Bruni Varie

Economia Civile

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Il problema di fondo? Generare ricchezza e farla circolare. Dando a tutti cittadinanza nel mercato globale

intervista a Luigino Bruni

pubblicato su missionline.org il 22/12/2008

Anche i critici riconoscono che, stando alle semplici cifre, la globalizzazione ha portato la popolazione mondiale nel suo complesso a stare meglio. Nel 1981 oltre il 40 per cento della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta; oggi siamo a circa il 21 per cento; tuttavia, a causa della crescita demografica, la riduzione dei poveri in termini assoluti è di soli 130 milioni. Nel frattempo l’indice Gini - che misura la disuguaglianza nel mondo - è aumentato negli ultimi 15 anni di sette punti, vale a dire quasi il 20 per cento. Il che significa che lo sviluppo ha conosciuto e conosce dinamiche assai diverse da Paese a Paese e, anzi, spesso all’interno dei confini di uno stesso Paese. Come leggere tutto ciò? E come intervenire per una globalizzazione il più possibile «dal volto umano»? Ne parliamo con Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Milano-Bicocca, nonché teorico dell’Economia di comunione del movimento dei Focolari.

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Professor Bruni, il Prodotto interno lordo di molti Paesi in via di sviluppo aumenta di anno in anno. Tuttavia pure le disuguaglianze sono aumentate nelle pieghe dei singoli Paesi, comprese alcune delle «nuove tigri» (ad esempio Suda¬frica e Brasile). Perché?

Io non sarei troppo preoccupato, in prima istanza, delle disuguaglianze crescenti; non è questo «il» problema centrale nelle economie che si trovano nelle prime fasi dello sviluppo (discorso diverso per la Cina, l’India o il Brasile, ovviamente). La questione più importante in queste aree è la riduzione della povertà assoluta. Che un numero sempre più ampio di persone possa soddisfare i bisogni primari è sempre un fatto positivo in sé. In tutte le fasi storiche dello sviluppo c’è sempre un momento in cui crescono le disuguaglianze. Ora, la competizione economica fa bene perché stimola singoli e popoli a esprimere le energie migliori. Il problema è che la soluzione delle disuguaglianze non deve richiedere un periodo eccessivo di tempo, altrimenti si ricorre alla violenza o all’illegalità.

Il suo pare un discorso «liberista». Guardando i numeri, le differenze interne da Paese a Paese stanno crescendo. Non è un problema?

Ripeto: la questione vera oggi è la riduzione della miseria assoluta, ciò che si può chiedere in questo momento ai mercati e alle imprese. Oggettivamente è difficile costruire con le sole logiche e forze economiche una crescita equilibrata. Ma quando ci si preoccupa troppo (o solo) della disuguaglianza, il pericolo è di bloccare ipso facto lo sviluppo, ad esempio impedendo l’arrivo della multinazionali in un Paese. La mia esperienza in Paesi poveri dice che su questa strada non si va lontano. Un esempio: sono stato più di una volta a Cuba e lì ho visto un popolo che vive in una situazione di povertà proprio a causa di una situazione economicamente ingessata. Insisto. Giovanni Paolo II auspicava una «globalizzazione della solidarietà», ma non è andata così…

L’ultimo rapporto della Banca Mondiale segnala che la povertà è in aumento: 1,4 miliardi di persone vivono con meno di 1,25 dollari al giorno.Cosa non funziona in questo modello di globalizzazione?

La globalizzazione aumenta le opportunità delle persone. In generale, quando un Paese è più aperto ai mercati la gente ha maggiori possibilità (almeno sulla carta). Il problema vero della globalizzazione sono i fenomeni che porta con sé. Pensiamo alla famiglia tradizionale africana; fino a qualche tempo fa essa - seppure con i suoi limiti - garantiva spesso ai suoi membri il minimo per sopravvivere, al suo interno si condivideva il poco di tutti. Con l’urbanizzazione selvaggia questo tessuto di relazioni si sfalda e ciò produce conseguenze devastanti sul livello di vita delle persone. La povertà è spesso crisi di relazioni sociali. L’urbanizzazione manda in crisi la socialità; le persone diventano più vulnerabili perché private di una rete di rapporti.Cosa caratterizza la povertà nell’epoca della globalizzazione? Perché è più scandalosa oggi di ieri? Oggi, tramite i media, il mondo è diventato villaggio globale. Ragion per cui se un tempo una persona godeva di certi beni nel chiuso del suo villaggio e questo le dava la sensazione di essere relativamente ricca, oggi non è più così. Se la felicità è legata al rapporto tra aspirazioni e mezzi, è chiaro che con l’espandersi della comunicazione aumentano anche le aspirazioni e quindi il divario fra i beni inseguiti e quelli raggiunti si accresce. Nella competizione per i beni aumentano i perdenti e sono sempre meno i vincitori: vale per l’Italia e nel Sud del mondo. I telefonini sono arrivati anche nell’Africa profonda, la comunicazione di massa raggiunge mondi e fasce sociali fino a poco tempo fa escluse. Mi ha sempre colpito, ad esempio, l’enorme numero di antenne paraboliche nelle favelas delle Filippine o del Brasile. Un paradosso, visto che in molti casi i possessori faticano a mettere insieme pranzo e cena per sé e la loro famiglia.

Un vortice da cui è impossibile uscire, specie in presenza di una pubblicità martellante che crea sempre nuovi bisogni…

C’è in gioco qui una questione educativa di fondo. Per la mia esperienza posso dire che le comunità locali che hanno una dimensione di appartenenza forte non cadono nella trappola. Diventa fondamentale educare la gente a usare bene i soldi, ma non in un’ottica paternalistica. Io ho presente molti casi, nell’Economia di comunione, di persone che, raggiunto un livello sufficiente di reddito, dicono: «Adesso ho abbastanza per cavarmela, aiutate altri». Vuol dire che è gente educata a non essere prigioniera del meccanismo infernale che aumenta falsi bisogni e consumi inutili.

Il Pil dei Paesi poveri e il reddito di una parte delle popolazioni del Sud del mondo aumentano, ma spesso ciò si accompagna a una impennata del costo della vita. Col risultato che le statistiche salutano il successo della globalizzazione, ma nei fatti la gente è più povera…

Gli economisti misurano la qualità della vita in relazione al reddito pro capite, ma ciò è insufficiente, obbedisce a una logica individualistica, da cui occorre uscire. Pensiamo a un percorso inverso: se riducessimo il reddito individuale, ma contemporaneamente aumentassimo i servizi alla persona, otterremmo che il Pil cala ma la gente sta meglio… Ebbene, in passato è accaduto esattamente il contrario: il Fondo monetario internazionale ha spesso privilegiato un approccio economicista, chiedendo ai Paesi di far quadrare i conti in termini di bilancio, tagliando fortemente le spese sociali (sanità, istruzione ecc.). Un errore gigantesco: i beni pubblici rappresentano una fonte di benessere per tutta la collettività e quindi vanno tutelati.

Sta dicendo che la politica gioca un ruolo fondamentale e il mercato da solo non basta? Il caso del Brasile (ne parliamo più oltre) è eloquente, da questo punto di vista....

Il mercato deve poter fare il suo mestiere, ma tocca alla società civile internazionale fare pressioni per controllarlo e arginarne le derive e, infine, compete alla politica il compito di «mettere i paletti» perché si abbia una vera globalizzazione etica. In altri termini, il mercato deve poter creare le possibilità di sviluppo, la società civile vigilare e agire sulle coscienze, la politica legiferare per garantire il rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno, anche degli esclusi dal mercato: nel mercato «votano» solo coloro che hanno potere d’acquisto, quindi nei Paesi poveri esso è tendenzialmente non democratico se non affiancato dalla politica e dalla società civile.

In alcune società si registra sì una certa mobilità sociale, ma gli schiavi continuano a esistere anche oggi, specie nel Sud del mondo…

Vero. Ma quali le alternative? Forse la chiusura dei mercati? Diceva Genovesi nel Settecento: se impedisci ai ricchi di vivere nel lusso, blocchi loro la possibilità di essere produttori (magari inconsapevoli) di sviluppo. Da economista dico: occorre guardare agli effetti, non (solo) alle motivazioni. A me preoccupa di più un paradiso fiscale come Monaco - dove si rifugiano i ricconi (anche italiani!) per non pagare le tasse – rispetto alla multinazionale che delocalizza in Asia.

Lei dice: non è sul piano economico che dobbiamo cercare i correttivi alle disuguaglianze…

Ovvio che se tutti gli imprenditori operassero nel segno del bene comune e non del profitto molti problemi non esisterebbero (o sarebbero meno drammatici). Ma possiamo far conto sulle buone intenzioni dei ricchi? Ci credo poco. Si parla molto di responsabilità sociale dell’impresa, ma io credo di più alla politica e alla società civile. All’imprenditore chiedo che crei sviluppo e mobilità sociale. Come dicevano i francescani nel Medioevo: la ricchezza che non serve è quella che ristagna, come l’acqua nel pozzo che, se ferma, imputridisce. Da economista cristiano giudico soprattutto i risultati oggettivi di una certa economia, non solo le intenzioni di chi agisce nei mercati.

L’economia crea sviluppo, generando però disuguaglianze e rovina l’ambiente. Alla politica tocca «bonificare» i mali creati dall’economia. Non è un po’ riduttivo?

L’economia deve, al tempo stesso, provocare disuguaglianze ma anche sanarle, occorre creare ricchezza ma anche distribuirla in modo saggio. Non è filantropia, ma un compito che fa parte della mission dell’economia e delle imprese. Ma, ripeto, non possiamo chiedere all’impresa di fare tutto. La vita buona è un gioco delle parti: non dobbiamo passare da un imperialismo della politica degli anni Quaranta-Ottanta all’imperialismo dell’economia nell’era della globalizzazione.

Povertà e ricchezza convivono in misura diversa da 15-20 anni fa: oggi anche nei Paesi poveri ci sono gruppi di stra-ricchi che esercitano anche un potere enorme (in Guatemala – a detta di un vescovo - una ventina di famiglie ha in pugno il Paese). I «nuovi ricchi» mostrano di non avere a cuore il bene comune tanto quanto i colonizzatori di un tempo: pensiamo ai tesori accumulati da alcuni dittatori africani (con la complicità di governi e imprese occidentali).

Occorre adottare una griglia di lettura più sofisticata di certi schemi ideologici. Detto delle colpe del colonialismo (vecchio e nuovo) dell’Occidente, esistono pesanti responsabilità della classe politica del Sud del mondo.

Gli economisti distinguono tra povertà assoluta e povertà relativa. È vero che molti poveri sono passati dal livello della miseria (1 dollaro al giorno) alla soglia superiore (2 dollari). Ma ciò, in contesti dove il costo della vita è cresciuto a dismisura, crea non pochi contraccolpi. E tuttavia gli economisti non sembrano accorgersene.

I governi privilegiano politiche rivolte ai «più ricchi dei poveri» (quelli che stanno sulla soglia tra da 0.9 a 1). Perché è più facile spendere politicamente un risultato come questo che non investendo su una politica per i «poveri più poveri». Che sarebbe, invece, la politica più importante e urgente.

La povertà è all’origine di un movimento migratorio senza precedenti che ha conseguenze sociali enormi. Non è questo un «costo» troppo alto?

L’immigrazione forzata su larga scala esprime una forma di povertà, rappresenta una ferita per una comunità perché è una frattura intergenerazionale. Però l’immigrazione è anche fonte di sviluppo. La globalizzazione dei mercati può ridurre (anziché aggravare) l’immigrazione: la delocalizzazione porta le aziende nei Paesi poveri. Pen¬siamo alla Romania: la presenza di tante imprese italiane fa sì che molti che potrebbero partire restino nel loro Paese.

Le disuguaglianze, quando sono così sfacciate, diventano fonte di instabilità. Lo si vede a occhio nudo: per custodire la ricchezza di pochi  si blindano le città.

È una terribile contraddizione, quella delle «cittadelle private», in cui i ricchi si trincerano in nome della sicurezza. Mi è capitato di vederle in Brasile. Avevano ragione gli economisti che, già nei secoli passati, dicevano: non si può essere felici circondati da infelici. Se la tua felicità dev’essere tutelata con la forza, non è più tale.

Lo sviluppo non è - innanzitutto - una questione di soldi. Qual è lo specifico dell’apporto cristiano alla lettura della questione povertà-ricchezza?

Individuerei quattro parole-chiave. La prima è sussidiarietà: lo spiega con un felice slogan coniato da monsignor Giancarlo Bregantini: «solo tu ce la puoi fare, ma non puoi farcela da solo». L’aiuto è sussidiario, deve creare le condizioni per mettersi in cammino; se diventa sostituto, sfocia nel paternalismo. La seconda dimensione del cristianesimo è la prossimità: la povertà si risolve accompagnando le persone concrete e rischiando, con loro, nelle situazioni della vita. La filantropia esisteva ai tempi di Seneca, ma è il cristianesimo che introduce un elemento nuovo: dal per il povero al con il povero. Terzo principio-chiave: i beni non condivisi non possono essere fonte di gioia. Per il Vangelo la dimensione della comunione è decisiva. Da ultimo: un ricco (sia esso un singolo o un Paese) non aiuta davvero uno meno ricco se non è capace di stimarlo, se lo vede solo come un problema. Quando ciò accade,  l’altro non si coinvolge; al contrario, se ne approfitta perché si sente trattato da oggetto. Il meccanismo di aiuto diventa così un patto scellerato fra chi si lava la coscienza con la solidarietà e il povero che sfrutta la generosità di chi ha.

Dai «troppo poveri» ai «troppo ricchi». Il Giappone è ai primi posti per il Pil, eppure ha un numero sconcertante di suicidi ogni anno. Ciò conferma che anche i «troppo ricchi» possono vivere male. Perché?

Nelle processioni medievali, in cui la collocazione dei gruppi era legata al censo, un forestiero veniva messo insieme ai poveri perché, come tale, non poteva avere amici. È una verità antica che vale ancora, tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo, quella insegnata da Aristotele: felice l’uomo che ha amici. La ricchezza può rivelarsi un ostacolo al conseguimento della felicità, come invece può diventare uno strumento prezioso se condivisa e messa in circolo. In una comunità che comprende imprenditori benestanti (penso alla realtà che conosco, quella dell’Economia di comunione) diventa «naturale» mettere in comune i beni o parte di essi.

Hanno ragione coloro che sostengono che la Chiesa dedica troppa attenzione a temi  come la bioetica e non abbastanza ai temi sociali? C’è ancora la capacità di indignarsi come ai tempi della Populorum Progressio?

Una premessa. La Chiesa - non dimentichiamolo - è una realtà assai più vasta della gerarchia e, da questo punto di vista, mi pare che l’azione e il pensiero di tanti soggetti (movimenti, gruppi, ordini religiosi) mostri ancora oggi una Chiesa che continua a occuparsi di povertà, ingiustizie ecc. e a preoccuparsi dei poveri concreti. Certo, è un fatto che, dal crollo del comunismo in poi, il magistero della Chiesa in ambito socio-economico è meno forte.

Perché?

Vent’anni fa in Occidente non era in discussione la questione della vita, i suoi fondamenti; nel momento in cui, invece, c’è un forte attacco contro le basi stesse della vita, com’è oggi, la vita è diventata un «bene scarso», il che spiega l’impegno deciso su questo fronte. Va anche detto che l’azione della Chiesa sulla frontiera della povertà ha fatto fiorire sensibilità nuove in ambito sociale e politico (ong, agenzie Onu, ecc.). A fronte di questo, però, la Chiesa è rimasta la sola a intervenire sulla questione della vita.

Cosa si aspetta dall’enciclica sociale di Benedetto  XVI, la cui pubblicazione dovrebbe essere ormai prossima?

Mi aspetto meno analisi economiche e più profezia. Mi attendo una Chiesa capace di indignarsi, che si prende la libertà di dire quello che altri non possono dire per rispetto ai potenti. La Chiesa non dev’essere prudente, può e deve sbilanciarsi, non deve render conto a nessuno, se non al Vangelo. Ha quindi la libertà di servire la verità, può non essere ideologica. Perché, a differenza di altri, non ha azionisti di riferimento su questa terra. E per questo può svolgere un grande compito civile, per tutti.

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intervista a Luigino Bruni

pubblicato su missionline.org il 22/12/2008

Anche i critici riconoscono che, stando alle semplici cifre, la globalizzazione ha portato la popolazione mondiale nel suo complesso a stare meglio. Nel 1981 oltre il 40 per cento della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta; oggi siamo a circa il 21 per cento; tuttavia, a causa della crescita demografica, la riduzione dei poveri in termini assoluti è di soli 130 milioni. Nel frattempo l’indice Gini - che misura la disuguaglianza nel mondo - è aumentato negli ultimi 15 anni di sette punti, vale a dire quasi il 20 per cento. Il che significa che lo sviluppo ha conosciuto e conosce dinamiche assai diverse da Paese a Paese e, anzi, spesso all’interno dei confini di uno stesso Paese. Come leggere tutto ciò? E come intervenire per una globalizzazione il più possibile «dal volto umano»? Ne parliamo con Luigino Bruni, docente di Economia politica all’Università Milano-Bicocca, nonché teorico dell’Economia di comunione del movimento dei Focolari.

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Un’altra globalizzazione è possibile

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«Oggi in economia chi parla di gratuità viene preso per ingenuo. In realtà, gratuità è grazia per chi dà e per chi riceve»

di Luigino Bruni

pubblicato su missionline.org il 29/10/2009

La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio,  ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale,  a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione (n. 39)

Una delle principali novità dell'enciclica è l'aver posto al centro il principio di gratuità (cap. 3). Oggi chi parla di gratuità in economia viene preso per ingenuo o mistificatore. La gratuità, da una parte, viene confusa (snaturandola) con il «gratis»o con la filantropia. Dall'altra, il dono è scambiato con il gadget delle imprese, che svolgono la stessa funzione del vaccino: inseriscono nel corpo un pezzettino del virus che vogliono combattere. Immettendo nella società dei «pezzettini» di dono, ci si immunizza dal dono vero, di cui la società dei consumi ha paura.

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In realtà, come ci ricorda il Papa, la gratuità rimanda a charis, grazia. La gratuità è infatti grazia, poiché è dono non solo per chi riceve atti di gratuità, ma anche per chi li compie, poiché la capacità di amare gratuitamente è qualcosa che accade in noi sorprendendoci sempre, come quando siamo capaci di ricominciare dopo un grosso fallimento, o di perdonare davvero gravi errori degli altri (e nostri). È questa gratuità che il mercato capitalistico non conosce, e che invece l'enciclica ci chiama a mettere al centro anche dei nostri rapporti economici, politici, sociali. Dove sembra impossibile, ma dove già sono in tanti a viverla, nell'economia «civile e di comunione» (n. 46).Si comp

rende allora perché Benedetto XVI inviti fortemente a superare la distinzione tra non-profit e for-profit: non esistono ambiti o settori della gratuità, ma ogni impresa, al di là della sua forma, è chiamata alla gratuità, che è la cifra dell'umano: se un'impresa non è aperta alla gratuità non può portare frutti di umanità. Guai, infatti, ad associare la gratuità al solo volontariato, all'economia sociale, affidarla a «specialisti», che si occupano del 2 per cento della vita economica e sociale: e il restante 98 per cento? La gratuità, ad esempio, non deve essere presente solo negli sponsor o nelle fondazioni bancarie, ma in tutta l'attività ordinaria di banche e imprese. La gratuità non è il genepy in un pranzo: essa è il modo con cui si prepara l'intero pranzo.

Ma cos'è allora la gratuità?
Innanzitutto, abbiamo a che fare con la gratuità tutte le volte che un comportamento è posto in essere anche per motivazioni intrinseche e non primariamente per un obiettivo esterno al comportamento stesso. Quando si attiva la dimensione della gratuità, la strada da percorrere è importante quanto la meta da raggiungere. La motivazione intrinseca è condizione necessaria, sebbene non sufficiente, perché si possa parlare di comportamenti umani (solo l'umano conosce il gratuito) ispirati da gratuità. La categoria antica che più dice cosa sia la gratuità è agape. Neanche l'agape è solo gratuità, ma non c'è comportamento ad essa ispirato senza gratuità. Questa condizione necessaria serve già a distinguere la gratuità dall'altruismo o dalla filantropia. Il dono può essere gratuità, ma anche no, quando nel dono prevale la dimensione dell'obbligo. Una parola che anche coglie questa dimensione «necessaria» della gratuità è innocenza (la troviamo soprattutto nei bambini: il bambino che gioca senza nessun altro scopo che il gioco stesso esprime questa dimensione). La condizione sufficiente perché si possa parlare di gratuità è l'orientamento intenzionale dell'azione verso il bene. In questo caso, il «bene» non va inteso necessariamente come «bene dell'altro» o altruismo, ma in modo più generale e ontologico. C'è gratuità anche nell'azione di chi, come racconta Primo Levi, in un campo di concentramento decideva di fare un «muro dritto» (e non storto), nonostante non fosse utilizzato da nessuno e «non servisse a nulla». La gratuità è dunque una sorta di trascendentale, una dimensione che può accompagnare qualsiasi azione. Per questo essa non è il «gratis», anzi è proprio il suo opposto, poiché la gratuità non è un prezzo pari a zero, ma un prezzo infinito, a cui si può rispondere solo con un altro atto di gratuità (o dono). Invece oggi la nostra società confonde gratuità e gratis, e per questo disprezza la prima.

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«Oggi in economia chi parla di gratuità viene preso per ingenuo. In realtà, gratuità è grazia per chi dà e per chi riceve»

di Luigino Bruni

pubblicato su missionline.org il 29/10/2009

La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio,  ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale,  a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione (n. 39)

Una delle principali novità dell'enciclica è l'aver posto al centro il principio di gratuità (cap. 3). Oggi chi parla di gratuità in economia viene preso per ingenuo o mistificatore. La gratuità, da una parte, viene confusa (snaturandola) con il «gratis»o con la filantropia. Dall'altra, il dono è scambiato con il gadget delle imprese, che svolgono la stessa funzione del vaccino: inseriscono nel corpo un pezzettino del virus che vogliono combattere. Immettendo nella società dei «pezzettini» di dono, ci si immunizza dal dono vero, di cui la società dei consumi ha paura.

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Gratuità

«Oggi in economia chi parla di gratuità viene preso per ingenuo. In realtà, gratuità è grazia per chi dà e per chi riceve» di Luigino Bruni pubblicato su missionline.org il 29/10/2009 La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scam...
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di Fabio Poles
pubblicato l'11 ottobre 2009 su Gente Veneta, n. 39/2009

«Non sono le encicliche in quanto tali che cambiano la storia e la vita delle persone. Cambiano la storia se sono scritte con il sangue dei martiri. E’ la testimonianza di chi opera a far sì che la forza di una enciclica possa essere una forza di cambiamento della storia». Ha esordito così martedì scorso Luigino Bruni, docente di economia all’Università Bicocca di Milano, invitato ad aprire al Laurentianum di Mestre, con un commento alla nuova enciclica di Benedetto XVI, “Caritas in Veritate”, il ventesimo anno di attività della Scuola di Formazione all’Impegno Sociale e Politico del Patriarcato di Venezia. Un centinaio le persone presenti e tra queste monsignor Beniamino Pizziol, vescovo ausiliare della Diocesi di Venezia, che ha consegnato gli attestati finali ad una ventina di studenti dell’ultimo biennio.

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«E’ sempre la vita, quindi, il banco di prova, la lezione più grande. E questo documento dà voce a chi scrive la storia col sangue» ha aggiunto Bruni. Che ha continuato: «Una bella definizione di “Caritas in Veritate”, potrebbe essere “amare per davvero”. Il latino caritas infatti contiene in sé i concetti di gratuità, fraternità e dono. E la caritas così intesa è una forza di trasformazione che agisce nelle persone e che consente loro di impegnarsi anche in campo economico e sociale». Si recupera così il centro del discorso economico, le persone, che «agendo danno vita alle istituzioni. Queste nascono da quelle, ma hanno poi una vita propria che può essere necessario cambiare. Infatti come le istituzioni buone danno vita a strutture di grazia, quelle cattive originano strutture di peccato».

Commentando il tema della “gratuità”, centrale nella nuova enciclica, Bruni ha affermato: «Gratuità non vuol dire gratis. Vuol dire aggiungere un di più, in termini di attenzione all’altro e di desiderio di fare le cose per bene, che non ha prezzo nella relazione di scambio. Se ci avessero messo un po’ di gratuità, i muri non sarebbero crollati a Messina e a L’Aquila».

La gratuità deve convivere con il doveroso, può quindi trovare spazio anche nei contratti, perché è un “trascendentale” come il bello, il buono e il giusto. E la fraternità, altro punto importante della nuova enciclica? «Ti fa vivere con più gioia, ma anche soffrire di più perché ti espone alla presenza degli altri ed implica sempre la possibilità che l’altro ti faccia male, ti ferisca. Per questo non piace all’economia che le preferisce la filantropia, in base alla quale puoi essere solidale con un africano che muore di fame ma non esige che tu lo abbia in fianco, non ti espone alla sua presenza» ha detto ancora lo studioso. Che ha concluso: «La “Caritas in Veritate” è una lettera per tutti gli uomini, non solo per i credenti. La vera scommessa, al di là della fede, è riconoscere infatti che in ogni persona c’è una vocazione alla gratuità, alla fraternità e al dono. Insomma: alla fine, magari sotto una corazza spessa, l’altro è sempre un alleato perché ogni uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio».

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di Fabio Poles
pubblicato l'11 ottobre 2009 su Gente Veneta, n. 39/2009

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Bruni: l'enciclica si scrive vivendola

di Fabio Poles pubblicato l'11 ottobre 2009 su Gente Veneta, n. 39/2009 «Non sono le encicliche in quanto tali che cambiano la storia e la vita delle persone. Cambiano la storia se sono scritte con il sangue dei martiri. E’ la testimonianza di chi opera a far sì che la forza di una enciclica possa ...
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Intervista a Luigino Bruni di Chiara Andreola

pubblicato il 15/09/2009 su www.cittanuova.it

A un anno dal fallimento della Lehman Brothers, evento scatenante della crisi finanziaria, le Luigino_Brunicattive vecchie abitudini delle grandi banche sono tornate. Lo stesso Obama ha rivolto ieri un pesante ammonimento al mondo finanziario. Qualcosa però si è mosso a livello locale. Intervista al prof. Luigino Bruni, economista all'università di Milano Bicocca.

La top manager della Wells Fargo ha festeggiato il primo anniversario del crollo della Lehman Brothers con un suntuoso party a Malibu; gli strumenti finanziari “creativi” sono tornati, così come gli stipendi stellari dei grandi della finanza: davvero non abbiamo imparato niente da quello che è successo?

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«È una buona domanda, ma parrebbe proprio di no. Basti pensare che la Stanley Morgan, una banca che era stata salvata con denaro pubblico, ora che è tornata a fare utili ha annunciato un milione di dollari di premio per ogni dirigente. Personalmente, lo trovo offensivo. Il modo di portare avanti la finanza è simile a quello che c’era prima della crisi: la lezione dell’azzardo morale è stata colta a livello politico, ma non c’è stato alcun cambiamento reale, tanto è vero che le stesse agenzie di rating che hanno avuto le loro responsabilità nel crollo continuano a lavorare come prima. Di questo passo, il rischio di un’altra crisi è concreto».

Eppure qualche segnale di cambiamento di mentalità sembra esserci: nel rapporto della commissione Stieglitz-Sen-Fitoussi presentato ieri si sostiene che il Prodotto Interno Lordo non può da solo misurare il benessere di un Paese, ma occorre considerare anche parametri come la situazione delle famiglie e l’uguaglianza; la gente comune fa più attenzione a come spende i propri soldi… Non significa nulla?

«In effetti, almeno nei primi tempi, le cose stavano così, ma ora non più. Anche se è comunque cambiata la percezione del rapporto tra cittadino e banca: abbiamo assistito ad un ritorno al territorio, con la crescita del credito cooperativo e di Banca Etica. Si è fatta sentire la necessità di un rapporto fiduciario, anche se questo significa rivolgersi ad una banca più piccola che offre magari condizioni meno vantaggiose. In Italia, peraltro, abbiamo una lunga tradizione in questo campo: le cooperative le abbiamo inventate noi, hanno messo radici già nel medioevo e hanno oggi una diffusione capillare soprattutto al nord. Il Sud, infatti, ha sofferto di più la crisi».

Certo questo è uno dei grossi fattori di differenza rispetto agli Stati Uniti…

«Molto semplicemente, l’Europa ha mille anni di storia di capitalismo, gli Stati Uniti soltanto duecento. Quello economico è un istinto, come la fame o il sesso, e come tale va controllato con regole precise. Il modello europeo è più robusto perché ha avuto modo di formarsi fin dal medioevo, ed ha retto meglio di fronte al crollo. Si tratta di un modello di mercato diverso basato sul concetto di economia civile, ossia inserita nella città, nel quotidiano. Il modello anglosassone, invece, è più distante dalla gente. Ricordiamoci che la Gran Bretagna è stato il Paese europeo più colpito dal crollo della banche».

L’Ocse vede segni di ripresa per l’Italia, e Obama pochi giorni fa ha affermato che, pur non essendo ancora «fuori dai guai», l’economia americana è «lontana dal baratro»: possiamo essere ottimisti?

«I capi di Stato fanno il loro mestiere, che consiste anche nell’evitare di creare allarmismi: specialmente in economia, il panico si autoavvera. Se loro, quindi, fanno bene ad essere ottimisti, io però non lo sarei altrettanto: ancora non sappiamo con certezza quanto peserà sulla finanza, ad esempio, il mancato pagamento alle banche da parte di tutte quelle imprese che hanno chiuso. Non credo sia davvero possibile dire quanto durerà ancora la recessione».

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Intervista a Luigino Bruni di Chiara Andreola

pubblicato il 15/09/2009 su www.cittanuova.it

A un anno dal fallimento della Lehman Brothers, evento scatenante della crisi finanziaria, le Luigino_Brunicattive vecchie abitudini delle grandi banche sono tornate. Lo stesso Obama ha rivolto ieri un pesante ammonimento al mondo finanziario. Qualcosa però si è mosso a livello locale. Intervista al prof. Luigino Bruni, economista all'università di Milano Bicocca.

La top manager della Wells Fargo ha festeggiato il primo anniversario del crollo della Lehman Brothers con un suntuoso party a Malibu; gli strumenti finanziari “creativi” sono tornati, così come gli stipendi stellari dei grandi della finanza: davvero non abbiamo imparato niente da quello che è successo?

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Qualcosa non è cambiato

Intervista a Luigino Bruni di Chiara Andreola pubblicato il 15/09/2009 su www.cittanuova.it A un anno dal fallimento della Lehman Brothers, evento scatenante della crisi finanziaria, le cattive vecchie abitudini delle grandi banche sono tornate. Lo stesso Obama ha rivolto ieri un pesante ammonimen...
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Commento all'Enciclica di Papa Benedetto XVI  "Caritas in Veritate", nella quale Benedetto XVI fa riferimento all' economia civile e di comunione

di Luigino Bruni

La pubblicazione dell’Enciclica Caritas in Veritate è un evento importante per i cristiani e per la società civile. Essa, infatti, da una parte continua il magistero sociale della Chiesa e dei Papi, a partire dalla Rerum Novarum (e in realtà ben prima di essa, poiché la Dottrina Sociale della Chiesa –DSC – comincia con i Vangeli, continua con i Padri, con  i grandi carismi fino ad oggi), dall’altra rappresenta un’importante innovazione nel modo di trattare il mercato, l’economia e, in generale, la vita civile. Fra i tanti temi importanti e rilevanti dell’Enciclica, voglio soffermarmi su due.

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In primo luogo, Benedetto XVI rivaluta e rilancia nel dibattito attuale il grande magistero sociale di Paolo VI, quando dice, già nell’introduzione, che la DSC non ha solo la Rerum Novarum come pietra miliare, ma anche la Populorum Progressio che rappresenta l’altro grande evento su cui poggia l’insegnamento sociale del Post-Concilio. E questa eredità e rivalorizzazione della Populorum Progressio non è solo dovuta al dato contingente del recente quarantesimo anniversario dell’Enciclica di Paolo VI, ma soprattutto ad una volontà esplicita di Benedetto XVI di rilanciare nella DSC il grande tema del capitalismo, della giustizia mondiale e dello sviluppo dei popoli.

“Lo sviluppo è il nome nuovo della pace”, era il grande tema della Populorum Progressio, che insieme alla destinazione universale dei beni e all’esigenza di coniugare la solidarietà con la crescita economica rappresentavano e rappresentano i pilastri dell’etica economico-politica della Chiesa. Pertanto, riporre al centro i temi del progresso nell’età della globalizzazione, significa ridare centralità, all’interno della DSC, al grande tema della critica al capitalismo. Potremmo così riassumere questo primo elemento dell’Enciclica: se oggi vogliamo salvaguardare il contributo di civiltà tipico della tradizione civile e dell’etica del mercato (che sono frutto anche e soprattutto dell’umanesimo cristiano) diventa sempre più urgente una critica alla forma capitalistica che l’economia di mercato ha assunto negli ultimi due secoli.

Detto in altre parole, chi, come la Chiesa, apprezza e valorizza l’economia di mercato (soprattutto quando la confrontiamo con altre forme come il collettivismo e il comunitarismo o l’economia gerarchica–feudale) deve  duramente criticare l’avvento di una società di mercato, cioè una vita in comune regolata unicamente dal mercato e dai suoi meccanismi e strumenti (concorrenza, contratti incentivi, ecc.). Senza mercato, quindi,  non c’è vita buona, con solo mercato la vita è ancor meno buona, poiché vengono emarginati e atrofizzati altri principi e meccanismi fondativi della vita in comune, che non sono riconducibili al contratto, quali il dono e la reciprocità.

Il secondo punto è strettamente connesso con questo primo punto e ci viene enunciato già dalle prime righe dell’Enciclica, quando Benedetto XVI afferma che la Caritas, l’amore (eros, philia e agape) è fondamento sia della vita spirituale, ecclesiale e comunitaria, sia della vita economica e politica: essa “dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n.2). Questa frase, a mio avviso, ha una portata rivoluzionaria.

Infatti, una delle grandi costanti che risalgono al mondo greco e romano, è una visione dicotomica della vita: corpo - anima, spirituale - materiale, contemplazione - prassi, eros -agape. Questa visione dicotomica o dualista oggi è ancora molto forte nell’ambito economico e civile, quando si afferma, nella teoria e nella prassi, la contrapposizione tra gratuità e mercato, tra dono ed economia. Il Papa ci richiama, già dalle sue precedenti encicliche, a questa nuova unità: è l’amore, lo stesso amore, che può e deve ispirare il dono e il contratto, la famiglia e l’impresa, il mercato e la politica. Ecco quindi, che l’intero capitolo 3 dell’Enciclica è l’esigenza di una riunificazione della vita e si pone al cuore stesso del messaggio cristiano: l’incarnazione del Verbo ha superato per sempre la separazione fra sacro e profano, tra ambiti pienamente umani e non, e si può raggiungere la vita buona, la santità, certamente nella vita contemplativa e nella preghiera, ma anche facendo l’imprenditore e lavorando, o impegnandosi in politica per la propria gente. Si capisce quindi che se l’amore è la fonte sia del dono che del contratto, si può amare anche eseguendo la prestazione di un contratto. La gratuità non va associata quindi al gratis e al regalo, ma essa è una dimensione che accompagna tutte le azioni umane, e che quindi possiamo e dobbiamo ritrovare nella vita ordinaria.

A questo discorso è poi legato il tema del profitto e dell’impresa che occupa un posto centrale nel capitolo sul mercato. Se la gratuità è dunque la dimensione fondativa dell’umano, ne deriva coerentemente che il profitto non può essere lo scopo dell’impresa, di nessuna impresa, non solo di quelle no-profit, perché quando ciò accade (come nella recente crisi finanziaria) tutto nell’attività economica e d’impresa diventa strumentale: persona, natura, rapporti, e nulla ha valore intrinseco. Ecco quindi superata l’altra grande dicotomia dell’economia attuale: impresa no-profit, impresa for-profit, o l’idea del terzo settore, poiché ogni impresa in quanto tale ha una vocazione civile e non solo quelle operanti nel terzo settore o nel no-profit. Di qui il riferimento del Papa all’economia civile e di comunione (n.46), il cui significato si coglie solo nel quadro complessivo dell’Enciclica.

Nell’introduzione il Papa si chiede come attualizzare le domande e le sfide della Populorum Progressio (n.8). Alla luce dell’Enciclica, resta ancora attuale l’idea che lo sviluppo sia la condizione necessaria per la pace, ma in questi quarant’anni abbiamo capito che non basta lo sviluppo economico per evitare le guerre (come era ben chiaro ai tempi di Paolo VI), occorre la comunione dei beni, occorre la solidarietà tra i popoli, dal momento che le recenti guerre e il terrorismo mostrano l’insostenibilità di un sistema capitalistico che produce crescenti disuguaglianze. ‘La comunione è nome nuovo della pace’: potremmo così declinare uno dei messaggi centrali dell’Enciclica, che è anche la sfida dell’economia e della pace dei prossimi anni, e che deve  interpellare anche il G8 e i  grandi della terra. In questi giorni mi vengono in mente i nomi dei personaggi che avrebbero tanto amato quest’Enciclica: Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Adriano Olivetti, ma anche Adam Smith e Antonio Genovesi, cioè tutti coloro che hanno amato l’uomo e anche il mercato come espressione di umanità e di vita buona.

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Commento all'Enciclica di Papa Benedetto XVI  "Caritas in Veritate", nella quale Benedetto XVI fa riferimento all' economia civile e di comunione

di Luigino Bruni

La pubblicazione dell’Enciclica Caritas in Veritate è un evento importante per i cristiani e per la società civile. Essa, infatti, da una parte continua il magistero sociale della Chiesa e dei Papi, a partire dalla Rerum Novarum (e in realtà ben prima di essa, poiché la Dottrina Sociale della Chiesa –DSC – comincia con i Vangeli, continua con i Padri, con  i grandi carismi fino ad oggi), dall’altra rappresenta un’importante innovazione nel modo di trattare il mercato, l’economia e, in generale, la vita civile. Fra i tanti temi importanti e rilevanti dell’Enciclica, voglio soffermarmi su due.

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La comunione è nome nuovo della pace

Commento all'Enciclica di Papa Benedetto XVI  "Caritas in Veritate", nella quale Benedetto XVI fa riferimento all' economia civile e di comunione di Luigino Bruni La pubblicazione dell’Enciclica Caritas in Veritate è un evento importante per i cristiani e per la società civile. Essa, infatti,...
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L'uscita dell'enciclica "Caritas in veritate" è prevista per il prossimo 7 luglio. Abbiamo intervistato sull'argomento Luigino Bruni, Coordinatore della Commissione Internazionale EdC

n28_pag._06_luigno_bruni_1Antonella Ferrucci: Che cosa si aspetta, dalla prospettiva dell'EdC, dalla nuova enciclica?

Luigino Bruni: "Non mi aspetto un'enciclica che parli della crisi finanziaria, perché se fosse così sarebbe presto superata. Sono quindi certo che l'enciclica riprenderà i grandi temi della Populorum Progressio e anche della Centesimus Annus, e cioè una valutazione e una critica ai fondamenti etici e antropologici del capitalismo. E' questa la crisi più importante oggi, ben più radicale e grave di quella finanziaria. Il mercato è un'istituzione che nasce dal cuore della christianitas medioevale, dal pensiero francescano, ebreo, tomista. Il capitalismo, invece, è la forma che prende l'economia di mercato nella modernità. La Chiesa è alla radice del mercato di cui riconosce il valore civile, ma non può accettare una logica del mercato che diventa l'unico criterio su cui costruire la vita in comune, tipica del capitalismo. Quindi mi aspetto una critica al capitalismo per salvare l'economia di mercato, grande eredità dell'umanesimo cristiano. La principale critica che oggi va rivolta al capitalismo, andando oltre la stessa Centesimus Annus e recuperando alcune istanze ben presenti nella Populorum Progressio, è di tipo antropologico: l'essere umano è più grande della figura del consumatore, del risparmiatore, ma anche di imprenditore e di cittadino. E' persona, più grande di qualsiasi ideologia, anche di quella capitalistica. Quindi oggi chi, come la Chiesa nelle sue istituzioni e nei suoi carismi, ama le conquiste di civiltà dell'economia di mercato (soprattutto quando la confrontiamo con quella pianificata o quella feudale) deve essere critico nei confronti di quel fondamentalismo del capitalismo che è la più radicale religione atea nella post-modernità, perché elimina alla radice il bisogno stesso di Dio.

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A.F.: Qual è in questo contesto il significato dell'EdC?

L.B.: L'EdC rappresenta una proposta importante, e sono certo che la sua esperienza ne uscirà culturalmente rafforzata. L'edc infatti non si pone al di fuori del mercato, ma opera all'interno di esso. Al tempo stesso proponendo la comunione dei profitti mette in radicale crisi l'assunto principale dell'economia capitalistica, l'acquisizione privata del profitto d'impresa. L'EdC dal 1991 (nata insieme all'ultima enciclica sociale) vive in economia il messaggio del concilio, poiché concepisce l'economia come espressione di popolo, di fraternità, di reciprocità, di laicità responsabile e solidale.

A.F.: Quale potrebbe essere il messaggio più dirompente dell'enciclica?

L.B.: Non ho letto l'enciclica, ma dall'opera di Benedetto XVI e dal dibattito che in questi anni ha preparato questo documento, mi aspetto che si rimettano al centro del mercato, e quindi della società (oggi il mercato non è più possibile separarlo dal civile e dal politico), due principi fondativi della tradizione cristiana: la gratuità e la reciprocità. Il cristianesimo ha inventato la gratuità, che è una declinazione dell'agape e dalla grazia (charis), e ha posto la reciprocità al centro del nuovo popolo: "amatevi gli uni gli altri". Non è l'altruismo o la filantropia la cifra del cristianesimo, ma la reciprocità. Queste due categorie sono state quelle più combattute dal capitalismo, ed io spero che siano riposte al centro dei mercati e delle imprese. Infatti senza gratuità non c'è spazio per la vita spirituale ma solo per il nichilismo, poiché senza la gratuità,senza pratiche di gratuità, manca il "muscolo" per vivere la vita interiore, e quindi la fede. E senza reciprocità non c'è comunità. E senza comunità agapica non c'è cristianesimo. Io spero che da questa enciclica chi ha impostato, come l'edc e tanta economia civile e sociale, la propria vita economia su gratuità e reciprocità trovi dignità teorica e un forte impulso ad andare avanti.

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L'uscita dell'enciclica "Caritas in veritate" è prevista per il prossimo 7 luglio. Abbiamo intervistato sull'argomento Luigino Bruni, Coordinatore della Commissione Internazionale EdC

n28_pag._06_luigno_bruni_1Antonella Ferrucci: Che cosa si aspetta, dalla prospettiva dell'EdC, dalla nuova enciclica?

Luigino Bruni: "Non mi aspetto un'enciclica che parli della crisi finanziaria, perché se fosse così sarebbe presto superata. Sono quindi certo che l'enciclica riprenderà i grandi temi della Populorum Progressio e anche della Centesimus Annus, e cioè una valutazione e una critica ai fondamenti etici e antropologici del capitalismo. E' questa la crisi più importante oggi, ben più radicale e grave di quella finanziaria. Il mercato è un'istituzione che nasce dal cuore della christianitas medioevale, dal pensiero francescano, ebreo, tomista. Il capitalismo, invece, è la forma che prende l'economia di mercato nella modernità. La Chiesa è alla radice del mercato di cui riconosce il valore civile, ma non può accettare una logica del mercato che diventa l'unico criterio su cui costruire la vita in comune, tipica del capitalismo. Quindi mi aspetto una critica al capitalismo per salvare l'economia di mercato, grande eredità dell'umanesimo cristiano. La principale critica che oggi va rivolta al capitalismo, andando oltre la stessa Centesimus Annus e recuperando alcune istanze ben presenti nella Populorum Progressio, è di tipo antropologico: l'essere umano è più grande della figura del consumatore, del risparmiatore, ma anche di imprenditore e di cittadino. E' persona, più grande di qualsiasi ideologia, anche di quella capitalistica. Quindi oggi chi, come la Chiesa nelle sue istituzioni e nei suoi carismi, ama le conquiste di civiltà dell'economia di mercato (soprattutto quando la confrontiamo con quella pianificata o quella feudale) deve essere critico nei confronti di quel fondamentalismo del capitalismo che è la più radicale religione atea nella post-modernità, perché elimina alla radice il bisogno stesso di Dio.

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Quali attese sulla nuova enciclica "Caritas in veritate"?

L'uscita dell'enciclica "Caritas in veritate" è prevista per il prossimo 7 luglio. Abbiamo intervistato sull'argomento Luigino Bruni, Coordinatore della Commissione Internazionale EdC Antonella Ferrucci: Che cosa si aspetta, dalla prospettiva dell'EdC, dalla nuova enciclica? Luigino Bruni: "Non mi...
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«La crisi non è nata solamente dall'avidità delle banche o della finanza, ma anche da quella dei risparmiatori». Parla Luigino Bruni

di Gerolamo Fazzini

intervista pubblicata su Avvenire del 30 aprile 2009

«Bisogna criticare il modello degli ultimi vent'anni, fondato sulla speculazione. Urge una politica mondiale che rilanci i consumi a livello globale, cioè anche nei Paesi africani e asiatici, rispetto a quelli occidentali già saturi di consumismo»

 Professore di Economia poli­tica all'Università di Mila­no - Bicocca, membro del comitato etico di Banca Etica, nonché saggista apprezzato, Lui­gino Bruni è uno degli accademici più attenti ai rapporti fra dimen­sione economica e sociale. Teori­co dell'economia di comunione, promossa dal movimento dei Fo­colari, Bruni risponde alle do­mande di Avvenire dal Brasile, do­ve si trova precisamente per un incontro nazionale di imprendi­tori aderenti al progetto.
vedi articolo

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Per spiegare le radici profonde della crisi economica in atto Pa­pa Benedetto ha scomodato un termine desueto ma forte: 'cupi­digia'. Come mai? 

«Perché ciò a cui stiamo assisten­do è l'esito di un'economia e di u­na finanza lasciate in balia delle proprie pulsioni. È come se l'inte­ra socialità fosse giocata sul solo registro dell'eros, senza alcun rife­rimento alla philia, all'agape e al­le loro tipiche istituzioni. Fuor di metafora: dietro l'attuale crisi c'è una crisi morale, che riguarda an­che il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. Certamente le banche e la finanza hanno le loro re­sponsabilità dirette, ma le fami­glie e i risparmiatori 'avidi' han­no la loro, quando si rivolgono al­le banche e dicono: 'fai ciò che vuoi di questi capitali, ma dammi più del tasso dei Bot'. Non dob­biamo dimenticarci le nostre responsabilità di risparmiatori. Ec­co perché va richiamato il fatto che qui è in gioco l'etica, la fidu­cia, intesa come fides, che in lati­no significa anche 'corda', ciò che tiene assieme la società».

Diversi economisti e politici stanno dicendo che esistono ti­midi segnali di ripresa, si intravede la fine del tunnel e via di que­sto passo. Non ha l'impressione che si voglia voltar pagina troppo rapidamente, evitando di leggere in profondità le cause reali della crisi? Ci si sta accontentando di un maquillage superficiale quan­do invece ci sarebbe bisogno di interventi chirurgici?

«Sono d'accordo. È probabile che qualche segno di ripresa del Pil ci sarà tra qualche mese, ma questo non significa uscire dalla crisi, se è vero che questa è una crisi dell'ethos del mercato (che è anche, non a caso, il titolo del mio ultimo libro). È una cultura cui abbiamo dato vita negli ultimi due secoli centrata attorno all'immunitas e all'individuo: la relazione perso­nale con l'altro è stato il grande male che si è voluto espellere dal­la sfera pubblica. Abbiamo sosti­tuito i beni relazionali con proto­colli, contratti e strumenti, che di­ventano dei grandi mediatori che impediscono, o rendono molto difficile, collegare le azioni alle persone che ne subiranno gli ef­fetti. Da questa crisi delle relazio­ni umane non si vede ancora nes­suna via di uscita, anzi siamo solo all'inizio. La diminuzione della fe­licità nelle società occidentali è solo un segnale di questa crisi di rapporti e di senso, da cui non si esce con una ripresa di qualche punto percentuale di Pil. Ma se non curiamo questa ferita della nostra cultura di mercato, le crisi come quelle che stiamo fronteg­giando saranno ricorrenti e ogni volta più gravi».

Cosa non funziona: il capitalismo o l'economia di mercato tout court?

«Oggi si tende a confondere capi­talismo ed economia di mercato: non potendo mettere più in di­scussione la seconda, non si met­te più in discussione neanche il capitalismo. In realtà l'economia di mercato non coincide con il ca­pitalismo: quella nasce ben pri­ma, ha conosciuto varie forme non-capitalistiche che hanno convissuto con il capitalismo (si pensi al movimento cooperativo), e certamente gli sopravviverà. Se oggi vogliamo salvare l'economia di mercato (grande eredità dell'umanesimo cristiano medioevale e moderno) dobbiamo tornare a criticare il modello di capitalismo finanziario che abbiamo realizza­to soprattutto in questi ultimi venti-trenta anni. Il mercato e la finanza sono luoghi di civiltà solo se sottoposti ad una sistematica critica civile e culturale».

Tempo fa lei ha scritto su una ri­vista missionaria: «Questa crisi attuale ci sta dicendo drammati­camente che il 'capitalismo fi­nanziario' richiede una nuova Bretton Woods che ridisegni la nuova archi­tettura del capitalismo di terza generazione. Speria­mo solo che questi nuovi accordi siano questa volta democratici, che tengano conto seriamente dell'A­frica, dell'Asia, e del Sud America». Ad oggi, però, non si capisce chi sia inte­ressato a questo ripensa­mento, a una riforma au­tentica. Il prossimo G8 non dovrebbe avere que­sto come punto qualifi­cante?

«Certo. Ma non pensiamo che i protagonisti della nuova alleanza mondiale possono continuare ad es­sere solo i politici e i capi di governo. Questa crisi ci sta anche dicendo che la politica non è più capace, da sola, né a capire né tan­tomeno a gestire la crisi. Oggi sappiamo che le sorti del capitalismo dipendo­no da milioni di soggetti, con pesi diversi, ma nes­suno (neanche la Fed) con un peso così grande da determinare da solo le sorti del mondo».

Che spazio rimane alla politica?

«Ciò che il G8 (o, meglio, un 'glo­bal summit' a geometria variabile in base al tema che si affronta, che vada oltre il numero chiuso) può e secondo me dovrebbe urgentemente fare è lanciare una politica di rilancio dei consumi a livello mondiale e globale: in Eu­ropa e negli Usa siamo già saturi e rattristati dal consumismo. Ben diversa sarebbe una politica redi­stributiva mondiale che mettesse in condizioni i miliardi di africani o di asiatici di avere una casa e dei beni primari: questo sarebbe un piano che al tempo stesso aumenterebbe il benessere mondia­le e rilancerebbe l'economia. Se la crisi è globale, anche le ricette debbono essere globali, oltre i confini nazionali. Ma occorrereb­be una visione politica mondiale, di mondo unito, che oggi non ve­do all'orizzonte».

L'economista Yunus, fondatore della Grameen Bank, è osannato come un nuovo guru. Ma la fi­nanza attuale se ne guarda bene dall'andare a scuola da lui...

«Yunus ricorda sempre che l'ac­cesso al credito è un diritto fonda­mentale dell'uomo, poiché non è soddisfatto le persone non riesco­no a realizzare i propri progetti e a uscire dalle tante trappole della miseria. Se questo è vero, ne deri­va che la banca speculatrice deve essere l'eccezione e non la regola, se non altro perché i capitali che essa rischia sono delle famiglie».

Lei ha scritto qualche tempo fa che «se questa crisi può servire a dar vita a un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica allora sarà stata una felix culpa». Le sembra che da questa crisi stia nascendo qualcosa di nuovo oppure no?

«Le crisi sono sempre ambivalen­ti. I sistemi economici cambiano quando l'umano sopravanza l'e­conomico. È mia forte impressio­ne che oggi stiamo assistendo a qualcosa di simile: l'individuo che è uscito dalla rivoluzione econo­mica, industriale e culturale della modernità si sta accorgendo che un'economia e un mercato fonda­ti sugli interessi individuali e sulla ricerca dei profitti, che 'consu­ma' comunità, beni relazionali e beni ambientali, sta dando vita ad habitat tristi nei quali l''animale sociale uomo' vive male. Sarà, ancora una volta, la sete di vita e il desiderio di felicità delle persone a trovare soluzioni a questa crisi a questo capitalismo».

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«La crisi non è nata solamente dall'avidità delle banche o della finanza, ma anche da quella dei risparmiatori». Parla Luigino Bruni

di Gerolamo Fazzini

intervista pubblicata su Avvenire del 30 aprile 2009

«Bisogna criticare il modello degli ultimi vent'anni, fondato sulla speculazione. Urge una politica mondiale che rilanci i consumi a livello globale, cioè anche nei Paesi africani e asiatici, rispetto a quelli occidentali già saturi di consumismo»

 Professore di Economia poli­tica all'Università di Mila­no - Bicocca, membro del comitato etico di Banca Etica, nonché saggista apprezzato, Lui­gino Bruni è uno degli accademici più attenti ai rapporti fra dimen­sione economica e sociale. Teori­co dell'economia di comunione, promossa dal movimento dei Fo­colari, Bruni risponde alle do­mande di Avvenire dal Brasile, do­ve si trova precisamente per un incontro nazionale di imprendi­tori aderenti al progetto.
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Mercato non è solo capitalismo

«La crisi non è nata solamente dall'avidità delle banche o della finanza, ma anche da quella dei risparmiatori». Parla Luigino Bruni di Gerolamo Fazzini intervista pubblicata su Avvenire del 30 aprile 2009 «Bisogna criticare il modello degli ultimi vent'anni, fondato sulla speculazione. Urge una...
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La bufera richiede una nuova Bretton Woods

di Luigino Bruni
pubblicato su www.piuvoce.net

L’economia è antica quanto l’uomo e la donna: ha a che fare con la gestione della casa, e delle risorse scarse. La banca e la finanza, invece, sono delle “invenzioni” molto più recenti: la banca nasce nel Medioevo, e la finanza nel Seicento quando vengono inventate le borse e le banche centrali. Fino a fine Ottocento la finanza e la banca sono state grandi alleate dell’economia reale, ma nel Novecento la finanza si è sempre più distinta dall’economia, ed è nato il cosiddetto “capitalismo finanziario”, un sistema economico incentrato sulla finanza e non sulla produzione.

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Il primo economista a capire la portata di questa rivoluzione (dal capitalismo reale a quello finanziario) è stato J. M. Keynes, negli anni Trenta, quando dimostrò che il costo che si paga ad un capitalismo finanziario (che ha il pregio di aumentare di molto la disponibilità di denaro e quindi di risorse) è la sua radicale e strutturale fragilità: Keynes ci ha mostrato che nel capitalismo della finanza la crisi non è l’eccezione, è la regola. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 furono un tentativo per gestire questo nuovo capitalismo, creando delle nuove regole e istituzioni (tra cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale). Questa architettura ha funzionato abbastanza bene fino all’esplosione della globalizzazione (anche se con diversi problemi, soprattutto di giustizia: si pensi alla totale assenza dei Paesi più poveri, e al peso decisivo degli Usa nella governance di questi istituzioni), quando, sul finire degli anni Ottanta, le nuove tecnologie hanno favorito una forte accelerazione di processi iniziati con il capitalismo finanziario, li ha amplificati, e resi globali: 20 anni fa una crisi finanziaria asiatica poteva restare prevalentemente asiatica, oggi non più, il mercato dei capitali, e le crisi, sono subito mondiali.

Che cosa è accaduto allora negli ultimi mesi, quando la crisi è esplosa? La vulnerabilità strutturale del capitalismo finanziario è diventata insostenibile, grazie anche ad una totale inadeguatezza delle regole del mercato finanziario. Occorre quindi immediatamente riaprire una riflessione profonda sul capitalismo, che non sia solo di tipo economico e finanziario, ma anche politico e culturale. La crisi attuale ci sta dunque dicendo drammaticamente che il "capitalismo finanziario" richiede una nuova Bretton Woods che ridisegni la nuova architettura del capitalismo di terza generazione, se vogliamo che queste crisi non facciano implodere il fragile sistema mondo.
Speriamo solo che questi nuovi accordi siano questa volta democratici, che tengano conto seriamente dell’Africa, dell’Asia, e del Sud America, che non sia solo un patto tra i “grandi” ma che siano presenti la società civile e le imprese. In fondo ciò che il recente G20 ha mostrato è il fallimento di una gestione dei mercati e delle crisi che ragiona ancora con categorie medioevali, pensa cioè di risolvere una crisi globale mettendo insieme i leader politici, che scrivano “dall’alto” nuove regole. A volte sembra che la politica non abbia capito che il mondo è cambiato radicalmente, e qualunque soluzione ad una crisi economica oggi non può che derivare dal cambiamento di stili di vita di milioni, miliardi di persone, di tutti e di ciascuno. Lo stato, gli stati, hanno il loro compito, il loro ruolo nel gioco, ma è molto meno cruciale di quanto i media, e i politici, ci raccontano ogni giorno.

Infine, dobbiamo sottolineare che dietro questa crisi c`è molto più di Stato e mercato: c’è anche una crisi morale e antropologica, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L`indebitarsi ben oltre le possibilità reali di reddito è un atto ad altro rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, indebitarsi per vacanze esotiche o auto di lusso, pubblicizzate a interessi zero e a rate di pochi euro, può essere un atto simile a quello di Pinocchio che, seguendo i consigli del Gatto e la Volpe, seminava denaro sperando di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi. Dalla crisi si uscirà davvero (e non solo per qualche mese, in attesa della prossima) se queste bufere finanziarie saranno un’occasione per un nuovo patto sociale, per una nuova alleanza tra società civile, governi, imprese e famiglie, che rimetta al centro la persona, le relazioni personali e il reddito buono che nasce dal lavoro umano e dalla fatica quotidiana. Se invece continuiamo a cercare la causa della crisi fuori di noi, in capri espiatori di Wall Street o Piazza Affari, questa crisi sarà stata solo un male, un’occasione perduta.
 

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La bufera richiede una nuova Bretton Woods

di Luigino Bruni
pubblicato su www.piuvoce.net

L’economia è antica quanto l’uomo e la donna: ha a che fare con la gestione della casa, e delle risorse scarse. La banca e la finanza, invece, sono delle “invenzioni” molto più recenti: la banca nasce nel Medioevo, e la finanza nel Seicento quando vengono inventate le borse e le banche centrali. Fino a fine Ottocento la finanza e la banca sono state grandi alleate dell’economia reale, ma nel Novecento la finanza si è sempre più distinta dall’economia, ed è nato il cosiddetto “capitalismo finanziario”, un sistema economico incentrato sulla finanza e non sulla produzione.

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Costruiamo il capitalismo di terza generazione

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Tre aspetti della crisi finanziaria

di Luigino Bruni
pubblicato in: BENECOMUNE.NET

Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma se non gestite e regolate da istituzioni adeguate e forti fanno precipitare quelle stesse comunità nel caos.

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Ciò che vediamo in questo periodo con questa grave crisi finanziaria, economica e morale sono solo i frutti mortiferi di una economia e una finanza lasciate in balia delle proprie pulsioni senza regolazione comunitaria e sociale. Sta accadendo qualcosa di simile a ciò che accadrebbe in una comunità in cui l’intera socialità fosse giocata sul solo registro dell’eros, senza alcun riferimento alla philia, all’agape e alle loro tipiche istituzioni. La libido erotica e quella del denaro sono passioni forti, che vanno educate, gestite e – occorre ricordarlo – controllate, vivendo la bellissima virtù della prudenza, individuale e collettiva.

Dopo questa premessa, vorrei soffermarmi su tre aspetti di questa crisi.
Il primo. Ciò che la presente crisi finanziaria sta mostrando è la radicale fragilità e vulnerabilità del capitalismo di terza generazione. Nel sistema economico tradizionale (dalle città medioevali all’Europa moderna) una crisi come quella attuale non era neanche pensabile. In quelle economie il consumo era fondato e legato alla produzione reale. Il reddito dei singoli e dei Paesi era un indicatore molto importante, perché diceva chiaramente e senza equivoci quanto una famiglia e un Paese potevano spendere e investire. Il reddito era il limite naturale del consumo e del risparmio. Il reddito non consumato veniva depositato, spesso (quando esistevano ed erano sicure), in banche dove, grazie all’interesse che il denaro maturava, il valore del capitale non si deteriorava nel tempo. In quel mondo, o capitalismo, le crisi economiche (come quella del ’29) potevano verificarsi solo per una crisi dell’economia reale (soprattutto fallimenti di imprese …), che producevano disoccupazione, e quindi una riduzione del reddito reale.

Questo sistema economico tradizionale è entrato in crisi nel XX secolo, con la nascita del capitalismo finanziario, che ha cambiato radicalmente la natura del sistema economico e della nostra vita. Questo cambiamento ha prodotto alcune cose interessanti, ma ad un costo molto alto: ha reso il sistema economico tremendamente fragile. John M. Keynes è stato l’economista che più di tutti ha colto e denunciato, profeticamente (eravamo nel 1936), la natura finanziaria del nuovo capitalismo e la sua strutturale fragilità, un autore che oggi dovremmo tornare a leggere e a meditare profondamente. Le crisi come questa che stiamo vivendo sono quindi la regola, non l’eccezione del capitalismo finanziario, soprattutto oggi quando la globalizzazione amplifica gli effetti delle crisi. L’instabilità e la fragilità sono solo cioè l’altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai cento dollari di reddito reale di diventare mille e oltre, senza alcun rapporto tra quel denaro e il lavoro umano.

Dovremo abituarci presto alle crisi come questa e ancora più devastanti? Temo di sì, almeno fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso.

Nel breve periodo,  però, sarebbe necessario riaprire una riflessione profonda sul capitalismo, che non sia solo di tipo economico e finanziario, ma anche politico e culturale; una riflessione globale e mondiale che è ancora "ferma" agli accordi di Bretton Woods nel dopoguerra. Keynes, che era anche tra i promotori di quegli accordi, era convinto che data la nuova natura del capitalismo occorresse un nuovo “patto sociale”, nuove regole e nuove istituzioni (economico-politico) per gestire questa nuova realtà. IL FMI e la Banca Mondiale sono il risultato, molto parziale e in parte tradito, di quel nuovo patto. Negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, e alla fine degli anni novanta la coscienza civile globale stava maturando la convinzione che il capitalismo richiedesse una diversa e più attenta governance. La Tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha svolto una funzione di catalizzatore di un processo sociale che con il G8 di Genova del luglio 2001 raggiunse il suo massimo. L'11 settembre, poi, ha però deviato per anni l'attenzione della società civile internazionale dai problemi della nuova architettura del capitalismo finanziario, per orientarla sui temi della sicurezza e del terrorismo.

Oggi ci accorgiamo che in questi setti anni di "distrazione" il processo è esploso (basta guardare i dati sull’amplificazione dell’indebitamento delle banche in questo ultimo decennio!), e stiamo improvvisamente prendendo coscienza che c'era un'altra "guerra" e un'altra "sicurezza" non meno gravi e urgenti dei controlli-passeggeri agli aeroporti, problemi che incombono minacciosamente sulla "post-economia di mercato" di tutte le famiglie del globo.

Questa crisi attuale ci sta dunque dicendo drammaticamente che il "capitalismo finanziario" richiede una nuova Bretton Woods che ridisegni la nuova architettura del capitalismo di terza generazione, se vogliamo che queste crisi non facciano implodere il fragile sistema mondo. Speriamo solo che questi nuovi accordi siano questa volta democratici, che tengano conto seriamente dell’Africa, dell’Asia, e del Sud America.
E veniamo così al secondo punto. Con l’avvento del capitalismo finanziario la banca e la finanza hanno progressivamente mutato natura, trasformandosi sempre più in soggetti speculatori, il cui scopo principale è far profitti (e farne tanti!), smarrendo così giorno dopo giorno la funzione sociale che la banca e la finanza hanno da sempre svolto, e svolgono ancora. Le istituzioni bancarie e finanziarie sono indispensabili nell'economia moderna. Come ho avuto modo di dire anche sull’Osservatore Romano (28.9.08), la grave malattia del capitalismo contemporaneo è invece la progressiva trasformazione delle banche da istituzioni a speculatori. Lo speculatore è un soggetto il cui scopo è massimizzare il profitto. L'attività che svolge non ha alcun valore intrinseco, ma è solo un mezzo per far arricchire gli azionisti e i managers. L'economista Yunus, Nobel per la pace, fondatore della Grameen Bank ricorda sempre che nell'economia di mercato l'accesso al credito è un diritto fondamentale dell'uomo, poiché se questo diritto non è soddisfatto le persone non riescono a realizzare i propri progetti e a uscire dalle tante trappole della miseria. Se questo è vero allora la banca speculatrice deve essere l'eccezione e non la regola dell'economia di mercato, se non altro perché i prodotti che la banca gestisce sono sempre ad alto rischio, e, soprattutto, perché i capitali che essa rischia sono delle famiglie. Sono convinto che una riforma radicale che dovrebbe uscire da questa crisi è la trasformazione delle banche in istituzioni più vicine all’impresa nonprofit che all’impresa speculatrice, se è vero che la banca è un’istituzione che ha un vincolo di efficienza e di economicità, che deve salvaguardare gli interessi di molti soggetti. Non è certo un caso che, dai Monti di Pietà dei francescani del Quattrocento alle banche cooperative, la banca si è pensata anche come impresa senza scopo di lucro, proprio perché tanti erano gli interessi che doveva soddisfare. Ciò che quindi i fallimenti di questi giorni ci stanno insegnando è che la banca è un'istituzione con un grande valore sociale e con una grande responsabilità:  non può essere abbandonata al gioco rischioso della ricerca dei profitti.

E infine il terzo aspetto. Dietro questa crisi c'è anche una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L'indebitarsi (negli USA ma sempre più in tutto il mondo opulento) ben oltre le possibilità reali di reddito, è una forma di doping simile a quella di cui sono preda i “giocatori d’azzardo” della finanza. Indebitarsi per il consumo è atto ad altro rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, fondato sull’ipotesi che se l’investimento è buono il valore aggiunto remunererà anche l’interesse bancario, indebitarsi per vacanze esotiche o case di lusso può essere un atto simile a quello di Pinocchio che, seguendo i consigli del Gatto e la Volpe, seminava denaro sperando di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi. Nessuno, ovviamente, vuol negare che entro certi limiti il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l'economia e per il bene comune. Ma è ancora più vero che la banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste. Se banchieri e consulenti finanziari si comportano come novelli Gatto e Volpe, tutti alla fine vivranno, diversamente dalle favole, “infelici e scontenti”.

Un’ultima considerazione. C'è un aspetto importante in tutta questa "bufera" che non viene mai sottolineato dai media. Chi in questi anni ha fatto investimenti etici (in Banca Etica, ad esempio, ma anche in tante banche cooperative) oggi si ritrova con un risultato al tempo stesso etico, economicamente vantaggioso e molto sicuro. Questa crisi sta rimettendo in discussione il sistema degli incentivi e dei valori in gioco, anche puramente economici. Come è avvenuto tante volte nella storia, un cambiamento climatico può determinare l'estinzione di grossi mammiferi e lo sviluppo di organismi più piccoli e agili, che nel precedente clima apparivano svantaggiati. Se questa crisi, nonostante la sua gravità e il grande dolore che sta procurando (i soldi sono importanti quando servono per poter vivere), può servire a dar vita ad un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica, amicale e aperta alla gratuità, allora sarà stata una felix culpa. Se invece guardiamo nelle nostre comode case i dibattiti televisivi sulla crisi, alternando le notizie sui crolli di banca all’attesa per le colossali vincite all’enalotto, convinti che la colpa è soltanto dei cattivi Gatto e Volpe di Wall Streat o di Piazza Affari, allora tra qualche mese dimenticheremo tutto, e ci ritufferemo nel doping del consumo. Aspettando la prossima crisi.

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Tre aspetti della crisi finanziaria

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pubblicato in: BENECOMUNE.NET

Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma se non gestite e regolate da istituzioni adeguate e forti fanno precipitare quelle stesse comunità nel caos.

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Economia e Sviluppo sostenibile

Tre aspetti della crisi finanziaria di Luigino Bruni pubblicato in: BENECOMUNE.NET Le culture umane hanno da sempre sperimentato e conosciuto che la libido dell’eros e la libido del denaro sono due forze molto simili: sono essenziali per la vita e per la crescita delle comunità, ma se non gesti...
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Dopo sette anni di «distrazione» seguiti all’11 settembre, ci accorgiamo che c’erano un’altra «guerra» e un’altra «sicurezza» non meno gravi da affrontare

di Luigino Bruni

pubblicato su www.missionline.org

Ciò che l'attuale crisi finanziaria sta mostrando è la radicale vulnerabilità del capitalismo di terza generazione. Le crisi come questa sono la regola, non l'eccezione del capitalismo finanziario, soprattutto oggi quando la globalizzazione amplifica gli effetti. Instabilità e fragilità sono l'altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai cento dollari di reddito reale di diventare mille e oltre, senza alcun rapporto tra quel denaro e il lavoro umano.

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Dovremo abituarci a situazioni come questa? Temo di sì, almeno fino a quando questo capitalismo non evolverà in qualcosa di diverso. Nel breve periodo, però, è necessario riaprire una riflessione profonda sul capitalismo, non solo economica, ma anche politica e culturale.

Alla fine degli anni Novanta la coscienza civile globale stava maturando la convinzione che il capitalismo richiedesse una diversa e più attenta governance. La Tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha svolto una funzione di catalizzatore di un processo sociale che con il G8 di Genova (luglio 2001) raggiunse il suo massimo. L'11 settembre, poi, ha però deviato per anni l'attenzione della società civile internazionale sui temi della sicurezza e del terrorismo.

Ora, dopo setti anni di «distrazione», improvvisamente stiamo prendendo coscienza che c'erano un'altra «guerra» e un'altra «sicurezza» non meno gravi e urgenti dei controlli-passeggeri agli aeroporti. Questa crisi attuale ci sta dunque dicendo drammaticamente che il «capitalismo finanziario» richiede una nuova Bretton Woods. Speriamo solo che questi nuovi accordi stavolta siano democratici, che tengano conto seriamente di Africa, Asia e Sud America.

Dietro questa crisi c'è anche una crisi morale, che riguarda il nostro rapporto con i beni e gli stili di vita. L'indebitarsi oltre le possibilità di reddito è una forma di doping simile a quella di cui sono preda i «giocatori d'azzardo» della finanza. Indebitarsi per vacanze esotiche o case di lusso può essere un atto simile a quello di Pinocchio che segue i consigli del Gatto e la Volpe. La banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste.
Un'ultima considerazione. Chi in questi anni ha fatto investimenti etici (in Banca Etica, ad esempio, o nelle banche cooperative) oggi si ritrova con un risultato al tempo stesso etico, economicamente vantaggioso e molto sicuro. Questa crisi sta rimettendo in discussione il sistema degli incentivi e dei valori in gioco, anche puramente economici. Come è avvenuto tante volte nella storia, un cambiamento climatico può determinare l'estinzione di grossi mammiferi e lo sviluppo di organismi più piccoli e agili, che nel precedente clima apparivano svantaggiati.

Se questa crisi può servire a dar vita ad un nuovo patto sociale planetario per una economia più etica e aperta alla gratuità, allora sarà stata una felix culpa. Se invece guardiamo nelle nostre comode case i dibattiti televisivi sulla crisi, alternando le notizie sui crolli della Borsa all'attesa per le colossali vincite all'Enalotto, convinti che la colpa sia solo dei cattivi Gatto e Volpe di Wall Street, tra qualche mese dimenticheremo tutto, e ci ritufferemo nel doping del consumo. Aspettando la prossima crisi.

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Dopo sette anni di «distrazione» seguiti all’11 settembre, ci accorgiamo che c’erano un’altra «guerra» e un’altra «sicurezza» non meno gravi da affrontare

di Luigino Bruni

pubblicato su www.missionline.org

Ciò che l'attuale crisi finanziaria sta mostrando è la radicale vulnerabilità del capitalismo di terza generazione. Le crisi come questa sono la regola, non l'eccezione del capitalismo finanziario, soprattutto oggi quando la globalizzazione amplifica gli effetti. Instabilità e fragilità sono l'altra faccia di un modello di sviluppo che consente ai cento dollari di reddito reale di diventare mille e oltre, senza alcun rapporto tra quel denaro e il lavoro umano.

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Un nuovo patto per l'economia globale

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Il filosofo e giornalista Armando Massarenti ha sostenuto sul Domenicale del Sole24ore del 10 agosto che per un atleta che oggi voglia emergere ha come unica scelta razionale quella del doping. E raggiunge questa conclusione citando la teoria dei giochi, e la razionalità economica.

pubblicato su Benecomune.net il 10/08/2008

Il filosofo e giornalista Armando Massarenti ha sostenuto sul Domenicale del Sole24ore del 10 agosto che per un atleta che oggi voglia emergere ha come unica scelta razionale quella del doping, un articolo commentato poi dal Prof. D'agostino su Avvenire (13 agosto).

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Massarenti raggiunge questa conclusione citando la teoria dei giochi e la razionalità economica. Questa tesi la incontriamo spesso su giornali e riviste, ma nasconde alcuni equivoci di fondo. Innanzitutto occorre dire che la ricetta che Massarenti avanza (aumentare le sanzioni) è ottima. Ma bisogna aggiungere che la teoria dei giochi non dà alcun supporto scientifico alla tesi, ripresentata da Massarenti, relativa all'uso del doping da parte degli atleti.

Il "gioco" cui Massarenti si riferiva nella sua nota è il famoso (e spesso abusato) Dilemma del Prigioniero. Una versione di tale gioco dice che se è certo, o altamente probabile, che il mio avversario (l'atleta, nella fattispecie) defezioni (usi il doping), la mia scelta razionale è fare altrettanto (doparmi).
Ma, e qui sta il punto, questa soluzione del gioco è razionale solo sotto condizioni molto esigenti e particolari.

Soprattutto occorre che si realizzino tre ipotesi molto "forti".

  • La prima ipotesi consiste nel supporre che a me (atleta) che gioco con l'atleta dopato interessino solo gli incentivi materiali (successo, denaro ...), e non altre forme di remunerazioni di tipo etico. In realtà sappiamo (e queste olimpiadi ce lo stanno dicendo) che ci sono tanti atleti che non si dopano, anche in un ambiente dove è probabile che altri concorrenti lo possano fare, perché attribuiscono un valore intrinseco alla performance sportiva, alla "vocazione", e non solo agli incentivi monetari (le splendide parole della Vezzali dopo il suo oro dicono proprio questo).
  • La seconda ipotesi è ancora più forte: occorre che il gioco non si ripeta, cioè che i giocatori si incontrino una volta sola. Infatti la soluzione "non-cooperativa" del Dilemma del Priogionero (doparsi) non è più vera se esiste una certa probabilità che il gioco si possa ripetere (la teoria dei giochi lo ha dimostrato da più di 40 anni). Lo sport per un atleta è sempre un gioco ripetuto, dove gli atleti si incontrano tante volte, e in questo contesto la teoria economica non dimostra nessuna "razionalità" per il doping; anzi, potremmo utilizzare la stessa teoria dei giochi per dimostrare esattamente il contrari.
  • La terza ipotesi è ritenere che la scelta di barare in una gara sportiva possa essere descritta come un gioco del "tipo dilemma del prigioniero". Ho molti dubbi a riguardo.

Per queste ragioni e per altre è quindi teoricamente errato applicare la teoria dei giochi a sostegno della razionalità del doparsi nello sport. Far ricorso ad una scienza per dimostrare la razionalità di una prassi è sempre operazione molto delicata, che per essere fatta è necessario tener ben presenti le ipotesi che sono sottese ad una teoria. Altrimenti non si fa un buon servizio né alla prassi, né alla teoria, né ad un giovane che con una vocazione sportiva si avvicina ad uno sport. arrow.gif

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Per vincere non serve il doping

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Oggi, 14 marzo 2012 ricorre il 4° anniversario della morte di Chiara Lubich, ideatrice nel 1991 del progetto Economia di Comunione. Per ricordarla riportiamo l’articolo-lettera di Luigino Bruni a lei diretta e pubblicata su Città Nuova, il 25 marzo 2008, inedita per il sito Edc

 di Luigino Bruni

Chiara_Lubich_3_rid_sx"Carissima Chiara, prima di tutto, grazie a nome dei poveri, degli imprenditori, dei lavoratori di tutta l'Economia di Comunione: con la tua intuizione del 1991 hai aperto a tutti noi una via di felicità, di libertà e di giustizia all'interno delle ordinarie faccende economiche.

L'economia è uno degli ambiti nei quali il tuo carisma ha portato più frutti. Gli hai dedicato grande attenzione, tempo, energie, amore. Hai dato vita ad una economia nuova a partire dai poveri, da quei figli tuoi che hai visto nelle favelas di San Paolo, che ti hanno ispirato la comunione come via all'economia, come via normale, per tutti.

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Molti carismi lungo la storia della Chiesa hanno prodotto effetti nell'ambito economico (Benedetto, Francesco, Ignazio...), ma il tuo carisma non ha dato vita solo ad importanti opere economiche, esso ha generato, e continua a generare, effetti anche nella teoria economica. Se oggi nel dibattito scientifico e culturale si incontrano le espressioni beni relazionali, gratuità, reciprocità incondizionale, comunione, agape ecc., questo lo dobbiamo a te, che hai ispirato, con la tua azione e con il tuo pensiero, queste nuove parole.

Ora ti posso dire che nella mia attività di studioso non avrei avuto alcuna idea originale senza il continuo rapporto con te, che sei stata la mia continua fonte di ispirazione, anche nel lavoro più propriamente scientifico. Avevo appena compiuto trent'anni quando mi telefonasti a Londra per chiedermi di venire a Roma ad aiutarti a dare, con altri splendidi compagni di viaggio, dignità scientifica all'Economia di Comunione. In realtà mi accorsi subito che la dignità era ben più alta di quella scientifica, e gliela avevi data tu, fondandola sull'amore ai poveri di cui parla il Vangelo. Questi dieci anni di lavoro con te nella Scuola Abbà e nell'Economia di Comunione sono stati per me l'esperienza più entusiasmante della mia vita, sotto il profilo intellettuale e quello umano, un'esperienza che mi hai donato gratuitamente, senza alcun merito, come i veri doni che ci cambiano perché non li aspettiamo né meritiamo.

Tre sono state le cose che più mi si sono impresse nell'anima e nella mente in questi anni con te.
La prima: grazie a te ho capito che cos'è un carisma, e il ruolo che non solo il tuo carisma, ma ogni autentico carisma, svolge nella vita civile ed economica. Ho capito che dove è all'opera un carisma esiste vera gratuità e vera libertà, perché si agisce mossi da una vocazione interiore.

La seconda: mi hai insegnato, con la tua vita, che non si può fare alcuna esperienza autenticamente intellettuale se le teorie e i pensieri che si comprendono e si scrivono non diventano la vita di chi li elabora e li scrive. Alla tua scuola ho capito che se volevo contribuire ad una teoria economica di comunione la cosa davvero importante, e anche quella più impegnativa, che dovevo fare era diventare giorno dopo giorno una persona di comunione in tutti gli ambiti della mia vita. Lavorando fianco a fianco a te ho scoperto che non è possibile scrivere e parlare di dono, di comunione, di gratuità senza essere dono, comunione, gratuità. Mi hai fatto vedere che la vita è più grande e precede ogni concetto. E solo la vita salva davvero, noi e gli altri.

Infine, Chiara, mi hai fatto scoprire il significato profondo della ricchezza e della povertà. Mi hai fatto capire che il bene più prezioso è sempre il rapporto con Dio e con le persone, l'amore scambievole, Gesù tra noi: senza rapporti di reciprocità nessun bene diventa ben-essere, e anche quando i beni sono scarsi e minacciati, l'amore scambievole non lascia mai indigenti. Solo la comunione è via di felicità piena, una felicità che arriva solo quando ci si dimentica di sé stessi e ci si dona agli altri, nella reciprocità.

È questa felicità che ho cercato di raccontare anche con i miei studi. Da un carisma dell'unità che nasce dal grido di abbandono di Gesù in croce, sta ora nascendo anche una teoria economica relazionale particolarmente idonea a studiare e trovare risposte (una Economia di Comunione) alle nuove povertà di oggi e di domani, che nascono da solitudini e da indigenze di rapporti improntati alla gratuità. È questa la logica dei carismi che ci hai rivelato, doni della Provvidenza per rendere, in un determinato periodo storico, il giogo del vivere soave. Il tuo carisma ci sta donando nuovi occhi per vedere le nuove carestie e i nuovi beni relazionali, e edificare una economia della persona e dell'amore, un'economia mariana.

Il lavoro che ci sta di fronte è grande, ce lo hai sempre ricordato: ma l'inizio è stato meraviglioso, luminosissimo, mi ha lasciato senza fiato. Per questo e per tutto ciò che sei stata per me, per gli economisti, per gli imprenditori e per i lavoratori..., e soprattutto per i poveri: grazie Chiara!

Città Nuova, N.7/2008 

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Oggi, 14 marzo 2012 ricorre il 4° anniversario della morte di Chiara Lubich, ideatrice nel 1991 del progetto Economia di Comunione. Per ricordarla riportiamo l’articolo-lettera di Luigino Bruni a lei diretta e pubblicata su Città Nuova, il 25 marzo 2008, inedita per il sito Edc

 di Luigino Bruni

Chiara_Lubich_3_rid_sx"Carissima Chiara, prima di tutto, grazie a nome dei poveri, degli imprenditori, dei lavoratori di tutta l'Economia di Comunione: con la tua intuizione del 1991 hai aperto a tutti noi una via di felicità, di libertà e di giustizia all'interno delle ordinarie faccende economiche.

L'economia è uno degli ambiti nei quali il tuo carisma ha portato più frutti. Gli hai dedicato grande attenzione, tempo, energie, amore. Hai dato vita ad una economia nuova a partire dai poveri, da quei figli tuoi che hai visto nelle favelas di San Paolo, che ti hanno ispirato la comunione come via all'economia, come via normale, per tutti.

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Grazie per i poveri e gli imprenditori

Oggi, 14 marzo 2012 ricorre il 4° anniversario della morte di Chiara Lubich, ideatrice nel 1991 del progetto Economia di Comunione. Per ricordarla riportiamo l’articolo-lettera di Luigino Bruni a lei diretta e pubblicata su Città Nuova, il 25 marzo 2008, inedita per il sito Edc  di Luigino Bru...