Secondo Luigino Bruni, economista dell’Università di Milano-Bicocca, la ricetta dell’equità impone di intervenire sugli effetti distorsivi della finanziarizzazione dell’economia
di Giulio Sensi
pubblicato su Altreconomia - gennaio 2011
Il nostro è un Paese con i più alti indici di disuguaglianza dell’Occidente. è un processo recente o la naturale evoluzione del nostro sistema sociale, economico e politico?
Direi che è relativamente recente: dal dopoguerra agli anni Ottanta l’Italia aveva diminuito più di altri Paesi la disuguaglianza interna, che ha iniziato a crescere nuovamente quando la finanza ha preso piede.
Voglio dire che fino a quel momento il nostro Paese non aveva sviluppato una grande economia finanziaria, ma a partire dai primi anni Novanta il liberismo finanziario ha aperto una nuova stagione perché la finanza fa arricchire chi è già ricco e ha pochi effetti redistributivi. Molte cose sono cambiate dal momento in cui abbiamo seguito il trend dei Paesi capitalistici come l’America. Questa è, comunque, la cifra dell’attuale economia globalizzata, che tende ad impoverire il ceto medio e a togliergli il potere d’acquisto.
Pochi ricchi sempre più ricchi e una classe media che sprofonda nella sempre più nutrita schiera dei poveri. Siamo condannati anche in Italia a una società a due velocità?
È una delle conseguenze del capitalismo che si è affermato su scala globale, e la nostra è un’economia che va oltre i confini nazionali. Se i governanti del mondo e i cittadini saranno capaci di dare una svolta ed evolvere verso un’economia di mercato post-capitalistico, un cambiamento può avvenire. Altrimenti si può fare poco. Uno strumento enorme sarebbe una riforma fiscale, che ha direttamente a che fare con tutto questo: se e come vengono tassate i patrimoni, come viene tassato il lavoro e il capitale. Possiamo dire che la riforma fiscale è uno degli atti più importanti di un Paese (come suggerisce il libro Sommersi dal debito di Alessandro Volpi, Ae 2011, ndr).
I giovani non riescono a creare ricchezza, i fortunati sono quelli che riescono a godere dei beni di famiglia. Quali possibilità ci sono per chi ha venti o trent’anni oggi?
Serve prima di tutto un “giubileo”, come una tassa patrimoniale che permetta di ripartire da zero. Abbiamo creato un mondo feudale e statico che non funziona, e oltre ad essere iniquo è inefficiente. La cultura e il ricambio muovono il Paese, serve scompaginare le carte e far incontrare le culture. Un Paese bloccato è un segnale di decadenza di un popolo. Un esempio: diamo per scontato che una persona che supera i 75 anni di età debba usufruire i servizi gratuiti. È una cosa molto bella, ma è il retaggio di un mondo passato dove chi era anziano non aveva niente e la ricchezza era basata sui giovani. Oggi in Italia c’è la tendenza opposta, c’è un grande spostamento di ricchezza verso le pensioni, che sono quelle più difese perché una classe politica che invecchia ha interesse ai voti degli anziani. Nonostante questo si consuma, paradossalmente, un’ingiustizia verso gli attuali anziani, che hanno offerto cura agli attuali genitori e oggi non possono in molti casi ricevere alcuna cura, oltre ad essere messi in casa di riposo. Non si tratta di mettere anziani contro giovani, sarebbe un mondo senza futuro, ma occorre capire che un mondo senza giovani che lavorano è insostenibile anche per gli anziani.
In linea con il pensiero di Amartya Sen lei afferma che povertà e ricchezza non sono questioni di reddito e di beni, ma di capacità di fare e di creare relazioni che generano valore. Altreconomia segue da molti anni esperienze che vanno in quella direzione. Come la politica dovrebbe sostenerle?
È una domanda ineludibile: la politica, così come l’impegno dei cittadini attivi, deve reintegrare tutto ciò che è rimasto fuori. Non possiamo delegare agli attuali politici il “bene comune”. Questa parte del tessuto civile affermatasi negli ultimi anni, deve fare uno scatto nel politico. Riprendere
in mano parlamenti e governi, esercitando un maggiore protagonismo. Far partire dal basso attività che contribuiscano a rinnovare l’Italia. La dimensione non deve far paura: è necessaria una società civile organizzata che si occupi di tutto l’economico, non solo da una prospettiva non profit. È quella che noi chiamiamo economia civile. Deve crescere.