo.

Stamane, appena alzato, ho trovato sul telefono un messaggio di Giovanna. Eccolo: «Mi assumono, mi assumono per tutto l’anno, un contratto regolare, registrato». E poi una lunghissima fila di punti esclamativi. Non potevo vederle, ma sono certo che le dita con cui ha digitato quel messaggio erano bagnate dalle lacrime: era stata finalmente assunta con contratto “registrato” dopo anni di lavoretti “non registrati” a pulire le case dei signori. Finivano i lavoretti e iniziava il lavoro. Poi, ieri sera, a casa ho saputo che un mio amico anziano con problemi di demenza ormai non può più stare da solo, perché esce di casa e si smarrisce. Ma la sola “cosa” che può fare da “solo” è tornare nel parco dove ha sempre lavorato come giardiniere e lì passare ore a curare le sue piante: quando torna lì ritrova il “Piero” che era e che è ancora, si riconnette misteriosamente con se stesso. Mentre tocca con le mani le sue piante tocca il suo cuore e lo riconosce ancora, lì l’intelligenza delle mani è ancora viva.

Il lavoro è molte cose; è anche il pianto di Giovanna (quello del contratto di oggi e quelli dei non-contratti di ieri), è la mano amica che riporta a casa Piero quando tutte le altre strade non ci sono più. Questi due incontri sono stati la mia celebrazione del Primo Maggio.

E infine ho pensato a quel nostro, bellissimo, articolo Uno della Costituzione, che non mi stancherò mai di riscrivere: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» (ora le dita umide sono le mie). Ogni generazione deve rileggere e ricomprendere il senso di questa frase. Il lavoro che abbiamo posto nel primo comma della nostra Costituzione non era il lavoro “non registrato” di Giovanna, anche se non dobbiamo pensare che negli anni in cui lei ha lavorato senza contratto pur di far vivere i suoi figli sia uscita dal perimetro dell’Articolo Uno: possiamo salvarci anche dentro lavori sbagliati che non scegliamo perché non abbiamo scelta, lo abbiamo fatto molte volte. Il lavoro che l’Assemblea costituente aveva in mente era però un altro lavoro, che non sempre è arrivato, che non sempre arriva, che non arriva per tutti, che non arriva quasi mai per i poveri. Ma che può sempre arrivare, che deve arrivare. Poi pensavo che siamo noi, esseri umani liberi, a dare dignità al lavoro: una attività svolta da una donna o da un uomo diventano migliori, perché le trasmettiamo la nostra dignità, che non avrebbe in questo grado altissimo se a farla fosse una macchina. Quell’immagine di Dio che la Bibbia ci ha voluto donare noi la trasmettiamo, un po’, anche alle cose che facciamo e tocchiamo lavorando.

E alla fine ho pensato che il lavoro poteva fondare la Repubblica perché in quel mondo il lavoro era fondato su qualcosa più grande del lavoro. Il lavoro è un buon fondamento della democrazia se prima e dopo il lavoro c’è qualcos’altro di ancora più profondo: la famiglia, la comunità, il bene comune, una terra promessa da raggiungere insieme. Il lavoro non si fonda da solo. Quando usciamo dall’ufficio e lì ci attende un deserto relazionale, questo lavoro è troppo debole per fondarci la Repubblica. Oggi il lavoro è in crisi, e lo è molto più di quanto ancora ci appaia, perché si sta desertificando il territorio civile e spirituale attorno a esso. Questo lo sapeva bene oltre duemila anni fa il saggio Qoelet, che si chiedeva: «C’è chi è solo, non ha nessuno. Eppure senza fine si affatica: “Ma per chi è il mio penare?”. Vanità, fumo anche questo» (Qo 4,7-8). Il processo, in continua crescita, delle “grandi dimissioni” di milioni di persone (giovani soprattutto), non è soltanto, né principalmente, uno degli effetti del post-Covid; è anche una crisi del rapporto nelle nuove generazioni tra il lavoro e la vita. «Ma perché e per chi questo mio penare?», è sempre stata la prima domanda del lavoro, alla quale fino a pochi anni fa sapevamo rispondere. Non si lavora soltanto per sé stessi. Il lavoro si nutre delle virtù civili e delle passioni che gli sono attorno, e quando queste sono troppo piccole e scarse il lavoro si spegne. Oggi il lavoro soffre fuori dal lavoro, da lì va rivisto.

Nel mondo che abbiamo disincantato non è arrivato il superuomo; al suo posto è apparso l’homo oeconomicus, con i suoi culti perenni di consumo. Ma l’homo oeconomicus non riesce a lavorare se non diventa più grande del suo lavoro. Chi oggi vuol salvare il lavoro deve piantare alberi nella terra arida delle comunità, e poi prendersene cura. Non salveremo il lavoro facendo aziende sempre più attente al benessere lavorativo: è sul benessere non-lavorativo dove si sta decidendo la qualità del lavoro di domani.

Credits foto: © Livio Bertola

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L’analisi. Dopo la Festa del Primo Maggio, grande occasione per “pensare” una dimensione fondante della vita di persone e comunità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 03/05/2023

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Primo maggio. Il lavoro riparta da una domanda. Perché, e per chi, la nostra fatica?

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Reddito di Cittadinanza - Oggi la politica preferisce chiudere gli occhi sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili e ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro condizione

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2022

È sempre più chiaro perché il nuovo governo abbia voluto il merito tra le sue parole-chiave. Ce lo rivela anche il programma di ridimensionamento (da subito) ed eliminazione (dal 2024) del Reddito di cittadinanza (Rdc), perché il merito che giustificherebbe la riscossione del reddito sarebbe l’impossibilità di lavorare pur volendo lavorare. Se, invece, pur potendo lavorare qualcuno decide di non farlo, gli sarà tolto “anche quello che ha”. Nell’immaginario di chi ci governa, tra quel un milione circa di cittadini – che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili – ci sarebbe dunque una significativa quota di colpevoli.

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Poi, uno guarda i dati e si chiede da dove provenga questa convinzione. Chi conosce almeno alcune delle famiglie percettrici di Rdc, sa benissimo che se queste persone non lavorano è quasi sempre per qualche ragione seria, ragioni complesse, ma la distanza tra i governanti e i poveri veri è un grande problema della democrazia. I potenti parlano di poveri in astratto come io parlo di Marte e di Saturno, quindi sono totalmente incompetenti in materia – incompetenza pratica e teorica. La povertà o, come preferisco dire per amore di Cristo e san Francesco, la miseria, è una questione di capitali non di redditi, lo andiamo ripetendo, invano, da almeno dieci anni su queste colonne. Chi è “povero” lo è per una mancanza cronica di capitali educativi, sociali, professionali, famigliari, sanitari, emotivi, relazionali, e questa mancanza di capitali (di stock) si manifesta in una mancanza di flussi (reddito, denaro). Ciò significa che se voglio combattere la povertà/miseria devo agire sui capitali delle persone e delle loro comunità, non sui redditi delle persone. Le povertà sono rapporti malati non solo portafogli individuali vuoti.

Togliendo il Rdc a chi è “occupabile” e non lavora si pensa di compiere un atto di giustizia. Dove sta l’errore? Nel pensare che chi non lavora essendo in condizioni oggettive di poter lavorare sia un pigro, e quindi non si meriti quel denaro pubblico ​

È stata questa confusione teorica e pratica che fece dire ai primi proponenti dell’attuale Rdc che con esso avrebbero “eliminato la povertà”: con un extra-reddito non si elimina la povertà, si rende solo possibile la sopravvivenza e si garantisce un minimo di dignità a chi deve mangiare senza recarsi ogni giorno, con i figli, nelle mense gratuite (dove e quando ci sono ogni giorno). Quella dichiarazione fu un errore culturale ed economico. Ma oggi di errori se ne stanno commettendo di più gravi, e da più punti di vista. Togliendo il Rdc a chi è “occupabile” e non lavora si pensa di compiere un atto di giustizia, e per questa ragione trova anche un certo consenso in alcune persone per bene. Dove sta l’errore? Nel pensare che chi non lavora essendo in condizioni oggettive di poter lavorare sia un pigro, e quindi non si meriti quel denaro pubblico – ecco tornare la parolina magica “merito”.

Dai dati però sappiamo che circa tre quarti degli occupabili ha la licenza media, e circa l’80% non ha lavorato negli ultimi tre anni. Quindi, tendenzialmente, sono disoccupati cronici. Tra questi ci sono molti che pur avendo un’età per poter lavorare non riescono a lavorare – per fragilità emotive e relazionali, per un “capitale umano” troppo impoverito – , e che per poterlo fare avrebbero bisogno non di un corso di formazione di qualche mese ma di anni di lavoro sui loro “capitali”, e mentre fanno questi corsi e sono accompagnati dovrebbero sopravvivere e vivere magari con dignità. Ma, si dice, ci sono anche quelli che preferiscono stare a casa e non lavorare. Certo, ma si dimentica che preferire il divano al lavoro è esattamente una forma concreta che assume la povertà di capitali delle persone; e il giorno in cui si capisce che quella non è una buona vita, la povertà è di fatto già superata. Quando una persona, soprattutto se adulta, non lavora da anni ha dei problemi seri “ in conto capitale”. È già una persona fragile, è qualcuno a cui la vita ha reso molto complicato il cammino. Ci vogliono “ istruzioni morali per l’uso”’ di queste persone, perché si rompono molto facilmente. E invece negli ultimi tempi sono sottoposti dalla politica a un tristissimo mercato politico, come merce di scambio, usati per prendere voti da una parte o dall’altra, senza che nessuno conosca i loro nomi.

E così ci dimentichiamo che far lavorare persone che non lavorano perché non stanno bene è un’operazione estremamente difficile. Il lavoro non è una merce omogenea, non è qualcosa di indistinto che va bene per tutti e ovunque. Questo è vero per tutti, ma è verissimo e cruciale per persone che hanno già molte difficoltà con la vita e quindi con il lavoro e con il suo mondo estraneo ed ostile, dal quale spesso si sono sentiti rifiutati, dove hanno fallito, dove sono stati umiliati, dove hanno perso auto-stima e dignità.

Il lavoro è un incontro di bisogni, è un intreccio di competenze, è uno sguardo reciproco di dignità. Se mi sento talmente poco qua-lificato e competente per offrire qualcosa agli altri, per superare questa mancanza antropologica – che andrebbe superata – c’è bisogno di molto lavoro di chi sta attorno a me. Non basta qualcuno che mi dia l’ultimatum: se non accetti questa offerta di lavoro ti tolgo i viveri. Questa non è dignità, questa non è cittadinanza, è solo un’ulteriore umiliazione di persone già spesso umiliate e ferite.

Duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato che valiamo e dobbiamo essere rispettati anche quando, per qualsiasi motivo, non siamo nelle condizioni di offrire qualcosa in cambio di un reddito ​

C’è poi un altro grave errore etico, pensare che il lavoro sia un mezzo per punire i fannulloni facendoli finalmente lavorare: qualcuno in passato lo ha anche pensato e teorizzato (negli Opifici e nei Riformatori), ma la democrazia ha superato la visione del lavoro come punizione, e lo ha legato alla dignità della persona e alla sua fioritura umana.

È vero, infine, e lo sappiamo tutti, che è la reciprocità la legge aurea della vita civile, che ricevere qualcosa dagli altri in cambio di qualcosa che io sto offrendo loro è la via maestra della nostra felicità. Ma non tutti si trovano nella condizione soggettiva di poter essere dentro questa reciprocità civile, e duemila anni di cristianesimo ci hanno insegnato che valiamo e dobbiamo essere rispettati anche quando, per qualsiasi motivo, non siamo nelle condizioni di offrire qualcosa in cambio di un reddito. E se, in nome di questa mancanza di reciprocità, mi togli anche il reddito, la mia partecipazione alla vita civile diventa talmente infima fino ad azzerarsi, e torno a essere un invisibile scarto umano.

In tutte le società i poveri sono umiliati dalla vita e dai più forti. E oggi la politica preferisce chiudere un occhio o tutti e due sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili, e poi per tranquillizzarsi la coscienza ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro povertà. È l’arcaica “cultura della colpa” che dopo Giobbe e duemila anni di cristianesimo sta tornando a dominare le nostre anime: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete il povero» (Isaia 1,16-17).

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Reddito di Cittadinanza - Oggi la politica preferisce chiudere gli occhi sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili e ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro condizione

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/11/2022

È sempre più chiaro perché il nuovo governo abbia voluto il merito tra le sue parole-chiave. Ce lo rivela anche il programma di ridimensionamento (da subito) ed eliminazione (dal 2024) del Reddito di cittadinanza (Rdc), perché il merito che giustificherebbe la riscossione del reddito sarebbe l’impossibilità di lavorare pur volendo lavorare. Se, invece, pur potendo lavorare qualcuno decide di non farlo, gli sarà tolto “anche quello che ha”. Nell’immaginario di chi ci governa, tra quel un milione circa di cittadini – che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili – ci sarebbe dunque una significativa quota di colpevoli.

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Se la povertà diventa una colpa

Se la povertà diventa una colpa

Reddito di Cittadinanza - Oggi la politica preferisce chiudere gli occhi sull’evasione fiscale dei ricchi, ma diventa spietata con i più fragili e ci vuole convincere che i poveri sono colpevoli della loro condizione di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/11/2022 È sempre più chiaro perché...
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Opinioni - Le nuove teorie vengono raccontate come post-gerarchiche, ma non lo sono, perchè dividono il mondo in guide e seguaci. Il vero agente di cambiamento è colui che non si sente leader

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 11/11/2022

La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati “leadership” sono in realtà molto antiche. Non è difficile trovare nei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber, idee e persino vere e proprie teorie sulla creazione e gestione dei leader e sul loro declino. La scienza economica se ne è occupata poco, perché da sempre è più interessata ai mercati e alle azioni razionali individuali che alle organizzazioni e ai fenomeni collettivi complessi, sebbene alcuni grandi economisti (Vilfredo Pareto, per esempio) abbiano scritto pagine molto belle sulle ideologie che producono leader e poi li eliminano. La sociologia e il management se ne sono occupati di più, perché, nella sostanza, le teorie della leadership sono varianti e sviluppi (meno sofisticati) delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere nei gruppi umani, incluse le imprese: i classici argomenti nelle scienze sociali.

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Con il nuovo millennio, però, attorno alla leadership è cambiato qualcosa di molto importante. Corsi su come si diventa leader, come si riconoscono i “tratti” del leader, come un leader può condizionare un gruppo di lavoro per generare un cambiamento, e molto altro, sono cresciuti a ritmo alto e continuo, fino a occupare i dipartimenti di tutte le scienze economiche e sociali, di ingegneria, di filosofia e persino di teologia. Un dato ancora più recente, ma non meno preoccupante, è l’espansione di corsi di formazione alla leadership nelle organizzazioni e comunità della società civile, persino nei conventi e nei movimenti spirituali, negli organismi delle Chiese, dove superiori e parroci iniziano a auto-definirsi usando le nuove parole della leadership. Nella pubblicità di corsi di leadership delle business school si legge che il corso si rivolge a «manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader». E se si sfogliano i molti manuali dedicati, le definizioni si assomigliano tutte: la leadership è la capacità d’influenza che ha una determinata persona (il leader) sui dipendenti (follower). I follower sono i seguaci del leader, spinti dal carisma del leader – carisma è parola usata e abusata – a lavorare in gruppo dove sono diretti e guidati proprio da lui. Quindi, in estrema sintesi: la leadership e intesa come la capacita di un leader di influenzare una o più persone. Così, parole come responsabili, dirigenti, capiufficio, coordinatori sono ormai diventate vecchie e superate, legate a un capitalismo troppo banale. I leader, diversamente dai vecchi dirigenti, hanno carisma, fascino, attrattività, capacità di persuasione e di seduzione.

Una prima domanda: ma dove è nato il bisogno di trasformare i dirigenti in leader? Da dove è sgorgata questa spinta irresistibile a dare un afflato carismatico ai capiufficio o ai coordinatori? Certamente il capitalismo è cambiato, è uscito (o sta uscendo) dalle fabbriche e dalle catene di montaggio, e oggi ottenere il consenso e l’ubbidienza (altra vecchia parola) dei lavoratori è diventato più difficile. Inoltre la cultura della post-modernità crea giovani postpatriarcali, quindi meno abituati e meno preparati alle virtù dell’obbedienza dei superiori, più sensibili ai valori della libertà, dell’eguaglianza, dell’assenso, del contratto. Le vecchie imprese del Novecento erano nate anche e soprattutto perché la gerarchia costava meno dei contratti individuali: contrattare ogni azione con ogni lavoratore richiede un’enorme quantità di tempo e di risorse; ecco allora che l’assunzione di una persona all’interno di un contratto di lavoro ampio, dove le singole mansioni vengono affidate in buona parte alla gerarchia, rende l’organizzazione più veloce ed efficiente. Ma affinché la gerarchia funzioni c’è bisogno di dipendenti che le attribuiscono un valore, che la considerino buona, che la condividano. Ecco allora che con l’arrivo della generazione di lavoratori del nuovo millennio nasce la figura del leader: questo non ha bisogno della gerarchia (si dice) per poter far funzionare l’organizzazione, perché il consenso e l’adesione dei suoi collaboratori nascono dal suo carisma, dalla sua capacità di convincimento, dalla persuasione, dalla sua autorevolezza. La leadership appare più post-moderna, egalitaria, non-gerarchica e persino fraterna rispetto alle vecchie teorie organizzative del Novecento, di certo più etica e rispettosa delle dignità di tutti. Ma è davvero così?

Chi scrive è convinto del contrario, cioè che le teorie della leadership siano molto più gerarchiche di quelle della fabbrica fordista-taylorista – e più maschiliste. La vera differenza è di natura narrativa: vengono raccontate come teorie e prassi postgerarchiche senza esserlo. Perché? Le molte e diverse teorie delle leadership hanno in comune un dato decisivo: dividono il mondo in leader e follower (seguaci). Alcune persone, per le ragioni più diverse (personalità, vocazione, talenti, ruolo etc…) sono leader; altri, e sono i più, seguaci, cioè membri o lavoratori che liberamente accettano di essere influenzati, sedotti, convinti dal loro leader, e che sono pure felici di questa influenza che subiscono liberamente. Certo, anche un follower di oggi può diventare un leader domani, o mentre è follower di un leader nell’ufficio A può essere leader in un ufficio B dove avrà altri follower che dovrà a suo volta sedurre e catturare con il suo carisma. E così via, all’infinito. Proviamo però a questo punto a chiederci: ci piacerebbe vivere in un mondo del genere? Lavorare in uffici, dipartimenti, aziende dove il nostro dirigente è il nostro leader? Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima vola che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.

Le teorie della leadership sono molto influenzate dal modello del leader carismatico. Il leader carismatico per eccellenza, nella tradizione occidentale, è il profeta, cioè qualcuno seguito liberamente per la sua autorevolezza intrinseca. Purtroppo i teorici della leadership non sanno che i profeti (certamente quelli biblici) non si sono mai considerati dei leader. I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

I leader hanno un bisogno necessario e vitale di followers: ma chi decide di essere Robin in un mondo dove sono esaltate soltanto le doti morali di Batman? Dov’è allora quella libertà tanto sbandierata da queste teorie? Il luogo di lavoro ideale è quello di una comunità di persone dove ognuno fa semplicemente la sua parte in un gioco cooperativo, un team dove ognuno segue tutti gli altri nella reciprocità, nella pari dignità di compiti. Questo è un mondo adulto, dove si orienta il lavoro e con le persone si dialoga. Se qualcuno deve svolgere in un certo momento funzioni di coordinamento, di governo e di responsabilità, starà semplicemente facendo il suo lavoro come io faccio il mio: non dovrà guidare nessuno, non dovrà influenzare nessuno, dovrà fare soltanto la sua necessaria parte nell’unico gioco collettivo. E se invece fa il leader, la chiamiamo manipolazione. È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.

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Opinioni - Le nuove teorie vengono raccontate come post-gerarchiche, ma non lo sono, perchè dividono il mondo in guide e seguaci. Il vero agente di cambiamento è colui che non si sente leader

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 11/11/2022

La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati “leadership” sono in realtà molto antiche. Non è difficile trovare nei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber, idee e persino vere e proprie teorie sulla creazione e gestione dei leader e sul loro declino. La scienza economica se ne è occupata poco, perché da sempre è più interessata ai mercati e alle azioni razionali individuali che alle organizzazioni e ai fenomeni collettivi complessi, sebbene alcuni grandi economisti (Vilfredo Pareto, per esempio) abbiano scritto pagine molto belle sulle ideologie che producono leader e poi li eliminano. La sociologia e il management se ne sono occupati di più, perché, nella sostanza, le teorie della leadership sono varianti e sviluppi (meno sofisticati) delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere nei gruppi umani, incluse le imprese: i classici argomenti nelle scienze sociali.

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Contro il mito della leadership (e per un elogio della sequela)

Contro il mito della leadership (e per un elogio della sequela)

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Il mutuo soccorso per Antonio Genovesi era la prima legge della società civile. Un'idea da estendere alla natura, rimasta fuori perché considerata solo risorsa produttiva

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 27/09/2022

La parola economia (oikonomia) è di origine greca. La troviamo in Senofonte ed Aristotele, per indicare le "regole" (nomos) di governo della "casa" (oikos). Nella sua origine troviamo quindi la dimensione dell’abitare, della casa e dell’ambiente vitale. Economia domestica, quindi, regole di organizzazione della casa. Per molti secoli l’oikonomia è stata usata del mondo occidentale con riferimento alla gestione della casa. Nei primi secoli del cristianesimo fu usata dai teologi per descrivere il funzionamento della "casa divina", cioè della vita di Dio in se stesso. Fu una parola essenziale per descrivere la Trinità (immanente ed economica), per spiegare le regole che gestivano quella "casa" speciale, e quindi per comprendere le ragioni che portarono all’incarnazione del Verbo ("economia della salvezza").

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Fino alla modernità, l’uso teologico e l’uso amministrativo di oikonomia hanno convissuto, finché gli economisti del Settecento non hanno aggiunto aggettivi accanto al sostantivo economia: politica, sociale; a Napoli si preferì: civile. Dalla casa privata (o divina) l’economia politica/civile diventa l’insieme delle regole che gestiscono lo stato o la nazione. Si abbandona il senso teologico di oikonomia e prevale quello civile-politico. Nelle prime edizioni del Dizionario della lingua italiana della Crusca (1612, 1623) troviamo soltanto lespressione iconomica definita come «la quale cinsegna nostra gente, e nostri figliuoli medesimi governare, e insegnaci a guardare, e crescere nostre posessioni, e nostre ereditadi, e avere mobili, e rendita, secondo che l luogo e l tempo muove». La prima volta che compare il termine economia è nella terza edizione del 1691, dove leggiamo la seguente definizione: «Arte di bene amministrare gli affari domestici». Nella quarta edizione del 1729: «Arte di bene amministrare gli affari domestici. In questa quarta edizione compare anche una terza definizione: «A volte si prende come risparmio». Interessante poi lesistenza anche del lemma Economica definita: «Scienza del governo della famiglia».

Gli economisti moderni hanno preso lantico significato greco di oikonomia, e lo hanno esteso prima dallamministrazione privata della casa allintera economia nazionale; e poi, parallelamente, hanno iniziato a studiare le leggi che governano questa casa al fine di aumentare la ricchezza (leconomia) delle nazioni. Antonio Genovesi (1713-1769) si muove all’interno dell’uso moderno di Economia, e così intitola le sue Lezioni universitarie: Lezioni di commercio o sia di Economia Civile. Si occupa delle leggi che regolano i commerci, la moneta, le tasse, i cambi, come i suoi colleghi nordici; ma introduce subito una importante novità antropologica: «Luomo è un animale naturalmente socievole, è un dettato comune. Ma non ogni uomo crederà che non vi sia in terra niun animale che non sia socievole (...). In che dunque diremo luomo essere più socievole che non sono gli altri? È il reciproco dritto di esser soccorsi, e consequentemente una reciproca obbligazione di soccorrerci nei nostri bisogni».

La reciprocità, o "mutua assistenza", è per Genovesi la prima legge della società civile e delleconomia. Non crede, diversamente da Adam Smith, che la nota tipica della relazionalità umana sia la «propensity in human nature (...) to truck, barter, and Exchange one thing for another» (Wealth of Nations, 1776). Se da una parte critica la visione hobbesiana-agostiniana delluomo come dominato dagli interessi, Genovesi non abbraccia comunque la tesi antropologica opposta, che vorrebbe luomo solo virtuoso per natura – come una certa lettura dei filosofi del moral sense o moralisti come Fénelon poteva portare a supporre. La sua antropologia è complessa e sottolinea più la reciprocità che laltruismo. Gli esseri umani sono mossi da più forze, dagli interessi e dallamore insieme, e in tutti gli ambiti della vita.

La reciprocità come legge fondamentale della vita civile e dell’economia è la grande novità di Genovesi. È una antropologia già più ricca di quella dell’interesse personale (quella di Smith e del napoletano Galiani). Oggi, di fronte alle enormi sfide poste dall’antropocene, neanche la reciprocità inter-umana è più sufficiente. Dalle varie teorie economiche moderne, inclusa quella civile, è rimasta fuori la reciprocità con la natura e con la terra. La terra era o risorsa da usare per la produzione (insieme al lavoro e al capitale) o era uno sfondo su cui si svolgeva la reciprocità umana. Questa relazionalità che ha considerato la terra esterna alle nostre relazioni di mutuo vantaggio ha portato a gravi profanazioni del pianeta. La sfida teorica e culturale è estendere la reciprocità di Genovesi anche al rapporto con la natura e la terra.

Qui un brano dell’intervento sul tema "Per una nuova legge della casa. L’economia dell’antropocene alla luce di Antonio Genovesi", che l’economista Luigino Bruni terrà venerdì 30 settembre al Museo archeologico nazionale di Napoli nella prima giornata di "Fuoriclassico". La rassegna, che si concluderà domenica 2 ottobre, è organizzata dal Mann con l’associazione culturale "A voce alta". Questa quarta edizione è intitolata "La natura e l’artificio".

Foto di Jose Antonio Alba da Pixabay

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Il sacerdote e storico del cristianesimo scomunicato da Pio XI è una grande figura non solo italiana del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 02/09/2022

“Voi Buonaiuti avete preposto una cattedra universitaria al sacerdozio”, disse deluso nel 1925 Padre Agostino Gemelli ad Ernesto Buonaiuti, nel suo estremo tentativo di evitargli l’ultima scomunica. La condizione posta era la rinuncia alla sua cattedra di storia del cristianesimo all’Università la Sapienza di Roma, che Buoaniuti aveva vinto in seguito a concorso pubblico nel 1915. Buonaiuti rifiutò, e la scomunica di Pio XI fu la più grave tra quelle possibili: espressamente vitando. Così Buonaiuti commentava nel 1945 quell’incontro nel suo libro autobiografico Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo: “Gli eventi dovevano provvidenzialmente dimostrare che non la cattedra avevo preposto al sacerdozio: avevo preposto la cattedra a un sacerdozio di cui la cattedra era l’insegna e il campo di lavoro. Il giorno in cui al mio insegnamento universitario fu imposta una clausola e fu chiesto un giuramento che costituivano la manomissione della mia dignità e della mia coscienza, non esitai a farne gettito e segnare la mia rinuncia. Fu nel 1931” (p. 252). Il professor Buonaiuti, infatti, non rinunciò alla sua cattedra per una fedeltà costosissima alla sua coscienza, alla sua vocazione e alla sua dignità. Quella non rinuncia gli consentì di fare di quella cattedra salvata uno degli atti etici più grandi della storia cattolica italiana durante il fascismo: Buonaiuti fu tra i dodici accademici che non giurarono al fascismo. Aveva custodito la sua anima e così la esercitò di fronte agli oltre 1200 accademici cattolici e laici che per le più varie ragioni fecero invece quel giuramento sbagliato. Buonaiuti fu l’unico sacerdote tra quei dodici, altro paradosso di questa tremenda e stupenda storia: uno scomunicato consentì che tra quei nomi ci fosse anche quello di un prete cattolico, scomunicato ma sempre prete - lui ha sempre rivendicato la irrevocabilità del sacerdozio: “Tu es sacerdos in aeternum”. Quel no a un sistema pagano e disumano, che lo fece vivere in miseria nell’ultima parte della sua vita espulso dalla Chiesa, dalla società e dall’accademia, fu uno degli gesti più alti del suo sacerdozio e del suo essere cristiano.

All’odissea esistenziale di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), Giordano Bruno Guerri aveva dedicato nel 2001 un’ampia biografia dal titolo Eretico e Profeta (Utet). Ora viene ripubblicata per La nave di Teseo con il titolo Eretico o Santo? (2022), una nuova edizione inesplicabilmente senza l’essenziale apparato di note della prima edizione, che rende a tratti molto arduo seguire la trama delle belle storie raccontate - una ripubblicazione della stessa edizione del 2001 sarebbe stata una scelta molto più felice, visto anche che l’ultimo capitolo su papa Francesco "modernista" appare estraneo all’economia del racconto.

Il saggio di Guerri ha il grande merito di farci scoprire o riscoprire Ernesto Buonaiuti, una figura per molti versi straordinaria della storia della Chiesa e società italiana ed europea del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento. Una storia ricca e dolorosissima di una personalità che per talento, cultura e qualità intellettuali va accostata, in Italia, a Rosmini, Gramsci o Pasolini. Uno studioso eccezionale, scrittore instancabile, docente stupendo, conoscitore delle principali lingue antiche e moderne, con una erudizione quasi infinita e una prosa felicissima che negli ultimi anni spesso fioriva in poesia.

Come ha scritto A.C. Jemolo, nell’Introduzione alla seconda edizione (del 1964) di Pellegrino di Roma, una breve nota che rimane la più bella e intensa biografia del Buonaiuti, che con Jemolo aveva intrattenuto una viva amicizia: “molte pagine della Storia del Cristianesimo sono tra le più belle, le più dense, scritte nell’ultimo cinquantennio” (p. viii). Sempre Jemolo ci ha donato lo schizzo più nitido del carattere di Buonaiuti: “La sua personalità era d’incredibile ricchezza; sensibile come pochi al fascino della natura, della montagna, del bosco, delle sere trascorse in un rifugio alpino, appassionato di musica, aperto alla comprensione di ogni forma d’arte, attento ad ogni ramo del sapere. Ma soprattutto c’era in lui una straordinaria capacità di contatti umani; durante una gita in montagna sostava talora con un pecoraio ed intrecciava con lui una conversazione ricca d’interesse per entrambi; poteva conquistare l’affetto di un bambino” (p. ix).

Profondamente romano, dove nacque (il 25 giugno in via di Ripetta), visse e morì, fu anche autentico cittadino europeo e cosmopolita. Studiò nel Seminario romano dove era entrato per una vocazione genuina, talmente genuina che la sospensione a divinis e poi il divieto di indossare l’abito talare furono tra le tante condanne quelle che più lo addolorarono. In seminario fu compagno, tra gli altri, del suo coetaneo Angelo Roncalli. L’esperienza intellettuale nel Seminario Pontificio Romano di Sant'Apollinare fu nell’insieme deludente: “I miei professori di teologia dogmatica e di teologia sacramentale sembravano non nutrire altra preoccupazione che quella di mostrare la continuità senza soluzioni della primitiva rivelazione cristiana, chiusasi con gli apostoli, fino a noi, e sembravano non prefiggersi altro compito di manodurre noi allievi alla constatazione di questa continuità, attraverso una serie sapientemente distribuita di testimonianze patristiche ed ecclesiastiche, convalidando la diretta dipendenza delle attuali posizioni della teologia ortodossa dalle fonti infallibili della rivelazione scritturale”. Sul suo professore di Storia della chiesa, così commenta: “Il Benigni fissandomi in viso con le sue pupille nerissime, in atto di sarcastico disdegno per i miei voli di speranza e di ottimismo, scandì, con la sua lieve balbuzie, questo tremendo aforisma: ‘mio buon amico, credete proprio voi che gli uomini siano capaci di qualche cosa di bene nel mondo? La storia è un continuo e disperato conato di vomito, e per questa umanità non ci vuole altro che l’Inquisizione’. Rimasi esterrefatto!” (Pellegrino di Roma, pp. 49-51).

Un appuntamento mancato con la storia

Ripercorrere la vita di Buonaiuti significa compiere più esercizi: entrare nel cuore della vita della Chiesa cattolica, romana in modo particolare, della prima metà del secolo XX, dei suoi paradossi e dei suoi fermenti di rinnovamento; comprendere da prospettive diverse la nascita e sviluppo del fascismo e le ambivalenze tenute nei suoi confronti dalla gerarchia cattolica; assistere all’atteggiamento ambiguo del mondo culturale laico, che in alcuni suoi esponenti non fu meno crudele del Vaticano nei confronti di Buonaiuti.

Buonaiuti inizia la sua attività intellettuale nel periodo di pieno sviluppo di quel movimento di studi biblici, storici e teologici noto come “Modernismo”, un’espressione che Buonaiuti non ha mai amato. Nel 1901, l’anno del battesimo del Modernismo italiano (con la pubblicazione del primo numero di "Studi religiosi", la nuova rivista di Salvatore Minocchi), Buonaiuti ventenne scrisse il suo primo articolo sotto forma di lettera anonima (firmato "novissimus") inviata a "Cultura sociale" la rivista di Romolo Murri, altro protagonista del movimento, una lettera che gli costò la revoca del posto gratuito come interno del Seminario romano.

Nel 1903 è ordinato sacerdote, e fino al 1905 scrisse decine di articoli e note, quasi tutti anonimi o firmati con pseudonimi. Di quella breve primavera del modernismo Buonaiuti subì forte fascino, perché lo vedeva come un processo di necessario rinnovamento per la Chiesa cattolica del suo tempo, ancora impermeabile agli studi critici sulla Bibbia che si stavano da molti decenni affermando nel mondo protestante. Accogliere gli studi scientifici e storici sulla Bibbia era per Buonaiuti la via maestra per l’incontro della Chiesa con la modernità. Un incontro che invece non ci fu, perché la Chiesa cattolica era ancora dominata dai teoremi della teologia neo-scolastica e bloccata dalla paura controriformista che i venti protestanti potessero finalmente invadere il corpo cattolico.

La storia del Modernismo è quella del fallimento del dialogo tra la Chiesa cattolica, la sua teologia e la sua concezione della Sacra scrittura con il mondo moderno, che ha ritardato di almeno settant’anni l’ingresso nella cultura cattolica (nelle sue università, nella formazione dei sacerdoti, delle suore, dei laici) di tutta quella stagione di dati archeologici, storici ed esegetici che avrebbero profondamente trasformato il ruolo del cristianesimo nella modernità e post-modernità. Un appuntamento mancato nel suo momento propizio (il Concilio arrivò sessant’anni dopo), probabilmente per sempre.

Ernesto Buonaiuti e la questione del Modernismo

Il Modernismo è un protagonista importante di questa storia, anche se Buoaniuti fu qualcosa di più e di diverso di un esponente del modernismo, soprattutto nella seconda parte della sua vita. Anche perché il movimento modernista fu, in se stesso, realtà complessa ed eterogenea. A Buonaiuti del pensiero di Loisy e del Tyrrell, i due fondatori del Modernismo, interessavano soprattutto il desiderio di tornare allo spirito del cristianesimo primitivo e la libertà della ricerca scientifica e storica sulle fonti dei primi secoli cristiani. Era anche interessato alle questioni teologiche e dogmatiche, ma per ritrovare “l’essenza del cristianesimo” (espressione che Buonaiuti riprese da un ciclo di lezioni a Berlino dell’Harnack, altro suo importante maestro), prima che si contaminasse con lo gnosticismo, l’ellenismo e lo stoicismo.

Per Buonaiuti l’essenza del cristianesimo si trova nell’attesa imminente del Regno di Dio, in una dimensione profetica ed escatologica della fede, che lungi dal togliere storicità al cristianesimo gli dona la sola dimensione storica compatibile con il vangelo: “Nulla di più fatuo e di meno cristiano che il credere di poter accusare il vangelo e la cristianità primitiva di illusione, per aver creduta imminente la manifestazione prodigiosa del Cristo trionfante… L’unico modo per la fede è vivere così integralmente tuffata e annegata nella consapevolezza dei valori trascendenti, che si assommano nell’Ideale del Regno… Vivere nell’invisibile, qui tutta l’essenza della fede” (Pellegrino di Roma, p. 88).

L’attesa certa e operosa dell’avvento del Regno è quindi l’essenza del cristianesimo, una essenza che ha una necessaria natura sociale e comunitaria: è una vita diversa, un mondo. A questa tesi è legata la principale accusa rivolta dal Santo Uffizio a Buonaiuti, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che in realtà (diversamente da quanto afferma gratuitamente Guerri a p. 77: “in effetti non ci credeva”) Buonaiuti non ha mai negato nei suoi scritti. Lavorando sulle prime comunità cristiana, egli metteva in luce la dimensione comunitaria ed ecclesiale del banchetto eucaristico che aveva anche la funzione di creare e ricreare la comunità cristiana - nella sua tomba volle che fossero impressi i simboli del calice e dell’ostia: “vien spontaneo domandarsi se la trascrizione concettuale e metafisica del mistero eucaristico [legata alla teologia medioevale] non venga a soffocare e a depauperare la efficienza mistica della solidale fraterna partecipazione eucaristica” (Pellegrino di Roma, p. 87). Una posizione troppo vicina alla visione protestante, dissero i suoi detrattori - sebbene il libro di Buoaniuti su Lutero fu criticato soprattutto dai protestanti, ai quali Buoaniuti pur si avvicinò negli ultimi anni della sua vita, trovando nel protestantesimo italiano accoglienza e stima: Buoaniuti era un cattolico con spirito ecumenico.

Mentre Buonaiuti iniziava a studiare scientificamente l’origine del cristianesimo, Freud fondava la psicoanalisi, Einstein scriveva la Teoria della relatività ristretta e Weber i suoi saggi sullo spirito del capitalismo, Croce dialogava (con scarso successo) con Pareto sul “principio economico”, e Poincaré, Mach e Vailati stavano portando la filosofia della scienza oltre il positivismo ottocentesco. L’archeologia biblica e gli scavi in Mesopotamia stavano offrendo materiali sulle religioni medio-orientali dai quali emergevano dati storici nuovi sull’Antico e Nuovo Testamento, e in generale lo spirito scientista e scientifico del tempo spingeva forte per l’applicazione dei metodi scientifici e delle tecniche storico-critiche anche allo studio biblico.

Il mondo protestante fu il primo ad accogliere con entusiasmo queste istanze moderne negli studi della Scrittura, quello cattolico (anche come reazione al mondo protestante) si mostrò molto impaurito di fronte a questa nuova sfida. I primi risultati che si iniziavano a leggere nelle riviste bibliche tedesche e francesi sulla non-storicità dell’Eden e dei primi capitoli della Genesi (che costò la sospensione a divinis al Menocchi), la messa in discussione della non paternità di Mosè dei libri del Pentateuco, l’individuare nei libri biblici tradizioni diverse (già a fine Settecento si iniziava a distinguere la tradizione Javista da quelle sacerdotale, Eloista e deuteronomista), poneva il grande tema dell’ispirazione delle scritture e quindi del fondamento teologico dei dogmi e della fede. Non potevamo aspettarci vita facile per il Modernismo.

Forse potevamo aspettarci qualcosa di diverso nell’atteggiamento nei confronti di teologi e professori accusati di Modernismo. Come potevamo aspettarci qualcosa di diverso dal mondo laico che nelle sue massime espressioni guardò da freddo spettatore e senza spendere una parola di solidarietà per quei loro colleghi le cui idee vennero stroncate dalla gerarchia vaticana.

Leggendo la biografia di Buonaiuti questa indifferenza laica è tra le sorprese più brutte. Croce si limita a scrivere poche ed infelici battute (definendo nel 1907 i modernisti come “dei ritardatari”), e Gentile perfino loda l’enciclica Pascendi di Pio X. Come nota Gramsci, “l’atteggiamento di Croce e di Gentile (e del chierichetto Prezzolini) isolò i modernisti nel mondo della cultura” (citato in Guerri, pp. 82-83). Si venne a creare una bizzarra santa-laica alleanza tra Pio X e il liberalismo (parziale) di Croce e Gentile e della loro scuola, che caratterizzerà lo strano liberalismo del nostro paese e l’ambigua sua reazione di fronte al fascismo - stiamo ancora attendendo qualcuno che sappia fare i conti dei danni procurati all’Italia dall’idealismo di Croce (che Buonaiuti considerava un prodotto totalmente alieno alla cultura latina).

Gnosi e cristianesimo

Nel 1907 Buonaiuti pubblica il suo primo libro accademico importante, Lo gnosticismo, uno studio storico e pionieristico sui primi secoli del cristianesimo che continuava e approfondiva lavori di Salvatore Minocchi, altra figura decisiva (con Genocchi e Fracassini) nella formazione del Nostro - il lungo saggio di Minocchi, Panteon (1914), è uno studio analitico sull’influsso dei riti misterici egiziani e delle tradizioni ellenistiche sul primo cristianesimo; sempre nello stesso anno, nel saggio Cresto e i crestiani il Minocchi sosteneva che la famosa frase degli Atti degli Apostoli (11,26) che “ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani”, era una tarda testimonianza scritta “tra la fine del primo secolo e la fine del secondo” (Bilychnis, p. 10); il Minocchi è tra i primi che già nel 1906 parlò in un libro della Tutela degli animali e la pietà cristiana (Firenze).

Nello Gnosticismo Buoaniuti mostrava “gli gnostici han cercato di far rientrare pienamente il Vangelo nelle tradizioni pagane, e queste in quello” (1907, p. 278), e che quindi “la storia dello gnosticismo racchiude prezioso insegnamento. Essa mostra i disastrosi effetti che “la vita morale e per la sanità del pensiero produce l’intellettualismo” (p. 280). Il saggio è un eccellente studio sulla cultura del Mediterraneo nei primi secoli cristiani, sui suoi influssi nelle prime sintesi teologiche cristiane, su Marcione e la formazione del canone cristiano, sui neoplatonici e Plotino, i Terapeuti, gli Esseni (siamo ben prima di Qumran) e in generale sulla grande influenza che ebbe il pensiero dualistico mediorientale (Mani, Zoroastro) su tutta la sintesi cristiana.

In questo, un ruolo importante e centrale Buoaniuti lo attribuisce al De Civitate Dei di Agostino, distinguendo un primo Agostino critico del manicheismo e un secondo Agostino neo-manicheo, quando la sua teologia in seguito alla lettura di Paolo, tra il 396 e il 397 “subì sensibili modificazioni” abbracciò una antropologia fortemente pessimistica e tornò a tesi dualistiche, sintetizzate nella teologia due città (S. Agostino, 1917, p. 47).

Come sviluppo dello stesso programma di ricerca, Buonaiuti lavorò su Ireneo e il suo millenarismo, su Tertulliano, Origene e Gerolamo e su molti padri e teologi greci e latini all’origine dei primi concili e i primi dogmi che, per Buonaiuti, portano già iscritti la contaminazione con il pensiero neoplatonico e gnostico: “come mai un movimento cristiano sostanzialmente mistico ed apocalittico si trasformò adagio adagio in un raffinato sistema di speculazione teologico-filosofica?” (Storia del cristianesimo, I, 1942, p. 97). Per Buonaiuti “un certo orientamento gnostico possiamo sostanzialmente ritrovarlo nello stesso autore del IV vangelo canonico… Una gnosi ancora allo stadio incandescente e potenziale” (Ivi, pp. 99-100).

L’influsso gnostico ed ellenistico Buonaiuti la individua nella stessa visione del Logos del prologo di Giovanni, che fu decisiva nella prima dogmatica cristologia e trinitaria: “Il Cristo non era che la concreta individuazione storica di quella figura mistica del logos che già Filone aveva concepito come l’essere medio indispensabile di cui Dio aveva bisogno per entrare in contatto col mondo” (p. 135). Tesi difficili da digerire per il Sant'Uffizio. Per Buonaiuti la Christianitas medioevale e la sua teologia fu una sintesi di vangelo e di molte altre anime pagane: da qui la sua esigenza di tornare al vangelo prima della teologia.

Un altra tesi controversa di Buonaiuti riguardava l’influsso precristiano anche nel primo monachesimo egiziano, costruito attorno all’ascesi, cioè alla ginnastica spirituale ed etica, dimenticando il centro che nel primo cristianesimo aveva la metanoia (conversione), che non è un’ascesi ma un immediato cambiamento di prospettiva e di logica che si compie nel convertito, che entra con un’opzione fondamentale in un altro regno.

Buonaiuti vedeva il primo monachesimo orientale, che influenzò anche quello di Benedetto, come una continuazione delle esperienze mediterranee precedenti il vangelo centrate sulla separazione fisica dal mondo (che per Buonaiuti non era parte dell’essenza del cristianesimo), e ne dà una valutazione quanto meno problematica (anche se apprezzava molto la riforma attorno all’anno Mille di Cluny e dei cistercensi, per la rinnovata dimensione liturgica, lavorativa e comunitaria). Così scriveva nel suo bellissimo saggio Le origini del misticismo cristiano: “Il vocabolo come il concetto dell’ascesi, considerata come un autoprocesso di allenamento e di purificazione interiore, con l’implicita nozione di un dualismo antropologico superabile solo attraverso una serie laboriosa di sforzi e di rinnegamenti, sono estranei all’orizzonte delle esperienze neotestamentari. La ‘metanoia’ evangelica si realizza in un istante e non è affatto il risultato di un lento e penoso tirocinio. La grazie dello Spirito la genera subito nello spirito del credente” (Le origini dell’ascetismo cristiano, 1928, p. 212).

La scomunica e l’ostracismo

Questi primi studi sono particolarmente felici per la freschezza del giovane studioso ma anche per la libertà di spirito di ricerca che venne molto provato e condizionato dai primi interventi disciplinari. In questo quarto di secolo, che vanno dai suoi primi lavori fino alla scomunica vitando del 1925 - preceduta dalla sospensioni a divinis del 1916, una condanna delle sue opere da parte del Sant’Uffizio nel 1917 e dalla "scomunica semplice" del 1921 - Buonaiuti continuò a sviluppare con metodo scientifico e storico, senza alcuna vela ideologica, le sue prime intuizioni sull’essenza del cristianesimo, sfiorando temi che soprattutto in quegli anni erano molto sensibili per il Sant’Uffizio e prima ancora per la “Civiltà cattolica” dei gesuiti, che fu la prima ad attaccare duramente il giovane prete già nel 1906.

In seguito alla scomunica vitando, che dopo l’abolizione del rogo era la pena più grave prevista dal diritto canonico (comportava l’obbligo per tutti i fedeli di evitare lo scomunicato, non partecipare alle sue conferenze, non scrivergli, e se lo scomunicato entrava in una chiesa il luogo doveva essere riconsacrato), Buonaiuti fu costretto “ad uscire ugualmente ogni mattina, nell’ora albeggiante in cui ero stato sempre solito recarmi a celebrare la messa nel vicino convento delle suore belghe, e ad andare girovagando per i sentieri della campagna circostante, perché la consuetudine della mia messa mattutina non apparisse inesplicabilmente interrotta alla premurosa e vigile attenzione di mia madre” (p. 187).

È questa un’altra pagina del Pellegrino di Roma, uno dei diari dell’anima eticamente più alti del Novecento. Per anni don Ernesto Buonaiuti continuò a vagare solitario per le campagne e strade romane solo per non addolorare sua madre che avrebbe sofferto troppo per quella scomunica. Basterebbe solo questo episodio umanissimo per dirci l’anima e la charitas di Ernesto Buonaiuti: “Il mio andare mattutino mi portava più di consueto verso i viali di Villa Borghese. Assistei così, mattina dopo mattina, all'avvicinarsi timido e quasi impercettibile della primavera. Prestati ascolto ai primi canti dei merli, destinati a divenire miei dilettissimi amici, sui rami delle querce, ancor spoglie di foglie, e sui tronchi ossuti dei tigli. E mi apparve ogni giorno più che per l'anima, la quale tenda ansiosamente l'orecchio e aguzzi intensamente la pupilla per cogliere tutte le voci e tutti gli spiragli di luce che l'azione di Dio suscita e avviva intorno al nostro pavido e tremante passo, un rito sacramentale si compie perennemente nel ciclo della vita cosmica e una possibilità di toccare le ragioni dell'altezza e della spiritualità, si dischiude sempre e dovunque. Un giorno mi parve che una luce più tersa e inondante del consueto mi avvolgesse lo spirito, consapevole come mai della sua povertà funzionale, della sua miseria radicale, del suo inguaribile impasto di fragilità e di impotenza, e mi desse lucida come mai l'intuizione di quello che è il vero intimo significato della professione cristiana nel mondo... Ora, nel momento in cui sotto il peso di un implacabile verdetto curiale mi sentivo condannato a mendicare, dinanzi al sole, apparso sulla nuova vegetazione delle piante che uscivano dal chiuso tormento dell'inverno e del gelo, quel confronto e quel viatico per la mia spiritualità quotidiana, che l'autorità inquisitoriale aveva tentato di sottrarmi, le beatitudini evangeliche mi apparivano ricche di una significazione insospettata e di una capacità di applicazioni senza confini! Che cos'è la vita dell'universo se non il poema dell'indigenza e dell'accattonaggio?!" (Pellegrino di Roma, pp. 187-189).

Dopo la scomunica definitiva Buonaiuti continuò la sua produzione scientifica che in quegli ultimi venti anni della sua vita crebbe molto. Pubblicò piccoli volumi su molte figure cristiane - san Tommaso, san Gerolamo, san Ambrogio, san Francesco, san Paolo e Gesù - per la stupenda collana “Profili” dell’editore ebreo Formiggini (con cui Buonaiuti ebbe una feconda collaborazione che continuò con l’editore Bietti dopo il suicidio di Formiggini nel 1938 in seguito alle leggi razziali).

Il governo fascista, dopo la scomunica e in vista del Concordato con la Chiesa, sospese l’attività didattica di Buonaiuti - “il Capo del governo”, gli scrisse Pietro Fedele, suo collega e Ministro della pubblica istruzione, “mi incarica di chiederti che tu interrompa il tuo insegnamento per assumere un incarico extra-accademico” (Pellegrino di Roma, p. 261). L’incarico era la cura dell’edizione delle opere di Gioacchino da Fiore, che rappresentò per il Nostro un’autentica provvidenza per l’affinità spirituale che scoprì con il monaco calabrese, il suo misticismo profetico e la sua attesa del Regno.

Il Concordato del febbraio del 1929, con un articolo (n. 5) disegnato su misura per il solo caso di Buonaiuti - nessun docente universitario sacerdote poteva insegnare senza il bene placito del Vaticano, inclusi i sacerdoti sospesi a divinis - è un altro tristissimo episodio del libro e della vita di Buoaniuti, segnò il definitivo isolamento istituzionale del Buonaiuti: “Lontano dalla cattedra, io andare ad attingere ispirazione e conforto nel Medioevo” (p. 262). Un medioevo molto diverso e opposto da quello desiderato nostalgicamente da Gemelli e da quello della nuova Università cattolica - “Medioevalismo" è il primo articolo di Gemelli nel primo numero di ‘Vita e Pensiero’. L’anno dopo il governo fascista, applicando il concordato, impedì a Buonaiuti di vestire l’abito ecclesiastico, che comunque continuò a indossare dentro casa per amore di sua madre. L’ultimo provvedimento del Sant'Uffizio (17.5.1944) fu la messa all’Indice di tutte le sue opere pubblicate.

La morte e il testamento spirituale

Nell’aprile del 1946 Buonaiuti ebbe una grave crisi cardiaca. Nel frattempo era morta sua madre Luisa nel 1941, una data che per Guerri (cap. 16) segna anche l’uscita dalla chiesa, una ‘uscita’ che non abbiamo registrato leggendo le sue opere (circa trenta) e lettere -, Muore il 20 aprile. Era sabato santo, accompagnato “dal festoso scampanio annunciante la Resurrezione” (Mario Niccoli, nota finale a Pellegrino di Roma, 1964, p. 513). E come dice A.C. Jemolo, “quanti credono in una vita futura e ricordano quel che il Buonaiuti fu… confidano ch’egli sia tra gli eletti” (Introduzione, cit., p. xxix).

Nel suo Testamento, dettato un mese prima della morte, riportato dal Niccoli, aveva scritto: “Posso aver sbagliato. Ma non trovo nella sostanza del mio insegnamento materia a sconfessione o a ritrattazione. E in questa consapevolezza tranquilla, affronto il mistero incombente. A tutti coloro - e sono purtroppo legioni - che hanno ostacolato, non rifuggendo da complicità innaturali, lo spiegamento della mia attività pubblica - perdono” (p. 512). Non servono altri commenti.

Buonaiuti morì scomunicato. Il cardinal Francesco Marmaggi giunse al suo capezzale di Buonaiuti, “dichiarò di essere autorizzato ad amministrargli i sacramenti purché prima sottoscrivesse la seguente formula (Buonaiuti me la riferì a memoria): ‘Credo tutto quello che crede e insegna la Santa Chiesa Cattolica, e riprovo tutto ciò che essa riprova’. Buonaiuti non sottoscrisse. Con me - e fu l’ultima volta che io lo vedi vivo - disse che avrebbe potuto sottoscrivere la prima parte della formula, non la seconda, perché troppe cose la Chiesa aveva condannato che egli non poteva condannare” (Niccoli, cit., p. 512).

Ma forse il suo testamento più poetico sono le sue ultime sette pagine della sua monumentale Storia del Cristianesimo, la cui messa all’Indice fu l’ennesimo dolore profondo. In quel trattato dove il Buonaiuti aveva raccolto in quasi duemila pagine l’essenziale di oltre quarant’anni di ricerca, quando arrivò alla conclusione la prosa divenne poesia e preghiera. Non conosco una conclusione di libro più commovente e profonda: “Noi ti invochiamo, innanzitutto, o Padre… Accattoni noi siamo tutti indistintamente: tanto più accattoni e tanto più miserabili, quanto più famelici ci fanno la nostra cultura e il nostro dominio sul mondo. Noi torniamo pertanto a te… Affretta il tuo trionfo perché la nostra vita si è consumata nel desiderio della Tua giustizia… Sappiamo che tu ci attendevi al nostro ritorno: il ritorno di accattoni che sanno per dura esperienza che nulla è più funesto dell’uomo nella sua orgogliosa pretesa alla sufficienza e all’autogoverno. Raccoglici nella pace e nel Tuo perdono e della Tua grazia e che i nostri occhi non dimentichino più la legge eterna del Tuo vangelo che è tutta nel segno di una croce, proiettata su tutta la sconfinata sofferenza e su tutta sitibonda speranza dell’universo: o crux, ave spes unica!” (pp. 769-774).

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Il sacerdote e storico del cristianesimo scomunicato da Pio XI è una grande figura non solo italiana del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 02/09/2022

“Voi Buonaiuti avete preposto una cattedra universitaria al sacerdozio”, disse deluso nel 1925 Padre Agostino Gemelli ad Ernesto Buonaiuti, nel suo estremo tentativo di evitargli l’ultima scomunica. La condizione posta era la rinuncia alla sua cattedra di storia del cristianesimo all’Università la Sapienza di Roma, che Buoaniuti aveva vinto in seguito a concorso pubblico nel 1915. Buonaiuti rifiutò, e la scomunica di Pio XI fu la più grave tra quelle possibili: espressamente vitando. Così Buonaiuti commentava nel 1945 quell’incontro nel suo libro autobiografico Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo: “Gli eventi dovevano provvidenzialmente dimostrare che non la cattedra avevo preposto al sacerdozio: avevo preposto la cattedra a un sacerdozio di cui la cattedra era l’insegna e il campo di lavoro. Il giorno in cui al mio insegnamento universitario fu imposta una clausola e fu chiesto un giuramento che costituivano la manomissione della mia dignità e della mia coscienza, non esitai a farne gettito e segnare la mia rinuncia. Fu nel 1931” (p. 252). Il professor Buonaiuti, infatti, non rinunciò alla sua cattedra per una fedeltà costosissima alla sua coscienza, alla sua vocazione e alla sua dignità. Quella non rinuncia gli consentì di fare di quella cattedra salvata uno degli atti etici più grandi della storia cattolica italiana durante il fascismo: Buonaiuti fu tra i dodici accademici che non giurarono al fascismo. Aveva custodito la sua anima e così la esercitò di fronte agli oltre 1200 accademici cattolici e laici che per le più varie ragioni fecero invece quel giuramento sbagliato. Buonaiuti fu l’unico sacerdote tra quei dodici, altro paradosso di questa tremenda e stupenda storia: uno scomunicato consentì che tra quei nomi ci fosse anche quello di un prete cattolico, scomunicato ma sempre prete - lui ha sempre rivendicato la irrevocabilità del sacerdozio: “Tu es sacerdos in aeternum”. Quel no a un sistema pagano e disumano, che lo fece vivere in miseria nell’ultima parte della sua vita espulso dalla Chiesa, dalla società e dall’accademia, fu uno degli gesti più alti del suo sacerdozio e del suo essere cristiano.

All’odissea esistenziale di Ernesto Buonaiuti (1881-1946), Giordano Bruno Guerri aveva dedicato nel 2001 un’ampia biografia dal titolo Eretico e Profeta (Utet). Ora viene ripubblicata per La nave di Teseo con il titolo Eretico o Santo? (2022), una nuova edizione inesplicabilmente senza l’essenziale apparato di note della prima edizione, che rende a tratti molto arduo seguire la trama delle belle storie raccontate - una ripubblicazione della stessa edizione del 2001 sarebbe stata una scelta molto più felice, visto anche che l’ultimo capitolo su papa Francesco "modernista" appare estraneo all’economia del racconto.

Il saggio di Guerri ha il grande merito di farci scoprire o riscoprire Ernesto Buonaiuti, una figura per molti versi straordinaria della storia della Chiesa e società italiana ed europea del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento. Una storia ricca e dolorosissima di una personalità che per talento, cultura e qualità intellettuali va accostata, in Italia, a Rosmini, Gramsci o Pasolini. Uno studioso eccezionale, scrittore instancabile, docente stupendo, conoscitore delle principali lingue antiche e moderne, con una erudizione quasi infinita e una prosa felicissima che negli ultimi anni spesso fioriva in poesia.

Come ha scritto A.C. Jemolo, nell’Introduzione alla seconda edizione (del 1964) di Pellegrino di Roma, una breve nota che rimane la più bella e intensa biografia del Buonaiuti, che con Jemolo aveva intrattenuto una viva amicizia: “molte pagine della Storia del Cristianesimo sono tra le più belle, le più dense, scritte nell’ultimo cinquantennio” (p. viii). Sempre Jemolo ci ha donato lo schizzo più nitido del carattere di Buonaiuti: “La sua personalità era d’incredibile ricchezza; sensibile come pochi al fascino della natura, della montagna, del bosco, delle sere trascorse in un rifugio alpino, appassionato di musica, aperto alla comprensione di ogni forma d’arte, attento ad ogni ramo del sapere. Ma soprattutto c’era in lui una straordinaria capacità di contatti umani; durante una gita in montagna sostava talora con un pecoraio ed intrecciava con lui una conversazione ricca d’interesse per entrambi; poteva conquistare l’affetto di un bambino” (p. ix).

Profondamente romano, dove nacque (il 25 giugno in via di Ripetta), visse e morì, fu anche autentico cittadino europeo e cosmopolita. Studiò nel Seminario romano dove era entrato per una vocazione genuina, talmente genuina che la sospensione a divinis e poi il divieto di indossare l’abito talare furono tra le tante condanne quelle che più lo addolorarono. In seminario fu compagno, tra gli altri, del suo coetaneo Angelo Roncalli. L’esperienza intellettuale nel Seminario Pontificio Romano di Sant'Apollinare fu nell’insieme deludente: “I miei professori di teologia dogmatica e di teologia sacramentale sembravano non nutrire altra preoccupazione che quella di mostrare la continuità senza soluzioni della primitiva rivelazione cristiana, chiusasi con gli apostoli, fino a noi, e sembravano non prefiggersi altro compito di manodurre noi allievi alla constatazione di questa continuità, attraverso una serie sapientemente distribuita di testimonianze patristiche ed ecclesiastiche, convalidando la diretta dipendenza delle attuali posizioni della teologia ortodossa dalle fonti infallibili della rivelazione scritturale”. Sul suo professore di Storia della chiesa, così commenta: “Il Benigni fissandomi in viso con le sue pupille nerissime, in atto di sarcastico disdegno per i miei voli di speranza e di ottimismo, scandì, con la sua lieve balbuzie, questo tremendo aforisma: ‘mio buon amico, credete proprio voi che gli uomini siano capaci di qualche cosa di bene nel mondo? La storia è un continuo e disperato conato di vomito, e per questa umanità non ci vuole altro che l’Inquisizione’. Rimasi esterrefatto!” (Pellegrino di Roma, pp. 49-51).

Un appuntamento mancato con la storia

Ripercorrere la vita di Buonaiuti significa compiere più esercizi: entrare nel cuore della vita della Chiesa cattolica, romana in modo particolare, della prima metà del secolo XX, dei suoi paradossi e dei suoi fermenti di rinnovamento; comprendere da prospettive diverse la nascita e sviluppo del fascismo e le ambivalenze tenute nei suoi confronti dalla gerarchia cattolica; assistere all’atteggiamento ambiguo del mondo culturale laico, che in alcuni suoi esponenti non fu meno crudele del Vaticano nei confronti di Buonaiuti.

Buonaiuti inizia la sua attività intellettuale nel periodo di pieno sviluppo di quel movimento di studi biblici, storici e teologici noto come “Modernismo”, un’espressione che Buonaiuti non ha mai amato. Nel 1901, l’anno del battesimo del Modernismo italiano (con la pubblicazione del primo numero di "Studi religiosi", la nuova rivista di Salvatore Minocchi), Buonaiuti ventenne scrisse il suo primo articolo sotto forma di lettera anonima (firmato "novissimus") inviata a "Cultura sociale" la rivista di Romolo Murri, altro protagonista del movimento, una lettera che gli costò la revoca del posto gratuito come interno del Seminario romano.

Nel 1903 è ordinato sacerdote, e fino al 1905 scrisse decine di articoli e note, quasi tutti anonimi o firmati con pseudonimi. Di quella breve primavera del modernismo Buonaiuti subì forte fascino, perché lo vedeva come un processo di necessario rinnovamento per la Chiesa cattolica del suo tempo, ancora impermeabile agli studi critici sulla Bibbia che si stavano da molti decenni affermando nel mondo protestante. Accogliere gli studi scientifici e storici sulla Bibbia era per Buonaiuti la via maestra per l’incontro della Chiesa con la modernità. Un incontro che invece non ci fu, perché la Chiesa cattolica era ancora dominata dai teoremi della teologia neo-scolastica e bloccata dalla paura controriformista che i venti protestanti potessero finalmente invadere il corpo cattolico.

La storia del Modernismo è quella del fallimento del dialogo tra la Chiesa cattolica, la sua teologia e la sua concezione della Sacra scrittura con il mondo moderno, che ha ritardato di almeno settant’anni l’ingresso nella cultura cattolica (nelle sue università, nella formazione dei sacerdoti, delle suore, dei laici) di tutta quella stagione di dati archeologici, storici ed esegetici che avrebbero profondamente trasformato il ruolo del cristianesimo nella modernità e post-modernità. Un appuntamento mancato nel suo momento propizio (il Concilio arrivò sessant’anni dopo), probabilmente per sempre.

Ernesto Buonaiuti e la questione del Modernismo

Il Modernismo è un protagonista importante di questa storia, anche se Buoaniuti fu qualcosa di più e di diverso di un esponente del modernismo, soprattutto nella seconda parte della sua vita. Anche perché il movimento modernista fu, in se stesso, realtà complessa ed eterogenea. A Buonaiuti del pensiero di Loisy e del Tyrrell, i due fondatori del Modernismo, interessavano soprattutto il desiderio di tornare allo spirito del cristianesimo primitivo e la libertà della ricerca scientifica e storica sulle fonti dei primi secoli cristiani. Era anche interessato alle questioni teologiche e dogmatiche, ma per ritrovare “l’essenza del cristianesimo” (espressione che Buonaiuti riprese da un ciclo di lezioni a Berlino dell’Harnack, altro suo importante maestro), prima che si contaminasse con lo gnosticismo, l’ellenismo e lo stoicismo.

Per Buonaiuti l’essenza del cristianesimo si trova nell’attesa imminente del Regno di Dio, in una dimensione profetica ed escatologica della fede, che lungi dal togliere storicità al cristianesimo gli dona la sola dimensione storica compatibile con il vangelo: “Nulla di più fatuo e di meno cristiano che il credere di poter accusare il vangelo e la cristianità primitiva di illusione, per aver creduta imminente la manifestazione prodigiosa del Cristo trionfante… L’unico modo per la fede è vivere così integralmente tuffata e annegata nella consapevolezza dei valori trascendenti, che si assommano nell’Ideale del Regno… Vivere nell’invisibile, qui tutta l’essenza della fede” (Pellegrino di Roma, p. 88).

L’attesa certa e operosa dell’avvento del Regno è quindi l’essenza del cristianesimo, una essenza che ha una necessaria natura sociale e comunitaria: è una vita diversa, un mondo. A questa tesi è legata la principale accusa rivolta dal Santo Uffizio a Buonaiuti, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che in realtà (diversamente da quanto afferma gratuitamente Guerri a p. 77: “in effetti non ci credeva”) Buonaiuti non ha mai negato nei suoi scritti. Lavorando sulle prime comunità cristiana, egli metteva in luce la dimensione comunitaria ed ecclesiale del banchetto eucaristico che aveva anche la funzione di creare e ricreare la comunità cristiana - nella sua tomba volle che fossero impressi i simboli del calice e dell’ostia: “vien spontaneo domandarsi se la trascrizione concettuale e metafisica del mistero eucaristico [legata alla teologia medioevale] non venga a soffocare e a depauperare la efficienza mistica della solidale fraterna partecipazione eucaristica” (Pellegrino di Roma, p. 87). Una posizione troppo vicina alla visione protestante, dissero i suoi detrattori - sebbene il libro di Buoaniuti su Lutero fu criticato soprattutto dai protestanti, ai quali Buoaniuti pur si avvicinò negli ultimi anni della sua vita, trovando nel protestantesimo italiano accoglienza e stima: Buoaniuti era un cattolico con spirito ecumenico.

Mentre Buonaiuti iniziava a studiare scientificamente l’origine del cristianesimo, Freud fondava la psicoanalisi, Einstein scriveva la Teoria della relatività ristretta e Weber i suoi saggi sullo spirito del capitalismo, Croce dialogava (con scarso successo) con Pareto sul “principio economico”, e Poincaré, Mach e Vailati stavano portando la filosofia della scienza oltre il positivismo ottocentesco. L’archeologia biblica e gli scavi in Mesopotamia stavano offrendo materiali sulle religioni medio-orientali dai quali emergevano dati storici nuovi sull’Antico e Nuovo Testamento, e in generale lo spirito scientista e scientifico del tempo spingeva forte per l’applicazione dei metodi scientifici e delle tecniche storico-critiche anche allo studio biblico.

Il mondo protestante fu il primo ad accogliere con entusiasmo queste istanze moderne negli studi della Scrittura, quello cattolico (anche come reazione al mondo protestante) si mostrò molto impaurito di fronte a questa nuova sfida. I primi risultati che si iniziavano a leggere nelle riviste bibliche tedesche e francesi sulla non-storicità dell’Eden e dei primi capitoli della Genesi (che costò la sospensione a divinis al Menocchi), la messa in discussione della non paternità di Mosè dei libri del Pentateuco, l’individuare nei libri biblici tradizioni diverse (già a fine Settecento si iniziava a distinguere la tradizione Javista da quelle sacerdotale, Eloista e deuteronomista), poneva il grande tema dell’ispirazione delle scritture e quindi del fondamento teologico dei dogmi e della fede. Non potevamo aspettarci vita facile per il Modernismo.

Forse potevamo aspettarci qualcosa di diverso nell’atteggiamento nei confronti di teologi e professori accusati di Modernismo. Come potevamo aspettarci qualcosa di diverso dal mondo laico che nelle sue massime espressioni guardò da freddo spettatore e senza spendere una parola di solidarietà per quei loro colleghi le cui idee vennero stroncate dalla gerarchia vaticana.

Leggendo la biografia di Buonaiuti questa indifferenza laica è tra le sorprese più brutte. Croce si limita a scrivere poche ed infelici battute (definendo nel 1907 i modernisti come “dei ritardatari”), e Gentile perfino loda l’enciclica Pascendi di Pio X. Come nota Gramsci, “l’atteggiamento di Croce e di Gentile (e del chierichetto Prezzolini) isolò i modernisti nel mondo della cultura” (citato in Guerri, pp. 82-83). Si venne a creare una bizzarra santa-laica alleanza tra Pio X e il liberalismo (parziale) di Croce e Gentile e della loro scuola, che caratterizzerà lo strano liberalismo del nostro paese e l’ambigua sua reazione di fronte al fascismo - stiamo ancora attendendo qualcuno che sappia fare i conti dei danni procurati all’Italia dall’idealismo di Croce (che Buonaiuti considerava un prodotto totalmente alieno alla cultura latina).

Gnosi e cristianesimo

Nel 1907 Buonaiuti pubblica il suo primo libro accademico importante, Lo gnosticismo, uno studio storico e pionieristico sui primi secoli del cristianesimo che continuava e approfondiva lavori di Salvatore Minocchi, altra figura decisiva (con Genocchi e Fracassini) nella formazione del Nostro - il lungo saggio di Minocchi, Panteon (1914), è uno studio analitico sull’influsso dei riti misterici egiziani e delle tradizioni ellenistiche sul primo cristianesimo; sempre nello stesso anno, nel saggio Cresto e i crestiani il Minocchi sosteneva che la famosa frase degli Atti degli Apostoli (11,26) che “ad Antiochia i discepoli furono chiamati cristiani”, era una tarda testimonianza scritta “tra la fine del primo secolo e la fine del secondo” (Bilychnis, p. 10); il Minocchi è tra i primi che già nel 1906 parlò in un libro della Tutela degli animali e la pietà cristiana (Firenze).

Nello Gnosticismo Buoaniuti mostrava “gli gnostici han cercato di far rientrare pienamente il Vangelo nelle tradizioni pagane, e queste in quello” (1907, p. 278), e che quindi “la storia dello gnosticismo racchiude prezioso insegnamento. Essa mostra i disastrosi effetti che “la vita morale e per la sanità del pensiero produce l’intellettualismo” (p. 280). Il saggio è un eccellente studio sulla cultura del Mediterraneo nei primi secoli cristiani, sui suoi influssi nelle prime sintesi teologiche cristiane, su Marcione e la formazione del canone cristiano, sui neoplatonici e Plotino, i Terapeuti, gli Esseni (siamo ben prima di Qumran) e in generale sulla grande influenza che ebbe il pensiero dualistico mediorientale (Mani, Zoroastro) su tutta la sintesi cristiana.

In questo, un ruolo importante e centrale Buoaniuti lo attribuisce al De Civitate Dei di Agostino, distinguendo un primo Agostino critico del manicheismo e un secondo Agostino neo-manicheo, quando la sua teologia in seguito alla lettura di Paolo, tra il 396 e il 397 “subì sensibili modificazioni” abbracciò una antropologia fortemente pessimistica e tornò a tesi dualistiche, sintetizzate nella teologia due città (S. Agostino, 1917, p. 47).

Come sviluppo dello stesso programma di ricerca, Buonaiuti lavorò su Ireneo e il suo millenarismo, su Tertulliano, Origene e Gerolamo e su molti padri e teologi greci e latini all’origine dei primi concili e i primi dogmi che, per Buonaiuti, portano già iscritti la contaminazione con il pensiero neoplatonico e gnostico: “come mai un movimento cristiano sostanzialmente mistico ed apocalittico si trasformò adagio adagio in un raffinato sistema di speculazione teologico-filosofica?” (Storia del cristianesimo, I, 1942, p. 97). Per Buonaiuti “un certo orientamento gnostico possiamo sostanzialmente ritrovarlo nello stesso autore del IV vangelo canonico… Una gnosi ancora allo stadio incandescente e potenziale” (Ivi, pp. 99-100).

L’influsso gnostico ed ellenistico Buonaiuti la individua nella stessa visione del Logos del prologo di Giovanni, che fu decisiva nella prima dogmatica cristologia e trinitaria: “Il Cristo non era che la concreta individuazione storica di quella figura mistica del logos che già Filone aveva concepito come l’essere medio indispensabile di cui Dio aveva bisogno per entrare in contatto col mondo” (p. 135). Tesi difficili da digerire per il Sant'Uffizio. Per Buonaiuti la Christianitas medioevale e la sua teologia fu una sintesi di vangelo e di molte altre anime pagane: da qui la sua esigenza di tornare al vangelo prima della teologia.

Un altra tesi controversa di Buonaiuti riguardava l’influsso precristiano anche nel primo monachesimo egiziano, costruito attorno all’ascesi, cioè alla ginnastica spirituale ed etica, dimenticando il centro che nel primo cristianesimo aveva la metanoia (conversione), che non è un’ascesi ma un immediato cambiamento di prospettiva e di logica che si compie nel convertito, che entra con un’opzione fondamentale in un altro regno.

Buonaiuti vedeva il primo monachesimo orientale, che influenzò anche quello di Benedetto, come una continuazione delle esperienze mediterranee precedenti il vangelo centrate sulla separazione fisica dal mondo (che per Buonaiuti non era parte dell’essenza del cristianesimo), e ne dà una valutazione quanto meno problematica (anche se apprezzava molto la riforma attorno all’anno Mille di Cluny e dei cistercensi, per la rinnovata dimensione liturgica, lavorativa e comunitaria). Così scriveva nel suo bellissimo saggio Le origini del misticismo cristiano: “Il vocabolo come il concetto dell’ascesi, considerata come un autoprocesso di allenamento e di purificazione interiore, con l’implicita nozione di un dualismo antropologico superabile solo attraverso una serie laboriosa di sforzi e di rinnegamenti, sono estranei all’orizzonte delle esperienze neotestamentari. La ‘metanoia’ evangelica si realizza in un istante e non è affatto il risultato di un lento e penoso tirocinio. La grazie dello Spirito la genera subito nello spirito del credente” (Le origini dell’ascetismo cristiano, 1928, p. 212).

La scomunica e l’ostracismo

Questi primi studi sono particolarmente felici per la freschezza del giovane studioso ma anche per la libertà di spirito di ricerca che venne molto provato e condizionato dai primi interventi disciplinari. In questo quarto di secolo, che vanno dai suoi primi lavori fino alla scomunica vitando del 1925 - preceduta dalla sospensioni a divinis del 1916, una condanna delle sue opere da parte del Sant’Uffizio nel 1917 e dalla "scomunica semplice" del 1921 - Buonaiuti continuò a sviluppare con metodo scientifico e storico, senza alcuna vela ideologica, le sue prime intuizioni sull’essenza del cristianesimo, sfiorando temi che soprattutto in quegli anni erano molto sensibili per il Sant’Uffizio e prima ancora per la “Civiltà cattolica” dei gesuiti, che fu la prima ad attaccare duramente il giovane prete già nel 1906.

In seguito alla scomunica vitando, che dopo l’abolizione del rogo era la pena più grave prevista dal diritto canonico (comportava l’obbligo per tutti i fedeli di evitare lo scomunicato, non partecipare alle sue conferenze, non scrivergli, e se lo scomunicato entrava in una chiesa il luogo doveva essere riconsacrato), Buonaiuti fu costretto “ad uscire ugualmente ogni mattina, nell’ora albeggiante in cui ero stato sempre solito recarmi a celebrare la messa nel vicino convento delle suore belghe, e ad andare girovagando per i sentieri della campagna circostante, perché la consuetudine della mia messa mattutina non apparisse inesplicabilmente interrotta alla premurosa e vigile attenzione di mia madre” (p. 187).

È questa un’altra pagina del Pellegrino di Roma, uno dei diari dell’anima eticamente più alti del Novecento. Per anni don Ernesto Buonaiuti continuò a vagare solitario per le campagne e strade romane solo per non addolorare sua madre che avrebbe sofferto troppo per quella scomunica. Basterebbe solo questo episodio umanissimo per dirci l’anima e la charitas di Ernesto Buonaiuti: “Il mio andare mattutino mi portava più di consueto verso i viali di Villa Borghese. Assistei così, mattina dopo mattina, all'avvicinarsi timido e quasi impercettibile della primavera. Prestati ascolto ai primi canti dei merli, destinati a divenire miei dilettissimi amici, sui rami delle querce, ancor spoglie di foglie, e sui tronchi ossuti dei tigli. E mi apparve ogni giorno più che per l'anima, la quale tenda ansiosamente l'orecchio e aguzzi intensamente la pupilla per cogliere tutte le voci e tutti gli spiragli di luce che l'azione di Dio suscita e avviva intorno al nostro pavido e tremante passo, un rito sacramentale si compie perennemente nel ciclo della vita cosmica e una possibilità di toccare le ragioni dell'altezza e della spiritualità, si dischiude sempre e dovunque. Un giorno mi parve che una luce più tersa e inondante del consueto mi avvolgesse lo spirito, consapevole come mai della sua povertà funzionale, della sua miseria radicale, del suo inguaribile impasto di fragilità e di impotenza, e mi desse lucida come mai l'intuizione di quello che è il vero intimo significato della professione cristiana nel mondo... Ora, nel momento in cui sotto il peso di un implacabile verdetto curiale mi sentivo condannato a mendicare, dinanzi al sole, apparso sulla nuova vegetazione delle piante che uscivano dal chiuso tormento dell'inverno e del gelo, quel confronto e quel viatico per la mia spiritualità quotidiana, che l'autorità inquisitoriale aveva tentato di sottrarmi, le beatitudini evangeliche mi apparivano ricche di una significazione insospettata e di una capacità di applicazioni senza confini! Che cos'è la vita dell'universo se non il poema dell'indigenza e dell'accattonaggio?!" (Pellegrino di Roma, pp. 187-189).

Dopo la scomunica definitiva Buonaiuti continuò la sua produzione scientifica che in quegli ultimi venti anni della sua vita crebbe molto. Pubblicò piccoli volumi su molte figure cristiane - san Tommaso, san Gerolamo, san Ambrogio, san Francesco, san Paolo e Gesù - per la stupenda collana “Profili” dell’editore ebreo Formiggini (con cui Buonaiuti ebbe una feconda collaborazione che continuò con l’editore Bietti dopo il suicidio di Formiggini nel 1938 in seguito alle leggi razziali).

Il governo fascista, dopo la scomunica e in vista del Concordato con la Chiesa, sospese l’attività didattica di Buonaiuti - “il Capo del governo”, gli scrisse Pietro Fedele, suo collega e Ministro della pubblica istruzione, “mi incarica di chiederti che tu interrompa il tuo insegnamento per assumere un incarico extra-accademico” (Pellegrino di Roma, p. 261). L’incarico era la cura dell’edizione delle opere di Gioacchino da Fiore, che rappresentò per il Nostro un’autentica provvidenza per l’affinità spirituale che scoprì con il monaco calabrese, il suo misticismo profetico e la sua attesa del Regno.

Il Concordato del febbraio del 1929, con un articolo (n. 5) disegnato su misura per il solo caso di Buonaiuti - nessun docente universitario sacerdote poteva insegnare senza il bene placito del Vaticano, inclusi i sacerdoti sospesi a divinis - è un altro tristissimo episodio del libro e della vita di Buoaniuti, segnò il definitivo isolamento istituzionale del Buonaiuti: “Lontano dalla cattedra, io andare ad attingere ispirazione e conforto nel Medioevo” (p. 262). Un medioevo molto diverso e opposto da quello desiderato nostalgicamente da Gemelli e da quello della nuova Università cattolica - “Medioevalismo" è il primo articolo di Gemelli nel primo numero di ‘Vita e Pensiero’. L’anno dopo il governo fascista, applicando il concordato, impedì a Buonaiuti di vestire l’abito ecclesiastico, che comunque continuò a indossare dentro casa per amore di sua madre. L’ultimo provvedimento del Sant'Uffizio (17.5.1944) fu la messa all’Indice di tutte le sue opere pubblicate.

La morte e il testamento spirituale

Nell’aprile del 1946 Buonaiuti ebbe una grave crisi cardiaca. Nel frattempo era morta sua madre Luisa nel 1941, una data che per Guerri (cap. 16) segna anche l’uscita dalla chiesa, una ‘uscita’ che non abbiamo registrato leggendo le sue opere (circa trenta) e lettere -, Muore il 20 aprile. Era sabato santo, accompagnato “dal festoso scampanio annunciante la Resurrezione” (Mario Niccoli, nota finale a Pellegrino di Roma, 1964, p. 513). E come dice A.C. Jemolo, “quanti credono in una vita futura e ricordano quel che il Buonaiuti fu… confidano ch’egli sia tra gli eletti” (Introduzione, cit., p. xxix).

Nel suo Testamento, dettato un mese prima della morte, riportato dal Niccoli, aveva scritto: “Posso aver sbagliato. Ma non trovo nella sostanza del mio insegnamento materia a sconfessione o a ritrattazione. E in questa consapevolezza tranquilla, affronto il mistero incombente. A tutti coloro - e sono purtroppo legioni - che hanno ostacolato, non rifuggendo da complicità innaturali, lo spiegamento della mia attività pubblica - perdono” (p. 512). Non servono altri commenti.

Buonaiuti morì scomunicato. Il cardinal Francesco Marmaggi giunse al suo capezzale di Buonaiuti, “dichiarò di essere autorizzato ad amministrargli i sacramenti purché prima sottoscrivesse la seguente formula (Buonaiuti me la riferì a memoria): ‘Credo tutto quello che crede e insegna la Santa Chiesa Cattolica, e riprovo tutto ciò che essa riprova’. Buonaiuti non sottoscrisse. Con me - e fu l’ultima volta che io lo vedi vivo - disse che avrebbe potuto sottoscrivere la prima parte della formula, non la seconda, perché troppe cose la Chiesa aveva condannato che egli non poteva condannare” (Niccoli, cit., p. 512).

Ma forse il suo testamento più poetico sono le sue ultime sette pagine della sua monumentale Storia del Cristianesimo, la cui messa all’Indice fu l’ennesimo dolore profondo. In quel trattato dove il Buonaiuti aveva raccolto in quasi duemila pagine l’essenziale di oltre quarant’anni di ricerca, quando arrivò alla conclusione la prosa divenne poesia e preghiera. Non conosco una conclusione di libro più commovente e profonda: “Noi ti invochiamo, innanzitutto, o Padre… Accattoni noi siamo tutti indistintamente: tanto più accattoni e tanto più miserabili, quanto più famelici ci fanno la nostra cultura e il nostro dominio sul mondo. Noi torniamo pertanto a te… Affretta il tuo trionfo perché la nostra vita si è consumata nel desiderio della Tua giustizia… Sappiamo che tu ci attendevi al nostro ritorno: il ritorno di accattoni che sanno per dura esperienza che nulla è più funesto dell’uomo nella sua orgogliosa pretesa alla sufficienza e all’autogoverno. Raccoglici nella pace e nel Tuo perdono e della Tua grazia e che i nostri occhi non dimentichino più la legge eterna del Tuo vangelo che è tutta nel segno di una croce, proiettata su tutta la sconfinata sofferenza e su tutta sitibonda speranza dell’universo: o crux, ave spes unica!” (pp. 769-774).

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Rileggere Ernesto Buonaiuti: incompreso, modernissimo cercatore del Vangelo

Rileggere Ernesto Buonaiuti: incompreso, modernissimo cercatore del Vangelo

Il sacerdote e storico del cristianesimo scomunicato da Pio XI è una grande figura non solo italiana del XX secolo, che ancora attende un adeguato posto tra i profeti cattolici del Novecento di Luigino Bruni pubblicato su Agorà di Avvenire il 02/09/2022 “Voi Buonaiuti avete preposto una cattedra uni...
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Opinioni - Il mercato in due piccole storie d'agosto

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/08/2022

«Tutto bene?», chiede il cassiere della pizzeria a Domenico. E lui: «In realtà, no: la pizza non era buona». Arriva subito il proprietario insieme al pizzaiolo e commentano: «Ha ragione: ieri l’impasto è uscito male, ci dispiace molto, la prossima volta vedrà che buone pizze facciamo!». Dopo questo dialogo il mio amico paga, e nel conto le pizze erano state addebitate al prezzo normale del menu. «Non metterò più piede in quella pizzeria», è stato il suo ultimo commento.

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Sono stato con mio fratello a visitare un borgo marchigiano. Cerchiamo un ristorante, il proprietario ci accoglie dicendoci che servono soltanto il menu turistico: rigatoni "alla castignanese" e spiedini alla brace. Arriva la pasta ed era una tagliatella ai funghi (buona). Quando arrivano gli spiedini, non ascolto il consiglio di mio fratello ("lascia stare"), chiedo alla cameriera il perché di quel cambio di piatto, e lei si scusa per l’errore. Subito dopo ci arriva dalla cucina un assaggio di rigatoni. Esce poi il proprietario per scusarsi personalmente e ci fa portare delle (ottime) olive ascolane. Chiaramente nel conto non sono entrati né l’assaggio di rigatoni né la porzione di olive, e noi abbiamo lasciato una mancia.

Il pizzaiolo non ha fatto nulla di illegale né ha violato il contratto, e se il ristoratore non avesse offerto rigatoni e olive non avrebbe fatto nulla di riprovevole. Il possibile sconto del pizzaiolo e il "di più" del ristorante non erano dovuti, entrambi non erano necessari. Ma sta proprio in questi comportamenti non-necessari uno dei segreti del difficile mestiere dell’imprenditore, forse la sua dimensione più importante.

Una domanda: perché il proprietario è uscito personalmente a scusarsi e poi ci ha offerto i rigatoni e le olive? Perché, semplicemente, voleva anche che io e mio fratello Ivan andassimo via contenti. La nostra soddisfazione gli interessava veramente, nella sua scelta c’era qualcosa di intrinseco, di sincero e di genuino. Il suo solo guadagno era per lui troppo poco.

E qui si apre un discorso importante per l’impresa, per l’economia e per la società. Gli economisti fondatori e maestri della scienza economica (A. Smith, A. Genovesi, D. Ricardo, V. Pareto, A. Sen) hanno sempre ripetuto che la legge aurea dell’economia di mercato è il mutuo vantaggio, non l’interesse personale. È la reciprocità la pietra angolare dell’economia di mercato. Questi discorsi, che ogni tanto (purtroppo non sempre) si insegnano agli studenti di economia, possono sembrare astratti o poco utili alla vita concreta della gente, finché non si entra nelle pizzerie, nei ristoranti, nelle industrie metalmeccaniche, nelle agenzie assicurative o immobiliari, nel mercato del gas. Il buon imprenditore sa che la soddisfazione reale (non finta né ingannata) di chi sta dall’altra parte del contratto (clienti, fornitori, lavoratori) è parte essenziale del suo mestiere. Perché sa che se un cliente esce scontento dal locale non si è verificato semplicemente un inconveniente.

In quella mancata soddisfazione reciproca c’è il fallimento del suo lavoro, non è accaduto qualcosa di marginale o di secondario, ha agito contro la natura (il telos, dicevano i greci) del suo lavoro. Per il buon imprenditore il suo profitto è troppo poco, e quindi cerca intenzionalmente anche il benessere di chi interagisce con lui, con lei, perché ne ha un bisogno vitale. Quando salutiamo e al nostro "grazie" il negoziante risponde "grazie a lei", ci stiamo dicendo qualcosa di più di una parola gentile: stiamo riconoscendo la natura reciproca dell’economia.

Far uscire i clienti soddisfatti non è soltanto una strategia intelligente nel lungo periodo (il cliente soddisfatto può tornare) né semplicemente una faccenda di reputazione. C’è molto di più: dietro quei rigatoni e quelle olive c’è la vocazione imprenditoriale, c’è la dignità di un mestiere spesso non capito, ma essenziale per il bene comune. La vera customer satisfaction – la soddisfazione del cliente – è nata nelle città italiane del Duecento e del Trecento, quando dal cuore dei nuovi Comuni si comprese che commerciare era l’altro nome della civiltà, che il buon mercante era soprattutto un costruttore di reciprocità civile, e quando si spezza questa reciprocità riconosciuta e voluta si smarrisce lo spirito buono dell’intera società.

I pizzaioli come quelli del mio amico e i ristoratori come quello di Castignano vivono e operano l’uno accanto all’altro, lo sappiamo e lo vediamo tutti; ma il giorno in cui i primi dovessero diventare più numerosi dei secondi, magari convincendo tutti che comportamenti come quelli del mio ristorante sono soltanto romanticismo dannoso, quel giorno sarebbe un’ora molto triste per la società e per l’economia. Nei mercati di tutti i giorni c’è molta più anima di quella che riusciamo a vedere, e anche i politici che si candidano a guidare il Paese dovrebbero aiutarci a custodirla.

 

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Opinioni - Il mercato in due piccole storie d'agosto

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 28/08/2022

«Tutto bene?», chiede il cassiere della pizzeria a Domenico. E lui: «In realtà, no: la pizza non era buona». Arriva subito il proprietario insieme al pizzaiolo e commentano: «Ha ragione: ieri l’impasto è uscito male, ci dispiace molto, la prossima volta vedrà che buone pizze facciamo!». Dopo questo dialogo il mio amico paga, e nel conto le pizze erano state addebitate al prezzo normale del menu. «Non metterò più piede in quella pizzeria», è stato il suo ultimo commento.

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Sì, il profitto è troppo poco

Sì, il profitto è troppo poco

Opinioni - Il mercato in due piccole storie d'agosto di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 28/08/2022 «Tutto bene?», chiede il cassiere della pizzeria a Domenico. E lui: «In realtà, no: la pizza non era buona». Arriva subito il proprietario insieme al pizzaiolo e commentano: «Ha ragione: ier...
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Agorà - Uscire dalle sicurezze dell’io per aprirsi agli altri, mettere alla prova le idee: un libro di Del Soldà sul segreto dell’avventura e della vita che costruisce futuro e relazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/07/2022

«È fuori di sé» (Mc 3,21). Con questa espressione, in greco existemi, i familiari di Gesù di Nazaret cercano di riportarlo a casa, perché, appunto, pensavano che fosse fuori di sé. Quel 'fuori di sé' segnò anche l’inizio di una delle avventure più straordinarie della storia umana.

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Molto tempo prima, la storia del popolo di Israele iniziò quando Abramo ricevette un comando: «Vattene dalla tua terra » (Gn 12), lascia la tua terra. Ubbidì e divenne un errante, e tutta la Bibbia è irrorata dalla ricordo nostalgico di quel padre fuoriuscito: «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). La vita fuori di sé. Una filosofia dell’avventura (Marsilio, pagine 256, euro 18) è il titolo del libro di Pietro Del Soldà, noto anche per l’attività di conduttore a Radio3. Un saggio di filosofia narrativa, cioè riflessioni e ragionamenti filosofici narrati sotto forma di racconto, di storie di personaggi noti e meno noti, classici della filosofia, storici e geografi, dove le idee dei pensatori si intrecciano con i dialoghi dei personaggi delle loro opere. Non sono racconti semplici, ma anche i concetti più densi vengono addolciti dalla bella prosa e dall’ottimo ritmo narrativo.

Il primo capitolo è molto suggestivo, ma per gustarlo con profitto andrebbe riletto dopo essere arrivati alla fine del libro, perché le varie storie narrate contengono idee e dettagli che consentono di capire e apprezzare le tre coordinate del saggio: schiacciati sul presente, l’io tiranno, la trappola delle aspettative. Questo primo capitolo contiene poi delle frasi particolarmente efficaci, che nutrono l’intero saggio. Tra queste una domanda che è anche la prima coordinata per orientarci nel viaggio: «Possiamo sottrarci all’egemonia dell’Io, che ci tiene 'al sicuro' dentro il suo guscio privato e sopprime il desiderio d’altrove?». Coi libri che ci coinvolgono nel profondo ci si sente avvolti da un continuo flusso di emozioni. In queste letture non ha molto senso quindi domandarsi dove si trovi il centro drammatico del testo perché ogni capitolo termina lasciandoci il forte desiderio di continuare la lettura. Così dopo essersi immersi nella battaglia di Maratona narrata da Erodoto, vinta dai greci perché ebbero la capacità di uscire e andare incontro ai persiani in campo aperto (il loro vero nemico non era Dario ma la tentazione della stasis), ci sembra di aver capito tutto dell’uscire fuori di sé e dell’avventura. E invece l’avventura continua con le imprese di Platone a Siracusa commentate dalla sua (forse) stupenda Lettera Settima, un’altra 'uscita' dalle parole verso l’azione politica, e lì scoprire che «l’avventura filosofica e l’avventura politica sono la stessa avventura». Quindi la storia e le storie straordinarie di Kapuscinski che si intrecciano con Le storie di Erodoto. E poi ancora Montaigne e la cattiva maestra ’abitudine’, i viaggi di Von Humboldt, figura molto simpatica a Del Soldà, e le avventure dell’unica donna protagonista del libro: Isabelle Eberhardt.

Il picco narrativo è forse nel capitolo dedicato a Le Mani sporche, la grande e controversa opera teatrale di J.P. Sarte rappresentata a Parigi nel 1948. La storia del suo protagonista, Hugo Berine, serve a Del Soldà per svelarci la propria filosofia dell’avventura. Quel giovane intellettuale, borghese e comunista, sente di vivere «dentro una scenografia », in un mondo di parole, ed è attratto dall’azione politica, dall’idea di lasciare il suo mondo di carta ed entrare nel mondo vero. Commenta Del Soldà: «Finché non ci si avventura nella vita vera, finché non s’infrange quel maledetto diaframma che separa le parole dalle cose e che isola l’intellettuale disimpegnato, non c’è nulla che valga la pena d’esser vissuto». Una frase il cui senso dipende da cosa intendiamo per 'intellettuale disimpegnato', perché se il solo impegno dell’intellettuale fosse quello politico, escluderemmo dalla vera avventura molti poeti e troppi artisti, e faremmo male. Un dialogo centrale di Le mani sporche è quello tra Hugo e Hoederer, il capo del partito proletario, che poi Hugo finirà per uccidere e così uscire dalla scenografia e iniziare a vivere davvero: «Hugo: 'Sono entrato nel Partito perché la sua causa è giusta, e ne uscirò quando cesserà di esserlo. Quanto agli uomini, non m’interessa quello che sono, ma quello che potranno diventare'. Hoederer: 'Tu non ami gli uomini, Hugo, tu non ami che i princìpi… Io invece, amo gli uomini per quello che sono, con tutte le loro porcherie e tutti i loro vizi… La tua purezza assomiglia alla morte'». L’intellettuale con 'le mani pulite' non ama gli uomini per ciò che sono ma 'per quello che potrebbero diventare', ama un uomo astratto, quindi non ama nessuno, alla fine neanche se stesso. Solo le mani sporche sanno amare, quelle che lasciano le idee e si gettano nel pantano della realtà. E qui torna ancora la Bibbia. Quando un gruppo di scribi ebrei definì il canone biblico, il criterio che scelsero per considerare un libro ispirato fu, paradossalmente, la capacità che quel testo aveva di sporcare le mani: «Rabbi Giuda dice: 'Il Cantico dei cantici e Qoelet sporcano le mani'» (Mishnah Yadayim 3,5). I libri invece troppi lontani dalla storia e troppo preoccupati di angeli e demoni non furono inclusi nel canone perché, appunto, non sporcavano le mani. La storia vera sporca le mani, e questa sporcizia buona ci fa più umani. Il mondo delle ideologie, atee e cristiane, è pieno di mani pulite che non amano nessuno veramente, ma solo principi e idee, anche quando queste idee e principi si chiamano Gesù e Dio: se l’amore per gli esseri visibili non diventa sporcarsi le mani nelle fogne e nei peccati umani, è autoinganno e illusione perfetta.

Molto forti, belle e tremende sono le pagine di De Soldà sulle due grandi categorie di Sartre, rilette e inserite creativamente nel suo discorso: l’engagement e lo scacco ( echec). L’engagement, l’impegno politico dell’intellettuale, sono le mani sporche che amano gli uomini e le donne concreti contrapposte alle mani pulite. Lo scacco è il destino inesorabile dell’engagement: «Lo scacco, la sconfitta, è la condizione inaggirabile di ogni impresa umana». È l’esito di ogni engagement: «È la stessa cosa ubriacarsi in solitudine e guidare i popoli». Una frase, questa, che ha colpito molto Del Soldà, colpisce molto anche noi e ci disturba. Per questo l’autore cerca di trovare nell’ultimo Sartre un superamento di questa tesi molto simile a Qoelet o Leopardi, riuscendoci (a mio dire) solo in parte, quando rintraccia nel Sartre più maturo l’idea che «lo scacco è la negazione della negazione, affermazione della trascendenza, rifiuto della complicità col mondo, dunque innocenza». E Del Soldà commenta: «Prendere il largo», e così ci svela dove si trovi per lui lo scacco dello scacco della vita: «Lo scacco come apertura… La partenza, l’arrischiato avventurarsi è il passaggio decisivo verso l’unico possibile compimento dell’essere umano. Un compimento che però coincide anche, inesorabilmente, con la sua sconfitta». E aggiunge: «Questa sconfitta non è un motivo per lasciar perdere, per non impegnarsi, per ubriacarsi in solitudine… è la forma che rende tragica e bella l’esistenza». Forse bella perché tragica, ma la tragedia non ha una soluzione buona: è scelta tra due mali. È difficile portare fuori Sartre dal suo capolavoro L’Essere e il Nulla, fargli davvero superare l’equivalenza tra una vita trascorsa ad ubriacarsi e una passata a condurre popoli. Non c’è riuscito, forse, neanche Sartre, anche se il lavoro principale di molti grandi autori maturi è liberarsi dalle idee tremende del giovane autore che sono stati, un lavoro però che finisce in uno scacco. Nessuna impresa si compie, perché l’incompiutezza è semplicemente la condizione umana: Mosè non entrò nella terra promessa, il liberatore dalla schiavitù vide il popolo attraversare il Giordano ma lui terminò la vita fuori della terra che aveva sognato e per la quale si era impegnato per tutta la vita, in uno scacco tanto immenso quanto generativo di futuro.

Leggendo il libro nasce fin dalle prime pagine l’attesa di un protagonista che dovrebbe esserci e non arriva: l’Ulisse dantesco. Arriva solo alla fine, ma per essere subito superato da un Ulisse, altrettanto grande e figlio dell’Ulisse di Dante: quello di Nikos Kazantzakis. Anche il suo Ulisse, una volta tornato a Itaca, riparte per un ultimo viaggio, esce da sé, dopo aver detto ai compagni del suo folle volo queste parole: «Fate scivolare la nave in mare prima dell’alba, poi salutate la patria, ditele addio per sempre… perché all’alba partiamo per il viaggio senza ritorno». Nelle ultime righe Del Soldà dona a Ulisse nuovi compagni: «Piace pensare che a bordo ci siano posti e viveri per il vecchio Erodoto, per Platone non più diretto a Siracusa, per Hugo Marine, per il buon Montaigne, per Alexander Von Humboldt, per Isabelle Eberardt, per Kapuscinski, per Corto Maltese e per tutti coloro che sono convinti d’avere nell’avventura il proprio destino».

 

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Agorà - Uscire dalle sicurezze dell’io per aprirsi agli altri, mettere alla prova le idee: un libro di Del Soldà sul segreto dell’avventura e della vita che costruisce futuro e relazione

di Luigino Bruni

pubblicato su Agorà di Avvenire il 26/07/2022

«È fuori di sé» (Mc 3,21). Con questa espressione, in greco existemi, i familiari di Gesù di Nazaret cercano di riportarlo a casa, perché, appunto, pensavano che fosse fuori di sé. Quel 'fuori di sé' segnò anche l’inizio di una delle avventure più straordinarie della storia umana.

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Solo le mani sporche sono capaci di amare

Solo le mani sporche sono capaci di amare

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Sacra Scrittura e psicoanalisi. Dalla Creazione a Noè, l’Antico Testamento come strumento «per comprendere meglio la psicoanalisi». Un lavoro vasto e fondativo, forse arbitrario ma stimolante. Assenti però i profeti e le donne  

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/06/2022

Il lavoro di Massimo Recalcati sui testi biblici è molto importante. È tra le innovazioni culturali più significative del panorama culturale contemporaneo, non solo italiano e non solo negli studi di psicoanalisi. La Bibbia ha sempre ispirato l’arte, la letteratura, la poesia e la filosofia; nella modernità ha influenzato anche le scienze umane e sociali. Anche Freud, ebreo, anche Lacan, il maestro di Recalcati, hanno attinto dal mondo biblico. Nell’opera di Freud un posto centrale lo occupano i suoi studi su "Mosè e il monoteismo", anche se, lo sappiamo, Freud e la sua scuola hanno fatto ricorso soprattutto alla mitologia greca.

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La Legge della parola (Einaudi. Pagine XIV - 386. Euro 21,00), che in parte raccoglie, sintetizzati, lavori precedenti (quelli su Caino e Giobbe li ho recensiti nel 2021 su queste colonne), è un’opera molto ambiziosa, un esercizio arduo.

Il tema centrale del libro è il ruolo della Legge e della Parola nella Bibbia e nella psicoanalisi. Il sottotitolo del libro è suggestivo ma in parte fuorviante. Le radici bibliche della psicoanalisi farebbe infatti pensare a un lavoro di messa alla luce di radici di una disciplina che erano già lì, nascoste e al buio, sottoterra, come suggerisce la metafora vegetale. Ma il libro parla d’altro, e ce lo dice lo stesso autore: “Si tratta di leggere le Scritture per comprendere meglio la psicoanalisi… annodare i fili di due discorsi (quello della Torah e quello della psicoanalisi) considerati eterogenei e radicalmente alternativi” (p. vii). Quindi il suo non è un lavoro sulle radici ma un intrecciamento di due fili - e, poi, gli studi di Freud e Lacan ci dicono che i due discorsi non erano, dall’inizio, così "eterogenei e alternativi". In realtà, Recalcati fa davvero un lavoro di fondazione della sua psicoanalisi a partire dai miti biblici, ma il suo è un lavoro sulle radici della sua propria versione della psicoanalisi, che ormai è diventato negli anni qualcosa di più di una applicazione e sviluppo della teoria di Lacan.

Recalcati, forse, è arrivato alla Bibbia, alla parola biblica, partendo dallo studio del linguaggio nella teoria di Lacan, dove occupa un posto centrale, probabilmente il primo posto. La centralità del linguaggio porta Lacan a dire che “ciò che distingue in modo particolare il Dio degli ebrei è … che è un Dio che parla.” (p. 4). Nel primo capitolo della Genesi, infatti, Dio crea dicendo, parlando, pronunciando parole: “E Dio disse …”. La parola creatrice opera quello che Recalcati chiama Il primo taglio: Dio creando si ritira dalla creazione, si separa da esso, "taglia" la creazione da Se stesso. Hoelderlin aveva espresso, poeticamente, questo taglio con uno dei suoi versi più belli: “Dio ha creato l’uomo come il mare crea i continenti: ritirandosi”. Quindi il mondo resterebbe “senza Dio” (p. 13), perché “l’atto della Creazione è l’atto di un taglio che allontana e separa la creatura dal suo Creatore… Il Dio biblico compie un passo indietro rispetto a se stesso separandosi da ciò che ha generato” (p. 12).

Una chiave di lettura che piace molto a Recalcati (e a Lacan), che ha costruito la sua teoria della paternità-figliolanza attorno al tema della necessaria separazione, la sola che garantisce il non-incesto. Quando però arriva a scrivere che “Dio non può determinare il corso della storia perché la storia è fatta dagli uomini e non da Dio. È, a rigore, la morte definitiva di ogni teodicea” (pp. 14-15), facciamo più fatica a seguirlo. Il rapporto tra Dio e la creazione non termina nel capitolo due della Genesi; continua con l’Adam, Caino, Noè e poi Abramo. L’idea biblica centrale di Alleanza dice il contrario: Elohim sceglie un popolo per portare la storia umana verso un compimento, per trasformarla. Il Dio biblico non è assente nella storia, ma opera tramite gli uomini e le donne che sono dentro un rapporto di alleanza. Per non parlare dei profeti, nei quali Dio manda parole agli uomini per cambiare il mondo, per non parlare dell’apocalittica e di Dio come ‘giudice del mondo’ (Dan 7), di Cristo e del Paraclito.

Recalcati continua con un secondo taglio, che rintraccia ancora nei primi capitoli della Genesi, un taglio che “interviene a separare la creatura dal miraggio della sua totalizzazione” (p. 16). Qui in gioco c’è un’altra categoria chiave nel sistema di Recalcati-Lacan: la gestione del desiderio. Nel capitolo due della Genesi, l’Adam (l’umano, il terrestre) diventa Adamo, il maschio, e dopo di lui arriva la donna, Eva, da una costola di Adamo. Qui Recalcati scrive alcune delle pagine più belle del libro: “Il mito della costola perduta è il mito d’origine del desiderio umano: ricercare nell’altro la parte più fondamentale di me stesso” (p. 20).

Anche Lacan aveva discusso il mito di Adamo e la sua costola, e “questa parte perduta che causa il nostro desiderio è chiamata da Lacan l’oggetto piccolo (a)” (p. 20). Una Eva plasmata con una parte del corpo di Adamo piace molto a Recalcati, e ci costruisce un discorso affascinante: “La perdita di una parte del proprio essere - la costola - introduce una mancanza nel soggetto che attiva il suo desiderio verso l’altro il quale, essendo attraversato dalla stessa mancanza, non può che, a sua volta, dirigersi verso l’altro ma senza che ci sia alcuna possibilità per entrambi di colmare in modo definitivo la mancanza che ciascuno porta con sé” (p. 21). Da qui la sua tesi principale sul rapporto sessuale: “L’impossibilità di vivere la relazione con l’altro come una semplice unificazione, un rispecchiamento tra eguali, una simmetria senza differenza” (p. 21).

L’esperienza della mancanza è allora costitutiva dell’eros e della relazione uomo-donna. Il desiderio dell’altro è inappagabile, perché la costola non torna più ad Adamo, è una mancanza incolmabile. Mentre per Platone: “l’eros è la ricerca dell’intero”, per Recalcati-Lacan il desiderio dell’altro è inappagabile, resta una ferita, una indigenza: “Il desiderio umano ricerca la propria parte perduta nell’Altro senza però poterla mai trovare. Eva, come indice dell’alterità dell’Altro, pur sorgendo dalla costola di Adamo, non potrà mai essere recuperata nel suo essere eteros dal desiderio di Adamo”. Per Platone l’eros è il ritorno all’uno e all’intero, per Recalcati “è proprio questa differenza a definire l’essere dell’umano in quanto tale ordinando il suo desiderio attorno a un punto di assenza, a una mancanza d’essere fondamentale” (p. 22-23).

Un discorso affascinante e convincente. Il problema riguarda il rapporto tra questa teoria psicoanalitica e il testo biblico. È difficile fondare questa idea di Recalcati sul mito di Adamo ed Eva, come è difficile tenere assieme "i due tagli", che si riferiscono a due tradizioni diverse presenti nel testo della Genesi. I versi 1.1-2.3 (quelli del "primo taglio") appartengono alla cosiddetta tradizione sacerdotale, più recente e nata dopo l’esilio babilonese, mentre i versi 2.4-3.24 (quelli del "secondo taglio") furono scritti da un autore/autori con altri simboli, con un’altra antropologia, con un’altra idea del rapporto uomo-donna.

Il messaggio del capitolo secondo della Genesi riguarda, essenzialmente, la reciprocità e l’uguaglianza sostanziale tra Adamo ed Eva. La "creazione" di Eva nasce dal seguente "desiderio" di Dio: “Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (2,18). L’espressione ebraica che noi traduciamo "qualcuno che gli corrisponda" o "che gli sia pari" è ezer kenegdò che significa letteralmente: "qualcuno con cui incrociare gli occhi alla stessa altezza". All’uomo non bastava lo sguardo verso il basso (animali) né quello verso l’alto (Dio): c’era bisogno di uno sguardo orizzontale tra pari. La gioia di Adamo dopo il risveglio sta nell’aver trovato qualcuno che gli è finalmente pari perché “questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne” (2,23).

Ciò che sta a cuore sottolineare al testo è proprio la parità e l’uguaglianza, ed è veramente difficile ritrovare nella costola il segno della mancanza e del desiderio inappagabile, perché tutto dice il contrario: con Eva, Adamo ha finalmente appagato quel desiderio di uguaglianza che prima restava inappagato. Questa reciprocità non è solo la nota dominante del Cantico dei cantici (p. 307), è anche la nota della Genesi, sia nel primo capitolo ("maschio e femmina lo creò": Gn 1,27), sia nel mito di Adamo ed Eva.

Non voglio dire che la visione di Recalcati sia meno interessante di quella dell’autore biblico, di quella di Platone o di Freud; dico soltanto che è problematico fondarla sul testo biblico. Resta invece possibile offrire una lettura nuova di quegli antichi miti, un’operazione legittima e, in questo caso, generativa (suscita molte idee). Spesso gli autori originali e creativi, come Recalcati, che approdano al testo biblico (o a un altro testo classico) con una teoria già formata, difficilmente riescono a resistere alla tentazione di usare il testo biblico come "appiccapanni" (come usava dire Luigi Einaudi) del proprio bel vestito. Un’altra tentazione simile la incontriamo quando Recalcati discute il significato della parola ebraica hevel in Qoelet: lui la traduce "soffio" per eliminare la “dimensione moralista” della parola latina "vanità", dimenticando che vanitas non ha nulla di moralistico: proviene dal sanscrito vahana, cioè vento e soffio (p. 261).

Molto suggestiva è anche la lettura del cosiddetto "peccato originale" o trasgressione di Adamo ed Eva (e poi quella di Caino), nel capitolo tre della Genesi. Riprendendo una tesi di san Paolo, Recalcati scrive che “il paradosso è che è proprio la nascita della Legge - l’interdizione di Dio - a determinare la nascita del desiderio umano di trasgredire la Legge” (p. 23). Quindi “la Legge separa la vita umana dalla sua immediatezza animale” (p. 25), dominata dall’istinto.

La Legge, ponendo la proibizione di mangiare da tutti gli alberi tranne uno, opera una sorta di "terzo taglio" (anche se Recalcati non lo chiama così), quello dal tutto; infatti, “la possibilità generativa del desiderio dipende dal riconoscimento dell’impossibilità di essere o di fare Uno. L’umano non è padrone del suo fondamento, non può costituirsi come un ‘tutto’” (p. viii). Perché - e questo è una delle intuizioni più belle del libro - “la vera perversione del desiderio umano non è la spinta a trasgredire la Legge, ma quella che si regge sull’anelito dell’uomo ad assimilarsi a Dio, sulla spinta alla deificazione dell’umano, al porre la propria legge al di là della Legge” (p. 26). Infatti, la creazione di un limite non nega “la possibilità del godimento ma la delimita”, interdice soltanto l’accesso a “un godimento totale, assoluto, senza mancanza, non per privare la vita del godimento ma per consentirle l’accesso a un godimento 'non tutto’” (pp. 28-29). Perché il godimento umano non può godere di tutto, o, con una bella espressione ripresa da Beauchamp: “può godere di tutto, tranne tutto” (p. 29).

Il desiderio di godere di tutto è quello che Freud chiamava desiderio incestuoso, che se assecondato condurrebbe alla distruzione delle società. La Legge dice che ci sono desideri che non vanno soddisfatti, che esiste la categoria dell’impossibile. Solo Dio non conosce l’impossibile, e allora ogni tentativo di negare l’impossibile significa voler "diventare come Dio" (il logos del serpente). Non riconoscere il limite dell’impossibile, e quindi entrare nel registro relazionale incestuoso, significa cedere al godimento mortale, assecondare la pulsione di morte: “è solo preservando l’esperienza dell’impossibile - ‘non mangiatene’ - che diviene possibile l’accesso ad un godimento non mortale ma vitale” (p. 32). La Legge dice che “non è possibile sapere tutto, godere di tutto, avere tutto” (p. 33), e che “farsi simile a Dio è la follia più grande”. Trasgredire la Legge nella Genesi non è la ricerca di un godimento nevrotico, ma significa negare la propria finitudine, il limite, “cancellare l’impossibile dall’esperienza umana” (p. 38) - qui si aprirebbe un discorso sul transumanesimo, ma non lo facciamo

La parte del libro che ho più apprezzato è comunque la lettura che Recalcati fa della storia di Noè, soprattutto dell’ultima parte, quando Noè, terminato il suo compito di salvezza, pianta una vigna, beve il suo vino, si ubriaca, e si denuda nella sua tenda (Gn 9,21). Recalcati sottolinea che il vino di Noè “è anche oggetto di godimento”. L’elemento cruciale è la paternità di Noè. Noè “è anche uomo e, come tale, un essere pulsionale”. Da qui la domanda decisiva: “Un padre, un uomo ‘giusto’, ‘irreprensibile’, non ha forse il diritto a godere?… Non ha forse il padre diritto di coltivare un proprio godimento?” (p. 106).

Già Freud vedeva il padre come soggetto della funzione normativa e come icona della Legge ma anche soggetto di godimento. Per Lacan, poi, “il godimento del padre non è affatto in contrasto con la sua funzione normativa, ma è, al contrario, proprio ciò che rende credibile, che rende il padre stesso davvero degno di testimonianza” (p. 106). E quindi “è necessaria una versione paterna del godimento (père-version) affinché il volto della Legge sia reso umano e associato a quello del desiderio”. E poi aggiunge un elemento decisivo: “Se invece il padre si limitasse a rappresentare solo la dimensione normativa della Legge, la forza della trasmissione del desiderio da una generazione ad un’altra si rivelerebbe insufficiente. Questo significa che ogni padre rappresenta la Legge senza però mai coincidere con la Legge”.

La coincidenza Padre-Legge dipende decisamente dal fatto che al padre non si permette di avere un godimento. Cam è il solo che tra i figli di Noè che non accetta il godimento e il limite del Padre: entrò nella tenda, “vide la nudità di suo padre e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori” (Gn 9,22). Cam si scandalizza di un padre ubriaco e fragile, e Noè lo maledice (9,25). Recalcati commenta: “Il carattere umano e non divino del padre può suscitare scherno e disprezzo solamente in quei figli che vorrebbero preservare la sua immagine pura e idealizzata rigettando la sua esistenza reale” (p. 109).

La trasmissione della Legge e dell’eredità dai padri ai figli funziona solo quando i figli accettano che il padre possa restare immagine della Legge pur mostrando la sua umanità fragile e imperfetta; quando invece l’etica del padre coincide con la Legge che annuncia, nessuna trasmissione di eredità funziona perché nessun figlio può essere all’altezza di un padre-Legge: “coloro che rifiutano di assumere il non-essere Dio del padre, il suo non essere un padre ideale, ostacolano la trasmissione dell’eredità paterna nelle generazioni” (p. 110). All’origine di eredità collettive di comunità e movimenti spirituali che non sono riusciti a passare dal padre ai figli, ci sono dei ‘Cam’ che hanno idealizzato il padre, non hanno accettato il suo limite e la sua umanità intera, e così hanno impedito che la sua eredità diventasse patrimonio (munus/dono dei padri) nelle generazioni successive.

Il limite della paternità che Recalcati vede in Noè in realtà è comune a tutti i padri dell’Antico Testamento, dai patriarchi a Davide e Salomone, che sono stati capaci di trasmettere la Legge e la Promessa non ‘nonostante’ la loro imperfezione ma ‘grazie’ ad essa. E qui si apre un ultimo discorso.

Nella prima pagina del suo libro, Recalcati pone una nota editoriale dove dice che questa ricerca sulle ‘radici della psicoanalisi’ continuerà con i Vangeli. Mi auguro solo che prima di lasciare l’Antico Testamento Recalcati continui a lavorarvi, perché il suo lavoro fondativo resta parziale e incompleto. Sono due i grandi assenti: i profeti e le donne.

La Legge senza i profeti non è la Legge biblica: “La Legge e i profeti”, amava dire Gesù per indicare l’eredità d’Israele. La Legge senza profezia è troppo poco, e dà una visione incompleta della stessa legge e dell’antropologia e dell’umanesimo biblico. L’assenza dei profeti si nota troppo. Manca Ezechiele e la sua diversa versione del ‘peccato originale’, (Ez 25), manca Osea, un profeta essenziale per capire una dimensione essenziale del rapporto uomo-donna. In Osea Recalcati avrebbe poi trovato un’altra versione della lotta di Giacobbe con l’angelo (di cui si occupa nel capitolo 5), risalente a una tradizione (forse) più antica di quella della Genesi, dove a vincere il combattimento non è Giacobbe ma l’angelo di Dio, e Giacobbe, fragile e sconfitto, piange e implora.

I profeti hanno un’altra idea della Legge, e la cambiano. Il secondo Isaia, profeta dell’esilio, violando la legge di Mosè che vietava agli eunuchi l’accesso nel tempio, aveva osato scrivere questi versi splendidi: “Così dice il Signore: riguardo gli eunuchi ... io concederò loro nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome, migliore di quelli dei figli e delle figlie. Gli stranieri ... li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera” (Is 56,4-7). Eliseo, poi, moltiplica l’orcio d’olio della donna schiava, e le dice: “Va’, vendi l’olio e paga il tuo debito” (2 Re 4,7). Per la Legge gli schiavi dovevano aspettare sette anni per tornare liberi; per i profeti, invece, gli schiavi devono essere liberati qui ed ora. La Legge di Mosè sui debitori, diversa e più umana, non sarebbe nata senza la profezia. La profezia non è mai soddisfatta della Legge, perché nessuna legge può essere all’altezza della terra promessa. La legge del Regno dei cieli è la legge di Mosè e dei profeti, insieme.

Mancano poi le donne, spesso donne nascoste tra le righe, che sono co-essenziali per capire l’umanesimo e l’antropologia della Bibbia. Manca il rapporto stupendo tra Rut e Noemi, Abigail e la sua diversa intelligenza relazionale, la pietas di Rispa che vegliò per mesi i corpi dei suoi figli impiccati, le regine Gezabele e Atalia e il loro rapporto perverso con il potere, non c’è la ‘strega di Endor’, che con il suo vitello grasso offerto ad un Saul depresso e disperato diventa il ‘padre misericordioso’ dell’Antico Testamento. Mancano Ester e Giuditta, manca Tamar, la sorella principessa violentata, la figlia di Jefte sacrificata dal padre per una assurda fedeltà ad un voto, la concubina violentata dai beniaminiti che divenne una lettera di carne.

È vero che Recalcati dedica un bel capitolo (VIII) al Cantico e quindi a quella relazione uomo-donna, ma è troppo poco per una fondazione psicoanalitica della relazione sessuale nella Bibbia. La Bibbia è piena di donne, che, se prese tutte assieme ci rivelano una dimensione co-essenziale dell’umanesimo e dell’antropologia biblica. Senza queste molte donne diverse e stupende, la donna nella Bibbia è troppo piccola: non bastano Eva e la ragazza bruna del Cantico. In ogni buon libro manca qualcosa, che è buono anche perché incompleto. Ai recensori evidenziare la parte mancante, è il loro lavoro, altrimenti sarebbero tristi compilatori di schede bibliografiche o una inutile schiera di ruffiani.

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Sacra Scrittura e psicoanalisi. Dalla Creazione a Noè, l’Antico Testamento come strumento «per comprendere meglio la psicoanalisi». Un lavoro vasto e fondativo, forse arbitrario ma stimolante. Assenti però i profeti e le donne  

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/06/2022

Il lavoro di Massimo Recalcati sui testi biblici è molto importante. È tra le innovazioni culturali più significative del panorama culturale contemporaneo, non solo italiano e non solo negli studi di psicoanalisi. La Bibbia ha sempre ispirato l’arte, la letteratura, la poesia e la filosofia; nella modernità ha influenzato anche le scienze umane e sociali. Anche Freud, ebreo, anche Lacan, il maestro di Recalcati, hanno attinto dal mondo biblico. Nell’opera di Freud un posto centrale lo occupano i suoi studi su "Mosè e il monoteismo", anche se, lo sappiamo, Freud e la sua scuola hanno fatto ricorso soprattutto alla mitologia greca.

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Recalcati e la Bibbia: una lettura capace di generare

Recalcati e la Bibbia: una lettura capace di generare

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Agorà - Fra pietas e vergogna, abisso e risurrezione, le vicende di persone e cose che hanno radici nei cuori, guardando il futuro e la nostra storia. I racconti di Elena Loewenthal  

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/06/2022

Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo dal futuro (La Nave di Teseo, pagine 160, euro 16), è una piacevole, profonda e ricca lettura. È una raccolta di brevi racconti, creazioni letterarie che, come spiega l’autrice, partono da alcuni fatti stilizzati realmente accaduti. Di fronte a un’opera narrativa, non è mai un buon esercizio chiedersi se i fatti narrati siano reali, perché è la narrazione a rendere reali i fatti: per questo ogni narrazione è creazione di realtà, non di fiction. Ciò che accomuna i racconti brevi è il loro ambiente: sono storie costruite attorno a un Monte dei pegni, quindi prestiti di denaro in cambio di deposito di cose, di oggetti. Storie di oggi, nostre contemporanee, ma dal sapore antico, lo stesso sapore e colore di un film neorealista in bianco e nero o, per chi ne ha sentito parlare, dei vecchi banchi ebrei o cristiani tra Medioevo e Modernità. Storie di cose e di persone, dove non è facile capire se parlano più e meglio le cose o le persone perché, in realtà, parlano assieme, sono storie di dialoghi, e le parole più belle spesso sono quelle mute degli oggetti: «Il Monte dei pegni è un repertorio inesauribile di storie».

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Elena Loewenthal è nota come scrittrice e ottima traduttrice di letteratura ebraica, con quella capacità narrativa di far vedere le cose che narra che forse solo gli ebrei possiedono, almeno in una misura sovrabbondante. E così, in questo testo, ci fa vedere Mario, fotografo stagionale, che impegnava la macchina fotografica e l’attrezzatura d’inverno e la riscattava in primavera con i primi acconti sui servizi matrimoniali. Ci racconta delle pellicce della bella Milly, «che si chiamava Giuseppe», la storia felice di Giorgio con la sua fidanzata Evelina. Lo vediamo mentre Giorgio porta al Monte l’orologio della nonna per avere in cambio qualcosa per sopravvivere. Era la sua unica eredità che la mamma gli aveva infilato nella tasca della giacca mentre scappava di casa per poter fare il poeta, e che un giorno finisce per vincere il Premio Strega: «L’orologio e il Monte dei pegni gli avevano salvato la vita. A lui, a Evelina, alla sua poesia». Molto bello l’episodio di Viola, la flautista. La madre porta al Monte il flauto d’oro del nonno, dicendole «tuo nonno sarebbe contento». Lo fa per poterle pagare il master in Canada. Risparmiando mese dopo mese dalla pensione, alla fine il flauto d’oro, anche questo, sarà riscattato. Viola torna dal Canada: «Lasciamola ancora un momento con il flauto d’oro», dicono i suoi genitori: «La trovarono proprio lì, davanti alla custodia di panno nero aperta, nel buio del salotto spezzato dalla luce d’oro del flauto, che pareva un piccolo sole precipitato lì, dentro casa loro, a salutare il ritorno di Viola e del flauto d’oro. Per sempre». Storie di riscatti, storie di oggetti morti nel deposito del Monte e poi risorti alla fine di storie d’amore - anche i nostri oggetti amati entrano nelle nostre resurrezioni, dopo essere saliti sui nostri golgota. Storie di poveri, di molte donne e della loro tipica pietas, madri e figlie. Poveri d’oggi, ai quali non manca tutto, manca qualcosa, ma un qualcosa che può rendere impossibile svolgere la vita che desiderano, una impossibilità che è sempre la prima e più vera definizione di cosa sia la povertà. Molta povertà, molta vergogna. Perché la povertà, ogni povertà, prima di essere intesa oggi come colpa (attraverso la meritocrazia), è sempre stata una vergogna. La povertà si vede, è faccenda di occhi. La vediamo noi e la vedono gli altri. Non si esce da nessuna povertà senza attraversare l’onta del mare della vergogna, se riusciamo senza restare sommersi durante l’attraversamento: «Il Monte dei Pegni soltanto il nome fa vergognare un po’, no? Ci si sente, come dire, dei poveracci, dei disperati». Essere poveri spesso è brutto, essere considerati, dagli altri e da noi stessi, poveracci è bruttissimo.

Un piccolo libro a tratti capace di commuovere profondamente. Peccato per le sue due introduzioni. Quella di Luca Ricolfi fa quello che chi accetta di scrivere una prefazione a un libro di un altro o di un’altra non dovrebbe mai fare: parlare dei propri libri, perché oltre a non aggiungere nulla al libro che presenta, impoverisce anche il proprio libro. L’introduzione di Gianluca Garbi, amministratore delegato del gruppo Banca Sistema, è invece un festival di errori e di imprecisioni storiche. Diversamente da quanto dice l’Amministratore, i banchi dei pegni non li hanno inventati gli ebrei, c’erano già molto prima, gestiti da cristiani, quasi sempre su condotta comunale. Il prestito su pegno era precedente sia ai Monti di pietà dei francescani sia a quelli degli ebrei, perché il pegno era un istituto vigente nel diritto civile medioevale che sopravviveva accanto a quello canonico - va sempre tenuto presente che l’usura era vietata in genere dal diritto canonico, quindi per ecclesiastici, molto meno dal diritto civile e dagli statuti comunali. Diversamente da quanto afferma Garbi, i Concili avevano condannato (canonicamente) l’usura già con l’inizio del secondo millennio, secoli prima il concilio Lateranense del 1515, che è importante invece per aver ammesso il tasso d’interesse nei Monti di pietà, dove sulla natura onerosa del prestito era in corso da mezzo secolo una grande polemica, già a partire dal primo monte di Ascoli del 1458 (non quello di Perugia, un’antica tesi ripetuta anche da Garbi). Inoltre, l’impegnare oggetti era prassi molto antica, perché in un’economia non monetaria le cose erano mezzi di pagamento a disposizione della gente, e non solo dei poveri. Anche nei banchi che prestavano a pegno si realizzava una sorta di meticciato tra prestito e vendita: la somma era sì un acconto in vista di una restituzione del bene impegnato o investito, ma era anche una sorta di vendita di quel bene, una permuta cosa versus moneta. Anche i monasteri conoscevano varie forme di prestito, e, più tardi, nota è la 'banca multinazionale dei Templari', che operava anche il prestito su pegno.

Nei secoli XII-XVI il prestito su pegno divenne una pratica molto diffusa in tutta Europa, e gli italiani (Lombardi, Toscani) erano i maestri. Vi ricorrevano tutti, ricchi soprattutto, in un mondo con molta ricchezza mobile e poco denaro in circolazione. Il diritto romano conosceva il prestito su pegno, che era, insieme all’ipoteca e alla fideiussione, il principale mezzo di garanzia. Durante il primo millennio anche le leggi longobarde e dopo il VI secolo quelle visigote, nelle quali erano presenti vestigia di diritto romano (Codice di Giustiniano), conoscevano il prestito su pegno (cf. il cosiddetto Formulario di Angers), dove ufficialmente non si menzionavano interessi ma, di fatto, erano chiesti in contratti collaterali e in genere tenuti segreti. Nei secoli delle invasioni barbariche tutte le pratiche commerciali e finanziarie ebbero uno stallo, ma appena la vita sociale ripartì col nuovo millennio riprende anche l’attività di prestito su pegno, svolta essenzialmente da lombardi, toscani e dopo il duecento dagli ebrei. Si ha traccia da un Monte dei pegni a Frisigen, Baviera, nel 1198, quindi a Salins (Francia), nel 1356 e nel 1367, il vescovo Michele di Norbhburg, creò un fondo di mille marchi per prestiti su pegno ai poveri. Solo dal Trecento il prestito su pegno viene gestito prevalentemente, non esclusivamente, dagli ebrei, sebbene alcuni ebrei prestassero regolarmente e pubblicamente anche ai comuni e alle diocesi. Questa è la preistoria dei nostri monti dei pegni, ma queste cose l’amministratore Garbi non ce le dice nella sua introduzione che riduce il valore dell’ottimo libro della Loewenthal. Da qui una domanda più generale: a cosa servono le prefazioni quando l’autore è già di per sé un maestro, quando il libro sta benissimo in piedi da solo? Speriamo almeno a coprire i costi di edizione.

 

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Agorà - Fra pietas e vergogna, abisso e risurrezione, le vicende di persone e cose che hanno radici nei cuori, guardando il futuro e la nostra storia. I racconti di Elena Loewenthal  

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 01/06/2022

Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo dal futuro (La Nave di Teseo, pagine 160, euro 16), è una piacevole, profonda e ricca lettura. È una raccolta di brevi racconti, creazioni letterarie che, come spiega l’autrice, partono da alcuni fatti stilizzati realmente accaduti. Di fronte a un’opera narrativa, non è mai un buon esercizio chiedersi se i fatti narrati siano reali, perché è la narrazione a rendere reali i fatti: per questo ogni narrazione è creazione di realtà, non di fiction. Ciò che accomuna i racconti brevi è il loro ambiente: sono storie costruite attorno a un Monte dei pegni, quindi prestiti di denaro in cambio di deposito di cose, di oggetti. Storie di oggi, nostre contemporanee, ma dal sapore antico, lo stesso sapore e colore di un film neorealista in bianco e nero o, per chi ne ha sentito parlare, dei vecchi banchi ebrei o cristiani tra Medioevo e Modernità. Storie di cose e di persone, dove non è facile capire se parlano più e meglio le cose o le persone perché, in realtà, parlano assieme, sono storie di dialoghi, e le parole più belle spesso sono quelle mute degli oggetti: «Il Monte dei pegni è un repertorio inesauribile di storie».

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Storie dal Monte dei pegni fra pietas e vergogna

Storie dal Monte dei pegni fra pietas e vergogna

Agorà - Fra pietas e vergogna, abisso e risurrezione, le vicende di persone e cose che hanno radici nei cuori, guardando il futuro e la nostra storia. I racconti di Elena Loewenthal   di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 01/06/2022 Il libro di Elena Loewenthal, Monte dei Pegni. Un anticipo...
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Note di un cristiano ingenuo in margine al conflitto riacceso dall'invasione russa dell'Ucraina

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/05/2022

«L’effetto naturale del commercio è il portare la pace». Così scriveva nel suo Lo Spirito delle Leggi Montesquieu, rilanciando una idea che girava nel Settecento dei Lumi. Qualche anno dopo, alla fine della sua carriera, l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi commentava con altro tono quella frase di Montesquieu: «Il gran fonte delle guerre è il commercio». E aggiungeva: «Il commercio è geloso, e la gelosia arma gli uomini». Un secolo più tardi, il grande economista inglese Francis Edgeworth definiva l’economia come la scienza che studia gli «scambi pacifici » (1881), perché si occupa dei contratti liberi e non dei rapporti violenti. Più recentemente (nel 1977), un altro economista, Albert Hirschman, aveva ripreso quella antica tesi di Montesquieu e l’aveva declinata in una delle chiavi di lettura più influenti delle scienze sociali contemporanee. Le società di mercato, diceva, sono fondate sugli interessi, quelle antiche e feudali sulle passioni. Il capitalismo avrebbe allora dovuto rendere il mondo più pacifico proprio perché gli interessi economici, razionali e prevedibili, avrebbero sostituito le passioni irrazionali alla base delle guerre (orgoglio, onore, vendetta, patria, nazionalismo ...).

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Questa guerra ci sta dicendo che aveva ragione il triste realismo di Antonio Genovesi, che pur amava il mercato e l’economia quando sono civili e civilizzanti. La società di mercato non ha eliminato né ridotto le virtù belliche, non ha diminuito la produzione delle armi, non ha soppiantato lo spirito militare di conquista. I Paesi più decisi e convinti a rispondere prima di tutto con le armi all’invasione russa dell’Ucraina sono proprio quelli che hanno inventato il capitalismo: Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda. Montesquieu, Edgeworth e Hirschman sono tra le vittime di questa guerra. Con la sconfitta delle loro idee si compie uno dei fallimenti più profondi dell’umanesimo illuminista e occidentale. I nostri capi di governo continuano a utilizzare la guerra come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali (art. 11), e poi gioiscono con intima soddisfazione perché le sanzioni commerciali iniziano finalmente a portare i loro frutti di miseria, di dolore e di morte – per i popoli e per i poveri non certo per i capi, che invece ne sono rafforzati nel consenso. È l’avveramento dell’anti-promessa dell’economia di mercato. 

Forse dovremmo tutti cercare qualche spiegazione diversa di questo enorme fallimento. Una riguarda la selezione delle nuove classi dirigenti. La maggior parte dei manager sono ormai formati dalle grandi agenzie globali di consulenza manageriale (McKinsey, Lloyd, Accenture ...). Né Montesquieu, né Edgeworth e forse neanche Hirschaman potevano sapere che negli ultimi cinquant’anni il capitalismo avrebbe subìto una trasformazione etica radicale. È avvenuta quando la formazione dei manager e dei leader delle imprese e della finanza – che prima si svolgeva nelle fabbriche, nelle scuole tecniche e nelle facoltà di economia e commercio – è stata affidata e poi appaltata alle business school e alle società internazionali di consulenza, i cui linguaggi e mentalità sono sempre più schiacciati sul mondo militare e sempre più lontani dal 'dolce commercio' illuminista. È sufficiente partecipare a un loro corso di strategia d’impresa, vedere gli esperti che si alternano in aula, dare uno sguardo ai giochi di ruolo che propinano nei loro programmi di team building, o tentare un’analisi delle parole-chiave che usano tutte costruite sul registro maschile e sulla competizione intesa come lotta per vincere (loser, perdente: è il nuovo insulto in questo mondo), per accorgersi immediatamente di essere lontani anni luce dalla tradizione della 'civil concorrenza' e sempre più vicini a una accademia militare. La leadership – to lead: guidare, comandare – è diventata un nuovo dogma del capitalismo, dalla dubbia convivenza con la democrazia. Così si legge in uno dei tanti corsi introduttivi di strategia d’impresa: «La strategia è molto più antica di quello che si può pensare. Sun Tzu nel suo libro L’arte della guerra è il primo che è stato in grado di distinguere tra tattica e strategia: le tattiche riguardano le operazioni necessarie per vincere le battaglie, la strategia si preoccupa di vincere la guerra».

Da queste scuole multinazionali non sono uscite soltanto le élite economiche e bancarie, sono emersi anche molti dei nostri politici e dei funzionari della politica. Mezzo secolo di regressione civile ed etica che ha prodotto una classe internazionale di manager tutti simili, che parlano tutti inglese, tutti formati alle stesse virtù performative, strategiche, muscolari, belliche. In molti lo sapevano, in alcuni lo abbiamo anche detto e scritto da tempo; ma ci voleva questa guerra dentro casa per farci vedere con chiarezza che il nostro mercato era stato da tempo occupato dalla logica bellica e militare – è impressionante ascoltare in questi mesi gli esperti di strategia bellica, che nei talk show hanno preso il posto dei virologi (facendoceli rimpiangere), che invece di dire 'soldati' parlano di 'risorse': la tecnica ha sempre cercato di prendere il posto dell’anima, gli strumenti quello della responsabilità, e ci stanno finalmente riuscendo. Non deve stupirci allora che tra gli accademici più entusiasti della linea bellica della Nato ci siano molti miei colleghi economisti, che in genere da giovani erano stati cattolici e/o di sinistra, grazie anche al peso culturale che ha ormai la Teoria dei giochi, sviluppata e cresciuta nell’ambiente della Nasa durante la guerra fredda.

Ma c’è di più, e, per me, di ancora più triste. Questa guerra è anche il fallimento dell’umanesimo cristiano. Dopo duemila anni siamo costretti a prendere atto che il Regno dei cieli è quasi disabitato. Le guerre mondiali del XX secolo avevano generato una stagione di speranza in un tempo nuovo, finalmente cristiano e umano. Sono stati gli anni del pacifismo, del Concilio Vaticano II, dei grandi movimenti cattolici di massa, del dialogo tra le religioni per la pace, l’era dei diritti umani e dei diritti di tutte le specie viventi e della Terra. In tanti abbiamo sperato che il grande dolore delle guerre fratricide, i campi di sterminio e Hiroshima, avessero segnato un punto di non ritorno per la pace. E invece, ascoltando certe voci e certi silenzi e constatando quanto poco ascoltata sia la voce di papa Francesco che continua a invocare invano pace e giustizia, il Regno dei Cieli si sta desertificando, la città del popolo delle beatitudini appare sempre più vuota. In questi mesi, mi capita di leggere la Bibbia e i Vangeli più spesso del solito, e non solo per lavoro. E troppo forte è l’effetto sulla mia anima (e pancia) di alcune frasi, che forse non avevo mai capito: 'Beati i miti, erediteranno la terra', 'Beati i costruttori di pace, saranno chiamati figli di Dio', 'Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri', 'Porgi l’altra guancia', 'Ama il tuo nemico'... Ho riletto la non-violenza estrema della passione e morte di Gesù: 'Padre perdonali'. E da lì sono tornato al comandamento più grande: 'Non uccidere', e a 'Nessuno tocchi Caino'. E infine mi è tornato in mente anche il Corano, dove Abele intuisce che suo fratello lo sta per colpire e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per uccidere te» (Sura 5,28). Ci volevano tremila anni di Bibbia e duemila anni di Cristianesimo per rispondere ad una invasione militare con il mestiere delle armi?! Quale creatività politica ci hanno insegnato Abele, Abigail, Cristo, Francesco, i martiri, i santi, le madri? Ai carri armati abbiamo solo saputo rispondere con altri carri armati, alle bombe con altre bombe, alle mine con altre mine più moderne, al sangue umano con altrettanto sangue umano che non smette di odorare nel suolo della nostra terra. E noi lo consideriamo normale, necessario, magari addirittura giusto. Noi, noi cristiani, che frequentiamo i sacramenti, che facciamo gli incontri sulla Parola di vita, le adorazioni del Santissimo, che mandiamo aiuti umanitari, che accogliamo dentro casa anche i profughi... Non è normale, niente è normale in questa guerra e in ogni guerra: solo cercare la pace è normale, solo far cessare ora la guerra è normale. Questa guerra, e tutte le guerre. Il resto è solo disumanesimo, è anti-cristianesimo, terra al di fuori del Regno dei cieli. La sola guerra giusta è quella che riusciamo a non fare.

Un’altra Europa, che duemila anni di cristianesimo e tre secoli di illuminismo non hanno saputo creare, il 24 febbraio avrebbe generato dalla sua anima centinaia di migliaia, milioni di cittadini pacifici e disarmati che avrebbero messo i loro corpi lungo le strade dei carrarmati. E li avrebbero fermati, come e più di un milione di bombe di morte. E, nello stesso giorno, tutti i capi di Stato e di governo sarebbero dovuti correre insieme davanti alla porta del Cremlino, lì iniziare tutti uno sciopero della fame per chiedere a Putin di tornarsene a casa. Sogni, favole, utopie... E invece sarebbe molto realistico, concreto e serio cercare la pace con telefonate interurbane, che ormai sono pure gratis. E noi incollati alla tv, bombardati da una produzione di massa di metafore sbagliate e molto pericolose, ad assistere passivi anche alla manipolazione di Gandhi e di Bonhoeffer trasformati in sostenitori muti della nostra risposta bellica fratricida e della 'legge del taglione', per non parlare delle infinite parole vuote e morte sulla 'guerra giusta' tratte fuori contesto e fuori tempo da sant’Agostino e san Tommaso. Ridicolizzato Francesco, banalizzato il Vangelo. Quando il «tempo in cui i re sono soliti andare in guerra» (2 Sam 11,1) finirà per sempre? Profezia dei cristiani: dove sei? Dove sei stata sepolta? Alzati: vieni fuori!

«Qui si tratta che si sta montando una guerra di egemonia tra due blocchi, dalla quale noi non abbiamo nulla da sperare e con la quale non abbiamo nulla da spartire. Vinca la Russia o vinca l’America se noi ci lasciamo coinvolgere passivamente avremo che l’Europa diverrà il centro del carnaio e della distruzione ». Queste parole diverse e profetiche sono di Igino Giordani (del 1951), un anti-fascista e Padre costituente, mio maestro immenso, che si auto-definiva «un cristiano ingenuo». Probabilmente anche questo articolo, come altri pubblicati da questo giornale che non per nulla si chiama 'Avvenire', verrà immediatamente collocato tra i pensieri ingenui e quindi dannosi degli idealisti. Ne ero ben cosciente prima di scriverlo: ma non sono riuscito a convincere né la penna né l’anima.

Credits foto: Image by Freepik

 

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Note di un cristiano ingenuo in margine al conflitto riacceso dall'invasione russa dell'Ucraina

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/05/2022

«L’effetto naturale del commercio è il portare la pace». Così scriveva nel suo Lo Spirito delle Leggi Montesquieu, rilanciando una idea che girava nel Settecento dei Lumi. Qualche anno dopo, alla fine della sua carriera, l’economista e filosofo napoletano Antonio Genovesi commentava con altro tono quella frase di Montesquieu: «Il gran fonte delle guerre è il commercio». E aggiungeva: «Il commercio è geloso, e la gelosia arma gli uomini». Un secolo più tardi, il grande economista inglese Francis Edgeworth definiva l’economia come la scienza che studia gli «scambi pacifici » (1881), perché si occupa dei contratti liberi e non dei rapporti violenti. Più recentemente (nel 1977), un altro economista, Albert Hirschman, aveva ripreso quella antica tesi di Montesquieu e l’aveva declinata in una delle chiavi di lettura più influenti delle scienze sociali contemporanee. Le società di mercato, diceva, sono fondate sugli interessi, quelle antiche e feudali sulle passioni. Il capitalismo avrebbe allora dovuto rendere il mondo più pacifico proprio perché gli interessi economici, razionali e prevedibili, avrebbero sostituito le passioni irrazionali alla base delle guerre (orgoglio, onore, vendetta, patria, nazionalismo ...).

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Solo far finire la guerra è normale e non basta il mercato a fare pace

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Editoriali - Nel centenario della nascita, da riprendere il lascito dell’artista che seppe segnalare l’idolatria del nostro tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/03/2022

I poeti sono i custodi delle parole – delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle – shomerim – di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana – e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» ( Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.

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Mio nonno Domenico, contadino e spaccapietre nella cava di travertino, quando parlava nel suo dialetto ascolano ci incantava tutti con le parole della sua lingua madre. Con quel lessico arcaico faceva parlare le sue emozioni più profonde, chiamava per nome la vita sua e quella degli altri, viveva tra le cose e sapeva come nominarle. Gli rispondevano il dolore, l’amore, la pietà, Dio, i dèmoni, e lui li capiva; e con essi imbastiva un dialogo intenso e vero, ogni giorno – la prima preghiera, e l’ultima, si recitano bene solo in dialetto. Ma non appena doveva parlare in italiano, la sua lingua si immiseriva, diventava insicuro e impacciato, si vergognava, era meno bello, perdeva dignità. Col passare del tempo il ricordo vivo di questa forma di violenza mi appare sempre più ingiusta e sbagliata, la sua memoria mi fa soffrire. E finalmente capisco Pasolini: «Quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani... allora la nostra storia sarà fi- nita» (dal film La rabbia, 1963). E capisco, forse, anche la sua critica al capitalismo: «L’italiano diventa la lingua delle aziende, del mercato» (Interviste corsare, p. 216) – chissà cosa direbbe del finto inglese che è subentrato a quell’italiano? Capisco la sua lode per il lavoro artigiano, che è l’opposto della nostalgia: è un urlo per salvare le cose e la loro verità, perché togliendo le mani umane dalle cose queste vengono manipolate da una ideologia senza carne e sangue. L’artigiano e il dialetto non sono in Pasolini età dell’oro perduta e da rimpiangere, ma terra promessa ancora da raggiungere. La tv diventa il primo agente della 'strumentalizzazione' della lingua (Empirismo eretico, p. 19), perché «è attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere» (Scritti corsari, p. 24).

La critica che Pasolini fa del capitalismo (e quindi della modernità) non è meno grande e profonda delle grandissime critiche di Walter Benjamin, di Pavel Florenskij, di Ernesto de Martino o di Gramsci e Marx. Perché Pasolini capisce che il capitalismo si apre e si lascia decifrare se lo leggiamo come fatto antropologico e teologico e non solo come economia. In particolare, Pasolini intuisce che la svolta decisiva della cultura capitalista era avvenuta con l’arrivo del consumo di massa. Fino a quando il capitalismo era rimasto centrato sull’impresa e sul lavoro, lo spirito italiano, cattolico, comunitario e mediterraneo non ne era rimasto incantato e catturato. Perché sotto le Alpi il lavoro è sempre stato soprattutto fatica, travaglio, non vocazione (beruf) né tantomeno benedizione ed elezione divina. Si lavorava per destino, perché si doveva lavorare, per mangiare, per far vivere meglio i figli, e se si poteva campare senza lavorare tanto meglio. Il cambiamento epocale è avvenuto nella seconda metà del Novecento, quando l’asse del capitalismo si spostò dalla produzione al consumo, un cambiamento che ha conquistato velocemente e totalmente l’Italia (e i Paesi cattolici).

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Editoriali - Nel centenario della nascita, da riprendere il lascito dell’artista che seppe segnalare l’idolatria del nostro tempo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/03/2022

I poeti sono i custodi delle parole – delle loro parole, delle nostre parole di oggi, delle parole di domani. Per questo somigliano molto ai profeti biblici, sentinelle – shomerim – di una parola diversa, che custodiscono affinché le nostre parole non diventino tutte vanitas, soffio, vento, fumo, chiacchiere. Non capiamo la critica radicale di Pier Paolo Pasolini al capitalismo e al consumo senza partire dalla sua riflessione sulla lingua. Lui la vedeva ormai asservita al Potere del consumo, trasformata in un linguaggio che aveva perso contatto con le cose concrete e vive e, quindi, con l’anima del popolo e delle persone. Il destino della lingua gli svelava quello della cultura italiana – e se avesse potuto guardare il mondo un po’ più a lungo vi avrebbe letto anche il destino dell’Occidente, perché si trattava e si tratta dello stesso declino. Si allontanavano entrambe, Italia e lingua, da qualcosa di povero, duro, severo ma vero, da un mondo «puramente umano, accoratamente umano» ( Le ceneri di Gramsci, p. 45), e si avvicinavano a un nuovo mondo meno povero, duro, severo ma che diventavano ogni giorno meno vero. Il discorso di Pasolini sulla lingua è dentro la sua ricerca vitale di un fondamento non-finto, di un’origine, di una pietra angolare dell’esistenza che la trattenesse dallo sprofondare nel nulla.

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Pasolini, il profeta-sentinella e il culto imperiale del consumo

Pasolini, il profeta-sentinella e il culto imperiale del consumo

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Il saggio di Domenico Sorrentino è indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero di Toniolo e al grande tema del confronto con la modernità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire nella sezione "Economia Civile" il 12/01/2022

Tornare agli autori del passato è sempre un’operazione difficile. I problemi che avevano in mente, il contesto sociale nel quale scrivevano, la loro cultura, i dibattiti religiosi e/o scientifici, erano tutti molto diversi dai nostri, a volte troppo diversi perché possano dialogare con noi, tantomeno capirci. Trovare ispirazioni per l’oggi in pagine scritte cento o trecento anni fa è estremamente raro. A cosa serve allora la storia delle idee? Oggi credo che la storia delle idee sia preziosa se diventa la storia delle domande; è meno utile e interessante quando è la storia delle risposte che studiosi, in particolare nel caso di economisti e scienziati sociali, hanno voluto dare alle loro domande e a quelle di altri. Le risposte invecchiano, e in questo nostro tempo accelerato invecchiano molto velocemente; le domande, alcune domande possono invece essere ancora vive e generative. Nel bel volume di Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi e Foligno e tra i maggiori studiosi del pensiero di Giuseppe Toniolo - Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo: una rilettura sistematica ( Vita e Pensiero, Milano, 2021; Introduzione di Stefano Zamagni) - ho dunque cercato di individuare le domande di Toniolo ancora (per me) vive. Il saggio di Sorrentino è strumento oggi indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero economico- sociale di Toniolo (al Toniolo teologo e al pensatore cristiano a tuttotondo Sorrentino aveva dedicato un saggio del 1987, G. Toniolo: una chiesa nella storia, Vita e Pensiero).

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Chi era Giuseppe Toniolo Giuseppe Toniolo (1845-1918) ha vissuto un tempo di grandi cambiamenti, in Italia e in Europa. Era un adolescente quando si formava l’Italia unitaria e lanciava la sua battaglia anti-clericale. Inizia a insegnare economia sociale nell’università di Padova (nel 1873) all’indomani del non expedit di Pio IX, in un clima anti-modernista e anti-Stato italiano che lo accompagnerà fino alla sua morte. Fu attore e spettatore della crisi sociale ed etica associata all’emergere del socialismo e del marxismo in Europa, insieme alla nascita della Dottrina Sociale della Chiesa con Leone XIII. La sua vita accademica inizia nello stesso anno in cui Walras pubblica a Losanna gli Elements d’économie politique pure, uno dei manifesti della nuova economia neoclassica, che segnerà l’inizio di una vera rivoluzione nel modo di intendere la scienza economica e di fare economia. Toniolo si era invece formato nella scuola Lombardo-Veneta d’economia, la variante italiana della scuola storica tedesca di Roscher e Schmoller. I suoi maestri erano stati Fedele Lampertico, Angelo Messedaglia, Luigi Cossa, economisti e storici che furono gli ultimi esponenti di un mondo teoretico destinato a tramontare con la nuova economia neoclassica inaugurata, in Italia, da Pantaleoni e poi con più grande successo da Pareto. Il giovane Toniolo saliva su una cattedra terminale. Si direbbe, con un’espressione avara ma efficace, come economista 'nasce vecchio' e nel posto sbagliato. Da questo punto di vista, Toniolo somiglia molto ad Achille Loria, che, come lui, fu da giovane uno dei più brillanti rappresentanti dell’economia classica (la sua era quella di D. Ricardo), anch’egli luce lucentissima di una stella che stava termi- nando il suo ciclo di vita. Sono fenomeni questi molto comuni nei tempi di cambiamenti epocali, dove la sorte dei talenti dipende molto da dove studiano e dentro quali scuole iniziano la propria carriera. La storia scientifica e intellettuale di Toniolo fu poi complicata (e allo stesso tempo arricchita) dalla sua fede cattolica. Toniolo, infatti, non era soltanto un economista cattolico come altri della sua generazione e di quelle successive; per lui la fede fu chiamata, vocazione, senso profondo della vita e quindi dell’agire, del suo modo fare scienza, economia e politica. Non era una dimensione accanto alle altre, era la dimensione decisiva della sua esistenza. E, lo sappiamo, fare scienza quando si è ricevuta una vocazione spirituale e religiosa molto forte diventa particolarmente difficile, perché quasi sempre manca la distanza terapeutica dai fatti osservati, quasi sempre si inizia a studiare un fenomeno per dimostrare una verità che la si conosce come vera prima di aver iniziato la ricerca scientifica. Ecco perché gli uomini e le donne con questo tipo di fede hanno fatto una gran fatica ad emergere nelle scienze, perché è troppo comune che le diverse ragioni della fede prevalgano su quelle dello scienziato.

L’uomo e lo scienziato nei testi La lettura dei testi originali di Toniolo (e sono molti, fu scrittore molto prolifico), e poi quella dell’ampia, colta e sistematica ricostruzione che ne ha fatto Sorrentino, ci fanno attraversare tutte le difficoltà che l’uomo Giuseppe e lo scienziato Toniolo incontrarono nel loro tempo difficile. Difficoltà e ambivalenze di cui Sorrentino è ben cosciente, e, a detta di chi scrive, le pagine più belle sono quelle dove l’autore dialoga ad alta voce e in pubblico con il proprio maestro Toniolo (e di magistero si tratta), gli pone delle domande scomode, gli fa delle critiche mostrandogli delle incongruenze nel suo pensiero (ad esempio a p. 210, e nell’intero capitolo conclusivo: 'Prospettive e provocazioni'). È questa onestà intellettuale dell’allievo un valore aggiunto di questo libro, che offre una miniera di spunti di riflessioni, che hanno un valore in sé e non solo in rapporto a Toniolo. Il libro ripercorre passo passo il pensiero economico (e in parte sociologico) di Toniolo, dalla prolusione ('prelezione') nell’università di Padova del 5 dicembre 1873 fino agli ultimi volumi del suo Trattato di Economia Sociale (1915). Il Trattato è, di fatto, lo spartito principale, in certi casi unico, del saggio (sebbene Sorrentino lo corredi con l’ampio apparato di note, dove si trovano delle autentiche perle: sta anche in questa lettura liminare il valore del lavoro). Uscito originariamente in tre volumi, il Trattato racchiude infatti la visione che Toniolo si era fatto sui principali istituti economici del suo tempo. La sua struttura è simile al trattato del suo maestro amato Fedele Lampertico ( L’economia degli Stati e dei popoli: l’Introduzione è datata 18 novembre 1873, pochi giorni prima la prelezione di Toniolo), al Dizionario di Economia Politica del Boccardo, ai Principj di Economia Sociale di Antonio Scaloja, ai molti libri di Luigi Cossa o al Corso di Economia Politica di Achille Loria. Trattati tutti concepiti e scritti sul paradigma del sistema classico, quindi sulla falsariga dei manuali inglesi ( J.S. Mill) e francesi ( J.B. Say), con abbondanti dosi di scuola tedesca. È certamente molto distante dai Principi di economia pura di Pantaleoni o, tantomeno, dal Cours o dal Manuale di Pareto, che erano usciti tutti prima del suo Trattato. Toniolo, diversamente da Pantaleoni, non saltò sul carro della nuova scienza neoclassica solo per mancanza di strumenti analitici (la matematica avanzata); in lui c’era la convinzione che la nuova scienza neoclassica era antropologicamente ed eticamente sbagliata come lo era già la 'madre', l’economia classica di Smith e Ricardo. Toniolo rimase sempre un convinto allievo della scuola storica tedesca, restò un 'economista storico' (come lo definiva già Amleto Spicciani), quella scuola che era critica dell’egoismo (selfinterest) di Adam Smith e ancora di più dell’homo oeconomicus di J.S. Mill di cui non condivideva l’approccio astratto, parziale ed incompleto in nome di una scienza economica unitaria, integrale, sistemica. Non fece l’uomo reale 'a fette' (nel linguaggio di Pareto), ma lo conservò intatto nella sua interezza. Qui, invece, Toniolo somiglia a Pantaleoni che, sebbene avesse scritto un manuale di economia pura, voleva una economia 'impura', convinto che ciò che si perde nelle prime approssimazioni della scienza pura non lo si recupera più, è perso per sempre. Ma quelle battaglie non potevano essere vincenti, in un tempo nel quale il positivismo dominava nella scienza, e con esso la condizione che solo una scienza imperfetta, che rinuncia al tutto per la parte, può essere vera scienza.

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Tornare agli autori del passato è sempre un’operazione difficile. I problemi che avevano in mente, il contesto sociale nel quale scrivevano, la loro cultura, i dibattiti religiosi e/o scientifici, erano tutti molto diversi dai nostri, a volte troppo diversi perché possano dialogare con noi, tantomeno capirci. Trovare ispirazioni per l’oggi in pagine scritte cento o trecento anni fa è estremamente raro. A cosa serve allora la storia delle idee? Oggi credo che la storia delle idee sia preziosa se diventa la storia delle domande; è meno utile e interessante quando è la storia delle risposte che studiosi, in particolare nel caso di economisti e scienziati sociali, hanno voluto dare alle loro domande e a quelle di altri. Le risposte invecchiano, e in questo nostro tempo accelerato invecchiano molto velocemente; le domande, alcune domande possono invece essere ancora vive e generative. Nel bel volume di Domenico Sorrentino, vescovo di Assisi e Foligno e tra i maggiori studiosi del pensiero di Giuseppe Toniolo - Economia umana. La lezione e la profezia di Giuseppe Toniolo: una rilettura sistematica ( Vita e Pensiero, Milano, 2021; Introduzione di Stefano Zamagni) - ho dunque cercato di individuare le domande di Toniolo ancora (per me) vive. Il saggio di Sorrentino è strumento oggi indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi al pensiero economico- sociale di Toniolo (al Toniolo teologo e al pensatore cristiano a tuttotondo Sorrentino aveva dedicato un saggio del 1987, G. Toniolo: una chiesa nella storia, Vita e Pensiero).

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Giuseppe Toniolo e l'idea-domanda di un capitalismo meridiano

Giuseppe Toniolo e l'idea-domanda di un capitalismo meridiano

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