Commenti - I numeri e la verità del lavoro
di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 06/05/2012
I dati, i numeri, non sono tutti uguali. Alcuni parlano più forte di altri, e dicono cose troppo serie per dimenticarli non appena la cronaca ci mostra altri numeri e altri dati. Un tasso di disoccupazione che è quasi raddoppiato in cinque anni non deve lasciarci in pace. Sotto quel 9.8% ci sono infatti nascosti, ma poi non così tanto, 500mila volti e storie di persone che in un solo anno hanno perso il lavoro, senza ritrovarne un altro. Certo, tra questi lavori persi ce ne saranno alcuni finiti perché iniziati male, artificialmente, senza creatività né intelligenza nelle imprese e nei lavoratori. Ma questi saranno un’esigua minoranza: tutti gli altri hanno perso semplicemente il loro lavoro.
Il posto di lavoro è un luogo dell’umano dove si soffre e si gioisce non solo per ottenere il salario, ma per dare senso al nostro vivere per anni in quel luogo e all’interno di quei rapporti. Quando quel posto di lavoro si perde, e non lo si voleva perdere, finiscono perse anche persone, storia, rapporti. Non dobbiamo infatti dimenticare che il lavoro, il lavorare e il posto di lavoro non sono mai faccende individuali e individualistiche. I mestieri non s’imparano studiando libri o, tanto meno, seguendo corsi online, ma solo praticandoli all’interno di comunità lavorative che sono anche queste comunità educanti. Si lavora all’interno di gruppi, uffici, reparti, dipartimenti; e imparare un mestiere significa, anche e soprattutto, apprendere l’arte di costruire relazioni significative e serie in quei luoghi, poiché lavorare è soprattutto inserirsi in una rete sociale.
Ecco perché la produzione e il valore aggiunto generati da un’impresa o da una organizzazione non sono mai la somma del prodotto di tanti individui in tanti singoli posti di lavoro, ma il frutto della coralità produttiva di un team, di un gruppo, di una comunità, che va ben oltre l’azienda includendo clienti, fornitori, concorrenti e territorio. Per questo, quando un lavoratore lascia un luogo di lavoro, si producono due grandi effetti. Innanzitutto il singolo lavoratore non perde solo il posto di lavoro ma, in un linguaggio un po’ arido, perde un investimento in un capitale specifico a quel luogo di lavoro, che il lavoratore uscendo porta con sé solo in minima parte. Il valore di un lavoratore in un’impresa – il suo cosiddetto 'capitale umano' – non dipende solo da quanto e cosa ha studiato, dal suo curriculum vitae. Dipende anche, e sempre più con il passare degli anni, dall’insieme di relazioni di cui si compone il suo lavorare, un capitale che non è però di sua proprietà, perché lo possiede solo quando si attivano quelle determinate relazioni, quei beni relazionali.
Ecco perché – il secondo effetto – quando un lavoratore lascia il suo posto di lavoro, è tutta la coralità produttiva di quel luogo che si impoverisce, e ci vuole tempo per ricreare il coro, soprattutto in quelle comunità di lavoro dove la conoscenza più importante è quella tacita contenuta nella testa e nell’anima delle persone, della quale non si possono mai dare fino in fondo 'le consegne' quando si parte.
Certo, a volte è bene che i gruppi si scompagino, si rinnovino, e che i lavoratori si ri-assemblino in nuove combinazioni produttive e in nuove comunità lavorative creative; ma quando lo scompaginamento dipende dalla crisi economica, chi esce dal gioco rischia di non rientrarci più, o di rientrarci tardi e a condizioni troppo sfavorevoli. Quando esco da un lavoro dove avevo investito quindici anni di vita e di intelligenza, e rientro con fatica grazie a una agenzia interinale a fare un lavoro stagionale, quei due posti di lavoro sono cose molto diverse, da troppi punti di vista.
Lavorare non è mai solo occupare un generico posto di lavoro, ma un esercizio morale fondamentale per capire il nostro posto e il nostro compito nel mondo. Quando allora in un Paese cinquecentomila persone perdono il lavoro accade qualcosa di molto grave, di molto più grave del calo degli indici di borsa, del calo dei consumi e persino dello spread e del Pil.
Una cultura che mette sullo stesso piano i numeri degli spread, quelli dei consumi e quelli del lavoro è una cultura disorientata e disorientante, perché non capendo la priorità del lavoro non capisce più neanche quelle esperienze umane importanti che sono il consumo e la finanza, ma che se perdono contatto con il mondo del lavoro, con i lavoratori, con la fatica o con il travaglio (una bella parola che evoca la generatività del lavoro), diventano subito consumismo edonista e finanza puramente speculativa. Perché è il lavoro che dà la giusta misura al rapporto con i beni e con il denaro.Quel 9.8% disoccupazione ci grida, insomma, che oggi la grande priorità dell’Italia e dell’Europa è il lavoro, ci obbliga a renderci conto che ormai ci sono milioni di giovani che nel mondo del lavoro non entreranno proprio. A meno che qualcuno - che non può più essere solo lo Stato o la grande impresa - il lavoro, questo benedetto lavoro, non lo crei e in un certo senso non lo reinventi.
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