Disoccupazione e creatività civile

Disoccupazione e creatività civile

di Luigino Bruni

pubblicato su Città Nuova n.22/2009

Quando andiamo a visitare un amico dopo un incidente, e gli chiediamo: «Come stai?», ci potrebbe rispondere: «La gamba sta guarendo, la costola fa ancora male, l’ematoma non è stato riassorbito, mentre il braccio è a posto». È questa la condizione dell’economia che sta cercando di uscire da un (grave) incidente. Le parti del “corpo” danneggiate dalla caduta del settembre 2008 sono state soprattutto tre: la struttura finanziaria, la produzione e l’occupazione. I dati sulla crisi e sulla ripresa sono contrastanti perché si parla oggi della gamba, ieri delle costole, domani dell’ematoma.

Fuor di metafora, la grave crisi del settore finanziario la possiamo dire superata: oggi non si rischia più un crollo di sistema (almeno per il futuro prossimo). La produzione reale sta ripartendo, e tra qualche mese è probabile che si torni a produrre con un segno del Pil positivo. Ciò che invece non guarisce è il mondo del lavoro: credo che, globalmente, non si tornerà più ai livelli occupazionali pre-crisi. Perché? Innanzitutto le crisi sono sempre momenti nei quali si distruggono assetti industriali in parte obsoleti e se ne creano di nuovi, sono momenti di “distruzione creatrice”. Inoltre con l’ingresso di nuovi grandi attori nel mercato i settori industrialmente maturi del Nord del mondo dovranno necessariamente ridimensionarsi.

Secondo alcune stime, nei prossimi anni l’economia tradizionale potrà occupare non più dei 2/3 dei lavoratori. Che fare? C’è una strada ancora poco sottolineata: potenziare e sviluppare la capacità e la vocazione produttiva della società civile, la cosiddetta economia civile. Occorre cioè che una quota maggiore di società civile e di famiglie non “cerchino” il lavoro presso le grandi imprese o lo Stato che lo ha “creato”, come diceva il modello tradizionale pre-2008. È necessario che la società civile sia sempre più capace di creare essa stessa lavoro, e non solo nei servizi di cura ma anche in settori ad alto valore aggiunto; e occorre che lo faccia in sinergia con le imprese tradizionali e con le istituzioni.

Bisogna poi superare l’idea di economia sociale, o non-profit, come di un settore finanziato in gran parte da contributi pubblici, perché questo modello non può essere sostenibile, se è vero che lo Stato ottiene ricchezza principalmente tassando la produzione delle imprese tradizionali (che saranno sempre di meno). È quindi urgente che l’economia civile attivi con capacità innovativa ricchezza privata e sia capace di produrre essa stessa valore aggiunto.


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