Bruni Varie

Economia Civile

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Intervista su Radio 3 a Fahrenheit

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Vedi articolo sulla trasmissione

Ascolta la trasmissione in diretta (3 gennaio 2013, dalle 16.00 alle 16.30, ore italiane) - per ascoltare la trasmissione in diretta streming occorre il programma realplayer scaricabile gratuitamente qui
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Intervista su Radio 3 a Fahrenheit

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Intervista su Radio 3 a Fahrenheit Giovedì 3 gennaio dalle 16.00 alle 16.30, Luigino Bruni è invitato negli studi di Rai di Roma per presentare il suo ultimo libro, Le prime radici. Le via italiana alla cooperazione ed al mercato al programma Fahrenheit, "Un mondo da leggere per leggere il mondo". ...
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Ecco come Luigino Bruni, economista all’Università Bicocca di Milano e all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, ha usato il suo dizionario economico sabato 9 giugno alla Gazzera (Mestre).

di Fabio Poles

pubblicato su Gente Veneta il 16/06/2012

Logo_GVonline

Crisi. Ogni crisi è sempre ambivalente, ne puoi uscire peggiore o migliore. Incattivito o migliorato. Possiamo uscirne più sobri, meno inquinatori, meno soli. Il mondo va guardato con positività. Questo travaglio che stiamo vivendo è un travaglio da iperconsumo che ha portato problemi.

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La fame di vita delle persone la colmi con i beni? No. L’importante in questa fase di crisi è che se c’è qualcuno che ha qualcosa da dire e fare, dica e faccia. La gente che ha ricevuto una speranza deve lavorare, deve mettersi alla testa dei processi di cambiamento. La speranza è una virtù e va esercitata, non solo annunciata. E’ una forma di carità intellettuale, di testimonianza. Quindi: se ci muoviamo in questa direzione sarà una bella crisi, se non lo facciamo sarà una brutta crisi.

Festa. L’uomo è un animale simbolico, ha bisogno di una liturgia. Quando sei in crisi, non puoi tagliare i regali di Natale, non puoi togliere i momenti di festa. Sono questi simboli che ti danno la forza per superare le difficoltà. Bisogna valorizzare i “premi”, simboli pubblici e non monetari (non gli incentivi che sono monetari e vogliono comprare ciò che non ha prezzo) per sottolineare i comportamenti virtuosi. Quando sei in crisi non vedi le cose. Bisogna tirarsi un po’ fuori, dedicare tempo a fare altro, la festa appunto, e mettersi nelle condizioni di uscire dalla situazione che non ti fa vedere le nuove opportunità.

Fiducia. La fiducia terapeutica, quella che ti fa migliore, è sempre esposta al rischio di ferita. Siamo tutti un po’ Caino ed un po’ Abele. Un mondo che vuole diventare a rischio zero sarà un mondo invivibile. Insomma: non aiuti un giovane evitandogli le fatiche e i rischi di insuccesso. Piuttosto diamogli strumenti per vivere e superare le frustrazioni della vita. La ferita, la vulnerabilità nella vita è come un vaccino. Sono le piccole ferite che ti aiutano a superare poi le “grandi botte”.

Finanza. Non distruggiamo tutto quello che di buono abbiamo costruito in secoli di storia. Una metafora? La finanza è una pianta che va potata perché è diventata troppo grossa e mangia le altre. Ma un mondo senza finanza è un mondo più povero. Il mercato è un fatto umano e siamo noi uomini ad averlo ridotto così come è adesso. Come? Se mi chiedi il 7% di interesse indipendentemente da tutto, poi non ti puoi lamentare se finanzio cose “cattive”. Insomma: devo essere io per primo ad influenzare il mio mondo, devo chiedere “cosa fai con i miei soldi?”. Bisogna agire qui ed ora. Lo sdegno diventa civile se ti muove all’azione. Sennò resta una forma di consumismo.

Gratuità. E’ un tema immenso ma questa parola l’abbiamo così ridotta proprio male. E’ diventata: gratis, prezzo zero. Ma si rifà invece alla “charis” greca, alla grazia, a nessun valore cioè a prezzo immenso. Per lavorare lo stipendio è già un’ottima motivazione. Ma per lavorare bene ci vuole gratuità. Al lavoro ben fatto serve quell’eccedenza che o ce la metti come dono o il lavoro non viene bene. L’arte dell’impresa è quella di avere questa parte delle persone senza comprarla perché questa dimensione non è acquistabile. Le cose vanno fatte bene perché hanno una vocazione, non perché vengono comprate. Al tempo stesso, per essere valorizzata, la “gratuità” esige ascolto e tempo.

Lavoro nero. Un’impresa che non fattura, non cresce, rimane bonsai. Non può re-investire i soldi che non ha registrato. Anche per questo oggi le banche non danno prestiti: perché vedono bilanci senza utili, occultati proprio non fatturando. Ma bisogna cambiare le regole del gioco, riformare il sistema fiscale e farlo funzionare un po’ meglio perché molto spesso oggi sembra invitare all’evasione.

Provvidenza. E’ una bella parola. Molto laica perché vuol dire che alla fine i giusti vincono. Il bene è più profondo del male. La Provvidenza vuol dire che se sei fedele al bene, prima o poi si vede. Magari il bene viene ad un altro e non a te ma il bene vince. La Provvidenza vera ti sorprende sempre perché arriva quando non te l’aspetti più. Comportati bene, in modo giusto e virtuoso e confida nel fatto che nessun atto di verità rimane impagato.

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Ecco come Luigino Bruni, economista all’Università Bicocca di Milano e all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, ha usato il suo dizionario economico sabato 9 giugno alla Gazzera (Mestre).

di Fabio Poles

pubblicato su Gente Veneta il 16/06/2012

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Crisi. Ogni crisi è sempre ambivalente, ne puoi uscire peggiore o migliore. Incattivito o migliorato. Possiamo uscirne più sobri, meno inquinatori, meno soli. Il mondo va guardato con positività. Questo travaglio che stiamo vivendo è un travaglio da iperconsumo che ha portato problemi.

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Sette parole per uscire dalla crisi

Ecco come Luigino Bruni, economista all’Università Bicocca di Milano e all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, ha usato il suo dizionario economico sabato 9 giugno alla Gazzera (Mestre). di Fabio Poles pubblicato su Gente Veneta il 16/06/2012 Crisi. Ogni crisi è sempre ambivalente, ne pu...
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Speciale Insieme per l'Europa -  Pubblichiamo il discorso tenuto oggi a Bruxelles da Luigino Bruni, professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca, in occasione della Giornata “Insieme per l’Europa”.

di Luigino Bruni

pubblicato su Zenit il 12/05/2012

Logo_ZenitL’Europa è stata la terra sulla quale è fiorita l’economia di mercato, con un contributo decisivo del cristianesimo, e dei suoi carismi (basterebbe pensare al solo monachesimo).

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Oggi questa economia di mercato vive in Europa una profonda crisi, dovuta a due principali fattori: innanzitutto il peso eccessivo che la finanza speculativa ha assunto in rapporto all’economia reale: la finanza è civile finché è sussidiaria (al servizio) dell’economia reale; diventa incivile e dannosa quando il rapporto si inverte, e beni, servizi, ambiente e lavoratori vengono asserviti e strumentalizzati dai capitali speculativi.

Una seconda causa è una cultura fondata sul consumo, che tende a trasformare i beni, anche quelli relazionali, in merci, e così a marginalizzare il lavoro umano. Ecco perché alla radice di questa grave crisi c’è un deficit antropologico, etico, relazionale e quindi spirituale.

Che fare allora?

Occorrono molte cose nuove. Comunità e Movimenti cristiani e i loro carismi hanno però un contributo specifico da dare, e a più livelli.

Innanzitutto c’è il livello della testimonianza e della vita quotidiana: l’Europa, grazie ai tanti carismi vivi in essa, è già popolata di donne e uomini che testimoniano stili di vita sobri, amanti dell’ambiente, che sanno condividere i beni e usarli come ponti di comunione e di comunità. Tutto questo c’è già, ma oggi l’urgenza dei tempi ci spinge a fare di più, e a farlo di più insieme. Questo primo livello vitale è la base di tutti gli altri, che sono le nuove forme di finanza etica, il consumo critico solidale, le cooperative, le imprese sociali.

A questo proposito, significativo è il progetto dell’Economia di comunione, che nato nel 1991 per iniziativa di Chiara Lubich oggi riscuote l’attenzione di molti imprenditori, lavoratori, ed economisti di vari movimenti cristiani, in tutti i continenti.

Questa esperienza pilota, ancora in seme, lancia un messaggio forte al sistema capitalistico: dice che la vera natura dell’impresa è generare comunione, e che il profitto ha una vocazione sociale e quindi va condiviso. Essa ci dice che l’impresa oggi non fa abbastanza per il Bene comune se si accontenta di pagare le tasse e rispettare le leggi, e delegare allo Stato o ai filantropi tutto il resto. Non basta più: l’impresa deve usare la ricchezza per la creazione di lavoro e non per la speculazione, per la formazione dei giovani e per progetti a vantaggio degli esclusi. La povertà è sempre il grande criterio su cui misurare il Bene comune: se vuoi sapere se una società è giusta, guarda come tratta i più poveri.

È un messaggio forte perché dice che usciremo da questa crisi ripensando non solo la funzione della finanza ma anche la natura dell’impresa e del profitto. È questo il principale messaggio di questa crisi economica, se vogliamo ascoltarlo e raccoglierlo.

Rilanciando e annunciando una economia come comunione diamo e daremo il nostro apporto ad una finanza e ad una economia di comunione, alleate e amiche del Bene comune. I carismi cristiani hanno contribuito a far nascere la prima economia di mercato: oggi possono e quindi devono dare il loro essenziale contributo per farla rinascere.

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Speciale Insieme per l'Europa -  Pubblichiamo il discorso tenuto oggi a Bruxelles da Luigino Bruni, professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca, in occasione della Giornata “Insieme per l’Europa”.

di Luigino Bruni

pubblicato su Zenit il 12/05/2012

Logo_ZenitL’Europa è stata la terra sulla quale è fiorita l’economia di mercato, con un contributo decisivo del cristianesimo, e dei suoi carismi (basterebbe pensare al solo monachesimo).

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"Quale economia per il Bene comune?"

Speciale Insieme per l'Europa -  Pubblichiamo il discorso tenuto oggi a Bruxelles da Luigino Bruni, professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca, in occasione della Giornata “Insieme per l’Europa”. di Luigino Bruni pubblicato su Zenit i...
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Oggi il mercato ci offre divertimento, ma ha smarrito il senso autentico della festa

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, maggio 2012

LOGO_Mondo_e_missione_ridIl 30 maggio il professor Luigino Bruni terrà uno dei principali interventi al Congresso teologico-pastorale, presso Fieramilano City, nel contesto del VII Incontro mondiale delle famiglie. Il tema affrontato sarà: “La famiglia, il lavoro e la festa nel mondo contemporaneo”.

C’ è una nuova forma di fame che sta colpendo le nostre società consumistiche e capitalistiche: la fame di tempo. Una delle ragioni che è stata per millenni alla base del divieto del prestito di denaro a interesse (o usura), era la convinzione che il tempo non fosse un bene a disposizione degli uomini, ma di Dio.

E quindi, se il tempo è di Dio, e se in un prestito di denaro ciò che cambia tra la concessione del prestito e la sua restituzione è solo il tempo (che è trascorso), se chiedo interessi è come se lucrassi sul tempo.

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Oggi assistiamo, invece, allo scenario opposto: il tempo è la principale risorsa scambiata sul mercato: che cosa sono, infatti, elettrodomestici, cibi surgelati, lavanderie-stirerie,badanti,domestici e domestiche,treni ad alta velocità e trasporti aerei... se non vendita e acquisto di tempo? Il «mercato del tempo» è di gran lunga quello in crescente e costante crescita.

La domanda cruciale, però, diventa: comprare tempo per fare che cosa? Si pone infatti a questo livello uno dei principali paradossi del nostro tempo: ci si affanna a comprare tempo liberato da occupazioni che non amiamo (o che non amiamo più), senza avere in genere alcuna idea sul buon uso del tempo liberato o comprato. E quindi accade il fattaccio: il tempo, che acquistiamo grazie alla ricchezza guadagnata nel mercato del lavoro, lo investiamo ancora per lavorare o per consumare, cadendo in un «circolo virtuoso» tutto interno alla sfera economica, liberi di muoversi in tanti luoghi, ma sostanzialmente schiavi dell’unico meta-luogo che si chiama mercato. Questa fame di tempo, di conseguenza, non può essere mai saziata, creando nevrosi e malattie varie.

Un segnale evidente di questa nuova malattia è la trasformazione della festa in divertimento. Nella cultura tradizionale, i tempi del lavoro erano scanditi in rapporto ai tempi della festa. La festa si celebrava perché era il frutto dei tempi del lavoro (nei campi o nella fabbrica), e richiedeva molto tempo sia la sua preparazione, sia la sua celebrazione. Feste religiose, battesimi, matrimoni erano preparati lungamente prima, e celebrati lungamente durante: il tempo era il loro principale carburante.

La festa, poi, non si poteva acquistare in nessun mercato, perché era una faccenda di gratuità, un bene relazionale, e per questa la festa è sempre una esperienza lenta. Anzi, lo «spreco di tempo» è proprio una delle caratteristiche fondamentali della festa, che altrimenti non è.

La cultura attuale della carestia di tempo non conosce più la festa (perché usa e consuma, non ama, il tempo), ma il divertimento, che invece può e deve essere comprato, e non richiede neanche la compagnia degli altri. Il divertimento non ha bisogno del tempo, ma deve essere veloce, fast. Se oggi non recuperiamo un sano rapporto col tempo-gratuità, e continuiamo a comprarlo e usarlo, perderemo sempre più contatto con la gioia di vivere, che non nasce dal divertimento (che invece conosce forse il piacere), ma solo dalla festa.

Con questa puntata si conclude il cammino di “Contro la fame cambIO la vita”. Ringraziamo di cuore Luigino Bruni - la cui collaborazione con Mondo e Missione continuerà in altra forma - per i suoi preziosi e apprezzati contributi.

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Oggi il mercato ci offre divertimento, ma ha smarrito il senso autentico della festa

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, maggio 2012

LOGO_Mondo_e_missione_ridIl 30 maggio il professor Luigino Bruni terrà uno dei principali interventi al Congresso teologico-pastorale, presso Fieramilano City, nel contesto del VII Incontro mondiale delle famiglie. Il tema affrontato sarà: “La famiglia, il lavoro e la festa nel mondo contemporaneo”.

C’ è una nuova forma di fame che sta colpendo le nostre società consumistiche e capitalistiche: la fame di tempo. Una delle ragioni che è stata per millenni alla base del divieto del prestito di denaro a interesse (o usura), era la convinzione che il tempo non fosse un bene a disposizione degli uomini, ma di Dio.

E quindi, se il tempo è di Dio, e se in un prestito di denaro ciò che cambia tra la concessione del prestito e la sua restituzione è solo il tempo (che è trascorso), se chiedo interessi è come se lucrassi sul tempo.

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La «fame di tempo» del consumismo

Oggi il mercato ci offre divertimento, ma ha smarrito il senso autentico della festa di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, maggio 2012 Il 30 maggio il professor Luigino Bruni terrà uno dei principali interventi al Congresso teologico-pastorale, presso Fieramilano City, nel contesto del...
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L’attuale modello economico genera povertà anche nei Paesi ricchi: un dramma per tanti

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, aprile 2012

LOGO_Mondo_e_missioneSono in viaggio da Milano a Bergamo. Il treno è in ritardo, strapieno; trovo un posto libero, mi siedo ma subito mi accorgo che il sedile è zuppo d’acqua. Faccio il viaggio in piedi e sperimento una situazione di disagio non troppo diversa (sebbene meno drammatica) da quelle che ho provato quando ho dovuto prendere il treno in alcuni Paesi del Sud del mondo. Poche ora prima ero, invece, arrivato a Milano con una Freccia rossa a 300 km all’ora, con i massimi comfort e con la massima puntualità. E con il massimo prezzo.

L’Italia sta seguendo la sorte di tanti altri Paesi a tradizione comunitaria e solidarista, che, per una ventata ideologica forte proveniente dagli Usa, negli ultimi due decenni hanno imboccato decisamente la strada del libero mercato capitalistico, una strada rilanciata in grande stile anche dal necessario, e per altri versi provvidenziale, governo Monti.

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La mia esperienza di viaggio ben rappresenta la direzione verso la quale l’Occidente si sta muovendo: un crescente divario tra classi ricche e classi popolari o povere, crescenti comfort e opportunità per chi è dentro il club dei benestanti e forti, crescenti disagi e nuove forme di povertà per chi è fuori da questa élite. Una tendenza confermata dai dati sulla diseguaglianza, che mostrano come la ricchezza dell’Italia sia sempre più posseduta da una sempre più piccola frazione di popolazione (meno del 10 per cento detiene più del 50 per cento della ricchezza).

Il capitalismo di nuova generazione (quello individualista-finanziario) sta infatti mutando velocemente forma. Fino all’inizio degli anni Ottanta, la geopolitica del mondo era divisa essenzialmente tra Paesi più ricchi e Paesi più poveri, poiché, soprattutto per il Nord del mondo (eccettuando gli Usa), la crescita del Pil era anche una crescita media del benessere della popolazione. L’economia di mercato includeva fasce crescenti di esclusi e li portava a buone condizioni di vita. Da un quarto di secolo, invece, il capitalismo ha cambiato volto, e la povertà torna ad essere creata dal capitalismo stesso: non solo nei Paesi del Sud, ma anche all’interno dei Paesi “ricchi”. In essi assistiamo al fenomeno triste delle mense Caritas popolate dall’ex ceto medio, e al preoccupante aumento dei furti alimentari nei supermercati.

Un primo elemento importante in questo cambiamento lo gioca la finanza, poiché il capitalismo finanziario fa più ricco chi è già ricco. Un secondo elemento cruciale, su cui si riflette poco, è la progressiva diminuzione dei beni pubblici nei Paesi del Nord. Avere 1.000 euro al mese in una città che offre beni pubblici nei servizi essenziali (sanità, scuola, asili, assistenza anziani, trasporti...) è ben diverso, in termini di povertà e benessere, dall’avere 1.000 euro in mancanza di questi. Oggi la popolazione europea si sta impoverendo perché l’aumentare del mercato e della sua logica (domanda pagante) sottrae spazio ai beni pubblici che diventano privati e, quindi, accessibili solo a chi è dentro il club. Questo ha effetti devastanti sull’istruzione dei giovani più poveri e sulla mobilità sociale. Quando un Paese taglia i beni pubblici, anche se aumenta il reddito medio (come accade in Paesi come il Cile, ad esempio), di fatto impoverisce la fascia medio-bassa, che può ritrovarsi con più reddito in busta paga, ma più povera. La povertà e la ricchezza non sono faccende individuali: sono rapporti tra persone, beni (o mali) relazionali. E se l’avanzare del mercato riduce i beni pubblici, questo finisce per impoverire e affamare la gente.

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L’attuale modello economico genera povertà anche nei Paesi ricchi: un dramma per tanti

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, aprile 2012

LOGO_Mondo_e_missioneSono in viaggio da Milano a Bergamo. Il treno è in ritardo, strapieno; trovo un posto libero, mi siedo ma subito mi accorgo che il sedile è zuppo d’acqua. Faccio il viaggio in piedi e sperimento una situazione di disagio non troppo diversa (sebbene meno drammatica) da quelle che ho provato quando ho dovuto prendere il treno in alcuni Paesi del Sud del mondo. Poche ora prima ero, invece, arrivato a Milano con una Freccia rossa a 300 km all’ora, con i massimi comfort e con la massima puntualità. E con il massimo prezzo.

L’Italia sta seguendo la sorte di tanti altri Paesi a tradizione comunitaria e solidarista, che, per una ventata ideologica forte proveniente dagli Usa, negli ultimi due decenni hanno imboccato decisamente la strada del libero mercato capitalistico, una strada rilanciata in grande stile anche dal necessario, e per altri versi provvidenziale, governo Monti.

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Il capitalismo erode i «beni di tutti»

L’attuale modello economico genera povertà anche nei Paesi ricchi: un dramma per tanti di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, aprile 2012 Sono in viaggio da Milano a Bergamo. Il treno è in ritardo, strapieno; trovo un posto libero, mi siedo ma subito mi accorgo che il sedile è zuppo d’a...
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Intervista a Luigino Bruni

di Francesco Anfossi

pubblicato su L'Eco di Bergamo il 16/03/2012

Logo_eco_bergamoIl lavoro deve nascere dal basso, dalla << gente, dalle passioni, dagli incontri. E'accaduto dopo la crisi del ”29 o nel Dopoguerra. Deve accadere anche oggi››. Per Luigino Bruni, docente di Economia politica all”Università Milano Bicocca i veri «animal spirit›› della ripresa italiana appartengono a quella fascia intermedia tra Stato e mercato che si definisce «economia civile».

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Anche di questo Bruni parlera a Bergamo mercoledì 21 marzo («Un ripensamento del modello economico››) nell”ambito dei Percorsi vicariali sulla carità e sul piano pastorale. Appuntamento alle 20,45 presso la parrocchia di San Paolo, in città.

Economia civile. Si riferisce al cosiddetto mondo non profit?

«Non solo. Se si estendessero alcuni incentivi previsti per le onlus dedite all”assistenza e alla sanità anche alle cooperative sociali, potremmo creare tanto lavoro dalbasso. Dando al sociale la possibilità di gestire non solo ospedali, cliniche e centri di assistenza, ma anche energia rinnovabile, spazi verdi, musei, arte, cultura, turismo. Perché non immaginare un mondo così? Perché non capire che c”è una societa civile che si occupa del bene comune anche se non è un ospedale o una mensa? Un mondo, più che non profit, low profit, dove il profitto non va solo nelle tasche degli azionisti, ma a tutta la comunità››.

Ma questo governo <> va in direzione opposta. Basterebbe citare la statalizzazione dell'Agenzia del Terzo settore, il mancato rifinanziamento al fondo per le ong...

«Il principale problema del govemo è che non ha un”idea di Italia. Proprio perché si tratta di tecnici, di docenti o manager che vengono dal mondo accademico o finanziario. Propongono modelli che valgono per l”Italia come per Danimarca o Stati Uniti o Germania. Non tengono conto della peculiarità italiana».

Cioè? Le microimprese?

«Non solo. Abbiamo un Terzo settore che è il più ricco al mondo. Ha una storia che parte dal Medioevo, passa per l”Ottocento e per il cattolicesimo popolare, per le casse rurali, le casse di risparmio, i sindacati, gli ordini religiosi che hanno fatto scuole e ospedali, le cooperative. La capillarita dell”economia sociale italiana è un primato mondiale. Qui il Welfare è nato dagli ordini religiosi e dai parroci, non lo ha inventato lo Stato. Noi abbiamo un tessuto straordinario che questo governo non vede, perché non lo conosce. Pensi al progetto di tenere aperti i negozi tutti i giorni e a tutte le ore. Non capiscono che l”Italia non è l”Ikea: è un tessuto di piccole attivita, di negozietti che tengono vivi comuni, centri storici››.

Questo governo però ci sta tirando fuori dalla palude finanziaria...

«Tutti sapevano che l”Italia non è la Grecia. Se non cambiavamo politica finivamo al default. Ma era un problema di insicurezza che si dava ai mercati. Dal punto divista economico il peggio deve ancora arrivare. Purtroppo per molti aspetti la manovra è iniqua in?attiva e recessiva. Pensi all”aumento dell”Iva. Le famiglie, quando vedono che i prezzi aumentano, consumano di meno. I consumi a Natale in alcuni settori sono scesi al 30%. Se abbiamo superato il pericolo finanziario sono molto preoccupato per tutto il resto: economia reale, occupazione, spesa sociale: il governo farà 20 miliardi di tagli e non so davvero che ne sarà dei servizi pubblici».

Che ne pensa del cantiere delle riforme sul lavoro?

«Da economista dico che le prime a sapere che senza lavoro non c”è sviluppo sono le imprese. Le imprese non pensano`al lavoro solo come a un costo. E un' idea un po'astratta di cui si parla in tv. L”impresa sa benissimo che il lavoratore è una risorsa straordinaria. Non pensano che il licenziamento sia la soluzione. La mia impressione è che il dibattito sia un po' sfocato in questi giorni. Io vedo un enorme problema nel settore pubblico. Abbiamo un 60% del Pil che passa attraverso lo Stato. Riporterei l'attenzione su cose più prioritarie: che tipo di settore pubblico vogliamo immaginare per prossimi dieci anni? Vogliamo un'amministrazione ipertrofica o vogliamo posti di lavoro sostenibili, attraverso la creazione di un terziario sociale, attento ai bisogni veri della gente e delterritorio?››.

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Intervista a Luigino Bruni

di Francesco Anfossi

pubblicato su L'Eco di Bergamo il 16/03/2012

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«Attenti, oggi il lavoro va creato dal basso»

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Partecipazione di Luigino Bruni a "L'Infedele"

Logo_L_Infedele_La7Lunedì 19 marzo, alle ore 21.10 Luigino Bruni insieme a Johnny Dotti ed altri ospiti, è stato invitato alla trasmissione di Gad Lerner su La 7, L'infedele.

La trasmissione tratterà dei temi della crisi economica. Nell'occasione Luigino Bruni presenterà il suo ultimo libro "Le nuove virtù del mercato", in uscita in questi giorni per Città Nuova.bruni

Sarà possibile seguire la trasmissione in streaming al link: http://www.la7.it/infedele/ , dove in seguito si potrà rivedere la trasmissione.

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dal sito di Gad Lerner

L'Infedele: crollo dei consumi, Italia a secco

Stasera su La7 alle 21,10 L’Infedele segue in diretta la trattativa per rendere il mercato del lavoro più flessibile, come si dice, “in entrata” e “in uscita”. Ci affideremo alla visione storica di un vecchio sindacalista senza macchia e senza paura come Pierre Carniti per capire a chi conviene davvero stipulare un accordo nei prossimi giorni e chi invece trova preferibile un’iniziativa unilaterale del governo. Ma lo faremo tenendo i piedi ben piantati nell’esperienza reale della crisi, così come la stanno vivendo gli italiani: con il traffico automobilistico drasticamente calato in seguito ai costi esorbitanti della benzina (nei primi due mesi del 2012 il consumo di carburanti è crollato del -9,6%); e con i consumi alimentari, di bevande e tabacchi retrocessi ai livelli di trent’anni fa.

Davvero crediamo che la ripresa si ottenga con maggiore flessibilità nel lavoro e riproponendo il modello di consumi entrato in crisi? Oppure avremo ipermercati aperti 24 ore su 24 con la gente frustrata che si limita a guardare le vetrine? E’ la tesi di Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Bicocca di Milano, editorialista dell’”Avvenire” e animatore del movimento dei Focolarini, che sarà nostro ospite stasera. Si confronterà con un collega di matrice bocconiana come Andrea Ichino, docente all’Università di Bologna, che ci invita a considerare gli aspetti positivi dell’attuale calo di consumi superflui o nocivi. Ne discuteranno con loro Roberto Pedretti, amministratore delegato della Nielsen, una società che studia i comportamenti dei consumatori, il presidente di “Welfare ItaliaJohnny Dotti, e Dario Di Vico del “Corriere della Sera”.

Ma protagonista della serata dell’Infedele sarà una platea composta in larga misura di giovani lavoratori precari e studenti, visto che è proprio nel nome e in rappresentanza dei giovani che il governo Monti tiene a legittimare la riforma del mercato del lavoro. Parleranno tra gli altri Massimo Laratro di San Precario, la ricercatrice universitaria Francesca Coin e Flavia Ruggeri di Occupywelfare. Accanto a loro le commesse degli esercizi commerciali cui viene richiesto il lavoro domenicale e l’apertura 24 ore su 24, rappresentate da Roberta Griffini del negozio Zara di Milano. Mentre il segretario regionale del Cna (artigianato) del Veneto, Mario Borin, ci spiegherà perchè a suo parere la riforma Fornero provocherebbe migliaia di licenziamenti nella sua regione.


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Partecipazione di Luigino Bruni a "L'Infedele"

Logo_L_Infedele_La7Lunedì 19 marzo, alle ore 21.10 Luigino Bruni insieme a Johnny Dotti ed altri ospiti, è stato invitato alla trasmissione di Gad Lerner su La 7, L'infedele.

La trasmissione tratterà dei temi della crisi economica. Nell'occasione Luigino Bruni presenterà il suo ultimo libro "Le nuove virtù del mercato", in uscita in questi giorni per Città Nuova.bruni

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19 marzo: Luigino Bruni a L'Infedele

Partecipazione di Luigino Bruni a "L'Infedele" Lunedì 19 marzo, alle ore 21.10 Luigino Bruni insieme a Johnny Dotti ed altri ospiti, è stato invitato alla trasmissione di Gad Lerner su La 7, L'infedele. La trasmissione tratterà dei temi della crisi economica. Nell'occasione Luigino Bruni presenter...
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di Micol Andreasi

pubblicato su Il Secolo d'Italia il 15/03/2012

Logo_secoloIn piena recessione economica, mentre dilaga la sfiducia nei confronti degli istituti di credito e più persone sognano un mondo giusto e solidale finalmente liberato dai mercati, dalla moneta e dalle banche, è davvero possibile parlare di virtù del mercato? Luigino Bruni, docente di Economia politica all'Università  Bicocca-Milano lo fa nel suo ultimo libro edito da Città Nuova, in libreria da aprile e intitolato appunto Le nuove virtù del mercato. Nell'era dei beni comuni.

Il professor Bruni, autore anche de: La ferita dell'altro. Economia e relazioni umane, L'impresa civile. Una via italiana all'economia di mercato e L ”ethos del mercato, ci riprova e con un'analisi lucida e attenta riafferma la possibilità di uno sviluppo economico che riscopre il valore delle relazioni, che valorizza la qualità dei rapporti umani e che, non senza fatica, riafferma la priorità della dimensione etica.

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«Per parlare di virtù del mercato - spiega Bruni - dobbiamo prima liberarci da vecchie e sclerotizzate ideologie secondo cui tutte le attività umane sono virtuose tranne l'economia. Ciò è falso e ci ha impedito per decenni di riaprire una stagione di critica profonda del nostro sistema economico. Io dico che il mercato, in quanto attività umana, è perfettibile e quindi sempre da sottoporre alla critica del pensiero e soprattutto in momenti di crisi e di difficoltà. Non si esce infatti da unempasse della vita se non si ritrova il proprio “daimon” socratico, se non si attinge alla parte migliore di sé, se non si trova o ritrova la propria vocazione profonda».

Niente pessimismi allora?

Dobbiamo tenere presente che l'attuale fase dell`economia di mercato - che potremmo chiamare capitalismo finanziario individualista nasce da un pessimismo antropologico che risale almeno a Lutero, a Calvino, ad Hobbes. È sull'ipotesi che gli esseri umani siano radicalmente opportimisti e auto interessati per pensare al bene comune che poggia la teoria economica e il sistema economico. Ma di una sconfitta antropologica si tratta, a cui non dobbiamo concedere l'ultima parola. Credo che abbiamo il dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo più positivo sul mondo, sull'uomo, sulla politica e sull'economia.

Il suo invito è a ripartire dalla parte migliore del sistema economico, a puntare sulle virtù nuove del mercato, ma quali sono?

Nel mondo semplice della pre globalizzazione dove i beni d'interesse erano solo quelli privati, la competenza, l'impegno, la dedizione, la competitività erano virtù che se ben coltivate portavano sempre buoni frutti. Se ogni imprenditore pensava ai propri interessi e lo faceva bene, tutto funzionava e cresceva anche il bene oomune. La globalizzazione ha aperto la strada all'era dei beni comuni (energia, ambiente, acqua...). Li ha anteposti a ogni altro interesse. E cosi facendo ha invalidato la metafora della mano invisibile di Adam Smith.

Le vecchie virtù non bastano più?

Non basta più che ciascuno pensi al proprio per accrescere il bene comune. Le vecchie virtù, quindi, non bastano. Bisogna attrezzarsi di nuove, come la cooperazione, 1'antinarcisismo, la prudenza, la fratemità, la mutua assistenza, la civile concorrenza, la speranza, l'umiltà o il sapersi fermare: virtù capaci di far convergere il mutuo vantaggio con l'interesse privato. La crisi che stiamo vivendo ci mette di fronte all'urgenza di un cambio di prospettiva. Dobbiamo cioè imparare a leggere il mondo dentro a una cornice dove l'io coincide, con il noi. Si tratta indubbiamente di un cambiamento difficile e che dal punto di vista pratico richiede lo sforzo del singolo, ma anche della politica, della giustizia, della finanza, per individuare insieme gli strumenti più efficaci nazionali, sia internazionali.

Sta dicendo forse che la società e il mondo è da intendersi come un corpo unico?

Proprio cosi. È una convinzione che ha una radice antica e che la rivoluzione moderna ha negato considerandola illiberale. Nel nome delle libertà individuali, la modernità si è schierata contro tutti i corpi collettivi, ha affermato l'immagine di un mondo fatto di parti indipendenti, slegate, separate. Ma è arrivata la globalizzazione a mostrare come il mondo in realtà non abbia mai smesso di essere un corpo solo. Così se una parte del corpo, anche se piccola, si ammala e non ce ne prendiamo cura, tutto il corpo rischia di indebolirsi e di morire. Lo vediamo oggi con la Grecia. Rappresenta solo un'unghia del corpo Europa, ma rischia di mandare in cancrena tutte le altre parti.

Puntiamo i riflettori sull”Europa...

L'Europa può guardare alla Grecia come a un governo e a un popolo che ha sbagliato e deve pagare. Può lasciare che si arrangi, con tutti i rischi che conosciamo. Oppure può offrire a quella gente una nuova opportunità per ricominciare. Per farlo, però, l'Europa dovrebbe essere un'Europa di popoli legati da un patto, prima che da un contratto di natura prevalentemente bancario o finanziario. Abbiamo ancora un po' di strada da fare in questo senso.

Che cosa manca alla politica perché riesca a dare forma ad azioni capaci di costruire una società nuova?

Mancano le persone giuste. Il problema principale della politica italiana è che molto spesso ha le persone sbagliate nei posti di governo, attratte più per motivazioni di interesse esclusivamente privato che per amore del “bene comune”. Chi studia economia impara presto una legge fondamentale che è quella “de1l'attrazione perversa”. Signifca che un'organizzazione attrae le persone in base ai segnali che emette. Se la nostra politica è il luogo delle garanzie, dei privilegi e del lusso, di certo non attirerà gente sensibile al bene comune. Ma dal basso oggi qualcosa si sta muovendo. Sono fiducioso che si aprirà presto una nuova stagione politica.

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Virtù e mercato non sono così inconciliabili...

di Micol Andreasi pubblicato su Il Secolo d'Italia il 15/03/2012 In piena recessione economica, mentre dilaga la sfiducia nei confronti degli istituti di credito e più persone sognano un mondo giusto e solidale finalmente liberato dai mercati, dalla moneta e dalle banche, è davvero possibile parla...
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«Solo un povero può aiutare davvero un povero». Ripensiamo così la cooperazione internazionale: la prima risorsa è la condivisione

di Luigino Bruni

 pubblicato su Mondo e Missione, marzo 2012

LOGO_Mondo_e_missione«Non ho né oro né argento», si legge negli Atti degli Apostoli, che ci raccontano l’azione di Pietro e Paolo e delle prime comunità cristiane. È, questa, una frase importante, anzi essenziale per chiunque voglia aiutare veramente una persona, una famiglia, una comunità che si trova nell’indigenza.

Quando, infatti, si hanno «oro e argento» si cade spesso nella tentazione di pensare che siano i mezzi (denaro, risorse, tecnologia…) il principale  contributo che si può offrire. Ci si affida così a questi mezzi, e ci si dimentica il fine, cioè il fatto che nelle persone, soprattutto se ancora giovani e sane, rinasca la voglia di vivere, di alzarsi e rimettersi (o mettersi) in cammino.

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Quando, al contrario, mancano fondi e risorse, di fronte a una persona in difficoltà si dà solo quanto si possiede: un’amicizia, un ascolto, una parola, una condivisione. E, talora, si riesce persino ad annunciare il Vangelo, che è tra le risorse più potenti per sconfiggere indigenza e miseria, se accolto in tutta la sua carica dirompente e sovversiva.

Ho conosciuto comunità cristiane che per anni aiutavano gruppi di famiglie senza denaro, ma accompagnando e condividendo la vita quotidiana. A un certo punto tali comunità hanno avuto l’accesso a progetti di sviluppo, grazie ai quali sono arrivate anche le risorse economiche. È così accaduto che, senza che nessuno l’avesse né voluto né tantomeno previsto, quelle risorse abbiano progressivamente determinato tre gravi danni. In primo luogo, queste comunità cristiane hanno aumentano di poco ma progressivamente i loro standard di vita (auto migliori, case con aria condizionata …), creando così una graduale distanza dal resto della comunità locale. Nelle persone aiutate, inoltre, si è creato un atteggiamento di attesa e di pretesa di aiuto, poiché quella comunità cristiana era avvertita non più come povera-tra-poveri, ma ricca, non più “con”, ma “per” loro. Infine, mentre nei tempi della povertà condivisa, davanti a una richiesta di aiuto non avendo altre risorse, si condivideva quella richiesta (e una crisi diventava anche l’opportunità per rinsaldare i rapporti comunitari e la comunione), ora con l’arrivo delle risorse economiche davanti a una emergenza si cade spesso nella tentazione di “dare”, anziché di fare-assieme, condividendo.

Si produce così, nel tempo, un allentamento e uno sfilacciamento dei legami comunitari.

«Solo un povero può aiutare veramente un povero », soleva ripetere spesso un mio amico missionario. Il denaro e le risorse sono buone se sono sussidiarie al rapporto e ai legami comunitari, e così diventano autentica Provvidenza e moltiplicatori di comunione e sviluppo umano; quelle stesse risorse economiche, però, si trasformano in autentiche disgrazie quando il denaro, il cash nexus, si sostituisce al più costoso rapporto fatto di fiducia e di condivisione quotidiana della vita.

Penso che il presente e il futuro della cooperazione internazionale si giochino anche su questo registro relazionale. 

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«Solo un povero può aiutare davvero un povero». Ripensiamo così la cooperazione internazionale: la prima risorsa è la condivisione

di Luigino Bruni

 pubblicato su Mondo e Missione, marzo 2012

LOGO_Mondo_e_missione«Non ho né oro né argento», si legge negli Atti degli Apostoli, che ci raccontano l’azione di Pietro e Paolo e delle prime comunità cristiane. È, questa, una frase importante, anzi essenziale per chiunque voglia aiutare veramente una persona, una famiglia, una comunità che si trova nell’indigenza.

Quando, infatti, si hanno «oro e argento» si cade spesso nella tentazione di pensare che siano i mezzi (denaro, risorse, tecnologia…) il principale  contributo che si può offrire. Ci si affida così a questi mezzi, e ci si dimentica il fine, cioè il fatto che nelle persone, soprattutto se ancora giovani e sane, rinasca la voglia di vivere, di alzarsi e rimettersi (o mettersi) in cammino.

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Più del denaro contano i legami

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di Valentina Raparelli

pubblicato su Nuova Umanità News online il 19/01/2012

Logo_Nuova_Umanita_newsProfessor Bruni, nel suo articolo appena pubblicato su Nuova Umanità[1] lei descrive la figura dell’imprenditore, in una maniera abbastanza differente da quella che spesso, attualmente, viene rappresentata. Ci può spiegare da dove nasce, secondo lei, questo scollamento? Da dove, cioè, le figure dell’investitore, del manager, dello speculatore, si sono andate a confondere con quella dell’imprenditore-innovatore?

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Molto dipende dalla rivoluzione della finanza, che ha investito l’economia (prassi e teoria) negli ultimi 20 anni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, per alcuni cambiamenti gravi avvenuti nella geopolitica e geoeconomia mondiali per effetto della globalizzazione, l’Occidente ha rallentato la sua crescita, ma non ha voluto ridurre i consumi. La finanza creativa ha allora promesso una fase di crescita dei consumi senza crescita di reddito, con nuovi strumenti tecnici

Questo ha fatto sì che tanti imprenditori si sono trasformati in speculatori, pensando di fare profitti speculando, lasciando il loro settore tradizionale e vocazione (si pensi a che cosa facevano negli anni novanta la Fiat e la Pirelli, per restare in Italia, ma anche l’ex Olivetti). Una seconda ragione è stata la uniformazione delle culture aziendali, sulla scia di un forte potere della cultura anglosassone. La tradizione europea e italiana di gestione delle imprese erano caratterizzate da una forte attenzione alla dimensione comunitaria e sociali, a causa della presenza di un paradigma cattolico-comunitario (soprattutto nei paesi latini). Questo ha fatto sì, insieme alla prima causa della rivoluzione finanziaria, che i managers assumessero un ruolo sempre più centrale nelle grandi imprese, a scapito degli imprenditori tradizionali. Oggi c’è un enorme bisogno di rilanciare una nuova stagione di imprenditori, se vogliamo uscire dalla crisi, e di ridurre il peso degli speculatori (e dei managers superpagati).

Partendo dalla Teoria dello sviluppo economico di Schumpter[2], descrive il mercato come una “staffetta virtuosa” tra innovazione e imitazione, dove l’innovazione, apportata dall’innovatore-imprenditore, genera e immette sul mercato un nuovo bene, e l’imitazione (di cui sottolinea la positività) lo rende fruibile ai più facendone abbassare il prezzo ed aumentando, così, il benessere collettivo. Poiché però il profitto, per l’innovatore, è essenzialmente circoscritto al lasso di tempo che passa tra l’innovazione e l’imitazione, quali pensa che possano essere dei parametri di riferimento per evitare che tale “staffetta virtuosa” non generi invece il danneggiamento reciproco tra imprese?

Qui un ruolo importante lo svolge la politica, e in generale le istituzioni, che dovrebbero far sì, con opportune normative a garanzia della concorrenza e del corretto funzionamento dei mercati, che la staffetta sia virtuosa e non viziosa. Ma un ruolo co-essenziale lo svolge anche la società civile, i cittadini-consumatori, che con le loro scelte di acquisto debbono premiare le imprese che hanno comportamenti eticamente corretti, e “punire” (cambiando impresa) quelle che hanno un atteggiamento predatorio e aggressivo. Il mercato funziona e porta frutti civili quando è in continuo rapporto con le istituzioni e con la società civile. Infine tratteggia le caratteristiche della “civil concorrenza” in cui la competizione (cum-petere) non si gioca sull’asse Impresa A contra Impresa B per sottrarsi il cliente C, bensì sull’asse Impresa A pro cliente C e Impresa B pro cliente C,dove ogni impresa offre al cliente proposte di mutuo vantaggio e chi riesce peggio esce dal mercato o si ristruttura.

Ci può spiegare bene gli effetti positivi, anche a livello sociale, che questa diverso modo di vedere la concorrenza genera?

In primo luogo contribuisce a creare un tono affettivo diverso nel vivere e immaginare gli scambi di mercato. La nostra lettura e descrizione del mondo è molto importante per i comportamenti che poniamo in essere. Se leggo (anche perché me lo dicono all’università e nei media) che il mercato è una lotta per vincere, che è simile alla guerra o ad alcune dimensioni dello sport (io vinco, tu perdi), quando vivo momenti di scambio di mercato, o anche a lavoro, tendo ad avvicinarmi a questi ambiti con un atteggiamento mentale e spirituale che influenza molto i risultati che poi ottengo, e la felicità (o infelicità) che sperimento. Se invece vedo il mercato come un grande network di relazioni cooperativo, favorisco la creazione di beni relazionali anche nei momenti “economici” della mia vita, e la felicità individuale e collettiva aumenta. Inoltre, leggere il mercato come cooperazione è più aderente alla visione dei grandi classici della storia del pensiero economico (Smith, Mill, Einaudi, e oggi Sen o Hirschman), e più vicino a quanto milioni di persone sperimentano ogni giorno lavorando e scambiando, e non solo nell’economia sociale.

Quali esempi di “civil concorrenza” ci può fornire? E come pensa che possano essere sostenuti e valorizzati, per creare quella rete sociale di rapporti di cooperazione e mutuo vantaggio?

Il microcredito, la cooperazione sociale, l’economia di comunione, il commercio equo e solidale, sono esempi “di scuola” di questa civile concorrenza, almeno come fenomeni macroscopici (ci sono sempre le eccezioni). Ma anche fenomeni che sembrano lontani possono essere letti con questa griglia. Pensiamo, ad esempio, alla logica degli hotel low cost e il loro rapporto con gli hotel più tradizionali. Possiamo leggere la logica di questi nuovi hotel in questo modo: «ti propongo, cliente, un contratto di mutuo vantaggio. Ti diamo meno di altri hotel (reception, servizi in camera, accompagnatori negli ascensori...), ma ti chiediamo anche di meno (paghi poco): se nell’hotel cerchi l’essenziale (dormire in un luogo pulito e semplice) vieni da noi; se vuoi altre cose, vai dai nostri concorrenti». Il mercato dovrebbe funzionare così: cercare di soddisfare sempre meglio i bisogni degli altri, in un’ottica di muto vantaggio. Per sostenere un mercato civile, anche qui conta la sfera politica. Oggi, ad esempio, in Italia se si estendono all’economia civile i provvedimenti che il Governo sta varando, per ora, solo per le imprese for-profit, si creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro. Cose serie, quindi, e rilevanti per la vita di tutti.

[1] «Nuova Umanità», XXXIV (2012/1) 199, pp. 1-14.

[2] J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971 (prima ed. tedesca 1911).

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pubblicato su Nuova Umanità News online il 19/01/2012

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Innovazione, mercato e società: alcune domande a Luigino Bruni

di Valentina Raparelli pubblicato su Nuova Umanità News online il 19/01/2012 Professor Bruni, nel suo articolo appena pubblicato su Nuova Umanità[1] lei descrive la figura dell’imprenditore, in una maniera abbastanza differente da quella che spesso, attualmente, viene rappresentata. Ci può spiega...
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Acqua, ambiente ed energia sono già e saranno questioni-chiave per lo sviluppo e la pace

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, febbraio 2012

LOGO_Mondo_e_missioneAmartya Sen, uno degli economisti più originali e influenti degli ultimi decenni, ha vinto il premio Nobel anche per aver dimostrato che durante le carestie la quantità di cibo non diminuisce. Anzi, come anche i suoi studi per l’India dimostrano, a volte le carestie avvengono in periodi in cui la disponibilità di cibo è particolarmente alta. La carestia, in realtà, arriva perché diminuisce la capacità di acquistare cibo nei mercati. Ecco allora perché esiste un rapporto molto stretto tra fame, relazioni sociali e giustizia globale di un sistema politico e civile di una nazione.

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Ciò che peggiora drammaticamente durante una carestia sono i rapporti tra le persone, che non consentono più di raggiungere il cibo. Per capire e curare le carestie e la fame è allora necessario avere un approccio globale e sistemico al problema. La miseria, prima di essere una condizione soggettiva di indigenza, è essenzialmente una faccenda di rapporti sbagliati; o meglio: la miseria delle persone è spesso un effetto di malattie sociali molto più difficili da sconfiggere.

A questo riguardo, un tema che sta diventando sempre più decisivo quando oggi pensiamo alla povertà, alla fame e alla miseria è quello dei beni comuni (commons), cioè quei beni che le comunità usano assieme, senza che i diritti di proprietà siano assegnati ai singoli individui. Una tendenza molto radicale nei nostri tempi è trasformare i beni comuni in beni privati, sia per semplici ragioni di sfruttamento economico di quei beni da parte di soggetti e imprese private, sia per una ideologia economica che considera i beni comuni come un problema, perché tendono ad essere distrutti dall’eccessivo sfruttamento (è la nota teoria della “tragedia dei commons”).

In realtà la storia delle comunità ci sta dicendo che questa ideologia che porta a trasformare i beni pubblici in privati non funziona e va cambiata la rotta. In particolare, quando si ha a che fare con l’acqua, le foreste, i pascoli, l’esperienza di secoli ha spesso prodotto delle convenzioni molto più sagge del mercato, anche perché il meccanismo di mercato viene, nelle culture tradizionali, introdotto artificialmente dall’esterno, senza tutte le istituzioni e la cultura che accompagnano il mercato dove questo funziona e porta i suoi frutti di civiltà. C’è oggi bisogno di rilanciare una nuova stagione di governance comunitaria dei beni collettivi, se vogliamo salvarli dallo sfruttamento eccessivo che la sola logica privatistica del mercato porta con sé; una gestione comunitaria che deve coinvolgere tutti i livelli interessati, la politica, la società e anche il mercato, purché sia un mercato popolato da imprenditori civili e non da speculatori. La governance comunitaria dei commons è anche la principale lotta contro le diseguaglianze, poiché con la globalizzazione siamo entrati nell’era dei beni comuni, dove l’acqua, l’ambiente e le energie sono già e saranno i beni cruciali per lo sviluppo e per la pace.

Concludo ridando la parola ad Amartya Sen: «Ho deciso di occuparmi di economia quando a 9 anni di fronte a casa mia vidi un uomo magrissimo, che aveva gli occhi sbarrati e le guance scavate. C’era la carestia e lui cercava del cibo. Morì di fame e nessuno riuscì a spiegarmi come fosse possibile che nello stesso tempo e nello stesso luogo, qualcuno viveva bene e qualcuno moriva di fame. Nel Bengala, il cibo non mancava, mancava semmai un sistema politico capace di riconoscere il diritto di accesso al cibo a chiunque ne avesse bisogno»

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Acqua, ambiente ed energia sono già e saranno questioni-chiave per lo sviluppo e la pace

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, febbraio 2012

LOGO_Mondo_e_missioneAmartya Sen, uno degli economisti più originali e influenti degli ultimi decenni, ha vinto il premio Nobel anche per aver dimostrato che durante le carestie la quantità di cibo non diminuisce. Anzi, come anche i suoi studi per l’India dimostrano, a volte le carestie avvengono in periodi in cui la disponibilità di cibo è particolarmente alta. La carestia, in realtà, arriva perché diminuisce la capacità di acquistare cibo nei mercati. Ecco allora perché esiste un rapporto molto stretto tra fame, relazioni sociali e giustizia globale di un sistema politico e civile di una nazione.

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«Beni comuni», oltre la logica del profitto

Acqua, ambiente ed energia sono già e saranno questioni-chiave per lo sviluppo e la pace di Luigino Bruni pubblicato su Mondo e Missione, febbraio 2012 Amartya Sen, uno degli economisti più originali e influenti degli ultimi decenni, ha vinto il premio Nobel anche per aver dimostrato che durante ...
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Secondo Luigino Bruni, economista dell’Università di Milano-Bicocca, la ricetta dell’equità impone di intervenire sugli effetti distorsivi della finanziarizzazione dell’economia

di Giulio Sensi

pubblicato su Altreconomia - gennaio 2011

logo_altreconomiaIl nostro è un Paese con i più alti indici di disuguaglianza dell’Occidente. è un processo recente o la naturale evoluzione del nostro sistema sociale, economico e politico?

Direi che è relativamente recente: dal dopoguerra agli anni Ottanta l’Italia aveva diminuito più di altri Paesi la disuguaglianza interna, che ha iniziato a crescere nuovamente quando la finanza ha preso piede.

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Voglio dire che fino a quel momento il nostro Paese non aveva sviluppato una grande economia finanziaria, ma a partire dai primi anni Novanta il liberismo finanziario ha aperto una nuova  stagione perché la finanza fa arricchire chi è già ricco e ha pochi effetti redistributivi. Molte cose sono cambiate dal momento in cui abbiamo seguito il trend dei Paesi capitalistici come l’America. Questa è, comunque, la cifra dell’attuale economia globalizzata, che tende ad impoverire il ceto medio e a togliergli il potere d’acquisto.

Pochi ricchi sempre più ricchi e una classe media che sprofonda nella sempre più nutrita schiera dei poveri. Siamo condannati anche in Italia a una società a due velocità?

È una delle conseguenze del capitalismo che si è affermato su scala globale, e la nostra è un’economia che va oltre i confini nazionali. Se i governanti del mondo e i cittadini saranno capaci di dare una svolta ed evolvere verso un’economia di mercato post-capitalistico, un cambiamento può avvenire. Altrimenti si può fare poco. Uno strumento enorme sarebbe una riforma fiscale, che ha direttamente a che fare con tutto questo: se e come vengono tassate i patrimoni, come viene tassato il lavoro e il capitale. Possiamo dire che la riforma fiscale è uno degli atti più importanti di un Paese (come suggerisce il libro Sommersi dal debito di Alessandro Volpi, Ae 2011, ndr).

I giovani non riescono a creare ricchezza, i fortunati sono quelli che riescono a godere dei beni di famiglia. Quali possibilità ci sono per chi ha venti o trent’anni oggi?

Serve prima di tutto un “giubileo”, come una tassa patrimoniale che permetta di ripartire da zero. Abbiamo creato un mondo feudale e statico che non funziona, e oltre ad essere iniquo è inefficiente. La cultura e il ricambio muovono il Paese, serve scompaginare le carte e far incontrare le culture. Un Paese bloccato è un segnale di decadenza di un popolo. Un esempio: diamo per scontato che una persona che supera i 75 anni di età debba usufruire i servizi gratuiti. È una cosa molto bella, ma è il retaggio di un mondo passato dove chi era anziano non aveva niente e la ricchezza era basata sui giovani. Oggi in Italia c’è la tendenza opposta, c’è un grande spostamento di ricchezza verso le pensioni, che sono quelle più difese perché una classe politica che invecchia ha interesse ai voti degli anziani. Nonostante questo si consuma, paradossalmente, un’ingiustizia verso gli attuali anziani, che hanno offerto cura agli attuali genitori e oggi non possono in molti casi ricevere alcuna cura, oltre ad essere messi in casa di riposo. Non si tratta di mettere anziani contro giovani, sarebbe un mondo senza futuro, ma occorre capire che un mondo senza giovani che lavorano è insostenibile anche per gli anziani.

In linea con il pensiero di Amartya Sen lei afferma che povertà e ricchezza non sono questioni di reddito e di beni, ma di capacità di fare e di creare relazioni che generano valore. Altreconomia segue da molti anni esperienze che vanno in quella direzione. Come la politica dovrebbe sostenerle?

È una domanda ineludibile: la politica, così come l’impegno dei cittadini attivi, deve reintegrare tutto ciò che è rimasto fuori. Non possiamo delegare agli attuali politici il “bene comune”. Questa parte del tessuto civile affermatasi negli ultimi anni, deve fare uno scatto nel politico. Riprendere
in mano parlamenti e governi, esercitando un maggiore protagonismo. Far partire dal basso attività che contribuiscano a rinnovare l’Italia. La dimensione non deve far paura: è necessaria una società civile organizzata che si occupi di tutto l’economico, non solo da una prospettiva non profit. È quella che noi chiamiamo economia civile. Deve crescere.

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Secondo Luigino Bruni, economista dell’Università di Milano-Bicocca, la ricetta dell’equità impone di intervenire sugli effetti distorsivi della finanziarizzazione dell’economia

di Giulio Sensi

pubblicato su Altreconomia - gennaio 2011

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Direi che è relativamente recente: dal dopoguerra agli anni Ottanta l’Italia aveva diminuito più di altri Paesi la disuguaglianza interna, che ha iniziato a crescere nuovamente quando la finanza ha preso piede.

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Tassare i patrimoni per un sistema più efficiente

Secondo Luigino Bruni, economista dell’Università di Milano-Bicocca, la ricetta dell’equità impone di intervenire sugli effetti distorsivi della finanziarizzazione dell’economia di Giulio Sensi pubblicato su Altreconomia - gennaio 2011 Il nostro è un Paese con i più alti indici di disuguaglianza ...
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di Luigino Bruni

pubblicato su TamTàm democratico, n.5/2012

Tamtam_rivistaPartiamo da una premessa di carattere generale. La soluzione ad ogni grave crisi economica come quella attuale che ha le sue radici in trent’anni di capitalismo finanziario e “di carta”, frutto di una ben precisa ideologia e cultura economica e civile che pensava di poter rilanciare un occidente invecchiato e triste, con una stagione inedita di strumenti finanziari che avrebbero dovuto (a loro detta) creare ricchezza solo attraverso algoritmi sofisticati, va cercata fuori della sfera economica: la si trova nella vita civile, nei desideri e nelle passioni della gente, che sono i pozzi che alimentano la vita di quell’animale simbolico chiamato homo sapiens, compresa la sua vita economica.

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Nessuno si lancia nell’avventura umana e sociale di dar vita ad una nuova impresa per ridurre il debito pubblico, né per lo spread né per queste ragioni ci si alza tutti i giorni alle sei per andare a lavorare. Queste cose si fanno per realizzare dei progetti di vita, dei sogni.

Noi esseri umani siamo anche capaci di fare grandi sacrifici, ma c’è bisogno che dietro ad essi intravvediamo qualcosa di più grande del sacrificio che facciamo, qualcosa di grande capace di muovere cuore e azioni, di riaccendere l’entusiasmo.

Si vive e si muore solo per queste cose, come ci dicono, in un controcanto angosciante a questi tempi di manovre, i suicidi sempre più frequenti di imprenditori, testimonianza che le questioni innegoziabili della vita non riguardano solo il suo inizio e la sua fine, ma anche il durante. Questi imprenditori suicidi ci dicono un fatto nuovo nei nostri dibattiti culturali e politici: che si muore anche di economia, e non solo di fame e nel lavoro (questo lo sappiamo già), ma anche nell’attività di impresa; a ricordarci, perché ce ne siamo dimenticati troppe volte in questi ultimi decenni che l’imprenditore quando non è speculatore, in quella sua impresa non ci mette solo capitali e macchinari, ma anche la sua anima, il suo cuore la sua storia, la sua identità individuale e comunitaria. Si capisce quindi che senza una nuova alleanza fra impresa, sindacati, politica, società civile, famiglie, che premi gli imprenditori e penalizzi gli speculatori (che sono la vera malattia di questo nostro sistema capitalistico contemporaneo), da questa crisi non usciremo mai o ne usciremo peggiori.

Lo abbiamo saputo fare in tanti momenti del passato, anche recente (resistenza, lotta al terrorismo): perché non ora? Occorre però che ognuno di noi usi bene quel brano di conoscenza e di potere sulla realtà di cui dispone, traffichi bene i suoi talenti, si impegni di più e meglio. Dobbiamo quindi tener presente una delle lezioni più importanti e meno ascoltate del novecento, cioè che lo sviluppo e la crescita di una nazione dipende poco dai governi e dai “Leviatani”, e certamente ne dipende molto meno di quanto se ne parli e racconti quotidianamente nei dibattiti pubblici, poiché il potere di cambiamento è distribuito fra milioni di persone e nessuno può agire al posto loro, se vogliamo salvare la democrazia e la libertà. Ecco allora che se vogliamo che questa operazione decisiva abbia successo c’è bisogno di riti e di liturgie pubbliche, della forza dei simboli, dell’arte, della bellezza, di gesti solenni e collettivi. Sono questi i veri strumenti sui quali la politica, i governi e la sfera pubblica hanno un effettivo controllo e che sono capaci di rimediare l’entusiasmo e la speranza civile di milioni di persone, almeno della parte migliore di esse. Stiamo uscendo, in Italia, con grande fatica, da una situazione civile molto simile alla “guerra di tutti contro tutti” di cui parlava Hobbes. Possiamo non uscirne, e continuare così il declino civile ed economico; possiamo uscirne creando un Leviatano, il coccodrillo mostruoso che fa anche parte della storia e del DNA di noi italiani, e non solo per il fascismo.

Ma possiamo liberarci e uscire da questa trappola di povertà sociale ed economica nella quale siamo caduti, rilanciando una nuova stagione di virtù civili e un nuovo patto, il solo terreno che ha generato e genera creatività, entusiasmo e voglia di vivere, da cui fiorirà anche la crescita economica. In particolare in questo tempo di “attesa” che speriamo non sia molto breve perché il tessuto politico e civile è molto sfilacciato ed il rammendo richiede molto tempo, dobbiamo dare vita ad una sorta di Giubileo nazionale di perdono reciproco, perché in questi ultimi due decenni il Paese e la politica hanno reagito nella maniera peggiore alla morte della società tradizionale e non siamo stati capaci di dar vita ad un “bene comune” che venisse prima dei beni particolari: ci siamo incattiviti nei rapporti civili e politici e così facendo l’Italia è uscita dalla leadership culturale ed economica di cui godeva.

C’è un rapporto molto stretto fra il mancato parto di questo nuovo patto sociale e la grave questione della disuguaglianza. Un noto studio pubblicato qualche anno fa metteva in luce che gli europei soffrivano di più per diseguaglianza rispetto agli abitanti degli USA. In particolare, si mostrava che la felicità soggettiva degli europei era più sensibile, rispetto a quella degli americani, alla diseguaglianza presente nel loro Paese. Noi europei soffriamo di più non solo la nostra povertà individuale, ma anche nel vedere una ineguale distribuzione del reddito attorno a noi. In altre parole, per europei ed italiani la diseguaglianza è considerata eticamente negativa e ingiusta, poiché la nostra cultura più comunitaria e cattolica attribuisce più peso alla felicità pubblica di quanto non faccia la cultura calvinista e individualista.

L’idea dominante per lungo tempo riguardo la diseguaglianza era quella di un andamento ad U rovesciata: cresce nelle prime fasi dello sviluppo per poi decrescere nelle fasi più avanzate. Questa teoria portava a considerare legittima una certa crescente diseguaglianza quando decolla lo sviluppo, come il grande economista Albert Hirschman mostrava con la metafora dell’ingorgo: se siamo bloccati in autostrada e ad un certo punto vedo che le auto della corsia accanto iniziano a muoversi, anche io sono felice perché penso che in breve anche la mia corsia si muoverà. In secondo luogo, si pensava che esistesse un compromesso necessario tra equità (eguaglianza) e crescita (efficienza), poiché essendo i talenti distribuiti in modo ineguale nella popolazione, occorre lasciare ai pochi molto efficienti di crescere più della media, in modo che poi gli effetti di questa maggiore crescita di pochi possano ricadere anche sui più poveri, sotto forma di trasferimenti, tasse, e beni pubblici e meritori (scuola, sanità, welfare, …).

In realtà, dati recenti, anche relativi all’Italia, fanno vedere che quella teoria non ha raccontato la storia reale. Infatti, da una parte la diseguaglianza, dopo una fase di diminuzione, negli ultimi due decenni ha ricominciato ad aumentare, e l’Italia è oggi uno dei paesi europei con il più alto indice di diseguaglianza (Indice di Gini), una disuguaglianza che per la ricchezza e i patrimoni è più del doppio di quella relativa al reddito.

Negli ultimi venti anni poi la quota del reddito prodotto destinato al lavoro (salari) è diminuito molto rispetto alla quota andata alle rendite finanziarie e alle rendite in generale (anche per precise scelte fiscali); se la povertà relativa aumenta, come in Italia, e aumenta soprattutto quella delle famiglie giovani, è facile capire che i consumi ne risentono seriamente, e con essi la crescita del Paese. Ecco perché oggi la questione dell’equità è direttamente la stessa questione della crescita.

Negli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia ha vissuto il miracolo economico poiché, ad di là dei dati statistici incerti, certamente il sistema economico ha saputo includere milioni di persone rimaste fino ad allora ai margini della vita economica, e quindi civile. La fabbrica, l’immigrazione, lo Stato sociale, hanno svolto assieme una funzione di riduzione dell’ineguaglianza sostanziale, la povertà assoluta e relativa, e di aumento della ricchezza nazionale e individuale. Ma questo miracolo, assieme economico (crescita) ed etico (inclusione e eguaglianza), fu possibile anche e soprattutto perché furono garantiti a tutti servizi sanitari di base, educazione, pensioni e diritti umani. Oggi, in una società post-moderna e frammentata, questi servizi e diritti di base sono sempre meno garantiti a tutti, e invece occorre iniziare ad affermare con forza che anche i diritti sociali ed economici debbono diventare presto diritti umani universali. Pensiamo ai nuovi poveri, agli immigrati, ai vecchi non autosufficienti senza rete famigliare, alle famiglie giovani con bambini: basterebbe solo il tema degli asili nido municipali e le enormi differenze tra le diverse regioni del Paese (che si riflette anche sulle opportunità di lavoro e di carriera delle giovani madri, ancora molto svantaggiate al Sud).E senza questo aumento della uguaglianza sostanziale tra i cittadini la crescita non può riprendere, perché manca non solo la domanda di beni di consumo, ma manca l’entusiasmo e la gioia di vivere dei giovani, senza dei quali nessun Paese è mai cresciuto. Poiché quando passa qualche tempo e la corsia del vicino continua a correre e la tua resta ferma, gli automobilisti iniziano a voler passare nell’altra corsia, il traffico si complica di nuovo, si creano nuovi ingorghi, e a qualcuno (soprattutto in Italia) viene la tentazione di passare illegalmente nella corsia d’emergenza. Inoltre, in una società italiana dove, a differenza di cinquanta anni fa, i cittadini sono più istruiti e più moderni, si accetta sempre meno (come dicono anche i dati) che un manager pubblico o un funzionario europeo percepiscano redditi decine di volte superiori a quelli di un insegnante, un sentimento di ingiustizia che se cresce oltre una soglia critica può distruggere gli ultimi fili del già molto sfilacciato legame sociale.

Infine, sono convinto che oggi gli studi sulla diseguaglianza e sulla povertà dovrebbero essere profondamente rivisti, tenendo conto delle conquiste fatte dalla scienza economica. Innanzitutto, come accennato, nelle misure della povertà e della diseguaglianza al reddito individuale e famigliare occorre aggiungere i beni pubblici, poiché avere 1000 euro a Trento (con asili nido, trasporti pubblici efficienti, ospedali vicini e funzionanti …) è ben diverso che avere 1000 euro nell’interno della Basilicata. Inoltre, come ci ha insegnato soprattutto A. Sen, la povertà e la ricchezza non è tanto una faccenda di reddito e di beni, ma di capacità di fare, di come la gente è capace di trasformare le risorse, poche o tante che siano, in attività, libertà, sviluppo.

E tutto ciò ci riporta al tema delle relazioni, dei rapporti, dei legami che tengono assieme una città e un Paese, che oggi in Italia sta diventando sempre più tenue; e senza ricreare un legame che si chiama nuovo patto sociale, nessuna riduzione della diseguaglianza né aumento della ricchezza nazionale saranno possibili.

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di Luigino Bruni

pubblicato su TamTàm democratico, n.5/2012

Tamtam_rivistaPartiamo da una premessa di carattere generale. La soluzione ad ogni grave crisi economica come quella attuale che ha le sue radici in trent’anni di capitalismo finanziario e “di carta”, frutto di una ben precisa ideologia e cultura economica e civile che pensava di poter rilanciare un occidente invecchiato e triste, con una stagione inedita di strumenti finanziari che avrebbero dovuto (a loro detta) creare ricchezza solo attraverso algoritmi sofisticati, va cercata fuori della sfera economica: la si trova nella vita civile, nei desideri e nelle passioni della gente, che sono i pozzi che alimentano la vita di quell’animale simbolico chiamato homo sapiens, compresa la sua vita economica.

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Un nuovo patto sociale per crescita ed equità

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Si combatte la “fame non scelta” soltanto tenendo viva nelle persone la “fame buona” di un “non ancora”

di Luigino Bruni

pubblicato su Mondo e Missione, gennaio 2012

LOGO_Mondo_e_missioneUn’esperienza personale. Qualche mese fa ho fatto un viaggio in Kenya, per alcune lezioni e conferenze. Girando un po’ il Paese ho visto, o meglio intravvisto da lontano, molte forme di indigenza, di miseria, e anche di fame vera e propria.

Ma l’immagine più forte che mi sono portato via, da quell’incontro con una parte della cultura africana, non è stata quella di un vuoto, bensì di un pieno. In particolare, mi ha colpito vedere molti giovani studiare per gli esami ammucchiati di notte sotto i lampioni lungo le strade, perché non avevano l’energia elettrica a casa.

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Ho pensato ai miei studenti di Milano, svogliati nello studio perché hanno perso proprio la molla principale che muove un giovane verso la vita: il desiderio di futuro, la fame di vita. Come per la povertà, anche per la fame esiste una declinazione positiva del termine, che rimanda proprio alla mancanza di qualcosa che non ho, e che mi fa muovere per migliorare me stesso e gli altri.

Nel Dopoguerra, l’Europa fu capace di cose grandi, ossia di riedificare moralmente, civilmente, economicamente Paesi distrutti da una guerra fratricida tra cristiani, con milioni di morte e fiumi di macerie, perché in quei popoli erano forti il desiderio e il bisogno di costruire finalmente un mondo nuovo. Quando nelle persone e nei popoli manca questo tipo di fame (come accade oggi in Europa) diventa anche molto difficile affrontare seriamente ed efficacemente anche la “fame negativa”, che va combattuta, poiché dove non c’è entusiasmo e voglia di vivere non si trovano neanche le energie per occuparsi degli altri. Si combatte la fame non scelta e subìta (dalla natura e/o dagli altri, dalle guerre, da rapporti sbagliati …), tenendo viva nelle persone la fame positiva di un “non ancora”, che vogliamo che arrivi presto, e che ci spinge all’impegno.

L’Occidente e il suo modello di sviluppo economico e sociale sta mostrando tutta la sua fragilità, e non solo a motivo della finanza, ma per un deficit antropologico che ha a molto a che fare con l’assenza di questa fame positiva: se si sazia questa “buona fame” di vita, che nelle persone è espressione di una vocazione alla trascendenza, con le merci e non con la coltivazione dell’umanità e delle relazioni, viene meno nelle persone la risorsa più importante di ogni economia e società: la voglia di alzarsi al mattino per migliorare la nostra esistenza.
Se quel mondo migliore che quei giovani del Kenya sognano è solo la versione africana di questo modello di sviluppo, il risveglio da quel sogno sarà drammatico, perché non sarà assolutamente capace di mantenere le sue promesse.

L’Africa e le altre regioni del mondo ancora raggiunte solo in parte dal capitalismo, oggi hanno di fronte la grande sfida di dar vita ad un’economia di mercato e ad uno sviluppo economico post-consumistico, più comunionale e solidale, più in armonia con l’ambiente, e meno materialista. Dobbiamo evitare l’errore mortale di spegnere il desiderio e la fame di vita nei giovani, riempiendo quel vuoto solo con le merci. Le merci sono importanti, in certi casi essenziali: ma diventano “beni” quando sono quando non spengono quella fame buona di cose ancora più importanti delle merci.

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