Editoriali Avvenire

Economia Civile

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Commenti - Per ritrovare la fiducia (e il suo senso). Per un nuovo mercato, equo

Una lunga buona strada

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/08/2011

logo_avvenireDietro la crisi che stiamo attraversando c’è soprattutto una grave crisi di fiducia: non si sa più dove trovare investimenti affidabili, e quindi si vendono titoli preferendo liquidità (o oro e beni rifugio). Oggi è chiaro come non mai quanto sia vero che credito deriva da "credere", dal fidarsi. Il grande economista inglese J. M. Keynes nel 1936 aveva ben descritto, nella sua sostanza, quanto sta accadendo ora, un fenomeno che dipende poco dai sofisticati strumenti finanziari e molto da semplici meccanismi psicologici: siamo caduti in una «trappola delle aspettative negative», una situazione nella quale per una grave crisi di fiducia (in questo caso nei debiti pubblici degli Stati "sovrani") gli operatori hanno una fortissima preferenza per la liquidità e una grande sfiducia nei titoli finanziari.

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E quando si cade in queste trappole la sola politica efficace è ricreare quella fiducia che manca, ricreare aspettative positive. L’attuale sistema economico capitalistico non ha – e qui sta il punto – le risorse antropologiche ed etiche, prima che tecniche, per poter rilanciare queste aspettative, perché mancano prospettive culturali all’altezza delle sfide poste.

Nei momenti di crisi la memoria è sempre una risorsa importante per immaginare e tracciare scenari di speranza. Fiducia proviene dal latino fides, una parola che significa insieme fiducia, affidabilità, legame (corda) e fede religiosa. Mi fido di te, ti faccio credito (sei credibile), perché condividiamo la stessa fides, quella fede che era la principale garanzia di affidabilità e di restituzione del prestito, soprattutto quando si scambiava con forestieri. Su questa fides-fiducia-affidabilità-credibilità-legame-fede è nato il primo mercato unico europeo tra Trecento e Modernità. Con la riforma protestante questa fides entra in crisi, la corda si spezza (non bastava più la fides cristiana per i commerci e per la pace); l’Europa trovò allora nuove forme di fiducia per poter sostenere i nascenti mercati: è infatti nel Seicento che nascono le banche centrali, le borse valori, che diventano le nuove garanzie "laiche" del nuovo mercato senza-fides. Parallelamente a queste nuove istituzioni economiche nascono anche gli Stati nazionali, che diventano, i nuovi "luoghi della fiducia", le grandi garanzie per i mercati e per le monete, come lo erano state le città nel Medioevo. Questo breve excursus storico solo per dire che l’economia moderna laica nasce da uno strettissimo rapporto tra economia e politica nazionali, tra finanza e Stati-nazione. Dietro scambi e finanza c’erano gli Stati, i popoli, le comunità nazionali, i territori, l’appartenenza. Anche la democrazia politica ed economica che conosciamo si è fondata su mercati e istituzioni economiche sostanzialmente nazionali. Questo capitalismo nazionale, nelle sue due grandi versioni anglosassone e europea, ha retto fino a pochi decenni fa, quando siamo entrati in modo via via più accelerato nell’era della globalizzazione e del capitalismo finanziario.

Questa crisi ci sta dicendo che ancora non sappiamo né capire né governare il capitalismo globalizzato, perché mentre l’economia e la finanza sono radicalmente cambiate, la politica e i suoi strumenti sono ancora quelli del primo capitalismo, compresa la creazione senza controlli e garanzie di enormi debiti pubblici, espressione dell’antica idea di sovranità e signoraggio degli Stati-nazione. Per non parlare poi del tema fiscale: per combattere seriamente l’evasione fiscale dovremmo almeno riconoscere che esiste una mega "questione fiscale" e di giustizia che si gioca sui mercati finanziari globali, dove si creano enormi profitti e rendite che di fatto sfuggono ai sistemi fiscali ancora troppo ancorati alla dimensione nazionale, che al più può ricorrere ex post al pericoloso e immorale trucco dei condoni.

In Europa l’euro è in profonda crisi perché non abbiamo ancora trovato un rapporto tra l’euro e l’Europa. Resta sempre un effetto credibilità del singolo Paese (non sarà certo un caso che Piazza Affari è quasi sempre la peggiore!), ma non è quello decisivo per capire e affrontare la crisi. Basti osservare quanto siano divenute inadeguate le garanzie offerte dagli Usa di Obama, poiché in realtà servirebbe una politica a dimensione della globalizzazione, una politica che ancora non c’è, e soprattutto non si intravvede. Sarebbe necessaria una nuova Bretton Woods mondiale, per dar vita a una economia di mercato post-capitalistica dove la finanza è regolata e tassata come (e forse più di) tutte le attività che producono reddito, dove si creano authorities indipendenti di controllo dei debiti pubblici, dove si regolano anche la governance delle grandi imprese multinazionali (alcune oggi più ricche e influenti di piccoli Stati-nazione), e molto altro ancora. Ecco perché in questa crisi è in gioco la nuova economia di mercato nell’era della globalizzazione, che dovrà essere diversa da quella che abbiamo creato fin qui. L’economia finanziaria globalizzata ha bisogno di fiducia ma, come nel caso dell’energia, la consuma senza essere capace di ricrearla, perché i suoi strumenti creano reputazione (che è un normale bene di mercato) che tende a spiazzare la fiducia (che è invece un bene relazionale).

Ciò che ad oggi è certo è che la vecchia politica basata sui governi nazionali, sugli equilibri partitici e sulla sovranità non funziona più. Che cosa uscirà da questo fallimento non lo sappiamo: possiamo solo prevedere alcuni anni di fragilità, di rischio sistemico, di incertezza, con sacrifici per tutti, speriamo con un po’ d’equità. E dobbiamo soprattutto rilanciare la speranza, che è la grande virtù in tutti i tempi di crisi, è il terreno fertile dal quale può rifiorire anche la fiducia.

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Commenti - Per ritrovare la fiducia (e il suo senso). Per un nuovo mercato, equo

Una lunga buona strada

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/08/2011

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Editoriale – Debito e finanza ipertrofica

L’abbraccio mortale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 7/08/2011

logo_avvenireIl declassamento, atteso dai mercati, del rating degli USA da parte di Standard & Poor’s, da AAA ad AA+ (prima volta nella storia), aggiunge una tessera al mosaico che si sta componendo in questi giorni: non abbiamo ancora un’immagine chiara di che cosa stia accadendo al nostro sistema economico, ma ciò che possiamo ormai intravvedere è che siamo di fronte alla più grave crisi del sistema capitalistico, una crisi iniziata nell’autunno del 2008 e ancora in pieno svolgimento, senza sapere se come e quando terminerà.

Il crollo dell’autunno del 2008 ci aveva rivelato una prima novità: non è più possibile separare l’economia reale dalla finanza, poiché nell’era della globalizzazione l’economia reale è anche finanziaria, e una crisi nei mercati finanziari è immediatamente anche crisi reale (occupazione, PIL), e viceversa. Ecco perché questa crisi è anche un fallimento della scienza economica e di noi economisti (compresi i consiglieri di Obama), che usiamo strumenti obsoleti per descrivere il mondo e suggerire ricette.

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Ma la bufera che stiamo attraversando in questi giorni ci sta dicendo una novità: non è più possibile separare l’economia dalla geo-politica e dalle politiche dei singoli Stati. Tra i crolli dei mercati finanziari, i problemi politici di Obama, le vicende del governo italiano, la debolezza del sistema politico europeo esiste un rapporto talmente stretto da non potere individuare dove finisce il Mercato e inizia la Politica. Riusciremo, allora, a venire fuori da questa crisi epocale solo se sapremo guardare assieme e in maniera sistemica finanza, economia e politica, in un’ottica globale ma molto attenta alle dimensioni regionali (vedi Grecia). La finanza è cresciuta come una buona pianta che, in mancanza di potature e di cura, sta invadendo l’intero giardino.

Oggi il volume annuo dei titoli scambiati nei mercati finanziari supera di gran lunga (tra le 8 e le 10 volte) il PIL mondiale, un volume che negli ultimi 15 anni è aumentato di oltre 40 volte. La domanda che dovremo porci, compresi gli addetti ai lavori, è come mai abbiamo assistito inerti a questa crescita ipertrofica ed elefantiaca della finanza speculativa, senza fermarci di tanto in tanto per valutare, a più livelli (economico, politico, civile, etico) se il sentiero imboccato negli anni Novanta ci stava portando su sentieri impraticabili e molto pericolosi.

Questa ipertrofia della finanza si stringe in un abbraccio mortale con l’esorbitante debito, privato e pubblico, dell’economia mondiale economicamente avanzata. Non dobbiamo mai stancarci di ripetere che il problema di questa crisi è l’eccessivo indebitamento, privato (nel 2008) e pubblico (ora), dovuto a grandi salvataggi di banche e a finanziamenti di costosissime guerre.

Se non riduciamo l’indebitamento medio dell’Occidente (e del Giappone, altro malato) da questa crisi non usciremo. Anche perché in questi giorni dove tutti parlano di crescita dobbiamo tener ben presente che l’economia capitalistica è cresciuta già troppo e male in questi ultimi venti anni (anche grazie alle innovazioni finanziarie), con gravi conseguenze ambientali e sociali: i tassi di crescita degli anni precedenti al 2008 non sono riproponibili, sia per ragioni economiche (manca domanda), ma anche e soprattutto per ragioni ambientali e etiche. Altrimenti faremmo l’errore di chi scopre di avere un diabete alimentare e per curarlo cerca di aumentare un po’ l’attività fisica, continuando però a mangiare dolci come prima della diagnosi: ci si cura seriamente cambiando globalmente stile di vita, e facendo sacrifici, una parola antica e impopolare, ma sempre cruciale quando la storia si fa seria.

Le crisi, individuali e collettive, sono sempre ambivalenti: possiamo uscirne migliori o peggiori, e l’esito dipende soprattutto da noi, dal nostro sguardo sul mondo. Un errore mortale da evitare durante le crisi è non prendere sul serio i segnali che ci provengono dall’esterno. I mercati finanziari non vanno demonizzati, ci stanno dicendo qualcosa di importante. Innanzitutto che abbiamo tutti sottovalutato le crisi di Stati come Grecia, Portogallo e Irlanda: crisi finanziarie globali e strutturali sono cose molto serie, anche se sono di Stati piccoli, perché può essere un bambino a mostrare che il re (l’euro) è nudo.

Un secondo segnale-messaggio che si sta giungendo da questa crisi è l’urgenza di riforme serie e profonde, soprattutto su pensioni e riduzione degli sprechi nella Pubblica amministrazione, riforme che richiedono una unità politica nazionale che ancora non si vede oltre le diversità partitiche: e questa mancanza di responsabilità è grave, perché il momento che stiamo vivendo è forse il più grave dopo la stagione del terrorismo. Infine, questa crisi sarà una felix culpa se ci farà dar vita ad una economia di mercato oltre il capitalismo iper-finanziario cui abbiamo dato vita, perché stiamo pagando gli aumenti di benessere economico con la moneta della fragilità e dell’insicurezza, di tutti ma in modo speciale dei più deboli (persone e Stati).

Ecco perché dobbiamo seguire tutti con grande attenzione e responsabilità ciò che accade in questi giorni: non sono in gioco soltanto le sorti dei mercati finanziari e dei detentori di titoli, ma la qualità dell’economia di mercato che uscirà da questa crisi, e quindi della libertà, dei diritti e della democrazia.

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Editoriale – Debito e finanza ipertrofica

L’abbraccio mortale

di Luigino Bruni

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L’abbraccio mortale

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Editoriale - Ceto medio e crisi del capitalismo

Noi e le mucche della finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/08/2011

Impoverendo il ceto medio si sfilaccia il legame sociale, fondato anche su una equità economica percepita.

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Il raggiunto accordo su debito pubblico USA non deve esimerci dal riflettere profondamente sull’eccessivo indebitamento dell’economia nord-americana e del sistema capitalista. Il maxi-salvataggio delle banche del 2009 ha essenzialmente spostato debito dal settore privato al settore pubblico, senza rimuovere le cause vere del problema, che si ritrovano in un ceto medio USA e mondiale che si sta progressivamente impoverendo e indebitando.  Dietro il grande debito pubblico c’è dunque un problema di diseguaglianza nella distribuzione del reddito che sta diventando ‘la’ questione cruciale nel nostro sistema economico capitalistico.

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Nell’autunno del 2008, quando la crisi stava per esplodere, la quota di PIL posseduta dall’1% più ricco della popolazione USA ha raggiunto il picco, esattamente come nel 1928, all’alba del grande crollo di Wall Street, come ci ha ricordato Robert Reich nel suo ultimo, utilissimo, libro (Aftershock, Fazi, 2011). Quando il ceto medio si impoverisce relativamente alla classe opulenta, tende ad indebitarsi troppo, anche perché oggi, a differenza del 1929, il sistema finanziario propone e promette ricette magiche per mantenere o aumentare, con il debito, i livelli di consumo.

Nei decenni passati l’atteggiamento nei confronti della diseguaglianza era stato ambivalente: una parte dell’opinione pubblica e degli studiosi la vedeva come un fenomeno tendenzialmente transitorio, un prezzo da pagare solo alle prime fasi dello sviluppo economico, come metaforicamente espresso da Albert Hirschman con l’immagine del tunnel: quando siamo bloccati per un ingorgo in un tunnel, se la fila accanto alla mia inizia a muoversi posso dedurre che a breve anche la mia si sbloccherà. La diseguaglianza, quindi, avrebbe dovuto avere una forma ad U rovesciata: crescere all’inizio per poi diminuire nelle fasi mature del capitalismo.

La vicenda storica dell’Occidente (certamente di USA e Italia) ci sta dicendo che negli ultimi 25 anni la diseguaglianza è tornata ad aumentare. Come mai? Erano sbagliate le previsioni degli economisti? In realtà si è inserito un fattore inedito, cioè la natura finanziaria dell’ultimo capitalismo, che manda in crisi la stessa teoria o ideologia del libero mercato. Quando, infatti, il timone del sistema economico (e politico) passa nelle mani della finanza speculativa (qui l’aggettivo è importante, la finanza non è tutta uguale), entrano in crisi alcuni dei pilastri del liberismo, tra cui la capacità del mercato di assicurare la crescita economica. E per almeno tre ragioni.

La prima ha a che fare con il tipo di ricchezza che si crea con le speculazioni finanziarie. La regola aurea dell’economia di mercato “normale” (quando cioè la finanzia è sussidiaria all’economia reale) è il mutuo vantaggio dei soggetti che scambiano; quando invece abbiamo a che fare con la finanza speculativa spesso la regola è il ‘gioco a somma zero’, come il poker: le vincite degli uni corrispondono alle perdite degli altri.

Ciò significa che molta finanza di ultima generazione più che creare nuova ricchezza la sposta (soprattutto giocando con il tempo) da alcuni soggetti ad altri. In secondo luogo, in molta (non in tutta) finanza speculativa accade sistematicamente, senza scandali e condanne, ciò che abbiamo recentemente rivisto con il calcio scommesse: alcuni giocatori (grandi fondi) scommettono sull’esito delle partite (valore futuro di titoli) e poi giocano in modo che le loro previsioni (scommesse) si avverino. La terza ragione ha direttamente a che fare con la diseguaglianza. Il capitalismo turbo-finanziario produce naturalmente alta diseguaglianza perché, grazie alla globalizzazione di tecnologia e di forza lavoro, paga sempre meno lavoratori di media abilità (operai, impiegati, operatori della cura e dei servizi), cioè gran parte del ceto medio, mentre stra-paga quei pochi iper-specialisti (tecnici e manager) capaci di far aumentare esponenzialmente i profitti della finanza.

Ma – e qui sta il punto cruciale – un sistema economico che arricchisce troppo pochi e impoverisce il ceto medio, cioè la grande maggioranza della popolazione (per non parlare poi qui dei poveri veri, un altro tema ancora più cruciale) non cresce più, sfilaccia il legame sociale che si fonda anche su una equità economica percepita, e si avvia inesorabilmente al declino essenzialmente per una carenza di “domanda” (non solo di equità). Infatti un aumento di reddito nelle classi medie e povere si traduce immediatamente in maggiori consumi e in PIL, mentre aumentare reddito a chi ne ha già molto produce effetti molto minori su consumi e crescita. Ci stiamo poi accorgendo che quando chi lavora si impoverisce relativamente ad altri gruppi sociali, allora la diseguaglianza diventa direttamente un fattore di crescita (o di recessione): non basta più la retorica dell’aumentare le ‘dimensioni delle torta’ prima di pensare alle ‘fette’, perché da una parte l’aumento della torta può essere solo apparente, e dall’altra lo sperpero e lo spreco dei grandi mangiatori di torte rende indigeste anche le fette sempre più piccole degli altri.

Quando si guarda da lontano il nostro sistema capitalistico la prima impressione forte che se ne trae è che siamo cresciuti troppo e male: la crisi ambientale lo dice con sempre maggiore eloquenza, ma lo dice anche questa crescente diseguaglianza, frutto di una mungitura eccessiva delle mucche della finanza, che però oggi rischia di uccidere le bestie per sfinimento. Lo strumento per riequilibrare i rapporti economici non si chiama elemosina o filantropia, ma sistema fiscale. Ecco perché proposte fiscali family friendly (come il “fattore famiglia”) prima di essere una proposta etica è una faccenda squisitamente economica, perché senza riequilibrare il patto sociale non avremo energie per rilanciare la crescita, ridurre il debito pubblico e costruire un sistema economico migliore. Per questo non posso non far mie le parole di speranza con cui Reich conclude il suo discorso: “Negli Stati Uniti, come in Italia, invertiremo il corso che oggi minaccia le nostre economie e democrazie. Lo faremo perché questa inversione è nell’interesse di tutti, anche di quanti nelle nostre società possiedono livelli enormi di potere e ricchezza. … E’ la sfida nostra e dei nostri figli. E’ la sfida economica più grande che abbiamo davanti”.

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Editoriale - Ceto medio e crisi del capitalismo

Noi e le mucche della finanza

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 2/08/2011

Impoverendo il ceto medio si sfilaccia il legame sociale, fondato anche su una equità economica percepita.

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Il raggiunto accordo su debito pubblico USA non deve esimerci dal riflettere profondamente sull’eccessivo indebitamento dell’economia nord-americana e del sistema capitalista. Il maxi-salvataggio delle banche del 2009 ha essenzialmente spostato debito dal settore privato al settore pubblico, senza rimuovere le cause vere del problema, che si ritrovano in un ceto medio USA e mondiale che si sta progressivamente impoverendo e indebitando.  Dietro il grande debito pubblico c’è dunque un problema di diseguaglianza nella distribuzione del reddito che sta diventando ‘la’ questione cruciale nel nostro sistema economico capitalistico.

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Noi e le mucche della finanza

Noi e le mucche della finanza

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Commenti - Per capire e affrontare la crisi

Un giubileo per l'Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/07/2011

logo_avvenireIn questi giorni si susseguono segnali di allarme per gli attacchi speculativi, alternati ad altri di distensione e di ottimismo. In realtà, dobbiamo prendere coscienza che la situazione è grave, e dobbiamo attrezzarci come Paese e come Europa per affrontare una fase che potrebbe rivelarsi non meno difficile e lunga di quella dell’autunno del 2009.

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Infatti, la crisi che stiamo vivendo in questi giorni è molto più di un fenomeno di contagio (delle crisi greca e/o portoghese): è una crisi di fragilità strutturale dell’Italia e dell’Europa. Il malato è grave, e non si tratta ancora di una malattia mortale, ma neanche di una semplice influenza stagionale: è un secondo mini-infarto che se non produce un cambiamento degli stili di vita può portare a conseguenze fatali.

Nell’intervallo tra le due crisi il "paziente Italia" ha continuato a comportarsi di fatto come prima, tranne per qualche passeggiatina pomeridiana o alcune pillole, senza aver però dato un segnale forte di inversione di tendenza.

Sono almeno tre gli elementi per proporre una diagnosi, e una possibile terapia. Il primo elemento per una corretta diagnosi ha a che fare con la demografia. Non capiremo mai bene che cosa sta avvenendo se non partiamo da un dato strutturale e di lungo periodo: l’Italia, come e più degli altri Paesi europei, negli ultimi anni ha radicalmente abbassato il rapporto tra la popolazione attiva e quella in pensione, parallelamente a un forte aumento dell’aspettativa di vita.

Tutto l’impianto dello Stato sociale si fondava su un’attesa di vita molto più bassa (e su più giovani che lavoravano), che consentiva alla generazione giovane di sostenere l’onere delle pensioni. Inoltre, la famiglia, che è stata il vero centro del nostro Stato sociale (molto più dello Stato o del mercato), non riesce più a svolgere le sue funzioni di cura e accudimento. Se allora non facciamo presto non solo una riforma delle pensioni ma un nuovo patto intergenerazionale il debito pubblico non potrà essere ridotto.

Il debito pubblico è, infatti, il secondo elemento della diagnosi: la speculazione colpisce l’Italia perché l’enorme debito pubblico rende indispensabile la sottoscrizione periodica dei titoli di stato, pena il fallimento. Da qui la richiesta, in momenti di fragilità anche della politica, di rendimenti sempre crescenti per i nostri titoli. È il debito pubblico la vera spada di Damocle della crisi di questi giorni.

Il terzo elemento riguarda l’Europa, cioè l’assenza di una realtà politica dietro l’euro. Il progetto dei padri fondatori dell’Europa era soprattutto un progetto politico. La storia ci dice che una moneta è forte quando è sorretta da (ed esprime) un potere politico: le incertezze nella gestione della crisi greca sono un segnale importante, poiché dicono che oltre agli interessi economici in questa Europa dell’euro c’è troppo poco: le forze dei mercati finanziari lo sanno, e colpiscono le fiancate più fragili di questa compagine. Senza un nuovo patto politico, una costituzione europea e istituzioni forti (e agili: occorre ridurre anche i costi della burocrazia europea), l’euro non reggerà a lungo.

La terapia che oggi tutti propongono è il rilancio della crescita economica. Va però ricordato che l’insufficiente crescita economica è anche una
conseguenza dei primi due elementi, cioè di un Paese invecchiato e indebitato che non trova le risorse per crescere. La crescita economica richiede molti ingredienti, tutti co-essenziali: investimenti pubblici (soprattutto in istruzione e ricerca), creatività, innovazione e, soprattutto, entusiasmo e passioni nei cittadini. Oggi in Italia mancano certamente risorse per gli investimenti pubblici, ma manca ancor di più l’entusiasmo e il desiderio di vita. Per capire che cosa sia questo entusiasmo, è sufficiente fare un giro in Asia, in Medioriente o in Africa. Nel mio ultimo viaggio in Kenya, più della miseria materiale, mi ha colpito vedere giovani studiare la sera ammucchiati sotto i lampioni delle strade: è questa fame di vita e di futuro che domani può sconfiggere la fame di cibo e dar vita a sviluppo e benessere. Se oggi l’Italia e l’Europa non ritrovano questo entusiasmo, nessuna finanziaria potrà rilanciare la crescita; anche perché i nostri politici e l’opinione pubblica sistematicamente dimenticano la più grande lezione delle scienze sociali del Novecento: la crescita e lo sviluppo di un Paese non dipendono principalmente dall’azione dei governi ma dai comportamenti quotidiani di milioni di cittadini, ciascuno dei quali possiede, e lui solo, quel frammento di informazione e di conoscenza rilevanti per le azioni sociali ed economiche.

Certo, tra questi agenti economici c’è anche il governo e ci sono le istituzioni (che possono e debbono fare la propria parte co-essenziale), ma hanno molto meno potere di quanto si e ci raccontano ogni giorno (anche per giustificare la loro presenza e i relativi costi). La soluzione alla crisi economica si trova fuori della sfera economica: si trova nella vita civile, nei desideri e nelle passioni della gente, che sono i pozzi che alimentano anche la vita economica. Non si va a lavorare tutte le mattine per ridurre il debito pubblico, ma per realizzare dei progetti, dei sogni. Siamo anche capaci di fare grandi sacrifici solo se dietro a essi intravvediamo un progetto collettivo grande, capace di muovere cuore e azioni, di riaccendere l’entusiasmo. Lo abbiamo saputo fare in tanti momenti del passato, anche recente: perché non ora? Occorre però che ognuno di noi usi bene quel brano di conoscenza e di potere sulla realtà di cui dispone, traffichi bene i suoi talenti, si impegni di più e meglio. Ma perché questo gioco funzioni c’è bisogno di riti e di liturgie pubbliche, della forza dei simboli, dell’arte, della bellezza, di gesti solenni e collettivi. In particolare sono convinto che oggi c’è un estremo bisogno di una sorta di giubileo, nel significato biblico del termine: una stagione di perdono reciproco, di riconciliazione e di pace, per dimenticare le cattiverie e gli avvelenamenti reciproci di cui siamo stati capaci in questi venti anni sia nella classe politica che nel Paese, e guardare avanti assieme. Oggi l’Italia è in uno stato sociale molto simile alla «guerra di tutti contro tutti» di cui parlava Hobbes. Possiamo non uscirne, e continuare così il declino civile ed economico; possiamo uscirne creando un Leviatano, il coccodrillo mostruoso che fa anche parte della storia e del DNA di noi italiani. Ma possiamo uscire da questa trappola di povertà sociale ed economica rilanciando una nuova stagione di virtù civili e un nuovo patto, il solo terreno che ha generato e genera creatività, entusiasmo e voglia di vivere, da cui fiorirà anche la crescita economica.

© riproduzione riservata

vedi un commento di Pierluigi Porta

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Commenti - Per capire e affrontare la crisi

Un giubileo per l'Italia

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 24/07/2011

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Un giubileo per l'Italia

Un giubileo per l'Italia

Commenti - Per capire e affrontare la crisi Un giubileo per l'Italia di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 24/07/2011 In questi giorni si susseguono segnali di allarme per gli attacchi speculativi, alternati ad altri di distensione e di ottimismo. In realtà, dobbiamo prendere coscienza che ...
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Intervista a Martha Nussbaum - La filosofa contesta chi pretende di riportare su una scala numerica la soddisfazione delle persone sulla propria vita: “Costringe a grossolane semplificazioni. Ma l’umanità vive nelle sfumature

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 7/06/2011

Loppiano (Firenze) - Martha Nussbaum è tra i pochi filosofi che sono riusciti nella loro attività di ricerca a raggiungere due obiettivi: dialogare seriamente con la scienza economica, e occuparsi di temi che hanno a che fare direttamente con la vita delle persone, in particolare di quelle più svantaggiate. Erano quarant'anni che non veniva in Toscana. Ora è tornata per una conferenza nell'Istituto universitario Sophia nella cittadella di Loppiano del movimento dei Focolari. 

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Ha parlato di “Public Emotions and the decent Society”, una conferenza su un tema di estrema rilevanza anche per la società italiana (quali sono le emozioni da sostenere e sviluppare perché una società sviluppi sentimenti generalizzati di simpatia tra i suoi membri), preceduta da alcune ore di dialogo con gli studenti.

Partendo da Sophia, la Nussbaum raggiungerà Milano (dopo un passaggio a Bologna, per la presentazione del suo ultimo libro Non per profitto, Il Mulino), dove parteciperà mercoledì e giovedì alla conferenza internazionale “Market and Happiness”. Ed è sulla sua visione della felicità che le abbiamo rivolto alcune domande.

Come valuta il dibattito sulla misurazione della felicità soggettiva?
Io vedo due principali problemi. Il primo, con gli attuali studi sulla felicità, riguarda la natura qualitativa e multidimensionale della felicità. E’ un tema classico, Milla aveva già espresso che la felicità non è una realtà unidimensionale. Quando misuriamo la felicità con una singola scala evidentemente riduciamo le diverse dimensioni della felicità ad una sola, qualcos’altro di molto più semplice e tendenzialmente disatante da quanto noi intendiamo come felicità. Se infatti voi domandate ad una persona “quanto sei felice” senza costringerlo a rispondere scegliendo un numero tra uno e dieci, le persone rispondono cose molto complesse del tipo: “La saute va bene, il reddito un po’ meno, un mio amico è recentemente morto…”, e così via. Quanto stiamo cercando di fare con il concetto di capabilities è proprio specificare le diverse componenti del benessere di una persona. Nessuna misura unica è adeguata

E il secondo problema?
Ha a che fare con il noto problema, sollevato per la prima volta da Amartya Sen negli anni settanta, dell’adattamento delle preferenze. La gente tende ad essere contenta con il poco che ha e con il poco che si aspetta di avere. Jon Elster ci ha mostrato che spesso ci comportiamo come la volpe con l’uva: non riusciamo a raggiungere obiettivi più alti e allora ci adattiamo, e con il passare del tempo neanche desideriamo più quelle realtà che non riusciamo a raggiungere. Altre volte, e questi sono i casi più interessanti soprattutto quando ci occupiamo di sviluppo e povertà, non abbiamo neanche una corretta di quale sia il nostro benessere. Pensiamo alle donne che in certe regioni del mondo vengono educate in modo da ritenere normale che l’istruzione non è per le donne, che le ragazze istruite non avranno un buon matrimonio, ecc. Così queste donne uccidono i loro desideri sul nascere, anzi sono gli stessi desideri che si adattano fin dall’infanzia a norme di una data cultura e tradizione. Sen ad esempio ha mostrato che l’adattamento delle preferenze funziona anche per la salute fisica: ci sono persone, soprattutto in regioni povere, che dichiarano di star bene anche quando oggettivamente hanno delle malattie gravi: non potendo fare confronti con una salute diversa, si adattano e considerano benessere ciò che in realtà non lo è (e che poi le porta a vivere una vita breve, malnutrita, con molti svantaggi). E se questo problema dell’adattamento si verifica perfino con la salute fisica, immaginiamo quanto potente sia questo effetto in temi come istruzione, diritti e libertà”.

Quindi l’approccio delle capacità misura ciò che la gente effettivamente fa, non quanto sente o crede, poiché si può essere anche schiavi perfettamente adattati e forse anche felici?

Sì. Infatti, come è stato sottolineato ancora da Mill, la felicità non è uno stato, ma un’attività. Oggi molti associano la felicità ad uno stato momentaneo, un piacere, ma in Mill (e nel mio approccio), la domanda da rivolgere alle persone nello studiare la felicità non sarebbe tanto “quanto ti consideri o senti felice?”, ma “che cosa fai nella tua vita? Quali attività riesci a svolgere?”. Questo è un punto centrale in tutto l’approccio di Daniel Kahneman: quando lui con il suo metodo empirico cerca di misurare i sentimenti momentanei, fa qualcosa di possibile e forse interessante. Ma quando si cerca di misurare la “soddisfazione nella propria vita nel suo insieme”, come si fa oggi negli studi sulla felicità, entriamo in un terreno ambiguo. Infatti se la soddisfazione con la propria vita nel suo insieme è un sentimento, credo che questo dato sia poco interessante. Se invece vogliamo misurare un giudizio meditato di una persona sulla propria vita, allora le felicità ha poco a che fare con i sentimenti. Quando nel 1996 Kahnemann mi chiese un parere sul suo programma di ricerca di misurazione della felicità momentanea, io espressi molti di questi dubbi, e lui mi disse: “grazie, ma questi dubbi non posso prenderli in considerazione, perché ormai stiamo entrando nella fase operativa del progetto”. E così la misurazione della felicità è decollata, ma i problemi che ho sollevato rimangono".

 vediintervista completa

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 7/06/2011

Loppiano (Firenze) - Martha Nussbaum è tra i pochi filosofi che sono riusciti nella loro attività di ricerca a raggiungere due obiettivi: dialogare seriamente con la scienza economica, e occuparsi di temi che hanno a che fare direttamente con la vita delle persone, in particolare di quelle più svantaggiate. Erano quarant'anni che non veniva in Toscana. Ora è tornata per una conferenza nell'Istituto universitario Sophia nella cittadella di Loppiano del movimento dei Focolari. 

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La misura (falsa) della felicità

La misura (falsa) della felicità

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire del 9/02/2011

logo_avvenireL’ Italia è stata la culla della tradizione civile. Le abbazie e i monasteri sono stati i principali luoghi nei quali si è formata la cultura dell’economia mercantile e della partecipazione, da dove sono emerse le innovazioni tecniche e contabili, e anche gli statuti delle libere città italiane.

L’età comunale, prima, l’umanesimo civile, poi, hanno dato vita alla grande stagione del civile, riprendendo e sviluppando la cultura greco romana delle virtù civili. Il Settecento è stata un’età di grande fioritura del tema del civile, della pubblica felicità e dell’economia, che hanno fatto dell’Italia una delle patrie della scienza economica moderna.

 Questa tradizione è stata ben viva fino all’alba del Risorgimento, per conoscere poi un’eclisse di oltre un secolo, che, tra l’altro, coincide anche con la storia dell’Italia unitaria.

 La storia italiana è una storia di un’'alba incompiuta del Rinascimento', che ha anche fatto sì che in Italia il vero protagonista del modello economico del XX secolo non sia stato il mercato ma piuttosto lo Stato, e non certamente la società civile. L’economia civile, però, non si è estinta nel Novecento, ma ha continuato a vivere come fiume carsico in economisti, imprenditori e operatori economici italiani e non solo che hanno coltivato, in vari modi, un’idea di economia intesa come incivilimento, legata alla virtù civili, alla pubblica felicità, che non dimentica il ruolo delle istituzioni. Di questo e di altro si parlerà al convegno 'Il modello economico italiano', presso l’istituto Sturzo, domani dalle 10 all’interno del progetto Genius Loci-Archivio della generatività.

 Interveranno, tra gli altri, Roberto Mazzotta, Mauro Magatti, Stefano Zamagni, Andrea Riccardi e Giulio Sapelli.

Gli ultimi 150 di storia economica d’Italia sono ancora tutti da studiare e da capire. È la storia di un sentiero interrotto, a cui sono legate le grandi potenzialità e punti di eccellenza del sistema Italia, ma anche le sue ferite: la vocazione comunitaria e relazionale dell’Italia, profondamente legata alla sua matrice cattolica (e mediterranea), ha prodotto nel Novecento anche il familismo amorale e le varie forme di mafie, dove la centralità della famiglia e dei rapporti personali è spesso degenerata in lacci e lacciuoli che hanno impedito lo sviluppo. Ma nell’humus del modello italiano ci sono anche grandi risorse e potenzialità. Dalla stessa tradizione comunitaria e civile sono emersi, ad esempio, una delle realtà più positive dell’economia 'made in Italy': i cosiddetti distretti industriali. Il modello distretto nasce, infatti, da un intreccio di saperi antichi, di cultura tacita, di 'atmosfera industriale', di virtù civili e capacità cooperativa competitiva, dall’incontro tra sacro e profano, tra il mercante e il frate, tra i saperi laici e quelli dei monaci delle abbazie.

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Editoriali

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire del 9/02/2011

logo_avvenireL’ Italia è stata la culla della tradizione civile. Le abbazie e i monasteri sono stati i principali luoghi nei quali si è formata la cultura dell’economia mercantile e della partecipazione, da dove sono emerse le innovazioni tecniche e contabili, e anche gli statuti delle libere città italiane.

L’età comunale, prima, l’umanesimo civile, poi, hanno dato vita alla grande stagione del civile, riprendendo e sviluppando la cultura greco romana delle virtù civili. Il Settecento è stata un’età di grande fioritura del tema del civile, della pubblica felicità e dell’economia, che hanno fatto dell’Italia una delle patrie della scienza economica moderna.

 Questa tradizione è stata ben viva fino all’alba del Risorgimento, per conoscere poi un’eclisse di oltre un secolo, che, tra l’altro, coincide anche con la storia dell’Italia unitaria.

 La storia italiana è una storia di un’'alba incompiuta del Rinascimento', che ha anche fatto sì che in Italia il vero protagonista del modello economico del XX secolo non sia stato il mercato ma piuttosto lo Stato, e non certamente la società civile. L’economia civile, però, non si è estinta nel Novecento, ma ha continuato a vivere come fiume carsico in economisti, imprenditori e operatori economici italiani e non solo che hanno coltivato, in vari modi, un’idea di economia intesa come incivilimento, legata alla virtù civili, alla pubblica felicità, che non dimentica il ruolo delle istituzioni. Di questo e di altro si parlerà al convegno 'Il modello economico italiano', presso l’istituto Sturzo, domani dalle 10 all’interno del progetto Genius Loci-Archivio della generatività.

 Interveranno, tra gli altri, Roberto Mazzotta, Mauro Magatti, Stefano Zamagni, Andrea Riccardi e Giulio Sapelli.

Gli ultimi 150 di storia economica d’Italia sono ancora tutti da studiare e da capire. È la storia di un sentiero interrotto, a cui sono legate le grandi potenzialità e punti di eccellenza del sistema Italia, ma anche le sue ferite: la vocazione comunitaria e relazionale dell’Italia, profondamente legata alla sua matrice cattolica (e mediterranea), ha prodotto nel Novecento anche il familismo amorale e le varie forme di mafie, dove la centralità della famiglia e dei rapporti personali è spesso degenerata in lacci e lacciuoli che hanno impedito lo sviluppo. Ma nell’humus del modello italiano ci sono anche grandi risorse e potenzialità. Dalla stessa tradizione comunitaria e civile sono emersi, ad esempio, una delle realtà più positive dell’economia 'made in Italy': i cosiddetti distretti industriali. Il modello distretto nasce, infatti, da un intreccio di saperi antichi, di cultura tacita, di 'atmosfera industriale', di virtù civili e capacità cooperativa competitiva, dall’incontro tra sacro e profano, tra il mercante e il frate, tra i saperi laici e quelli dei monaci delle abbazie.

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L’«alba incompiuta» del modello economico italiano

L’«alba incompiuta» del modello economico italiano

Editoriali di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire del 9/02/2011 L’ Italia è stata la culla della tradizione civile. Le abbazie e i monasteri sono stati i principali luoghi nei quali si è formata la cultura dell’economia mercantile e della partecipazione, da dove sono emerse le innovazioni tecni...
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Commenti

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2010

logo_avvenireSi sta tornando a parlare, finalmente!, di gratuità (vedi la pagina di «Avvenire» di martedì 21), anche nel dibattito pubblico, politico, e addirittura in economia, persino nella scienza economica. Un ritorno di interesse da parte dell’economia che non dovrebbe stupire se pensiamo che la parola latina 'charitas', che fu scelta dai cristiani per tradurre la parola greca 'agape', l’amore gratuito, aveva un’origine e un uso economici: ciò che è caro, ciò che costa nel mercato. Questo ritorno di interesse è però accompagnato da un uso non sempre attento e fedele alla grande riflessione, filosofica spirituale e soprattutto umana (solo l’umano la conosce) sulla gratuità. A mio parere sono due gli errori che si compiono frequentemente quando si parla di gratuità. Innanzitutto la si identifica col 'gratis', inteso come prezzo zero: «Franco lavora gratuitamente», cioè lavora gratis, quindi il suo stipendio è zero. Dalla grande tradizione francescana, invece, sappiamo che la gratuità ha in un certo senso un valore infinito.

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Quando Francesco inviava i frati a donare il vangelo, diceva loro di non accettare denaro in cambio della predicazione. Ma perché? «Se dovessero pagarvi occorrerebbe tutto l’oro del mondo», narra la tradizione, e quindi accettare somme di denaro minori di «tutto l’oro di mondo» avrebbe significato «svendere» la gratuità, fare dumping relazionale e spirituale. Da qui la tradizione francescana di accettare doni come risposta di reciprocità. Quando oggi identifichiamo la gratuità con il gratis rischiamo di cancellare questa fondamentale verità, e facciamo un torto sia alla gratuità (svenduta e deprezzata) sia al mercato. Perché anche al mercato? Qui veniamo al secondo errore.

Identificare la gratuità con il gratis (prezzo zero) ha comportato, e sempre più comporta, associare il mercato, il contratto, lo scambio mercantile alla non-gratuità: se la gratuità è il gratis ogni realtà dove esistono prezzi e denaro non ha nulla a che fare con la gratuità, una gratuità che può invece rientrare come sconto, gadget, che sarebbero presenze di gratuità dentro il mercato (in realtà sono il 'vaccino' con cui si immunizzano dalla vera gratuità); oppure può arrivare 'dopo' il mercato, quando l’imprenditore, come privato cittadino, fa una donazione o istituisce una fondazione per vivere finalmente quella gratuità estranea all’azione propriamente economica e d’impresa. Ci sarebbe infatti molto da dire sulla nascita del modello filantropico americano, che, anche come reazione all’eccessivo intreccio tra gratuità (charis) e mercato (le indulgenze), ha costruito tutto un sistema economico dicotomico, dove 'business is business' e il dono è qualcosa di totalmente privato e distinto dagli affari (va notato che negli Usa non c’è neanche la parola per dire gratuità: 'gratuity' è solo la mancia che si dà al cameriere). In realtà la vera sfida culturale e grande della gratuità è pensarla, in linea con la 'Caritas in veritate', come una dimensione fondativa di ogni esperienza umana, dalla famiglia all’impresa, dalla politica al contratto. Molte esperienze di microcredito, dai francescani del Medioevo a Yunus hanno vissuto straordinarie esperienze di gratuità liberando dalla miseria e dall’esclusione milioni di persone, senza alcun regalo o prestazione 'gratuite' (gratis), ma con contratti, con regole ben condizionali, con una gratuità accompagnata dal doveroso. La gratuità che oggi è richiesta al sistema bancario non è primariamente quella degli sponsor o delle fondazioni bancarie, ma quella che informa, o non informa, la normalità del fare banca, dalla responsabilità alla trasparenza. La gratuità che conta veramente non è quella del 2% degli utili, ma quella del restante 98%. Altrimenti si riduce la gratuità al limoncello in un pranzo, al tappabuchi, al di più, al non dovuto, che diventa subito non necessario, superfluo.

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di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 23/09/2010

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Ma la gratuità può convivere con il mercato

Ma la gratuità può convivere con il mercato

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Editoriale

di Luigino Bruni

pubblicato su "Agorà", rubrica di Avvenire, il 5/02/2010

« L’Italia fatta in casa» (Mondadori) degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino è un libro pieno di dati importanti, sui quali è bene riflettere, magari per giungere a conclusioni di 'policy' diverse da quelle proposte dagli autori. La tesi del libro è che l’arretratezza economica dell’Italia è principalmente arretratezza culturale, dovuta alla nostra tradizione famigliare che porta le donne a svolgere la gran parte dei lavori domestici e di cura e per questo a lavorare troppo poco 'fuori casa', nel mercato.

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Da qui la ricetta: ridurre le tasse sul reddito del lavoro femminile, in modo da creare gli incentivi affinché le donne lavorino di più. È innegabile che in Italia ancora oggi esista una significativa asimmetria nelle opportunità di sviluppo professionale tra gli uomini e le donne, e che interventi legislativi, economici e sociali che facilitino il lavoro femminile nel mercato, e che quindi riequilibrino i pesi relativi del lavoro domestico, non siano soltanto opportuni, ma necessari e urgenti. Da questo punto di vista, allora, questo libro può svolgere un importante ruolo nell’alimentare un dibattito di civiltà quanto mai rilevante. Però è sottesa una visione culturale che vede nei legami forti, soprattutto quelli famigliari e comunitari, il principale fardello sociale dell’Italia e della cultura mediterranea rispetto ai Paesi nordici più sviluppati economicamente e civilmente.

Ci sono anche affermazioni che tendono a smorzare questa tesi radicale, ma l’impostazione generale del saggio è coerente con quella tesi: se saremo capaci di abbandonare il modello di famiglia italiano e imitare i modelli sociali norvegesi o danesi, diventeremo finalmente un Paese post-moderno, democratico, più ricco, e magari più felice. Questa tesi non convince non solo perché questa grande felicità 'nordica' non esiste, ma soprattutto per l’assenza di un’idea di famiglia come soggetto collettivo: per gli autori la famiglia è essenzialmente una somma di individui separati. Non si vedono rapporti, ma individui. Da qui la loro critica alla proposta del 'quoziente familiare', in base al quale i redditi dei coniugi verrebbero tassati come media di un reddito congiunto: «Se riteniamo che la partecipazione al lavoro delle donne sia un obiettivo importante per il nostro Paese, è evidente che il metodo del quoziente familiare ci allontana da questo obiettivo, e la tassazione disgiunta sarebbe preferibile». La tassazione disgiunta vede la coppia come un uomo e una donna disgiunti; ma la famiglia è soprattutto un patto che fa di due persone disgiunte un soggetto collettivo, nel quale le decisioni si discutono e poi si prendono assieme, comprese quelle lavorative. Allevare ed educare un bambino, soprattutto nei primissimi anni di vita, non è una faccenda privata dei genitori o della madre, non è una 'merce' come i trasporti e le pulizie domestiche che si possono comprare e vendere con efficienza in base al solo gioco della domanda e dell’offerta. Oggi la migliore teoria economica lo riconosce, quando legge la famiglia come produttrice non solo di servizi ma anche di 'beni relazionali' (che sono beni ma non sono merci), e quando mostra (vedi il Nobel Heckman) che i primissimi anni di vita sono quelli da cui più dipende il successo anche economico delle persone. Prima di qualunque riforma economica e fiscale sulla famiglia italiana, questa va riconosciuta come una grande risorsa e patrimonio civile, e solo dopo curata nei suoi problemi.

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di Luigino Bruni

pubblicato su "Agorà", rubrica di Avvenire, il 5/02/2010

« L’Italia fatta in casa» (Mondadori) degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino è un libro pieno di dati importanti, sui quali è bene riflettere, magari per giungere a conclusioni di 'policy' diverse da quelle proposte dagli autori. La tesi del libro è che l’arretratezza economica dell’Italia è principalmente arretratezza culturale, dovuta alla nostra tradizione famigliare che porta le donne a svolgere la gran parte dei lavori domestici e di cura e per questo a lavorare troppo poco 'fuori casa', nel mercato.

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La Famiglia? non è inciampo per lo sviluppo

La Famiglia? non è inciampo per lo sviluppo

Editoriale di Luigino Bruni pubblicato su "Agorà", rubrica di Avvenire, il 5/02/2010 « L’Italia fatta in casa» (Mondadori) degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino è un libro pieno di dati importanti, sui quali è bene riflettere, magari per giungere a conclusioni di 'policy' diverse da q...