Bruni Varie

Economia Civile

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E nata a Trento dalla visione coraggiosa di Chiara Lubich una realtà che abbraccia tutte le religioni e pone al centro le dimensioni dell'accoglienza, della gratuità, dell'attenzione ai poveri

di Luigino Bruni

pubblicato su: pdf La Rivista Popolare n.16 (1.33 MB) , gennaio 2015

Chiara Lubich, fondatrice e presidente del Movimento dei Focolari, ha lanciato all'inizio Chiara Lubich 05degli anni '90 in Brasile il progetto dell'Economia di comunione (EdC),  chiedendo agli imprenditori di occuparsi direttamente della povertà attorno a loro. L'EdC, una realtà che, dopo 23 anni dal suo lancio, oggi coinvolge oltre un migliaio di imprese in molti paesi del mondo, centinaia di migliaia di cittadini, molti progetti di sviluppo, sostiene lo studio di giovani, tutti impegnati in vari modi a vivere e a raccontare un modo di fare economia diverso, incentrato sui principi di reciprocità, gratuità, giustizia. L'esperienza e le idee dell'Economia di comunione sono anche alla base del pensiero del la cosiddetta Economia civile, un arcipelago di idee e di pratiche sempre più vasto e non solo in Italia.

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L'Economia di comunione è una buona finestra per guardare sul Movimento dei Focolari, uno dei movimenti ecclesiali più antichi nato nell'alveo della Chiesa cattolica a Trento, nel 1943. Quando Chiara Lubich iniziò la sua avventura spirituale insieme ad alcune compagne, l'aspetto sociale ed economico fu subito centrale. Non si racconta, di quei primi tempi, tanto di preghiere o di funzioni religiose, ma della comunione dei beni fra tutta la prima comunità del movimento, che durante la guerra (che a Trento, per la sua posizione lungo il Brennero, fu particolarmente devastante) fecero diventare i primi "focolari" (le abitazioni delle "focolarine") dei centri di raccolta e di smistamento di beni, vestiario, cibo. La fraternità che oggi è una delle categorie associate al pensiero politico dei Focolari, divenne subito esperienza economica e sociale.

Un povero, una focolarina", raccontava Chiara dei pranzi nella loro casa in quei primi tempi. I poveri erano invitati a pranzo, accanto a tutti. Non fu creata una mensa popolare “per” i poveri. Una inclusione comunitaria dei poveri, prodromo di quella "inclusione produttiva” al cuore dell'Economia di comunione di oggi.

Chiara era una terziaria francescana (il suo nome di battesimo era, infatti,Silvia). Questa attenzione ai poveri e alla dimensione economica fu senz'altro un'eredità francescana, un movimento che, non dimentichiamolo, partendo dalla povertà scelta, diede vita, durante l'Umanesimo, anche alle prime banche popolari moderne: i Monti di Pietà.

Maria Voce Papa FrancescoIl Movimento nasce come una grande corrente di amore evangelico, dal ritorno alla parola vissuta da laici e da donne (erano tutte ragazze nei primi anni), anticipazione della spiritualità del Vaticano II. Il vangelo si può, si deve, vivere, non solo meditare.
Del vangelo Chiara rimane colpita, durante un bombardamento, da una parola: "il testamento di Gesù", quel brano di Giovanni dove il Cristo chiede al Padre: "Che tutti siano una cosa sola”. L'unità, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti, divenne subito il motto, la missione del Movimento. Così, negli anni successivi, l'impegno per l'unità sì è sviluppato in tutte le direzioni: ecumenica, interreligiosa, con persone di convinzioni non religiose. Uno dei tratti più originali e innovativi dei Focolari è la presenza come suoi membri effettivi di persone di molte denominazioni cristiane, di musulmani, ebrei, indù, buddisti - quando visitai qualche anno l'Algeria rimasi molto impressionato dal constatare che il 90% dei focolarini, lì fossero musulmani.

Un movimento nato dal cuore della chiesa cattolica (e a Trento) che con gli anni ha oltrepassato i suoi confini, accogliendo persone di ogni credo e fede. I "carismi" (da intendere nel senso proprio, da charis: grazia, gratuità) vanno sempre oltre i condini di ogni istituzione.

Oggi il Movimento dei Focolari è presente in tutti i continenti. Dagli anni cinquanta in Sud e poi Nord America, dagli anni sessanta nell'est Europa e in Russia e poi in Asia, in Australia e, da oltre mezzo secolo, in Africa, dove oggi il Movimento vive una delle sue primavere. È impegnato su tutti i "dialoghi per l'unità", con una particolare attitudine per i giovani, per l'impegno sociale, politico ed economico. Centinaia di migliaia le persone attivamente e seriamente impegnate.

Chiara Lubich è morta il 14 marzo del 2008, a 88 anni. Al suo posto come Presidente del Movimento c'è Maria Voce, italiana, da poco rieletta per il secondo mandato. Per statuto la presidente del Movimento sarà sempre donna, per sottolineare la dimensione mariana del movimento, il cui nome ecclesiale è, non a caso, Opera di Maria.

Quale il significato per la società di oggi di un Movimento come quello dei Focolari?
I Movimenti spirituali nella storia hanno sempre svolto il ruolo di innovatori nei vari ambiti. Il grande teologo Hurs Von Balthasar nella sua opera ha descritto la chiesa come una dinamica tra il principio "istituzionale" e il principio "carismatico". La chiesa istituzione sottolinea la gerarchia, la tradizione, i sacramenti; la chiesa carisma mette in luce la profezia e il primato dell'amore. La storia della chiesa è stata ed è la storia fatta dai papi e dai vescovi, ma è anche la storia fatta da Benedetto, Francesco, Bernardo di Maria Voce 05Chiaravalle, Teresa d'Avila, Francesco di Sales, Don Bosco, Francesca Cabrini, Teresa di Calcutta, Chiara Lubich. La dinamica istituzioni/carismi è però eccedente la sola dimensione religiosa. Anche la vita civile è un gioco, una dialettica tra istituzioni e carismi. I carismi innovano e le istituzioni seguono e universalizzano le innovazioni. Saremmo certamente molto più poveri civilmente senza le innovazioni umane e sociali di tanti cooperatori, di Gandhi, Martin Luther King, Doroty Day, Don Oreste Benzi. Sono i carismi che spostano avanti i "paletti dell'umano", perché vedono prima e diversamente dalle istituzioni. Anche il Movimento dei Focolari sta oggi in novando in ambiti decisivi dell'umano, dentro e fuori i confini delle chiese e delle religioni. Fu Chiara a fare da mediatrice nei contatti tra Paolo VI e il patriarca ortodosso Athenagoras, ad entrare e parlare nella moschea di MalcomX a New York, a farsi accogliere e proclamare Mafua (regina) dal popolo Bangua in Camerun. A far nascere l'Economia di comunione e a dare impulso all'Economia civile.

I carismi dicono gratuità. Ci sono molte, moltissime, imprese e progetti economici che nascono attorno al profitto e, non per questo, non sono buoni e utili. Ce ne sono però altre ed altri che nascono da vocazioni di bene comune, da carismi che non hanno altro scopo se non quello di alzare la temperatura dell'umano nel mondo.

L'Economia di comunione è una realtà certamente piccolissima se misurata in termini di fatturato e di impatto sul Pil, ma il valore dei processi sociali si misura sulla base della loro capacità di trasformazione. Come il sale e il lievito che non sono rilevanti per il loro peso, ma per il loro sapore e principio attivo. Se oggi, in molte università del mondo, si parla e riparla di felicità pubblica, di gratuità, di Economia civile, lo si deve anche alla piccola Economia di comunione nata da una donna trentina, non esperta di economia, ma esperta solo di umanità e di spiritualità, di quello “spirito” di cui il nostro capitalismo ha oggi un estremo bisogno.

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E nata a Trento dalla visione coraggiosa di Chiara Lubich una realtà che abbraccia tutte le religioni e pone al centro le dimensioni dell'accoglienza, della gratuità, dell'attenzione ai poveri

di Luigino Bruni

pubblicato su: pdf La Rivista Popolare n.16 (1.33 MB) , gennaio 2015

Chiara Lubich, fondatrice e presidente del Movimento dei Focolari, ha lanciato all'inizio Chiara Lubich 05degli anni '90 in Brasile il progetto dell'Economia di comunione (EdC),  chiedendo agli imprenditori di occuparsi direttamente della povertà attorno a loro. L'EdC, una realtà che, dopo 23 anni dal suo lancio, oggi coinvolge oltre un migliaio di imprese in molti paesi del mondo, centinaia di migliaia di cittadini, molti progetti di sviluppo, sostiene lo studio di giovani, tutti impegnati in vari modi a vivere e a raccontare un modo di fare economia diverso, incentrato sui principi di reciprocità, gratuità, giustizia. L'esperienza e le idee dell'Economia di comunione sono anche alla base del pensiero del la cosiddetta Economia civile, un arcipelago di idee e di pratiche sempre più vasto e non solo in Italia.

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L'esperienza Francescana dell'Economia di Comunione

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Tasse e famiglie:  la tassazione delle persone continua a privilegiare i single e a svantaggiare le famiglie, soprattutto quelle più povere con più di due bambini

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Il Sussidiario.net il 10/05/2015

L’Italia continua a maltrattare la famiglia, semplicemente perché non la vede, e se la vede l’immagine è troppo deformata. E non la vede perché, sotto l’incalzare del pensiero unico neo-liberista in tutti gli ambiti (vedi la riforma della scuola incentrata sull’ideologia dell’incentivo), non sa più vedere relazioni ma solo individui.

La tassazione delle persone continua a privilegiare i single e a svantaggiare le famiglie, soprattutto quelle più povere e quelle con più di due bambini. Per capire la famiglia occorre avere uno sguardo capace di vedere cose che il nostro sistema culturale non vede più, o non ha mai visto.

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Si continua a considerare i figli come faccende private, dimenticando che ogni bambino è un bene comune, un valore i cui effetti vanno ben oltre la famiglia che lo mette al mondo e lo accudisce. Malattia antica, che ha la sua radice in una società dove lavoravano solo gli uomini, e dove tassando questi si tassava, di fatto tutta la famiglia, e dove era il villaggio a “far crescere” i bambini e le bambine.

La situazione è, grazie a Dio, cambiata, ma il sistema fiscale non se n’è accorto, e non capisce che una famiglia non è una somma di individui, ma una relazione che ha sue specificità che se non viste vengono semplicemente distrutte, o molto penalizzate. Ma mentre paesi più pragmatici (vedi Francia o Germania) hanno capito da un pezzo che sostenere le famiglie, soprattutto quelle giovani con bambini, significa sostenere direttamente l’economia, l’Italia continua a produrre riforme fiscali come se la famiglia non esistesse. Con il risultato che la nostra grave crisi demografica, che è alla radice anche della nostra crisi economica, si intensifica per governi incapaci di fare la riforma più urgente: mettere le persone nelle condizioni di costruire legami durevoli, e di mettere al mondo bambini all’interno di questi legami.

Possiamo fare mille riforme della scuola, della sanità, del terzo settore, ma senza sostenere seriamente la famiglia queste riforme perdono il terreno buono su cui poggiare. Non si tratta di fare regali o generose concessioni alle famiglie, ma soltanto riconoscere il valore che già producono, e generano. Il fisco è il primo strumento del patto sociale, e senza un’inversione di marcia ci troveremo presto in un Paese sempre più impoverito per mancanza di lungimiranza e prospettiva, anche economica.

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Tasse e famiglie:  la tassazione delle persone continua a privilegiare i single e a svantaggiare le famiglie, soprattutto quelle più povere con più di due bambini

di Luigino Bruni

Pubblicato su: Il Sussidiario.net il 10/05/2015

L’Italia continua a maltrattare la famiglia, semplicemente perché non la vede, e se la vede l’immagine è troppo deformata. E non la vede perché, sotto l’incalzare del pensiero unico neo-liberista in tutti gli ambiti (vedi la riforma della scuola incentrata sull’ideologia dell’incentivo), non sa più vedere relazioni ma solo individui.

La tassazione delle persone continua a privilegiare i single e a svantaggiare le famiglie, soprattutto quelle più povere e quelle con più di due bambini. Per capire la famiglia occorre avere uno sguardo capace di vedere cose che il nostro sistema culturale non vede più, o non ha mai visto.

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Figli, la "ricchezza" che il Governo non vuol vedere

Tasse e famiglie:  la tassazione delle persone continua a privilegiare i single e a svantaggiare le famiglie, soprattutto quelle più povere con più di due bambini di Luigino Bruni Pubblicato su: Il Sussidiario.net il 10/05/2015 L’Italia continua a maltrattare la famiglia, semplicemente perché non...
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 Nelle lettere al Direttore di Avvenire, la risposta di Elio Borgonovi, ordinario alla Bocconi all'articolo di Luigino Bruni sulla cultura manageriale "Organizzazioni di Consumo"

pubblicato su Avvenire il 25/01/2015

logo avvenire ridCaro direttore,
ho letto con molta attenzione e vivo interesse l’articolo del collega e amico Luigino Bruni apparso su "Avvenire" del 18 gennaio 2015, dal titolo: «Cultura manageriale: organizzazione di consumo (persone)». Condividendo molta parte delle considerazioni svolte, ritengo di dovere e poter dare un contributo per un aperto dibattito, che parte dalla mia esperienza di docente di management, in passato direttore della SDA, una delle principali scuole di management a livello europeo e forse mondiale, presidente di ASFOR (associazione delle scuole di management italiane) e componente del board di EFMD (European Foundation for Management Developement). Quindi, potrei dire, persona informata sui fatti.

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 Anche io vedo il rischio che «la cultura di management diventi una vera e propria ideologia globale», ma, per non correre il rischio contrario di delegittimare completamente questa cultura, occorre fare due precisazioni. In primo luogo, esistono ancora, per fortuna, molti docenti di management e molti manager, in Italia e all’estero, che credono veramente nei «registri simbolici e motivazionali» e non li usano solo strumentalmente. Non so quanti siano, probabilmente o quasi sicuramente una componente minoritaria, ma a mio parere sufficiente per far leva sulle "crepe" ed evitare che si arrivi all’«implosione dell’edificio».

In secondo luogo, se è condivisibile l’analisi secondo cui la «terra» delle imprese «ha un cielo troppo basso» e un «orizzonte troppo angusto», è pur vero che la società moderna deve affrontare aspetti di complessità e di incertezza non paragonabili alla realtà di comunità delle prime botteghe artigiane e delle imprese familiari, ricordate da Bruni. La cultura di management è necessaria, insieme ad altre componenti di una cultura che dovrebbe essere olistica (con linguaggio antropologico e filosofico) e sistemica (con linguaggio manageriale), per governare la complessità e l’incertezza della società odierna, per orientarla verso il miglioramento della condizione umana. Il condizionale è d’obbligo, poiché, concordo con Luigino Bruni, si sta imponendo decisamente la concezione di management come «tecnica libera da valori». Per altro, questa impostazione, definita come managerialismo scientifico, si colloca nel più generale filone di economia della rational choice, dell’illuminismo, del positivismo, del naturalismo scientifico che ritengono di spiegare tutto.

Il predominio di questa corrente di pensiero è stato favorito da una distorta applicazione dei princìpi di divisione e specializzazione del lavoro, delle funzioni economiche (imprese che producono, famiglie e pubbliche amministrazioni che impiegano la ricchezza prodotta, risparmiatori-investitori che alimentano il ciclo della produttività), del mercato inteso soprattutto in termini di competizione win-lose (qualcuno migliora e qualcuno peggiora) e non in termini di win-win (tutti possono migliorare se sono disposti anche a collaborare).

Un predominio che è stato veicolato dal ruolo leader degli Stati Uniti nell’economia occidentale prima, e in particolare nell’economia globalizzata dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La cultura manageriale dominante si fonda su una antropologia del talento individuale che si collega a concezioni antiche di homo faber fortunae suae e di "ascensore sociale" consentito dalla mano invisibile del mercato. Una concezione molto distante da quella del management inserito nella concezione aziendale italiana (centro europea), che definisce l’impresa come istituto economico-sociale. In essa, l’economia non è separabile dalla società, i risultati economici non possono essere valutati separatamente dall’impatto sulle relazioni sociali, la vita nelle imprese, nelle amministrazioni pubbliche, nelle organizzazioni non profit è considerata una parte importante ma non assoluta della vita delle persone.

Purtroppo, la ricerca della omologazione e del conformismo che sembra essere imposta dalla forza della globalizzazione, come sostiene Henry Mintzberg nel suo recente libro Simply Managing ha fatto perdere l’essenza del «lavoro manageriale» che deve essere un cocktail di scienza (razionalità), arte (creatività e innovazione), tecnica (che secondo Mintzberg è l’insieme di conoscenze che si acquisiscono all’università e nelle scuole di management, ma che si affinano e si completano necessariamente con l’esperienza di vita vissuta).

Uno dei colleghi bocconiani ai quali avevo inviato l’articolo di "Avvenire" mi ha detto testualmente: «Forse io e te, e pochi altri colleghi, condividiamo l’analisi e l’allarme di Luigino Bruni, ma mi sto convincendo che la Bocconi è diventata o sta diventando sempre più organica alla logica del management assurto a ideologia (e religione)».

In quel momento mi sono venuti in mente almeno trenta o quaranta colleghi che non sono organici a questa cultura dominante, e sicuramente ve ne sono altre decine, ma sono anche io convinto che negli ultimi dieci/quindici anni in Bocconi vi è stata una specie di "mutazione genetica" che sintetizzo nei seguenti termini. Mentre in precedenza il reclutamento e la promozione dei docenti/ricercatori avveniva valutando le persone, seppur con tutti i difetti e i limiti di un sistema che qualcuno oggi giudica condizionato da "logica domestica" e/o di "piccole parrocchie", oggi in questi processi non si valutano più le persone, ma solo astratti indicatori bibliometrici, documenti, lettere di referee anonimi che non conoscono né le persone né tantomeno il contesto e le strategie di sviluppo. Per altro, a seconda delle persone da valutare, tra i tanti indicatori possibili si scelgono quelli che favoriscono persone che rispecchiano la cultura economica di management e di altre discipline di cui l’articolo di Bruni ha messo in evidenza i limiti, e penalizzano le persone che esprimono una cultura economica legata a problemi concreti e una cultura di management come aiuto a risolvere i reali problemi e a migliorare la società, non solo l’economia.

A mio parere, questi comportamenti non hanno per nulla risolto il problema del "potere accademico" e delle "parrocchie", lo hanno solo spostato a livello di network internazionali che in molti casi non sono meno "familistici" e meno ristretti di quelli domestici. L’uso di criteri definiti "scientifici" (per me alcuni sono validi ma altri sono pseudoscientifici) e della loro interpretazione è diventato strumento per indebolire i valori della cultura economica (si pensi ad Antonio Genovesi e a Carlo Cattaneo) e aziendale/manageriale italiana e subordinarla al potere della cultura generata ed esportata dagli Stati Uniti.

L’articolo di Bruni merita un’ultima considerazione: è sicuramente solido e ben articolato sul piano della critica, ma non vi ho visto indicazioni sulle possibili soluzioni. Molti opinionisti negli ultimi anni hanno costruito il loro successo e la loro notorietà sulla critica: al governo, alle inefficienze delle amministrazioni pubbliche, alla inerzia degli imprenditori, alle distorsioni del management ecc. La domanda che resta sempre senza risposta è questa: dopo la fase destruens, chi si occupa della fase construens, cioè di difendere culture economiche di management (nel caso specifico) positive o di difendere gli aspetti positivi di culture del passato? Chi, come me e come tanti altri colleghi in Bocconi e fuori, non ritiene di accettare cultura dominante per motivi etici o scientifici, deve mettersi tranquillo e accettare l’implosione del sistema o deve continuare a combattere affinché questo show down finale non arrivi, rischiando però di fare la fine dell’ultimo dei mohicani o l’ultimo dei samurai? Elio Borgonovi

Facciamo un giornale intero, caro professor Borgonovi, e lo facciamo ogni giorno (tranne il lunedì, perché ci sforziamo di rispettare la domenica come «giorno di Dio e della comunità»), per contribuire alla risposta. Assieme a Luigino Bruni e a tanti altri, colleghi e collaboratori, mettiamo in circolo idee che – scelgo volutamente un’immagine umile e forte – sono come la paglia nell’antico lavoro d’impasto dei buoni mattoni. Senza paglia, senza idee, non c’è struttura, non c’è coerenza interna e non c’è costruzione salda. E invece c’è da tirar su un "sistema" altro, perché altrettanto libero ma più giusto, per gli uomini e le donne del tempo presente e di quello futuro. È fatica d’Avvenire, ed è dura e bella. Grazie per aver contribuito. Marco Tarquinio

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 Nelle lettere al Direttore di Avvenire, la risposta di Elio Borgonovi, ordinario alla Bocconi all'articolo di Luigino Bruni sulla cultura manageriale "Organizzazioni di Consumo"

pubblicato su Avvenire il 25/01/2015

logo avvenire ridCaro direttore,
ho letto con molta attenzione e vivo interesse l’articolo del collega e amico Luigino Bruni apparso su "Avvenire" del 18 gennaio 2015, dal titolo: «Cultura manageriale: organizzazione di consumo (persone)». Condividendo molta parte delle considerazioni svolte, ritengo di dovere e poter dare un contributo per un aperto dibattito, che parte dalla mia esperienza di docente di management, in passato direttore della SDA, una delle principali scuole di management a livello europeo e forse mondiale, presidente di ASFOR (associazione delle scuole di management italiane) e componente del board di EFMD (European Foundation for Management Developement). Quindi, potrei dire, persona informata sui fatti.

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Ma il management non è perso. Lo salva una cultura olistica

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 Il forum di Avvenire: a confronto su Expo 2015, Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, il critico enogastronomico Paolo Massobrio e Luigino Bruni

di Alessandro Zaccuri

pubblicato su Avvenire il 18/12/2014

Bruni Pedrini Tarquinio Massobrio Zaccuri ridIl cuciniere del mondo, le lenticchie di Esaù, l’insofferenza verso gli chef stellati che – chissà come mai – sono tutti maschi. «E le donne che ogni sera portano la cena in tavola, eh? Quelle non le ringrazia mai nessuno, eppure sono loro a custodire il vero valore del cibo», dice Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e di Terra Madre. Milano, una mattina un po’ grigia di metà dicembre.

I cantieri di Expo 2015 sono a pochi chilometri di distanza e nella sede di Avvenire si parla di come dovrebbe essere – e di come può ancora essere – l’evento planetario sul quale negli ultimi mesi si sono radunate le nubi dello scandalo e del malaffare.

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Motivo in più per tornare alla radici della questione, riscoprendo l’importanza e le inesauribili suggestioni del tema con cui, nel 2008, l’Italia vinse il concorso internazionale per l’assegnazione dell’Expo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ne discutono con Petrini due firme prestigiose di Avvenire: Luigino Bruni, teorico dell’economia di comunione, e il critico enogastronomico Paolo Massobrio.

Finora l’opinione pubblica si è concentrata più sulle notizie di cronaca, non sempre lusinghiere, che sui contenuti di Expo 2015. Quali sono? E quali dovrebbero essere?

Petrini: «Quelli che ci eravamo prefissi nella fase preparatoria, mi verrebbe da rispondere. Ho fatto parte del comitato che sosteneva la candidatura dell’Italia, promuovendo un’Expo con le caratteristiche della sostenibilità. Costi molto bassi, strutture leggere, l’impegno a riconsegnare i terreni all’agricoltura una volta conclusa la manifestazione. Di questa impostazione, purtroppo, non rimane nulla. Ma due aspetti possono essere ancora valorizzati. Il primo riguarda una maggiore sensibilità nei confronti delle distorsioni del sistema alimentare, talmente ingiusto da danneggiare sia l’umanità sia il pianeta. L’umanità, perché morte per fame e malnutrizione vanno di pari passo con le patologie dell’iperalimentazione e con lo scandalo dello spreco di risorse. Sulla Terra vivono 7 miliardi e 300 milioni di esseri umani, il cibo attualmente prodotto sarebbe sufficiente per sfamarne 12 miliardi, ma il 40% non viene impiegato e così 850 milioni di persone sono malnutrite. Il danno per il pianeta, poi, sta nella tendenza a pretendere sempre di più dalla terra, ricorrendo ad ausili chimici, adoperando l’acqua in maniera smodata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: dal 1900 a oggi è andato perduto il 70% delle biodiversità. Il secondo aspetto riguarda la concezione della gastronomia. Che non è quella degli spadellamenti televisivi, ma di una scienza olistica, nella quale confluiscono i saperi più diversi, dalla fisica all’antropologia, dalla chimica all’economia politica».

Bruni: «Vero, il cibo è una realtà che ne racchiude molte altre e, per quanto riguarda l’Expo, sarebbe già un buon risultato riuscire a risvegliare la consapevolezza di questa complessità. Dal mio punto di vista, considero urgente il riconoscimento del fatto che l’accesso al cibo costituisce un diritto fondamentale della persona. Anzi, è un diritto che precede tutti gli altri diritti, una forma di libertà dal bisogno che è la premessa di ogni libertà civile. In questa prospettiva, mi pare che ci sia spazio per declinare il tema della biodiversità, giustamente evocato da Petrini, in termini ancora più ampi. Dobbiamo evitare il riduzionismo alimentare, d’accordo, ma nello stesso tempo dobbiamo fare il modo che sia preservata la biodiversità economica e sociale. Sto dicendo che non può esistere un solo modo di fare impresa, di gestire una banca o di costituire una comunità. È una questione di democrazia rispetto alla quale, ancora una volta, il cibo gioca un ruolo fondamentale. C’è da riscoprire, per esempio, il valore della sussidiarietà, per cui le decisioni che riguardano il cibo vanno prese da vicino, sul territorio, mentre da lontano si può agire appunto in forma sussidiaria. Più che altro, occorre un ripensamento profondo di un’usanza ormai completamente trascurata in ambito occidentale. Mi riferisco al maggese, al riposo sabbatico della terra. Perché la terra, come il tempo, non appartiene a nessuno, né può essere oggetto di scambio. Il motivo per cui il cibo non può essere ridotto a merce sta nella sua natura relazionale. In tutte le culture si mangia insieme perché il “pane quotidiano”, come ricorda Enzo Bianchi, è sempre “nostro”, fonda la comunità, riorganizza i rapporti. Non è un ragionamento astratto: penso alla lezione di Amartya Sen sulle carestie, la cui vera causa non sta tanto nella penuria di cibo, quanto nello spezzarsi dei rapporti sociali. Il cibo c’è, magari in abbondanza, ma è la condivisione a venir meno. Esattamente come sta avvenendo oggi su scala mondiale».

Massobrio: «Anch’io, come Petrini, ho partecipato alla fase preparatoria di Expo 2015, anch’io ricordo l’entusiasmo di allora e anch’io condivido il timore che adesso non si riesca a fare sintesi delle innumerevoli ricchezze che l’Italia racchiude in sé. Ma non voglio essere pessimista. Al contrario, ritengo che sia opportuno ricordare i motivi di quella assegnazione. L’Expo 2015 si svolge a Milano perché il nostro Paese è stato riconosciuto come un terreno di esperienze, fragile nei suoi confini e più volte invaso da altri popoli nel corso dei secoli, ma proprio per questo capace di elaborare una straordinaria diversità di nuclei abitativi, di tradizioni, di saperi che ora si sono diffusi in tutto il mondo. Ecco, l’Italia è stata scelta per questo. Ed è stata scelta per una esposizione universale, non per una sessione della Fao. Da Milano non si attendono risposte immediate, ma un’occasione di incontro e contaminazione fra le culture alimentari del pianeta. Detto questo, un contenuto a mio avviso deve emergere ed è proprio quello dal quale, stranamente, si continua a distogliere lo sguardo. È il grande tema dell’ordine che presiede alla vita in generale e al cibo in particolare. L’alternarsi di notte e giorno, il susseguirsi delle stagioni, l’ambiente al quale apparteniamo: tutto è regolato da un ordine fuori dal quale non può esserci se non disordine. Con questo si torna alla questione, spinosissima, delle patologie dell’alimentazione, sempre più diffuse e paradossali. Prendiamo l’obesità, presente ormai anche in molti Paesi poveri, nei quali le diete tradizionali sono state sostituite dal menu imposto da quello che chiamerei il “cuciniere del mondo”, l’entità impersonale che un domani potrebbe decidere di nutrirci con una pillola, purché risulti conveniente e permetta di guadagnare di più. Resta il fatto che Dio, quando ha creato l’uomo, non lo ha predisposto a ingoiare pillole, ma a provare piacere grazie al cibo. Questo è mistero, ma è di questo mistero che l’Expo dovrebbe occuparsi».

Negli ultimi decenni la sensibilità teologica ed ecclesiale nei confronti dell’ecologia è cresciuta sempre di più. Ma in Expo 2015 ci sarà spazio per una dimensione spirituale?

Bruni: «Di sicuro si profila un’opportunità per dare risalto alla visione cristiana della custodia del creato, terza via possibile rispetto all’ecologismo estremo e all’antropocentrismo esclusivo. Il mandato di Dio ad Adamo per la custodia della natura è espresso con lo stesso verbo ebraico, shamàr, che da lì a poco tornerà nella protesta di Caino a proposito di Abele: sono forse il custode di mio fratello? Nella Bibbia “custodire” contempla la sfumatura dell’“accudire” e rimanda sempre alla necessità di prendersi cura dell’altro in quanto alterità. L’altro è la natura e l’essere umano, il fratello e la terra. La disciplina del riposo sabbatico è la stessa del maggese, in entrambe agisce la medesima esigenza di dare e ritrovare respiro. Sono persuaso che il linguaggio dell’umanesimo biblico si adatti perfettamente alla nostra condizione postmoderna. Provo ad argomentarlo rifacendomi a tre immagini, a tre episodi che tutti abbiamo in mente. Il primo è la parabola evangelica di Lazzaro e del ricco Epulone, che invita a ribaltare il modo in cui di solito si guarda a fame e malnutrizione. Lo sguardo non può essere quello di chi si ingozza e, tutt’al più, lascia cadere qualche briciola sotto il tavolo. No, lo sguardo cristiano coincide con quello di chi raccoglie le briciole, come i tanti mendicanti di cibo che affollano le strade del mondo. Anche qui, a Milano, nella città che sta preparando l’Expo e che non può dimenticarsi dei suoi poveri. La seconda immagine è dello stesso tenore. Lo scambio tra Giacobbe ed Esaù rappresenta il primo contratto documentato dalla Bibbia, ed è un contratto iniquo. Non si fanno accordi con chi ha fame, perché in cambio del cibo (il famoso patto di lenticchie) si è disposti a cedere su tutto, perfino su quanto si possiede di più prezioso (la primogenitura). Questa è anche la grande lezione dell’Esodo, il terzo testo a cui vorrei richiamarmi. Nel deserto il popolo si lamenta perché manca di pane e acqua e Dio dà ascolto, interviene, perché una preghiera simile non può non essere esaudita. Altrimenti subentra il rimpianto per la schiavitù, quando almeno si mangiavano carne e cipolle. Un monito oggi più attuale che mai: non è l’abbondanza di cibo a rendere liberi, perché c’è una schiavitù morale che passa anche e specialmente dai bisogni elementari. La libertà, lo ripeto, è il primo cibo di cui dobbiamo nutrirci».

Petrini: «Mi rifaccio all’esperienza di Terra Madre, la rete che da dieci anni riunisce le comunità del cibo di tutto il mondo. I Paesi coinvolti sono 175, ciascuno con la sua cultura, anche religiosa. Tutti concordano su una convinzione fondamentale: la terra è nostra madre. Non per tutti sarà la Pachamama venerata dalle popolazioni mesoamericane, ma tutti hanno ben presente questo elemento femminile. Altro che gli chef stellati, e sempre maschi, della tv. In ogni parte del pianeta sono le donne a tenere viva la dimensione sacrale del cibo. Silenziosamente, fedelmente, senza che nessuno le ringrazi mai. Non è un caso che tutte le cosmogonie concordino sul dato primordiale della terra che è madre, capace di generare e insieme di nutrire. Sono visioni differenti da quella cristiana, ma che vanno parimenti rispettate e comprese. Se dovessi indicare un valore comune dal quale ripartire per recuperare questo patrimonio dimenticato, mi rifarei alla fraternità, la Cenerentola della Rivoluzione francese. In nome della libertà ne abbiamo combinate di tutti i colori, e quanti morti in nome dell’uguaglianza! Ma ci siamo dimenticati la fraternità, che significa ascolto, comprensione dell’altro al di là delle differenze, riconoscimento del fatto che, essendo nati dalla medesima terra, siamo comunque fratelli. Deriva da qui il concetto stesso di “comunità”, centrale in Terra Madre. I pilastri della nostra storia sono stati finora l’intelligenza affettiva, che viene in soccorso alle capacità esclusivamente razionale, e qualcosa che mi piace definire “austera anarchia”. Ognuno rispetta la sovranità alimentare dell’altro, nessuno si illude di possedere soluzioni adattabili a qualsiasi circostanza. Un campesino della Patagonia non ha bisogno di un esperto occidentale che gli suggerisca la semente. Lui sa già che cosa coltivare, ha dalla sua una tradizione millenaria che, semmai, va rafforzata e riscoperta. Per questo sarei un po’ più prudente dell’amico Massobrio per quanto riguarda l’enfasi sull’italianità che l’Italia dovrebbe esprimere in Expo 2015. È una prospettiva che condivido, purché sia declinata in maniera accogliente: noi mettiamo in mostra i nostri saperi e il resto del mondo fa altrettanto. Alla pari, con spirito di fraternità. Non è, purtroppo, l’immagine che l’Italia sta dando in questo momento. Ci crediamo ancora i più furbi, fremiamo in attesa dei turisti che, si dice, arriveranno a milioni, stiamo preparando una kermesse che rilancerà la crescita. Ma quale crescita? La vicenda dell’Expo ruota intorno a questa domanda, che è economica e spirituale insieme».

Massobrio: «Da cristiano mi viene da osservare che il grande nemico contro il quale siamo chiamati a confrontarci oggi è l’omologazione. L’appiattimento è l’operazione diabolica per eccellenza, perché toglie la memoria e rende impossibile ricostruire il tragitto dell’esistenza. Da dove si viene, dove si sta andando, da chi si ha ricevuto tutto. La nostra è, tra l’altro, una società che non riconosce più il valore altamente religioso del cibo stagionale. Pensate alla potenza del gesto che facevamo le nostre madri quando portavano in tavola le ciliegie, le fragole, i cachi. Era un modo per ricordare che in quel tempo la terra dava quel frutto, ed era la stessa visione mistica che santa Ildegarda di Bingen custodiva nel cuore del Medioevo. In Europa tutta la storia del cibo è storia spirituale, fittamente intessuta con quella del monachesimo, al quale dobbiamo l’architettura complessiva della moderna cultura del cibo, dalla bonifica agricola delle paludi fino alle meraviglie del vino di Borgogna, passando dall’assegnazione del posto a tavola. Nel momento in cui prova a cancellare questa origine, l’Europa perde di vista i motivi profondi dell’impresa monastica, che si basava sulla volontà di rispettare ed esaltare la terra in ogni sua forma espressiva. Non penso ai monasteri in quanto tali, ma alle comunità, non di rado assai popolose, che intorno ai monasteri si radunavano. Tutto questo non può essere dimenticato, questa radice non può essere strappata. Ma attenzione, perché la vera memoria si compie nel riconoscimento dell’altro. L’Europa deve ricordare se stessa e, intanto, guardare alle altre tradizioni, assimilarne la ricchezza. Senza mai cadere nell’omologazione, però. Decisivo, per me, è il principio di restituzione, che in questo senso, e solo in questo senso, chiama in causa l’Italia. Non dobbiamo imporci come modello, è vero, ma non possiamo neppure permettere che i modelli siano dettati dalle multinazionali».

Ormai è chiaro che il cibo chiama in causa molte suggestioni di tipo simbolico e valoriale. Una simile prospettiva è indispensabile, ma Expo 2015 non sarà soltanto questo. Che cosa manca, oggi, in concreto?

Petrini: «Manca la politica, ma questa non è una carenza solo milanese o italiana. Soffriamo dell’assenza di una governance planetaria, che sappia gestire in modo adeguato un dramma come quello della fame. Basterebbero 34 miliardi di euro per fermare questo flagello. Perché i soldi si trovano per salvare le banche e non per salvare vite umane? Papa Francesco è oggi l’unica autorità a livello mondiale che abbia il coraggio di affrontare con chiarezza questi temi. Il suo discorso alla Fao del novembre scorso è un documento di forza politica dirompente. Peccato che in pochi se ne siano accorti».

Massobrio: «Non dobbiamo arrenderci alla latitanza della politica. L’Expo dell’anno prossimo ci riguarda direttamente, è qualcosa che accade nella nostra nazione, nel nostro presente. Come se non bastasse, il tema della manifestazione fa perno su una parola cruciale, “vita”. Come uomini e come Paese, non possiamo correre il rischio di rappresentare davanti al mondo intero le nostre solite divisioni. Dobbiamo alzare lo sguardo per agire subito, finché c’è ancora tempo, sul piano della riflessione e della comunicazione».

Bruni: «Finora abbiamo parlato di cibo, ma forse la vera posta in gioco è rappresentata dal corpo o, meglio, dalla vulnerabilità che accomuna il corpo umano alla natura. Qualcosa che la nostra società fatica ad accettare, e di cui, quindi, dobbiamo riappropriarci. L’Expo si presenta come una grande opera, ma la prima grande opera di cui la Bibbia dà testimonianza non è la torre di Babele: è l’arca su cui tutte le specie trovano rifugio quando la terra, devastata dal diluvio, rivela la sua fragilità. E Noè, il primo costruttore, è anche il primo vignaiolo, colui che scopre il procedimento per stillare il vino dall’uva. Ma vorrei concludere con un altro primato, che mi pare molto significativo. Il primo salario citato nel testo biblico riguarda, ancora una volta, il cibo: un nutrimento essenziale, femminile, materno. È lo stipendio che la figlia del Faraone promette alla nutrice per tenere a balia il piccolo Mosè. L’origine del cibo ha sempre a che vedere con le donne. Anche per questo Expo 2015 non può piegarsi a una logica di predominio commerciale»

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 Il forum di Avvenire: a confronto su Expo 2015, Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, il critico enogastronomico Paolo Massobrio e Luigino Bruni

di Alessandro Zaccuri

pubblicato su Avvenire il 18/12/2014

Bruni Pedrini Tarquinio Massobrio Zaccuri ridIl cuciniere del mondo, le lenticchie di Esaù, l’insofferenza verso gli chef stellati che – chissà come mai – sono tutti maschi. «E le donne che ogni sera portano la cena in tavola, eh? Quelle non le ringrazia mai nessuno, eppure sono loro a custodire il vero valore del cibo», dice Carlin Petrini, fondatore di Slow Food e di Terra Madre. Milano, una mattina un po’ grigia di metà dicembre.

I cantieri di Expo 2015 sono a pochi chilometri di distanza e nella sede di Avvenire si parla di come dovrebbe essere – e di come può ancora essere – l’evento planetario sul quale negli ultimi mesi si sono radunate le nubi dello scandalo e del malaffare.

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CIBO & EXPO, il banchetto della fraternità

 Il forum di Avvenire: a confronto su Expo 2015, Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, il critico enogastronomico Paolo Massobrio e Luigino Bruni di Alessandro Zaccuri pubblicato su Avvenire il 18/12/2014 Il cuciniere del mondo, le lenticchie di Esaù, l’insofferenza verso gli chef stellati che ...
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Bruni, punto di riferimento dell'economia di comunione, auspica il cambio di rotta «Non è necessario impoverire i diritti di chi è dentro per avvantaggiare chi è fuori»

di Gianpaolo Sarti

pubblicato su “Il Piccolo” il 29/10/2014

Logo Il PiccoloBruni, punto di riferimento dell'economia di comunione, auspica il cambio di rotta «Non è necessario impoverire i diritti di chi è dentro per avvantaggiare chi è fuori»

Si possono creare posti di lavoro? Si può essere contenti a lavorare? Accanto a capitalismo e profitto, Luigino Bruni ha introdotto nei manuali accademici parole come reciprocità, beni relazionali e felicità. Uno che per contrastare il fenomeno del la dipendenza da gioco va nei bar a portare i biliardini al posto delle slot machine. Ordinario di Economia civile e aziendale alla Lumsa, editorialista di Avvenire, è da anni il punto di riferimento scientifico dell'Economia “di comunione", un modello di business ideato da Chiara Lubich, fondatrice del movimento ecclesiale dei Focolarini.

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Non ha dubbi, nei giorni in cui divampa lo scontro sul Jobs act, nel dire che il dibattito sul lavoro va  ripensato completamente. E che l'abolizione dell'articolo 18 non è necessaria. Anzi, alimenta la rivalità civile.

 

Professore, l'economia di cui lei parla, basata sui principi di reciprocità e fraternità,incontra resistenze enormi, perché?

Giustizia, attenzione al bene comune e all'ambiente sono concetti che faticano a entrare. Non perché queste categorie siano meno interessanti della competizione, ma perché chi ha in mano il potere capitalistico non ha intenzione di sviluppare queste teorie nelle università, nei centri studi o a dare premi Nobel agli approcci alternativi.

La reciprocità può sopravvivere nel tessuto economico?

Nel Paese esistono almeno due capitalismi: quello che io definisco “stile Lottomatica", dell'azzardo, cioè società anonime che puntano tutto sugli incentivi ai manager, che hanno come obiettivo massimizzare i profitti e basta e che non hanno alcun interesse per il bene comune. E poi c'è l'Italia della piccola media impresa, dei distretti , degli artigiani. Questo capitalismo è fatto di imprenditorialità a base familiare, dal volto umano. Imprese che dovrebbe ro cominciare a raccontarsi di più. Un modello che non è sostenuto.

Cioè?

Guardiamo alla fiscalità: l'azzardo in Italia è tassato al 9%, del tutto esente d'lva, quando invece le Pmi sono tassate al 40%. Cosi si incoraggia il capitalismo sbagliato. Quando parliamo di economia civile ci occupiamo di queste cose, non di no prot.

Nell'economia si discute di merci e servizi. Lei teorìzza i “beni relazionali". Cosa intende?

All'analisi economica del  lavoro e del mercato dobbiamo aggiungere il fatto che la gente insieme al denaro e alla carriera, produce, consuma e cerca relazioni. Ma sul lavoro spesso si soffre. E poi, perché una signora anziana esce di casa quattro volte al giorno per prendere il latte, il pane e la verdura? Per incontrare le persone. L'incontro con il panettiere la nutre come il pane. Però se non vediamo nella teoria economica i rapporti umani, ma solo le merci, non capiamo perché la gente sceglie un lavoro o lo lascia. E perché, nonostante tutto, i piccoli negozi sotto casa resistono.  Li trovano fiducia e dialogo.

Ricerca di felicità, come la chiama lei?

La ricchezza è un mezzo per star bene, ma stiamo costruendo una cultura avara, un mondo in cui si lavora solo per massimizzare i profitti. Si dimentica che invece questi vanno usati per la felicità: i beni diventano benessere se condivisi, perché la vita buona dipende dai rapporti con gli altri, ma questa dimensione non è considerata nell'economia. Non a caso adesso c'è il ritorno del locale, del chilometro zero, dei gruppi di acquisto. Perché la gente è stufa di solitudine, cerca relazioni.

Ed è stufa del precariato. Il premier Matteo Renzi dice che il posto fisso è un'idea da abbandonare. È  d'accordo?

Una certa idea di posto fisso, come si immaginava trent'anni fa, è cambiata. Però nel dibatti to sul lavoro manca un ripensamento totale: non c'è lavoro per tutti e quindi serve una ridistribuzione. Lavorare meno per la vorare tutti. Perché non incentivare il part time per chi ha superato i 55 anni e liberare così nuovi posti per i giovani? A Sessant'anni un operaio non ne può più di stare in fabbrica.

Che cosa ne pensa dell'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori?

Non è necessario impoverire i diritti di chi è dentro per avvantaggiare chi è fuori, cosi si aumenta la rivalità. Un Paese che non ritrova l'amicizia civile va verso il declino.

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Bruni, punto di riferimento dell'economia di comunione, auspica il cambio di rotta «Non è necessario impoverire i diritti di chi è dentro per avvantaggiare chi è fuori»

di Gianpaolo Sarti

pubblicato su “Il Piccolo” il 29/10/2014

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Si possono creare posti di lavoro? Si può essere contenti a lavorare? Accanto a capitalismo e profitto, Luigino Bruni ha introdotto nei manuali accademici parole come reciprocità, beni relazionali e felicità. Uno che per contrastare il fenomeno del la dipendenza da gioco va nei bar a portare i biliardini al posto delle slot machine. Ordinario di Economia civile e aziendale alla Lumsa, editorialista di Avvenire, è da anni il punto di riferimento scientifico dell'Economia “di comunione", un modello di business ideato da Chiara Lubich, fondatrice del movimento ecclesiale dei Focolarini.

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«L'abolizione dell'articolo 18 alimenta la rivalità civile»

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Intervista a Luigino Bruni

di Antonella Ferrucci

140712 Vaticano 01 ridFra i protagonisti del Summit «Bene comune globale. Per un’economia sempre più inclusiva» che ha riunito in Vaticano le massime autorità dell’Economia mondiale l’11 e 12 luglio scorso, Luigino Bruni ha incontrato per la prima volta di persona Papa Francesco, pranzando con lui.

Gli chiediamo che impressioni ha tratto da quell’incontro e cosa lo ha colpito maggiormente.

Non avevo mai incontrato Papa Francesco di persona, tantomeno pranzato di fronte a lui. Mi hanno colpito molte cose, tutte positive. Innanzitutto il suo ascolto profondo e attento. In molti si sono seduti accanto a lui (in una sedia rimasta, non a caso, vuota), per comunicargli sogni, aspirazioni, richieste. Tra questi il Nobel per la pace, M. Yunus, che gli ha detto 'aiutami, santo padre, a diffondere la finanza per i poveri'.

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Lui li ha ascoltati come fosse lì tutto per lei o per lui, dimentico anche del pasto. Poi mi ha colpito vedere in atto il suo magistero 'incarnato' dei fatti: non ha detto molte parole, ma 'ha parlato' stando due ore con noi, e ha detto, con questo linguaggio potente, quanto importante sia l'economia nella sua visione della chiesa. Poi la sua gratitudine: la parola che più ha pronunciato è stata 'grazie': grazie per il vostro lavoro di ricerca, grazie'. Ci ripetuto più volte. “Grazie di quello che fate”, lo ha ripetuto, e non per buona educazione, molte volte, fino alla fine.”

Che papa è Papa Francesco, nella tua esperienza?130520 Luigino Bruni rid

"Sono stato con lui solo per due ore. Ma lo seguo con attenzione fin dalla prima sera a Piazza San Pietro. E' un papa umile, nel senso più vero del termine, che si mette alla pari, né sopra né sotto gli altri che ha di fronte. Mi piace molto il suo linguaggio: è un maestro nell'uso delle immagini, che ricorda molto da vicino quello dei vangeli, e come Gesù nei vangeli tocca il cuore della gente, dei sapienti e dei piccoli. Aver tradotto – durante quel pranzo – il concetto un po’ complicato del riduzionismo antropologico con la metafora dell'alambicco, nel quale entra il vino (l'uomo) e esce la grappa( che è un'altra cosa, magari utile, ma un'altra cosa), l’ho trovato geniale. 'Non ci sono al mondo oggi persone più autorevoli del papa' , mi ha comunicato Carney, il governatore della Bank of England seduto accanto a me a pranzo. E' vero, e in questa sorta di 'Davos dei poveri' il Papa ci ha insegnato a prendere parte, a non restare indifferenti o distanti osservatori imparziali. Occorre scegliere il punto di osservazioni sul mondo."

Quale?

140712 Vaticano 02 rid"Lui ha scelto quello di Lazzaro (nella parabola evangelica), il mendicante colui che sta sotto il tavolo, con i cagnolini, “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco” (Luca 16). Chi si mette accanto a Lazzaro guarda il mondo da sotto le mense dei ricchi, con lo sguardo rivolto verso l'alto. Da lì si vedono cose diverse: vede il ricco epulone sopra di sè, “vestito di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente”. Ma vede anche il cielo. Quello di Francesco è allora un invito a fare altrettanto, e a guardare il mondo, ma anche il cielo, insieme ai tanti Lazzari di oggi, molti prodotti dal nostro capitalismo che esclude. Come appassionato di Economia di Comunione, e come amante della giustizia, non avrei potuto sentirmi più a mio agio in compagnia di Lazzaro, e di Francesco (Bergoglio ma anche Francesco d’Assisi). Ho proposto al termine di rendere biennale questa "Davos dei poveri", un invito che ha buone probabilità di essere accolto, affinché questo sguardo sul mondo e sul capitalismo diventi uno sguardo costante, di critica e di amore al nostro tempo."

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Intervista a Luigino Bruni

di Antonella Ferrucci

140712 Vaticano 01 ridFra i protagonisti del Summit «Bene comune globale. Per un’economia sempre più inclusiva» che ha riunito in Vaticano le massime autorità dell’Economia mondiale l’11 e 12 luglio scorso, Luigino Bruni ha incontrato per la prima volta di persona Papa Francesco, pranzando con lui.

Gli chiediamo che impressioni ha tratto da quell’incontro e cosa lo ha colpito maggiormente.

Non avevo mai incontrato Papa Francesco di persona, tantomeno pranzato di fronte a lui. Mi hanno colpito molte cose, tutte positive. Innanzitutto il suo ascolto profondo e attento. In molti si sono seduti accanto a lui (in una sedia rimasta, non a caso, vuota), per comunicargli sogni, aspirazioni, richieste. Tra questi il Nobel per la pace, M. Yunus, che gli ha detto 'aiutami, santo padre, a diffondere la finanza per i poveri'.

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Il mio incontro con Papa Francesco

Intervista a Luigino Bruni di Antonella Ferrucci Fra i protagonisti del Summit «Bene comune globale. Per un’economia sempre più inclusiva» che ha riunito in Vaticano le massime autorità dell’Economia mondiale l’11 e 12 luglio scorso, Luigino Bruni ha incontrato per la prima volta di persona Papa F...
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Gli scandali legati alla corruzione e all'abuso di potere si susseguono in Italia in una rinnovata stagione di Tangentopoli

di Chiara Santomiero

pubblicato su Aleteia il 16/06/2014

L'inchiesta sul Mose, che ha rivelato l'intreccio di affari, corruzione e cattiva politica legato alla realizzazione del progetto di tutela della laguna di Venezia, è solo l'ultima vicenda di abuso di gestione della cosa pubblica che sembra dover funestare quasi in modo inesorabile il nostro Paese, nonostante la "madre di tutti i processi" -che fu la celebrazione di Tangentopoli negli anni '90 – e l'introduzione di nuove norme sembrava avessero segnato una decisa inversione di tendenza. Aleteia ne ha parlato con il professor Luigino Bruni, docente di economia politica all'Università Lumsa di Roma.

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Cosa insegna la vicenda del Mose a distanza di oltre vent'anni da Tangentopoli?

La vicenda del Mose, che si lega alle altre di queste giorni relative all'Expo e alla Guardia di finanza - tanto che impropriamente si parla ormai di "scandalo", dovendo lo scandalo rappresentare un'eccezione e non la regola -, dimostra per prima cosa che in questi anni abbiamo selezionato una classe dirigente pessima. Non solo in politica ma anche nell'impresa, le elites del Paese sono state selezionate in maniera sbagliata. Quando un sistema è malato e una società è in crisi – come aveva dimostrato Tangentopoli –, il risultato è che verso il potere sono attratti i peggiori. Se la rappresentanza politica, infatti, viene fatta coincidere con i privilegi, il potere, l'interesse personale, chi si è candidato a tutti i livelli in questi anni, non solo alla Camera o al Senato ma anche a livello amministrativo, negli enti locali, si è candidato per questo. Per ricreare una vocazione politica che significa perseguimento del bene comune diventa allora necessario riportare a tutti i livelli persone mediamente oneste, nè santi nè eroi. E ce ne sono molte. Poichè infatti l'esercizio del potere ha attratto i peggiori, coloro con meno morale della media, la classe politica attuale non è un campione rappresentativo del Paese, non è la sua "foto". Da queste vicende emerge, inoltre, un messaggio più generale da raccogliere.

Quale?

Il peso rilevante che ha assunto l'economia nella vita di tutti i giorni, l'enfasi data al denaro, aumenta l'avidità e la corruzione sembra il pass-partout magari anche per la vita eterna. Un mio maestro in economia affermava "in un mondo in cui il denaro compra tutto, tutto diventa denaro". Il pan-economismo – tutto è economia – è qualcosa che misuriamo ogni giorno, anche nel linguaggio dei politici: si parla solo di efficienza, costi, benefici, il governo della cosa pubblica come un'impresa. Bisogna rimettere il denaro al suo posto e non al centro di ogni cosa, quasi fosse il dio di una religione pagana.

Allora è vero che è una questione di ladri piuttosto che di mancanze di regole?

Non credo in una civiltà che tenta di combattere la corruzione aumentando le regole e la repressione. Piuttosto andrebbero premiate le virtù. A Napoli, nel Settecento, dopo che Cesare Beccaria aveva pubblicato "Dei delitti e delle pene", Giacinto Dragonetti pubblicò un trattato di contenuto morale "Delle virtù e dei premi", per indicare che occorreva premiare gli onesti. Dovremmo cominciare a dare premi agli onesti per ricordarci che esistono, così come dovremmo raccontare le storie di non corruzione per avere sempre presente che non tutto è disonestà. Anche questo serve come terapia, così come per curare un tumore serve aggredirlo con la chemioterapia, ma anche attraverso l'infusione di cellule staminali.

Lei ha scritto un libro intitolato "Economia con l'anima": possiamo continuare a sperare che non si tratti solo di utopie?

Io prendo molto sul serio l'espressione del primo capitolo della Genesi quando si dice che Dio, dopo aver creato l'uomo, vide che era cosa "molto buona e molto bella", mentre la creazione delle altre cose era solo "buona". La vocazione al bene nell'essere umano è molto profonda anche se questi può ammalarsi e sbagliare. Inoltre un terzo messaggio che si può trarre dalla vicenda del Mose e dalle altre è che bisogna stare attenti a non fare l'errore di pensare che tutti quelli che sono in politica o in economia oggi siano tutti corrotti, altrimenti questo ci fa cadere nel cinismo e nella sfiducia mentre dobbiamo avere ben presente che non siamo condannati a convivere con la corruzione. Bisogna ripartire dai più giovani e dalla scuola. Ai miei tempi la campagna contro il fumo condotta nelle scuole a livello capillare produsse l'effetto che molti di quelli della mia generazione oggi non fumano, mentre il fumo è più diffuso tra gli attuali studenti. Dalla scuola elementare occorre educare alla legalità, al bene comune, all'importanza di pagare le tasse. La Costituzione deve essere studiata da tutti e non solo dagli studenti universitari. Non bisogna perseguire utopie, ma guardare agli avvenimenti con ottimismo realista.

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Gli scandali legati alla corruzione e all'abuso di potere si susseguono in Italia in una rinnovata stagione di Tangentopoli

di Chiara Santomiero

pubblicato su Aleteia il 16/06/2014

L'inchiesta sul Mose, che ha rivelato l'intreccio di affari, corruzione e cattiva politica legato alla realizzazione del progetto di tutela della laguna di Venezia, è solo l'ultima vicenda di abuso di gestione della cosa pubblica che sembra dover funestare quasi in modo inesorabile il nostro Paese, nonostante la "madre di tutti i processi" -che fu la celebrazione di Tangentopoli negli anni '90 – e l'introduzione di nuove norme sembrava avessero segnato una decisa inversione di tendenza. Aleteia ne ha parlato con il professor Luigino Bruni, docente di economia politica all'Università Lumsa di Roma.

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Mose, Expo & C: condannati all'illegalità?

Gli scandali legati alla corruzione e all'abuso di potere si susseguono in Italia in una rinnovata stagione di Tangentopoli di Chiara Santomiero pubblicato su Aleteia il 16/06/2014 L'inchiesta sul Mose, che ha rivelato l'intreccio di affari, corruzione e cattiva politica legato alla realizzazione...
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di Luigino Bruni

pubblicato su: Ilsussidiario.net il 4/05/2014

La proposta polacca di inserire nel calcolo del Pil anche la stima di attività illegali (traffico droga, prostituzione, contrabbando, ecc.) anche se stupisce perché viene dalla patria di Giovanni Paolo II, da un Paese che fa un vanto delle sue radici cristiane, si muove in perfetta coerenza con la tendenza del nostro capitalismo. I polacchi stanno dicendo, con questa proposta, che il Pil dice molte cose ma non il benessere, né la qualità della vita, né la democrazia, né i diritti o le libertà di una nazione. Lo sapevamo, ma ogni tanto, magari in occasione di queste notizie, è bene ricordarcelo. Il Pil indica la produzione in beni e servizi di un Paese, niente più.

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 Una volta, in un mondo più semplice, era anche indicatore di creazione di posti di lavoro, e forse di benessere (in società che uscivano dall’indigenza aumentare merci e servizi aumentava anche il ben-essere delle famiglie). Oggi indica sempre meno e sempre peggio. Da una parte la parola beni, cioè cose buone (bona, in latino), ha perso ogni contatto con le cose che chiamiamo beni economici: che cosa ha di buono la pornografia, la prostituzione? Ma, venendo all’Italia, che cosa ha di buono il gioco d’azzardo e questa invasione di legioni di “gratta e vinci” che stanno impoverendo sempre più i nostri concittadini più fragili, tra cui molti anziani e anziane? Niente, ma sono tutto Pil: più la gente si rovina giocando nelle slot machines, più aumentano i posti di lavoro, il (troppo piccolo) gettito fiscale, più aumenta il Pil; e, cosa ancora più grave dal punto di vista etico, parte di questi profitti sbagliati finiscono per finanziarie attività “non-profit”, le quali magari si occupano di cura di quelle stesse dipendenze. “È il capitalismo, bellezza!”. Certo, ma è molto triste, e chi ama la verità e la giustizia dovrebbe darsi da fare per cambiarlo.

Tutto questo ci dice allora quanto poco dice il Pil riguardo alla salute economica e civile di un Paese: se oggi l’Italia dovesse, ad esempio, ripartire con un Pil in zona positiva (0,…), grazie all’aumento del gioco d’azzardo, o se la Polonia aumenta la crescita perché cresce l’uso di pornografia e l’alcool, dovremmo avere buone ragioni per rallegrarci?

Aumentano i posti di lavoro”, qualcuno può replicare, e spesso replica. Ma, rispondo, non tutti i posti di lavoro sono cosa buona. Che esperienza umana ed etica fa una donna che oggi, per sopravvivere, lavora in una “impresa” pornografica? O chi lavora in una video lottery dove assiste ad autentiche tragedie di chi si rovina per “giocare”? Chi produce mine anti-uomo? Ci sono posti di lavoro pessimi, e una civiltà cresce riducendo i lavori sbagliati e aumentando quelli buoni.

Con l’abolizione della schiavitù in Europa e in America abbiamo perso migliaia di posti di lavoro (basti pensare a quanti navi e porti lavoravano fino all’Ottocento in questo turpe commercio), ma dopo pochi decenni abbiamo creato le rivoluzioni industriali e tecniche proprio perché era venuta meno la schiavitù. La democrazia è una “distruzione creatrice”, dove muoiono attività sbagliate e contro la persona e dopo, quando le civiltà funzionano e con esse la democrazia, ne nascono altre migliori che le sostituiscono.

Potremmo, allora, cogliere l’opportunità di questa proposta polacca per riflettere anche in casa nostra sulla natura del Pil, su che cosa dice e su che cosa non dice, e dar vita ad altri indicatori che diminuiscano quando la gente sta male e si fa male (mentre aumenta il Pil). Un indicatore di felicità soggettiva, ad esempio, che potrebbe dirci altre cose che il Pil non sa dire, o dice troppo poco e sempre più male.

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di Luigino Bruni

pubblicato su: Ilsussidiario.net il 4/05/2014

La proposta polacca di inserire nel calcolo del Pil anche la stima di attività illegali (traffico droga, prostituzione, contrabbando, ecc.) anche se stupisce perché viene dalla patria di Giovanni Paolo II, da un Paese che fa un vanto delle sue radici cristiane, si muove in perfetta coerenza con la tendenza del nostro capitalismo. I polacchi stanno dicendo, con questa proposta, che il Pil dice molte cose ma non il benessere, né la qualità della vita, né la democrazia, né i diritti o le libertà di una nazione. Lo sapevamo, ma ogni tanto, magari in occasione di queste notizie, è bene ricordarcelo. Il Pil indica la produzione in beni e servizi di un Paese, niente più.

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Se il Pil in rialzo diventa una brutta notizia

di Luigino Bruni pubblicato su: Ilsussidiario.net il 4/05/2014 La proposta polacca di inserire nel calcolo del Pil anche la stima di attività illegali (traffico droga, prostituzione, contrabbando, ecc.) anche se stupisce perché viene dalla patria di Giovanni Paolo II, da un Paese che fa un vanto d...
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Il docente della Lumsa su Roncalli e Wojtyla: «Profetici a occuparsi di pace, donne e lavoro. La Chiesa muore se resta lontana dalla società»

di Alessandra Turrisi

pubblicato su Il Giornale di Sicilia il 27/04/2014

Wojtyla Roncalli rid«Hanno avuto ruolo profetico e coraggio di rischiare. Hanno dimostrato che la Chiesa è se stessa se si occupa di politica e di economia, altrimenti rischia di morire».

I due nuovi santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II visti con gli occhi di un economista cattolico, esperto di Dottrina sociale della Chiesa, assumono tutto un altro aspetto, lontano anni luce dal «santino» con  l'aureola e molto più vicino ai problemi concreti della gente, dal lavoro alla famiglia. Il professor Luigino Bruni, docente di Economia alla Lumsa di Roma, è un esperto di economia di comunione, una vera rivoluzione in tempi di crisi finanziarie e recessione.

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Davanti al milione di pellegrini che affollerà oggi Roma per un evento eccezionale, ancor di più per la presenza di due papi viventi che hanno conosciuto coloro che vengono canonizzati, prova un'analisi del segno che verrà impresso nella storia della cristianità.

Professor Bruni, come hanno interpretato la Chiesa questi due nuovi santi?

«Innanzitutto si tratta di due papi molto diversi, che hanno rappresentato stagioni diverse della Chiesa, ma con molte analogie. Giovanni XXIII ha aperto il Concilio Vaticano II e Giovanni Paolo II lo ha interpretato e applicato. Il primo era molto più pastore, è noto per essere stato ben presente e aver governato la Curia romana, anche se aveva un approccio più tradizionale; il secondo ha guardato di più al rapporto con  l'esterno. Entrambi hanno in comune il Concilio: Giovanni XXIII fu eletto papa già anziano, era considerato un pontefice di passaggio e ha cambiato la Chiesa, ha intuito che ci voleva un cambiamento epocale, ha guardato dentro la Chiesa ma in senso ecumenico. È stato un altro scherzo della Provvidenza. Giovanni Paolo II ha guardato fuori, aprendo le porte della Chiesa, avviando una stagione della Chiesa che incontra le persone là dove si trovano, in tutto il mondo, basti pensare ai tanti viaggi in ogni continente. Tutti e due hanno cambiato la Chiesa con linguaggi diversi».

È stato deciso di canonizzare Giovanni XXIII anche non in presenza di un secondo miracolo a lui attribuito. Quale significato assume questo fatto?

«La Chiesa cattolica è l'unico istituto al mondo in cui esiste il diritto premiale, in cui un processo si conclude non per forza con una condanna, ma con un premio, la beatificazione e poi la canonizzazione. È importante che oggi si dia meno peso ai miracoli. La persona non è santa perché fa i miracoli, sarebbe una categoria premoderna. Oggi è il popolo che affermala santità di una persona. Da sempre, d'altronde, è la morte in odore di santità che è precondizione per istruire un processo di beatificazione. Ma in un mondo precedente contavano i miracoli. Oggi questo vale meno ed è giusto così».

Qual è stato il loro ruolo nel cambiamento di prospettiva della Chiesa su temi socio-politici ed economici?

«Il loro intervento nella Dottrina sociale della Chiesa è stato di fondamentale importanza. Giovanni XXIII, per esempio, ha scritto l'enciclica Pacem in terris, in un contesto di guerra fredda ha saputo parlare di pace come valore assoluto. È stato un atto profetico importante. Poi Giovanni Paolo II ha presentato il lavoro in una forma antropologicamente molto alta, ha introdotto il concetto di imprenditoria come valore positivo, assolutamente rivoluzionario. Penso alle encicliche Centesimus annus, Sollecitudo rei socialis, Laborem exsercens, che parlano di lavoro come costitutivo dell'essere umano, prima invece considerato un patrimonio solo del pensiero comunista. Sono stati introdotti concetti come solidarietà e sussidiarietà. Poi anche sul tema del ruolo della donna la Mulieris dignitatem ha avviato una stagione nuova nella Chiesa, dove la considerazione della donna è ancora rimasta al Medioevo. Questo è il primo documento della Chiesa in questo senso».

Cosa dovremmo imitare di questi due nuovi santi?

«Dovremmo imitare la loro capacità di guardare più lontano degli orizzonti del proprio tempo. Loro hanno capito che, se la Chiesa non fosse cambiata, avrebbe perso il suo appuntamento con la storia. Hanno avuto una grande dimensione profetica e il coraggio di rischiare. Hanno capito che la Chiesa è se stessa se si occupa di politica e di economia, altrimenti muore».

Con Papa Francesco la Chiesa sta vivendo un altro momento di svolta. Cosa la colpisce di più?

«Francesco ha ereditato le parti migliori di entrambi i papi che saranno canonizzati: la dimensione di apertura alle periferie, del coraggio e della profezia. L'antropologia è sempre attuale, il mondo economico e politico, però, rispetto ai tempi di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II è cambiato».

Cosa è la santità oggi?

«Essere santo vuol dire che è possibile su questa terra seguire una vocazione fino in fondo e terminare la propria esistenza dicendo che il Vangelo porta a una bellezza comprensibile da tutti. C'è la santità biblica, quella di Noè, che fabbrica un'arca, affronta il diluvio e poi torna a fare il contadino; quella di Abramo, da cui si evince che la santità non è la perfezione morale, ma è la sequela di una voce».

Vengono canonizzati due papi insieme, arriva la notizia che anche Paolo VI potrebbe essere beatificato entro l'anno. Viene da chiedersi: è l'onore degli altari la strada di chi ricopre questo incarico?

«Il rischio di autorefenzialità c'è, non si può nascondere. Ma non credo che un pontefice come Francesco corra questo rischio. Mi piacerebbe, però, che noi cristiani proponessimo la santità dei laici, dei lavoratori che hanno fatto solo quello. Mi piacerebbe che una persona con un handicap mentale diventasse santo, per esempio. Altrimenti rischiamo un'eugenetica della santità».

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Il docente della Lumsa su Roncalli e Wojtyla: «Profetici a occuparsi di pace, donne e lavoro. La Chiesa muore se resta lontana dalla società»

di Alessandra Turrisi

pubblicato su Il Giornale di Sicilia il 27/04/2014

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I due nuovi santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II visti con gli occhi di un economista cattolico, esperto di Dottrina sociale della Chiesa, assumono tutto un altro aspetto, lontano anni luce dal «santino» con  l'aureola e molto più vicino ai problemi concreti della gente, dal lavoro alla famiglia. Il professor Luigino Bruni, docente di Economia alla Lumsa di Roma, è un esperto di economia di comunione, una vera rivoluzione in tempi di crisi finanziarie e recessione.

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"Due santi moderni: il coraggio di rischiare parlando anche di Economia e di Politica"

Il docente della Lumsa su Roncalli e Wojtyla: «Profetici a occuparsi di pace, donne e lavoro. La Chiesa muore se resta lontana dalla società» di Alessandra Turrisi pubblicato su Il Giornale di Sicilia il 27/04/2014 «Hanno avuto ruolo profetico e coraggio di rischiare. Hanno dimostrato che la Chie...
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di Luigino Bruni

pubblicato su ilsussidiario.net il 20/04/2014

Logo Il Sussidiario 2Ho sempre guardato con sospetto i tagli allo stato sociale come via di uscita dalla crisi economica e finanziaria dell’Italia e degli altri stati europei in difficoltà. Un paio di anni fa il Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen in più occasioni rimproverava l’Italia perché assisteva passiva allo smantellamento progressivo di una delle conquiste più importanti delle democrazie moderne - lo stato sociale. Ci sono molte ragioni per essere preoccupati dell’entusiasmo con il quale i funzionari europei, i nostri governanti e il commissario per la spending review interpretano il loro compito di tagliatori di welfare.

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Innanzitutto due premesse. Non tutte le riduzioni della spesa pubblica sono riduzioni di sprechi, sono anche riduzioni e tagli di diritti: basta chiederlo ai sindaci e agli amministratori che oggi fanno fatica a garantire i servizi minimi in sanità, scuola, trasporti, viabilità. Secondo: tagliare la spesa pubblica significa quasi sempre ridurre posti di lavoro (quindi aumentare la disoccupazione) e ridurre il Pil. La spesa pubblica, nelle moderne democrazie e contabilità, è direttamente Pil (che in Italia pesa, complessivamente, per circa il 50% del totale). Aspetto ancora qualcuno che mi spieghi, dati alla mano, come si possano aumentare nel breve periodo occupazione e Pil tagliando la spesa pubblica. Ancora non l’ho incontrato. E poi sullo stato sociale ci sono almeno due considerazioni di carattere generale che trovo troppo poco presenti nei nostri dibattiti pubblici.

La prima riguarda la democrazia moderna. Quando sulla fine dell’Ottocento si iniziò a discutere del suffragio universale, uno dei punti controversi era il seguente: “Ma se diamo - dicevano borghesi e aristocratici, cioè più o meno il 10% della popolazione - il voto ai poveri, questi ci toglieranno i beni e ci cacceranno via”. Questo esito fu evitato e si costruì il nuovo patto sociale perché i “ricchi” fecero due grandi concessioni ai “poveri”: il lavoro e una crescente fetta di diritti. Lavoro e diritti si chiamavano, e si chiamano ancora, stato sociale. Se oggi i nuovi ricchi della finanza e delle rendite (e tra questi molti dei commissari e dei governanti) si dimenticano questa antica base del patto sociale, e la maggioranza della gente si vede soltanto ridurre il lavoro e i diritti, ciò che è a rischio è proprio il patto sociale, che potrebbe spezzarsi. Il primo bene comune delle democrazie è la democrazia stessa che, come tutti i beni comuni, se non “mantenuta” adeguatamente, viene progressivamente, e normalmente inintenzionalmente, distrutta.

La ricchezza delle persone e dei popoli - siamo alla seconda considerazione - è un vettore composto di beni privati (redditi e ricchezze individuali, automobile, casa, salute, istruzione, ecc.) e di beni pubblici (sicurezza, sistema scolastico, qualità, costi e quantità dei trasporti, la vivibilità delle città, diritti). Lo vediamo troppo spesso, soprattutto ultimamente in Sud America, Asia e ormai in Europa del sud, che quando in un Paese si riducono i servizi e i beni pubblici, la gente si impoverisce anche se si ritrovano redditi individuali maggiori. Se oggi in Italia dovessimo ricevere 100 euro in più al mese, ma aumentano i costi dei trasporti pubblici, peggiorano gli asili e le scuole pubbliche e dobbiamo mandare i figli nelle scuole private, idem per la sanità, tagliamo nella sicurezza urbana e dobbiamo aumentare la spesa per allarmi e cancelli blindati, in realtà la nostra ricchezza individuale diminuisce. Sono antiche verità, ma che la nostra cultura sta sistematicamente dimenticando e negando.

C’è tutto questo, e molto di più, dietro ai tagli allo stato sociale, un’eredità dei secoli passati: delle confraternite e ospizi medioevali, delle scuole e degli ospedali dei carismi religiosi moderni, e solo recentemente degli Stati. Impoveriremmo molto di più i nostri figli e i nipoti riducendo stato sociale e diritti di quanto non li stiamo impoverendo con l’aumento del debito pubblico. Non dimentichiamolo in questo tempo di passaggio.

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di Luigino Bruni

pubblicato su ilsussidiario.net il 20/04/2014

Logo Il Sussidiario 2Ho sempre guardato con sospetto i tagli allo stato sociale come via di uscita dalla crisi economica e finanziaria dell’Italia e degli altri stati europei in difficoltà. Un paio di anni fa il Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen in più occasioni rimproverava l’Italia perché assisteva passiva allo smantellamento progressivo di una delle conquiste più importanti delle democrazie moderne - lo stato sociale. Ci sono molte ragioni per essere preoccupati dell’entusiasmo con il quale i funzionari europei, i nostri governanti e il commissario per la spending review interpretano il loro compito di tagliatori di welfare.

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Quei tagli che ci impoveriscono più del debito pubblico

di Luigino Bruni pubblicato su ilsussidiario.net il 20/04/2014 Ho sempre guardato con sospetto i tagli allo stato sociale come via di uscita dalla crisi economica e finanziaria dell’Italia e degli altri stati europei in difficoltà. Un paio di anni fa il Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen ...
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Intervista a Luigino Bruni, ospite il prossimo 11 aprile del Festival del Volontariato

di Giulio Sensi

pubblicato su: volontariatoggi.info il 3/04/2014 

Logo Festival volontariato ridLUCCA. Sarà ospite al Festival del Volontariato di Lucca l’11 aprile alle 11 al Real Collegio nel corso del convegno “Liberare il lavoro”. Luigino Bruni , docente all’Università di Roma Lumsa, teorico, e pratico, dell’economia di comunione non ha dubbi: “per far ripartire l’Italia serve liberare le sue energie includendo nel mercato civile coloro che sono esclusi”.

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Professore, dedichiamo il Festival del Volontariato 2014 alle energie che il Paese deve liberare. Non solo la politica, ma anche tutto quello che ruota intorno all’economia civile. Dove sono queste energie?

Sottolineo subito un dato storico importante: i momenti in cui l’Italia, e il mondo intero, sono ripartiti, i momenti in cui si sono visti miracoli economici sono stati quelli in cui siamo riusciti ad includere nel mercato civile le persone che erano rimaste fuori. Questo vale in ogni epoca storica: dalla rivoluzione industriale -con i contadini che dai campi venivano inseriti nel ciclo produttivo industriale- fino ai tempi più recenti, con il mondo cooperativo che ha avuto gli stessi meccanismi di valorizzazione e inclusione.

Nel dopo guerra, soprattutto con l’affacciarsi nella vita civile e lavorativa dell’Italia delle donne questo tema è stato centrale. Viviamo un’epoca simile?

Oggi le sfide sono le stesse: riuscire a portare dentro quello che è escluso o scoraggiato. Ci sono dei talenti, delle risorse femminili nell’economia che restano fuori. Proprio per questo oggi ci deve essere maggior interesse a rivedere la vita economica e civile partendo proprio dalla valorizzazione dell”universo femminile. Poi gli anziani che sono una risorsa immensa: il numero di anni che abbiamo conquistato nell’anzianità attiva sono una risorsa da immettere nel volontariato e nel circuito civile. E fondamentale è tutto ciò che è immobile, avvertito come un problema: deve essere trasformato in risorsa, a cominciare dai giovani. Quando i giovani stanno fuori dall’economia, l’economia non va più avanti. Ciò che è fuori va tirato dentro, è alla base di ogni rivoluzione civile. Ma manca in Italia una fame di vita: abbiamo fatto cose grandi quando eravamo affamati di futuro.

Proprio l’esclusione dei giovani dall’economia è uno dei peggiori scandali del nostro tempo. Da dove iniziare?

Ad esempio lavorando all’idea di un servizio civile universale. È uno dei progetti su cui si dovrà misurare il governo Renzi, quello di dare un’opportunità di impegno civile a tutti i giovani con una possibilità di un piccolo reddito che vada anche nella direzione della redistribuzione del reddito stesso. Il servizio civile da solo non basta, ma è una ripartenza per restituire un po’ di speranza. Con un senso, peraltro, di partecipazione, fratellanza, solidarietà nazionale.

Negli ultimi anni molte belle idee e progetti positivi non sono mai decollati per mancanza di risorse.

Sono sicuro che se andiamo in Europa a chiedere risorse per progetti del genere si aprono autostrade. Ci vogliono idee, determinazione, volontà politica. Se si lavora bene, le risorse arrivano. Chi non sarebbe d’accordo ad una sorta di patrimoniale vera per dare una speranza ai giovani? La gente è contraria a dare il proprio contributo quando vede idee politiche che non hanno senso. C’è una buona parte dell’umanità che capisce che i giovani sono il problema sociale attuale perché il modello economico non li coinvolge più.

Eppure gli anticorpi ci sono nel terzo settore, anzi chiamiamolo economia civile o economia di comunione.

Si, le cose più belle le vedo in mezzo ai poveri, nei luoghi della marginalità. La salvezza verrà di nuovo dai poveri, la speranza non arriva dai ricchi. Il cambiamento si gioca nei luoghi che funzionano, che hanno bisogno di una nuova narrativa del mondo per superare gli approcci assistenzialistici a favore di un nuovo capitalismo che parta dai territori e dai beni comuni. Abbiamo bisogno di una nuova narrazione di questi luoghi in cui abita l’umano vero. La salvezza non è mai arrivata dai potenti, arriverà se saremo capaci di una narrativa diversa del mondo. Non è il racconto delle anime belle, ma l’Italia che ha la stessa dignità degli altri. Perché la virtù è più vera del vizio.

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Intervista a Luigino Bruni, ospite il prossimo 11 aprile del Festival del Volontariato

di Giulio Sensi

pubblicato su: volontariatoggi.info il 3/04/2014 

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“La speranza arriva dai poveri, non dai ricchi. Perché la virtù è più vera del vizio”

Intervista a Luigino Bruni, ospite il prossimo 11 aprile del Festival del Volontariato di Giulio Sensi pubblicato su: volontariatoggi.info il 3/04/2014  LUCCA. Sarà ospite al Festival del Volontariato di Lucca l’11 aprile alle 11 al Real Collegio nel corso del convegno “Liberare il lavoro”. ...
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di Luigino Bruni

pubblicato su Pagina99 il 24/03/2014

Logo pagina99 ridLe reazioni e i dibattiti attorno all’annuncio della riduzione degli stipendi dei top manager pubblici, dicono molto, sebbene su scala nazionale, su una delle grandi malattie del nostro capitalismo, e sui suoi paradossi. Senza ripetere la critiche ormai note (e abusate) ai super-stipendi e ai bonus di uscita dati anche a manager pessimi, dovremmo invece criticare i compensi dei manager usando le stesse categorie del mercato e della concorrenza da essi stessi evocate (“è il mercato, bellezza”).

Il comportamento di questi paladini virtuali delle virtù e dei benefici del capitalismo, si muove infatti nella direzione esattamente opposta a quella dei meccanismi del mercato e della concorrenza. I loro stipendi sono il frutto dell’uso del potere di una casta internazionale e molto potente, che usa il suo potere per tenere alte le loro ‘quotazioni’, e traslare questi loro alti costi sui consumatori o sugli imprenditori.

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Dal punto di vista sostanziale, gli stipendi dei top manager si sono trasformati in una grave forma di rendita, che ha nulla o troppo poco a che fare né con l’equità né con l’efficienza.

E ancor meno col merito, che è diventata la nuova parola magica, e vaghissima, in nome della quale si giustificano i superstipendi (almeno di quelli ‘bravi’). Non dobbiamo dimenticare che molti manager miliardari della Lehman Brothers avevano curricula meritevolissimi! La domanda cruciale attorno al merito non è quella, banale, se il merito sia da preferire al demerito, ma: quale merito? Il merito è realtà multipla – verità già ben nota all’economista milanese Melchiorre Gioia due secoli fa, nel suo trattato ‘Del merito e delle ricompense’ - e la scelta di quale dimensione premiare è faccenda culturale, di regole del gioco, e quindi di potere.

Per questa ragione dietro questo dibattito si nasconde una questione chiave del nostro capitalismo: è l’ipertrofia e la forza delle rendite, che sta riportando la nostra economia ad una situazione molto simile a quella feudale. La centralità delle rendite è stata ed è la malattia di tutte le società bloccate, poiché il centro del sistema economico-sociale non lo occupano gli imprenditori e il lavoro (cioè i creatori di flussi), ma i proprietari di patrimoni (stock) accumulati dalle generazioni passate o sorti da privilegi.

Come ha messo in luce l’economista francese Thomas Piketty (nel volume Le Capital au XXIe siècle), negli ultimi anni la rendita sta tornando ad essere la grande minaccia del nostro capitalismo, esattamente come nelle società statiche del passato. Le rendite, e non solo quelle finanziarie, stanno di nuovo tornando ad erodere i profitti e i salari – come messo in luce nel passato da economisti come l’inglese David Ricardo, e l’italiano, oggi non a caso dimenticato, Achille Loria, che vedevano nel conflitto rendite-profitti l’asse del sistema capitalistico.

Il comportamento della casta dei top manager sta alimentando il conflitto tra coloro che si arricchiscono occupando e difendendo posizioni di vantaggio, e chi (soprattutto imprenditori e lavoratori) vede la quota di valore aggiunto loro destinata in caduta libera. Dovremmo, allora, approfittare di questo dibattito sugli stipendi dei manager, pubblici e privati, per scavare più in profondità, e far ripartire una stagione critica sulla natura del nostro capitalismo e sulla dimenticata questione della distribuzione del reddito; riparlare un po’ anche di potere e di democrazia economica, parole eclissate dalle nuovi termini, sempre più vaghi, del nuovo capitalismo finanziario.

Una buona politica degli stipendi ai manager dovrebbe allora invocare esattamente il mercato e la concorrenza, ma nella direzione giusta: eliminare le barriere all’entrata create dalla classe-casta stessa, rendere veramente contendibili le posizioni manageriali, fare trasparenza nelle carriere e nel reclutamento. Il mercato è buono e civile quando riduce le rendite e aumenta la remunerazione di chi usa ricchezze e talenti per includere e così creare ricchezza diffusa.

Il mercato ha fatto questo per molto tempo, e quando lo ha fatto ha prodotto buoni beni, democrazia e bene comune. Oggi lo sta facendo molto meno, anche per un grande e forte ritorno della rendita estrattiva. Inclusa quella dei manager. Non sarebbe male, allora, che in questo tempo di profonda crisi dell’Italia e dell’Europa, da noi ripartisse una critica seria al capitalismo delle rendite, non usando però gli strumenti dell’anti-mercato. Dovremmo, invece, ripartire dalla natura più profonda della concorrenza e dell’impresa e richiamare questo capitalismo ad una vocazione di mercato civile che ha perso negli ultimi decenni. L’Europa ha conosciuto altri capitalismi, ma oggi la sua bio-diversità economica e finanziaria sta scomparendo di fronte all’incedere di un pensiero unico di matrice US. Non fermiamoci allora alla superficie degli stipendi dei manager, ma partendo da qui puntiamo più in alto: ce n’è un estremo bisogno. 

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di Luigino Bruni

pubblicato su Pagina99 il 24/03/2014

Logo pagina99 ridLe reazioni e i dibattiti attorno all’annuncio della riduzione degli stipendi dei top manager pubblici, dicono molto, sebbene su scala nazionale, su una delle grandi malattie del nostro capitalismo, e sui suoi paradossi. Senza ripetere la critiche ormai note (e abusate) ai super-stipendi e ai bonus di uscita dati anche a manager pessimi, dovremmo invece criticare i compensi dei manager usando le stesse categorie del mercato e della concorrenza da essi stessi evocate (“è il mercato, bellezza”).

Il comportamento di questi paladini virtuali delle virtù e dei benefici del capitalismo, si muove infatti nella direzione esattamente opposta a quella dei meccanismi del mercato e della concorrenza. I loro stipendi sono il frutto dell’uso del potere di una casta internazionale e molto potente, che usa il suo potere per tenere alte le loro ‘quotazioni’, e traslare questi loro alti costi sui consumatori o sugli imprenditori.

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La paga del manager

di Luigino Bruni pubblicato su Pagina99 il 24/03/2014 Le reazioni e i dibattiti attorno all’annuncio della riduzione degli stipendi dei top manager pubblici, dicono molto, sebbene su scala nazionale, su una delle grandi malattie del nostro capitalismo, e sui suoi paradossi. Senza ripetere la criti...
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Il 12 luglio 2012, la 66° sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 20 marzo come Giornata internazionale della felicità. Intervista a Luigino Bruni.

pubblicato su Unric.org il 20/03/2014

Logo UNRICUNRIC Italia ha scelto di portare l'attenzione del pubblico italiano su questo tema chiedendo il contributo del Professor Luigino Bruni, ordinario di Economia Politica all’Università Lumsa di Roma e coordinatore a livello mondiale del progetto “Economia di Comunione” - lanciato da Chiara Lubich in Brasile nel 1991 e intorno al quale ruotano circa 1000 aziende nel mondo. Economia di Comunione propone agli imprenditori la condivisione degli utili delle proprie aziende per progetti di sviluppo in varie parti del mondo, e pone le proprie basi su una cultura economica basata sulla reciprocità e sul dono.

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Lei Prof. Bruni è uno dei primi studiosi che ha rilanciato una tradizione italiana della felicità diversa da quella che proviene dagli Stati Uniti. Può spiegarci meglio le radici di questa visione della felicità?

L’origine più remota dell’idea di felicità la si trova nella cultura antica greca e romana, in particolare Aristotele aveva legato la felicità alle virtù e l’aveva distinta dal piacere. L’eudaimonia, così la chiamava, era un concetto che oggi dovremmo tradure con “fioritura umana” perché rimanda all’idea che la felicità sia uno stato generale dell’esistenza, e che quindi come tale abbia a che fare più con l’ “essere” ed il ”fare” che non con il “sentire”. A Roma la felicitas, spesso abbinata con publica fu un concetto fondamentale:  felicitas rimandava alla generatività della vita e alla coltivazione delle virtù. Il prefisso fe è infatti lo stesso di fecundus, ferax, fetus, femina. Gli alberi erano chiamati infelix (sterili) efelix (fico, olivo). E il verbo latino feos ignifica proprio produrre. Non è un caso che le immagini latine della felicitas publica– che ritroviamo anche nelle monete - rimandassero ai bambini, alle donne (spesso incinte) e all’agricoltura. La Campania felix era felice per l’abbondanza delle sue campagne e per la fertilità della terra. Felicità è quindi fioritura umana.  I greci, in uno dei momenti epocali della storia umana - l’anima fondamentale della cultura romana successiva - capirono che stava iniziando "l’era degli uomini", che potevano essere finalmente liberati dalla dea bendata, dalla sorte, e da tutta quella magia che domina sempre nelle culture basate sulla fortuna. Lo strumento di questa liberazione fu proprio la virtù (areté), poiché solo l’uomo virtuoso può diventare felice coltivando le virtù, anche contro la cattiva sorte. È qui che inizia la nostra responsabilità, perché si inizia a poter dire che il principale protagonista della mia felicità (e infelicità) sono proprio io, e non gli eventi esterni, che certamente pesano  nel mio benessere, ma che non sono mai decisivi nel determinare la felicità.

Ma come è entrata questa idea di felicità nella scienza economica?

Gli economisti ed i filosofi italiano del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Pietro Verri e molti altri) con un esplicito riferimento alla tradizione romana e medievale della felicità pubblica e poi al bene comune,  posero la felicità - in particolare la pubblica felicità - al centro della loro riflessione economica e civile. Scegliendo la felicità pubblica come scopo dell’economia, avevano ben chiaro che il passaggio dai beni al ben-essere è sempre complesso, e che molte dimensioni della felicità si possono perdere nel processo di traduzione (dalla ricchezza “wealth”alla felicità). Per tutto l’Ottocento la scuola italiana di economia continuò a caratterizzarsi per avere la felicità come principale oggetto di studi, tanto che sul finire del secolo diciannovesimo l’economista italiano Achille Loria scriveva: “Tutti i nostri riportando una tesi di dominio comune nell’Italia del tempo – si occupano non tanto, come Adamo Smith, della ricchezza delle nazioni, quanto della felicità pubblica”). Non è quindi un caso che ancora oggi gli economisti italiani sono tra i protagonisti del nuovo movimento su Economia e Felicità, riaperto negli anni 70, soffermandosi in particolare proprio sul nesso fra felicità e relazioni sociali, un’eco evidente della antica tradizione della felicitas publica.

Quali gli aspetti più rilevanti della felicità per la vita economica  e civile del nostro tempo?

Il primo elemento  che mi sembra particolarmente rilevante per la situazione in cui si trovano la nostra economia e la nostra società è il nesso profondo fra la felicità e le virtù. In una cultura che sempre più sottolinea il piacere edonistico e lo svago come valori abbinati alla felicità, l’antica tradizione italiana della felicitas publica ci invita invece a tener ben presente che non c’è vita buona individuale e sociale senza la coltivazione dell’eccellenza (virtù viene daaretè che in greco significa proprio eccellenza) e quindi senza l’impegno e il sacrificio. In secondo luogo in una fase dell’Occidente in cui il narcisismo sta diventando una vera e propria pandemia, la tradizione della pubblica felicità ci ricorda il nesso imprescindibile fra vita buona e rapporti sociali: non si può essere veramente felici da soli perché la felicità nella sua essenza più profonda è un bene relazionale. Si coglie allora che la felicità deve essere invocata soprattutto come strumento di critica allostatus quoe alla vena edonistica che fin dall’antichità ha sempre attraversato la nostra cultura, e che è diventata dominante nei tempi del declino e della decadenza. Come ci ricordano oggi filosofi come Amartya Sen e Martha Nussbaum , la ricerca del piacere è troppo poco per poter parlare di felicità, perché esistono delle “buone sofferenze” (good pains) e dei “cattivi piaceri” (bad pleasures), cosa che dimentica sistematicamente ogni cultura edonista. La Giornata della Felicità allora deve essere una occasione per riflettere seriamente sul nostro modello di sviluppo e sul nostro stile di vita senza far ricadere anche questa giornata dentro il “festival delle banalità” che ci porterebbe a festeggiarla  limitandoci a  inserire qualche smile qua e là su facebook o su whatsapp. La felicità pubblica invece ci invita a riflettere sui patti sociali, sui legami e sulle radici profonde della vita in comune.

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Il 12 luglio 2012, la 66° sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 20 marzo come Giornata internazionale della felicità. Intervista a Luigino Bruni.

pubblicato su Unric.org il 20/03/2014

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Intervista UNRIC per la Giornata internazionale della felicità

Il 12 luglio 2012, la 66° sessione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha proclamato il 20 marzo come Giornata internazionale della felicità. Intervista a Luigino Bruni. pubblicato su Unric.org il 20/03/2014 UNRIC Italia ha scelto di portare l'attenzione del pubblico italiano su questo tem...
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Letture - "Per una nuova prosperità. Quattro vie per una crescita integrale." Mauro Magatti e Laura Gherardi, Feltrinelli, 2013.

di Luigino Bruni

pubblicato su Sussidiario.net il 12/03/2014

Magatti-GherardiUn certo capitalismo, quello che abbiamo conosciuto prima della globalizzazione, è morto per sempre, ma lo spirito del capitalismo è vivo; si è solo trasformato, e continua a soffiare forte sulla terra.

La crisi finanziaria del 2007 è stata l’esplosione di un processo iniziato almeno a partire dagli anni ottanta del secolo XX, ma è un punto di non ritorno.

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Se vogliamo, allora, capire che cosa sta accadendo al nostro mondo (e quindi al nostro capitalismo), dobbiamo prendere coscienza che siamo dentro una profonda trasformazione che ci porterà altrove, della quale si intravvedono già primi segnali – la ‘nuova ecologia politica’ e i nuovi indicatori di benessere; il convivialismo e nuovi stili di vita attorno ai beni comuni (dal quale viene esclusa la ‘decrescita’, verso la quale si intravvede nel libro una certa diffidenza); l'economia della contribuzione teorizzata da Bernard Stiegler; la generatività tipicamente italiana di cui è capofila lo stesso Magatti.

Questi segnali vanno interpretati non come eccezioni ad una regola (quella del capitalismo di ieri), ma come primizie di un nuovo raccolto, che potrà essere, per gli autori, anche più buono e “prospero” di quelli che abbiamo conosciuto. L’avvento di quello che chiamano ‘capitalismo a valore contestuale’.

È questa la tesi del libro di Magatti e Gherardi, un libro che va letto soprattutto per le grandi domande che pone, e poi per le prospettive che apre – e anche per domande che non pone direttamente, ma che ci suscita. Prendendo le mosse da un classico come Max Weber (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”) e dal più recente trattato dei sociologi francesi Luc Boltansky e Eve Chiapello (“Il nuovo spirito del capitalismo”), Magatti e Gherardi ci dicono che il moderno spirito del capitalismo è costituito soprattutto dalla sua capacità di riciclare le critiche che ha incontrato lungo la sua storia (recente), inglobarle e farle diventare principali fattori di cambiamento e di innovazioni. Così, le critiche “sociali” (socialiste, comuniste, operaie, ambientaliste …) e quelle “estetiche” (degli intellettuali, dei creativi, degli artisti), invece di provocare il crollo del capitalismo, sono state incorporate dando vita ad nuovo capitalismo. Così un capitalismo fondato su valori che erano visti, nel Novecento, in antitesi ad altri valori diversi e non riconducibili ad unum (libertà vs eguaglianza; efficienza vs equità; sviluppo vs ambiente; quantità vs qualità; standardizzazione vs creatività; consumo vs spiritualità; ecc.), negli ultimi decenni si è mostrato capace di riciclare e sciogliere molte di queste antitesi. Così nelle imprese, soprattutto in quelle grandi, assistiamo sempre più allo sviluppo di bilanci sociali, di social business, di attenzione al benessere lavorativo, alle pratiche di attenzione alle pari opportunità di genere, fino ai recenti concetti di ‘capitale simbolico” o “spirituale’ dell’azienda. Parallelamente all’inclusione e trasformazione delle critiche sociali, questo capitalismo ha internalizzato anche le critiche “estetiche”, dato vita ad una nuova stagione creativa mettendo al centro proprio la figura del “creativo” (nel web e non solo).

Gherardi e Magatti riprendono questa tesi di Boltansky-Chiapello, ma la estendono e sviluppano, anche perché l’analisi dei due sociologi francesi si era fermata al pre-rivoluzione finanziaria dell’economia (anni 90’) – e qui sta il punto, solo in parte sviluppato da Magatti e Gherardi –, quando il nostro capitalismo ha mutato pelle e forse natura.

Hic rodhus, hic salta. Se guardiamo bene questo processo di ‘internalizzazione’ delle critiche, questo non è molto diverso, nella sua logica, da quanto è accaduto con gli altri grandi imperi della storia (si pensi in particolare all’impero romano) che sono cresciuti e sono durati secoli proprio per aver incorporato i ‘nemici’ che premevano alle frontiere, e poi prendere da loro (dagli etruschi ai greci ai popoli germanici) la migliore cultura, tecnica, arte. Quindi, in altre parole, la capacità inclusiva e riciclante del capitalismo, il suo essere una sorta ‘mostro’ camaleontico che cambia forma in base all’ambiente e agli ostacoli che trova, non è altro che il suo essere molto più di una forma di produzione di ricchezza e di consumo della stessa, una natura globale, imperiale e inglobante del capitalismo già intuita dallo stesso Marx e dal marxismo. Gli imperi assicurano panem et circenses ad una parte dei popoli che ingloba, ma un’altra parte li fa schiavi, e un’altra la uccide nel processo di conquista.

Per questa ragione trovo rilevante e centrale l’enfasi posta dagli autori sulla diseguaglianza, indicata come una malattia che questo capitalismo non riesce né a inglobare né tantomeno a guarire. Infatti, mentre la prima economia di mercato e il primo capitalismo (XVIII-XX secoli) hanno veramente ridotto la diseguaglianza, e combattuto indirettamente le varie forme di feudalesimo, il capitalismo finanziario o “tecno nichilista” (Magatti) sta riportando la nostra economia ad una situazione molto simile a quella pre-moderna, perché sta riportando la centralità sulle rendite (e non sui flussi, tra i quali il lavoro e i profitti), che è la tipica nota di ogni società feudale. Come un altro francese, Thomas Piketty (economista), ha messo in luce nel suo ultimo grande (e grosso) volume “Le Capital au XXIe siècle”, la rendita sui capitali sta tornando ad essere la grande minaccia del nostro capitalismo, esattamente come prima del secolo XX. Quando, infatti, il tasso di rendimento del capitale supera significativamente e per lungo tempo il tasso di crescita, i patrimoni provenienti dal passato si ricapitalizzino più velocemente dell’aumento della produzione e dei redditi. In altre parole, le rendite mangiano i profitti e i salari – come messo in luce nel passato da autori come l’inglese Ricardo, e l’italiano dimenticato Achille Loria. Così il conflitto fondamentale della società diventa non quello dentro la fabbrica (imprenditore-lavoratore) ma quello tra redditieri e il mondo dell’impresa nel suo insieme (lavoro e imprenditori).

Infine, che il capitalismo abbia bisogno di uno ‘spirito’ lo aveva capito non solo Max Weber all’inizio del Novecento, ma molti altri autori, tra i quali il nostro Amintore Fanfani, uno storico economico oggi da rivalutare. Lo stesso Weber, e poi il filosofo Walter Benjamin, si erano spinti ancora più avanti, arrivando a sostenere che il capitalismo fosse una vera e propria religione: “nel capitalismo bisogna scorgervi una religione, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccupazioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. … In Occidente, il capitalismo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo” (Il Capitalismo come religione, 1921). E con capacità profetica aggiungeva: “In futuro ne avremo una visione complessiva”.

Oggi infatti il capitalismo finanziario si trova difronte al rischio di diventare il ‘sistema di Polifemo”, che non inglobava gli ospiti, ma li divora. Il dominio della rendita sui flussi di lavoro e di reddito (e quindi la diminuzione degli investimenti nelle imprese), se esteso su scala globale può portarci in un mondo dove la disoccupazione di grandi masse di cittadini può diventare una condizione stabile per 1/3 della popolazione mondiale. E la domanda cruciale diventa come si comporterà questo terzo: come Ulisse?

Ovviamente, la visione di Magatti e Gherardi si muove in una prospettiva generativa di speranza, ma non per questo può evitarci di porci anche queste altre domande difficili.

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Letture - "Per una nuova prosperità. Quattro vie per una crescita integrale." Mauro Magatti e Laura Gherardi, Feltrinelli, 2013.

di Luigino Bruni

pubblicato su Sussidiario.net il 12/03/2014

Magatti-GherardiUn certo capitalismo, quello che abbiamo conosciuto prima della globalizzazione, è morto per sempre, ma lo spirito del capitalismo è vivo; si è solo trasformato, e continua a soffiare forte sulla terra.

La crisi finanziaria del 2007 è stata l’esplosione di un processo iniziato almeno a partire dagli anni ottanta del secolo XX, ma è un punto di non ritorno.

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Il nuovo capitalismo, Polifemo, Ulisse e gli "esclusi"

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