stdClass Object ( [id] => 1968 [title] => Riflessioni sull’articolo “Un giubileo per l’Italia” [alias] => riflessioni-sullarticolo-un-giubileo-per-litalia [introtext] =>Pierluigi Porta è ordinario di Economia Politica all'Università Milano Bicocca. La Storia del Pensiero Economico è uno dei suoi ambiti di ricerca preferenziali. Da qui parte la sua riflessione.
di Pier Luigi Porta
L’intervento di Luigino Bruni sulla presente crisi riveste grande importanza. Siamo in presenza di una riflessione seria, da parte di un giovane economista di livello internazionale, su quel che è andato storto (oltre che in materia di politica economica) anche proprio a partire dallo sviluppo dell’insegnamento e dalla ricerca in economia politica.
[fulltext] =>Qui vorrei brevemente richiamare è il fatto che le derive e i pericoli ai quali è esposta la direzione di marcia della ricerca economica – derive e pericoli che Bruni illustra con rara efficacia – non sono affatto novità assolute. La storia della economia politica, dalla sua ascesa nella modernità sino alla contemporaneità – è ricchissima di esempi in proposito.
La differenza rispetto al passato è che oggi è aumentato il numero degli economisti, si è ridotta la loro distanza dai centri di potere, e soprattutto è enormemente cresciuta da parte degli economisti quella che uno dei massimi pensatori del Novecento (economista anch’egli) chiamava la ‘pretesa del sapere’.
In particolare la finanziarizzazione crescente delle economie è un fenomeno assai complesso. Consentitemi qui di soffermarmi su alcuni aspetti che sono connessi con l’esito della finanziarizzazione e che riflettono al tempo stesso problematiche importanti non eliminabili. Ci sono campi nei quali è urgente fare qualcosa perché c’è di mezzo la necessità di provvedere con strutture e istituzioni sostenibili a soddisfare esigenze sociali fondamentali.
Benessere sociale. La preoccupazione e la attenzione per il benessere sociale è un fatto che accompagna la economia politica in tutte le sue forme fin dall’inizio dell’epoca moderna tra il Cinque- e il Settecento. Possiamo qui ricordare che, anche nella economia neoclassica e marginalista di fine Ottocento, incominciano a essere discussi a fondo criteri di valutazione del benessere sociale e conseguentemente si discutono le possibili politiche. Autori come Vilfredo Pareto, Knut Wicksell, Arthur Cecil Pigou danno contributi fondamentali alla nascita della moderna economia del benessere. Al tempo stesso quel che noi oggi chiamiamo lo ‘stato sociale’ acquista forma come componente delle politiche del primo Reich in Germania, finchè più tardi (in questo dopoguerra) sarà soprattutto William Beveridge a sviluppare la filosofia del welfare state. Negli anni successivi nasce in economia una nuova analisi del benessere che incrocia le sue strade con la teoria della giustizia e mostra ancora una volta la necessità di aprire l’analisi economica verso altre polarità concettuali. L’enfasi sulla giustizia distributiva in particolare è riflessa anche da più recenti sviluppi della teoria della giustizia di John Rawls. Una recentissima sintesi sulla teoria della giustizia è fornita dall’ultimo libro dell’economista Amartya Sen, con una impostazione che va oltre la concezione di Rawls.Oggi c’è un grosso problema: ci troviamo cioè di fronte alla tentazione di smantellare il welfare state nella concezione di Beveridge per sostituire ad esso un’ampia gamma di istituti di finanza assicurativa e previdenziale. Si passerebbe in questo modo da un sistema pubblico difficilmente sostenibile a un sistema privato fonte di crescente instabilità finanziaria. E’ di fronte a simili problemi che oggi occorre riscoprire i termini della economia civile di tradizione italiana (come hanno suggerito Luigino Bruni e Stefano Zamagni in un noto volume) basata sulla più ampia mobilitazione di risorse umane e personali.
Siamo di fronte allora alla necessità di elevare a livello costituzionale molti dei presupposti e dei principi di funzionamento della economia civile. In questo ambito l’opera di Amartya Sen è certamente un punto di riferimento: ma anche la tradizione italiana di pensiero economico non è affatto secondaria. Un economista come Luigi Pasinetti ha recentemente portato l’attenzione su una interpretazione ‘forte’ della scuola di Cambridge, così da leggervi uno degli esempi più rilevanti di ripresa del pensiero economico classico e soprattutto del sistema economico e filosofico di Adam Smith. La dinamica strutturale di Luigi Pasinetti è oggi una delle punte avanzate della analisi economica della crescita. Parliamo qui, con Pasinetti e con Sen, di economisti e intellettuali di altissimo livello che si muovono su un terreno decisamente più elevato, fatto proprio anche da Bruni, rispetto ai terreni coltivati oggi dalla pletora degli economisti del mainstream o della ‘scienza normale’.
Debito pubblico. A partire dal 17° secolo, che può essere considerata l’epoca della invenzione dei debiti pubblici, gli economisti hanno in generale avuto un atteggiamento negativo nei confronti della finanziarizzazione apportata con l’introduzione di tale strumento. Il problema del debito pubblico viene immediatamente percepito (storicamente) come un aggiramento del ‘corretto’ rapporto tra sovrano o repubblica e sudditi o cittadini: David Hume, il grande filosofo, fu anche autore di importanti saggi economici, in uno dei quali parlava (a proposito del debito pubblico) di “ruinous expedient”. Anche Adam Smith fu altrettanto negativo. Si potrebbe mostrare che gli enormi disastri apportati tra Sei- e Settecento dalla euforia finanziaria furono tali e tanti da scoraggiare a lungo (quasi fino ai nostri giorni) una valutazione positiva di processi di finanziarizzazione.Tutti questi atteggiamenti hanno subito rilevanti modifiche nel secolo XX con autori come Schumpeter (il teorico della simbiosi tra banca e industria) e soprattutto con l’avvento della economia keynesiana. Sono modificazioni importanti che, da un lato riconfermano le patologie degenerative dei processi di finanziarizzazione, ma al tempo stesso tengono conto delle esigenze concrete di sistemi economici dinamici. Una lezione importante è che l’eccesso di rigore è spesso la peggiore garanzia e si trasforma facilmente in generatore del suo contrario.
Esperienza europea. Questa ultima osservazione ci conduce direttamente al cuore del maggiore e più serio problema che rischia di compromettere il funzionamento della costruzione europea. E’ un elemento che, nel quadro della crisi attuale, si aggiunge ai fattori di rischio legati ai processi di finanziarizzazione e determina difficoltà aggiuntive per i paesi che hanno adottato la moneta unica europea.
Si è spesso guardato alla esperienza europea come a una strada nuova aperta verso la formazione di uno Stato federale. Tuttavia gli studi e la pratica convergono oggi nel dimostrare che l’idea di una Costituzione europea trova forti ostacoli. Una illustrazione di tali problemi può essere ricavata ad esempio dal volume Diritti e costituzione nell’Unione europea, curato nel 2003 da un illustre giurista come Gustavo Zagrebelski.Un problema speciale è posto dalla avvenuta unificazione monetaria. La creazione dell’Euro viene sempre più interpretata come una applicazione di un supposto ‘ideale’ di moneta senza Stato. Essa quindi agisce nel senso di escludere la prospettiva stessa di una unità politica a livello europeo. In realtà questa esclusione non discende affatto da una necessità di logica economica. Anzi in sede economica, proprio gli sviluppi della crisi attuale rendono sempre più evidente che il problema del coordinamento delle politiche fiscali in Europa non può dirsi risolto positivamente finchè resta legato soltanto ad automatismi sanciti da trattati inter-europei che hanno la natura di trattati internazionali. Si è così dato vita a un complesso sistema di vincoli, apparentemente rigidissimi (di una rigidità tutta tedesca come qualcuno dice), che poi non di rado viene criticato per scarsa trasparenza e per dar luogo a una condizione di deficit democratico.
Già vi sono molti dubbi sulla possibilità di sopravvivenza politica di una unione di stati (come è l’Unione europea) sul piano della politica internazionale e della difesa: questi dubbi sussistono e si rafforzano se si guarda anche alla prospettiva economica. Infatti il conflitto tra uniformità della politica monetaria e difformità delle politiche fiscali si è già trasformato in uno dei maggiori problemi del presente e del prossimo futuro. Questo conflitto conduce in pratica a un sistema che non possiede sufficiente flessibilità per affrontare situazioni di difficoltà e di crisi, come già si è reso palese nella crisi presente.
Anche gli assetti effettivi e potenziali della economia civile ne possono soffrire perché, in assenza di un consenso costituzionale a livello europeo, diventa più difficile dare una articolazione sufficientemente incisiva del principio di sussidiarietà che, a parole, rappresenta uno dei punti fondamentali della esperienza europea.
In definitiva è una pericolosa scorciatoia quella di garantire il rigore monetario e fiscale con strumenti puramente tecnici senza affrontare il problema a livello politico. Anche qui l’economia civile oggi può offrire, anche sulla base della esperienza maturata, importanti elementi di riflessione per un assetto costituzionale sufficientemente ‘ricco’ e al tempo stesso flessibile per affrontare i maggiori problemi della società contemporanea.Uno dei maggiori problemi politici oggi è dato dal fatto che l’esperienza della uscita dall' epoca dello statalismo è stata in generale mal governata, proprio per la mancanza di indirizzi economici sufficientemente realistici e adeguatamente articolati. Per questo genere di problemi, il livello politico-costituzionale acquista rilievo fondamentale e l’Unione europea non dovrebbe mancare l’appuntamento.
Questi sono soltanto alcuni esempi di problemi urgenti e non risolti, soprattutto perché la saggezza convenzionale (soprattutto tra gli economisti) ancora li imposta secondo direttrici pericolosamente esposte a divenire fattori di degenerazione finanziaria. A differenza di quanto accadde ai tempi della grande depressione (quando peraltro furono commessi altri tipi di errore), nel caso presente si è fatto ancora troppo poco per tagliare le unghie alla finanziarizzazione spinta. Gli stress tests non bastano. Ma il grosso dei commentatori non ardisce contrastare la saggezza convenzionale e, con pochissime eccezioni, si trastulla e si autocompiace appoggiandosi acriticamente alla intrinseca supposta efficienza dei mercati.La ricerca economica si espande e si affina, reclama risorse e produce sempre di più. Purtroppo si tratta in larga misura di ‘scienza normale’ (nel senso di Thomas Kuhn) che opera all’interno di un paradigma, come un branco di allegri bevitori che si gode le più belle giornale all’interno di una nave in avaria. A nessuno viene in mente di sporgere il naso all’esterno. Come Kuhn stesso aveva previsto, la scienza normale prolifera in forma sempre più rapida, ramificata ed estesa, così da render sempre più duro il lavoro di estirpare e guarire (con quelle che Kuhn chiamava le ‘rivoluzioni scientifiche’).
C’è da augurarsi che le riflessioni di Luigino Bruni possano contribuire a portare aria nuova in un dibattito sulla crisi attuale che si sta avvitando su se stesso.
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pubblicato su generativita.it il 24/07/2011
“L’economia politica è impopolare presso il grosso pubblico. La guerra, il dopoguerra e la crisi hanno dato tanti e tali smentite a previsioni in apparenza rigorosamente scientifiche, avanzate da economisti, e non c’è da stupirsi se qualche profano abbia potuto credersi autorizzato a proclamare la bancarotta dell’Economia politica.
[fulltext] =>Ond’è che talora avviene che gli economisti devono prendere posizione contro la falsa notizia della morte della loro scienza. Alle voci, certo calunniose, non fa difetto un’attuante. Perché infatti molti economisti hanno peccato d’immodestia. Alla vigilia stessa della guerra mondiale, troppi hanno proclamato, a nome delle leggi economiche, che la guerra non poteva farsi, o che la se la si poteva fare, le forze vive delle nazioni si sarebbero entro stretto limiti di tempo esauriti. Ciononostante, la guerra fece il suo corso per molti anni, smentendo ed esaurendo i suoi negatori. Ai primordi della crisi economica, poi, altri economisti non si sono peritati di dichiarare in base ad una fallace scienza della congiuntura, che la crisi non poteva scoppiare o che scoppiano sarebbe stata presto domata”.[1]
C’è un aspetto bizzarro nei dibattiti che hanno fatto seguito alla crisi di questi ultimi anni, dalla quale siamo bel lungi dall’esserne usciti: si mettono in discussione regole, leggi, controlli del mercato finanziario, ma non si parla più seriamente di mettere in discussione seriamente la sola cosa veramente importante: il sistema economico capitalistico, e con esso la natura e la giustificazione etica del profitto. Dopo Pasolini o Don Milani, sembra che nei nostri intellettuali manchi la statura morale e il coraggio delle idee per immaginare un “oltre” a questo capitalismo, e alle tante parole logore delle ideologie, di destra e di sinistra, laiche o cattoliche. Ci si limita, così, tutti, a parlare più innocuamente del bisogno di una economia più etica (sperando che qualcuno ci spiegherà un giorno che cosa questa frase significhi veramente e seriamente: è l’etica del lupo o quella dell’agnello? L’etica dei titolari dei titoli di stato o quella degli immigrati?), di impresa socialmente responsabile, di non profit e di filantropia, tutti fenomeni che, a guardarli bene, non solo non mettono in discussione il nostro sistema economico, ma sono ad esso funzionali e necessari.
Sono invece convinto che occorra osare di più. C’è bisogno che gli intellettuali, gli economisti e gli scienziati sociali tornino a fare il loro mestiere di critici della società, anche della loro e della nostra. Il capitalismo è la forma che l’economia di mercato ha preso un paio di secoli fa in Europa e in Nord America, e come tutte le realtà storiche, è destinato ad evolvere in altro. E se lo guardiamo da vicino ci accorgiamo che di capitalismi ne abbiamo avuti già diversi, e quello tecnocratico e finanziario che stiamo conoscendo oggi è già ben diverso da quello di fine ottocento, dal capitalismo sociale europeo del secondo dopoguerra, ma anche da quello precedente alla globalizzazione dei mercati. In queste diversi fasi che il sistema economico che possiamo chiamare capitalismo ha attraversato c’è un elemento che è rimasto pressoché costante e preso come un dato di natura (se si eccettuano alcuni momenti del dopoguerra europeo e italiano), vale a dire che lo scopo dell’impresa sia e debba essere la missimizzazione del profitto, e che questo profitto, una pagate le tasse, confluisca nelle tasche capienti degli azionisti. Come se sia naturale e eticamente irrilevante che la gran parte del valore aggiunto che creano le imprese diventi proprietà dei soli azionisti dell’impresa. In realtà ci sono stati e ci sono movimenti di pensiero e di azioni che hanno sfidato il dogma del profitto. Il movimento cooperativo, parte della Dottrina Sociale della Chiesa, movimenti socialisti, la Teologia della liberazione, il movimento Gandhiano, e oggi parte dell’economia sociale, di comunione o solidale nel mondo (soprattutto in America Latina), ma tali movimenti o hanno perso la capacità di presentarsi come sistema economico alternativo, o sono talmente ridotti nelle loro dimensioni da non impensierire il sistema economico dominante, i cui protagonisti spesso semplicemente ignorano anche la sola esistenza di queste reali o sedicenti alternative. Il Novecento, almeno fino agli anni Settanta, ha vissuto una stagione di grande fermento sociale e ideologico, e non solo per la presenza di interi Paesi ad economia non capitalistica, ma anche per la presenza, nel seno delle economie capitaliste, di forme di economia non-capitalistica che hanno cercato di far evolvere l’economia di mercato su traiettorie diverse. Oggi, a distanza di qualche decennio, dobbiamo riconoscere che questi tentativi non-capitalistici all’interno del sistema capitalistico sono stati riassorbiti e stanno progressivamente perdendo i tratti di proposta alternativa. Basti pensare al modello cooperativo, che nei suoi fondatori doveva seriamente rappresentare un’alternativa sistemica all’impresa privata, e che oggi, tranne rare e luminose eccezioni (come parte delle imprese sociali in Italia, ad esempio), è divenuto troppo simile alle banche, supermercati e aziende agricole capitalistiche. Certo, senza le esperienze storiche del movimento cooperativo oggi l’economia “normale” sarebbe meno etica ed umana, poiché si è verificato in vari modi una contaminazione di valori e di umanità; ma la contaminazione che ha agito nella direzione opposta (ogni contaminazione tra organismi viventi è sempre reciproca) è stata più forte e penetrante, e oggi sono più i supermercati coop ad assomigliare ai supermercati delle multinazionali for-profit che non viceversa, e di gran lunga.
Eppure tra le righe sta emergendo con forza una stagione di disagio nei confronti della diseguaglianza nella distribuzione del reddito (l’economia capitalistica aumenta, non riduce, le diseguaglianze: oggi questo è dato empirico, non ideologico), nei confronti degli stipendi milionari di top manager, dei grandi privilegi che consentono gli alti profitti di pochi. Per poter però rispondere adeguatamente a queste nuove domande, c’è bisogno di lavoro teorico e culturale, di ritornare a porre questioni profonde e difficili sull’impresa, sul profitto, sul sistema capitalistico.
Occorre allora ripartire innanzitutto dalla domanda: ‘che cosa è il profitto?’. Se ci limitiamo soltanto all’ambito dell’economia reale (tralasciando la discussione sulla natura dei “profitti” delle speculazioni), possiamo affermare che il profitto è la parte di valore aggiunto generato dall’attività d’impresa che viene attribuita ai proprietari o agli azionisti, a quelli che una volta si chiamavano i capitalisti. Il profitto quindi non è l’intero valore aggiunto, ma solo una parte; e chi se ne appropria non è necessariamente l’imprenditore, ma il capitalista (occorre ricordare che anche in Marx il conflitto radicale non è tra imprenditore – figura ancora poco stagliata nell’Ottocento – e operai, ma tra capitalista e lavoratori). Facciamo un esempio. Un’impresa A produce automobili, trasformando acciaio, plastica, gomma, componenti elettronici, … in un prodotto finito che chiamiamo “auto”. Supponiamo che la somma dei costi di produzione di A per produrre un’auto sia pari a 10. Se l’impresa A vende un’auto al prezzo di 30, il profitto non è evidentemente pari a 20 (30-10). Tra i costi mancano ancora importanti elementi, tra i quali uno cruciale è il costo del lavoro. Se supponiamo che il costo del lavoro sia 8 (per ogni auto), e che gli altri costi (oneri finanziari, ammortamenti …) siano pari a 3, il profitto lordo (prima delle imposte) sarebbe pari a 9. Se l’impresa paga poi imposte per 4, ecco allora che il profitto netto diventa 5.
A questo punto nascono almeno due domande. La prima: da dove nasce, e da cosa dipende, questo profitto?
La storia del pensiero economico è anche una storia delle diverse teorie sulla natura del profitto. Schumpeter, ad esempio, cento anni fa sosteneva che il profitto fosse il “premio dell’innovazione” dell’imprenditore, è cioè la remunerazione della capacità innovativa dell’imprenditore. Marx, mezzo secolo prima di lui, aveva invece affermato che il profitto non è altro che un furto che i capitalisti fanno nei confronti dei lavoratori, poiché l’unica vera sorgente del valore aggiunto è il lavoro umano, in particolare di quello dei lavoratori i soli capaci di creare un plus valore dei beni – una linea di pensiero che va da Aristotele ai Padri della Chiesa, da Proudhon a Marx. Oggi sappiamo che nel valore aggiunto ci sono tante cose, tra le quali certamente la creatività dell’imprenditore (e dei managers), ma anche il lavoro di tutti gli altri attori dell’impresa (che certamente contribuisce al valore dei beni per un valore maggiore rispetto al solo costo di salari e stipendi), le istituzioni della società civile, la cultura tacita di un popolo (come di ricorda Giacomo Becattini a proposito dei distretti industriali), la qualità dei rapporti famigliari nei quali crescono i bambini nei primi anni di vita (come ci ha mostrato il Premio Nobel James Heckman): ciò che comunque è certo che in quel “5” di profitti non c’è solo il ruolo creativo dei proprietari dei mezzi di produzione dell’impresa, ma c’è molto di più, un ‘di più’ che ha a che fare con la vita dell’intera impresa e collettività.C’è anche questa consapevolezza dietro all’articolo 41 della Costituzione italiana, quando dichiara la “funzione sociale” dell’impresa, una funzione che è anche una natura sociale dell’impresa e del profitto. Una cosa è comunque certa: se l’impresa A vende le auto a 30, e 5 sono i profitti, in un ipotetico mondo “non profit” (cioè con profitti 0) le auto costerebbero 25 invece di 30 (o ancora meno, se ipotizziamo che i profitti non sono soltanto 5 ma 15 o 20 o 2000, come le vicende del recente capitalismo finanziario ci mostrano).
In altre parole, i profitti delle imprese sono anche una forma di tassa sui beni acquistati dai cittadini che riducono il benessere collettivo della popolazione. Ecco perché una “economia non-profit” è stata spesso desiderata, sognata, e in certi momenti storici realizzata su piccola o vasta scala, sebbene creando spesso danni maggiori dei problemi che si volevano risolvere, come nel caso degli esperimenti collettivisti del XX secolo. Questi esperimenti collettivisti non hanno funzionato per tante ragioni, e tutte molto profonde, ma una di queste ragioni si è rilevata decisiva, l’esserci cioè resi conto che quando si toglie quel “5” e lo si socializza, chi deve dar vita ad imprese (lo Stato o i privati) non si impegnano più, o non abbastanza e per lungo tempo, nell’innovare e nel lavorare, e la ricchezza, non solo economica, della nazione diminuisce, ci si impoverisce e sparisce anche quel valore (5) che si vorrebbe socializzare. Eloquente è a questo riguardo un passaggio di uno dei fondatori dell’economia neoclassica, l’italiano Maffeo Pantaleoni, il quale in uno scritto dei primi del Novecento sfidava “gli ottimisti” a dimostrare che le motivazioni che portano “gli spazzini a spazzare le strade, la sarta a fare un abito, il tramviere a fare 12 ore di servizio sul tram, il minatore a scendere nella mina, l’agente di cambio ad eseguire ordini, il mugnaio a comperare e vendere il grano, il contadino a zappare la terra, etc. [fossero] l’onore, la dignità, lo spirito di sacrificio, l’attesa di compensi paradisiaci, il patriottismo, l’amore del prossimo, lo spirito di solidarietà, l’imitazione degli antenati e il bene dei posteri [e non] soltanto un genere di tornaconto che chiamasi economico”.[2] Al tempo stesso, questa grande crisi che stiamo vivendo ci sta dicendo che l’economia fondata sui profitti e sulla speculazione è altrettanto insostenibile. Che fare allora?
Quanto sta oggi accadendo nell’ambito della cosiddetta economia civile o sociale, nella grande tradizione cooperativa o nell’Economia di comunione, può essere letto in due modi, molto diversi tra di loro. Una prima lettura, minimalista e conservatrice, legge l’economia sociale come il “tappabuchi” del sistema capitalistico: l’impresa normale for-profit non riesce ad occuparsi dei “vinti” che restano lungo la strada (nel linguaggio di Giovanni Verga), e occorre qualcun altro che oggi svolga la funzione che la famiglia e le chiese hanno svolto nel passato. È la logica del 2%, che lascia intatto il restante 98% (economia for profit), poiché non mette in discussione i rapporti di produzione nella società. C’è invece un’altra lettura di questo movimento di economia civile: immaginare, per ora su piccola scala, un sistema economico dove il valore aggiunto, economico e sociale, venga distribuito tra tanti (e non solo agli azionisti), senza però che gli imprenditori e i lavoratori, “i tramvieri e gli spazzini” non si impegnino più per mancanza di incentivi, per evitare di cadere negli stessi problemi delle economia collettiviste e socialiste.
La scommessa più radicale e seria della economia di mercato che ci attende sarà allora mostrare una nuova stagione di imprenditori (singoli individui ma anche comunità di imprenditori) che sono motivati da ragioni più grandi del profitto. L’ultima fase del capitalismo (che potremmo chiamare finanziario-individualista) nasce da un pessimismo antropologico, che in realtà risale almeno ad Hobbes: gli esseri umani sono troppo opportunisti e auto-interessati per pensare che possano impegnarsi per motivazioni più alte del tornaconto (come il bene comune). Non possiamo però lasciare a questa sconfitta antropologica l’ultima parola sulla vita in comune: abbiamo un dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi uno sguardo più positivo sul mondo e sull’uomo. Ma perché tutto ciò non resti scritto sulla carta ma diventi vita, occorre un nuovo umanesimo, una nuova stagione educativa dove ci si educhi tutti, giovani bambini e adulti, ad una economia della condivisione creativa, dove si producano più beni collettivi, sociali, ambientali e relazionali.
Gli illuministi italiani del Settecento avevano capito e posto in cima all’agenda di riforma dell’Italia che la felicità è pubblica, perché o è di tutti o non è di nessuno. Oggi ci stiamo accorgendo, e pagando a caro prezzo, quando quella profezia settecentesca fosse vera, quando le sfide ambientali, il terrorismo, l’energia, l’emigrazione ci dicono che ancor più nell’era della globalizzazione non si può essere felici da soli, contro gli altri. In questa sfida il modello italiano, compresa la sua anima cooperativa e mutualistica, può e deve ancora dire molto, ne va della qualità della vita dentro e fuori i mercati dei prossimi decenni.
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[1] Robert Michels, Economia volgare, economia pura, economia politica, Discorso inaugurale dell’Anno Accademico 1933-1934, università di Perugia, Donnini, Perugia, 1934, p. 1.
[2] Maffeo Pantaleoni, Erotemi di Economia, Laterza, Bari, 1925, I, p. 217.di Luigino Bruni
pubblicato su generativita.it il 24/07/2011
“L’economia politica è impopolare presso il grosso pubblico. La guerra, il dopoguerra e la crisi hanno dato tanti e tali smentite a previsioni in apparenza rigorosamente scientifiche, avanzate da economisti, e non c’è da stupirsi se qualche profano abbia potuto credersi autorizzato a proclamare la bancarotta dell’Economia politica.
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pubblicato su Arcipelago Milano il 05/07/2011
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E’ indubbio che oggi in Italia stiamo assistendo a una di quelle fasi che l’economista Albert O. Hirschman chiame-rebbe un ciclo di felicità pubblica: dopo anni di ritorno al privato la società italiana e non solo questa (basti pensare al Medio Oriente) sta vivendo una nuova stagione di partecipazione e di cittadinanza attiva. A questo riguardo cose importanti provengono dalle teorie di Martha Nussbaum.Nel suo ultimo libro tradotto in italiano per il Mulino Non per profitto, leggiamo: “Le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie [eppure] gli studi umanistici e artistici vengono ridimensionati, nell’istruzione primaria e secondaria come in quella universitaria, praticamente in ogni paese del mondo. Visti dai politici come fronzoli superflui, in un’epoca in cui le nazioni devono tagliare tutto ciò che pare non serva a restare competitivi sul mercato globale, essi stanno rapidamente sparendo dai programmi di studio, così come dalle teste e dai cuori di genitori e allievi“.
La democrazia è un albero fragile, con radici sempre poco profonde nel terreno della storia, che richiede di essere coltivato, accudito, custodito, soprattutto nei momenti di crisi. Alla democrazia, la Nussbuam ha dedicato molto lavoro e passione civile, mostrandoci, assieme ad Amartya Sen, che lo sviluppo si misura sull’asse delle libertà e dei diritti, e poco e spesso male sull’asse del PIL. E senza intelligenza critica, pensiero libero e creativo, le libertà e i diritti non crescono nelle nostre civiltà, semplicemente perché le persone non riescono a vedere i diritti e le libertà come beni preziosi, non combattono per essi e li barattano volentieri con qualche merce in più.
La formazione umanistica non va intesa come un bene elitario, un bene di lusso accessibile ai pochi che ne hanno talenti e possibilità economiche. Come la Nussbaum ha ricordato nella sua bellissima lezione all’Istituto universitario “Sophia” (il 6 giugno a Loppiano, Firenze), uno dei suoi modelli di educatore è Tagore, che con la sua poesia e i suoi programmi formativi nelle scuole è stato, come Gandhi, alle radici dell’indipendenza e della democrazia indiana. La bellezza, come la non-violenza, sono anche virtù civili essenziali per il Bene comune e per la qualità della democrazia. La proposta della Nussbaum è per una scuola e per una università nelle quali arte, letteratura, filosofia siano considerate fondamentali per la formazione del carattere di ogni cittadino, poiché senza formazione dell’interiorità delle persone (compito nel quale l’arte, la musica e la letteratura non hanno sostituti) le nostre società non saranno in grado di gestire e di orientare al bene comune le straordinarie conquiste della tecnica e delle comunicazioni.
Nei periodi di crisi e di cambiamenti epocali, le persone e le comunità che avevano a cuore il bene comune hanno salvato e rilanciato la civiltà con istituzioni (politiche ed economiche), ma anche con scuole e con l’arte: il monachesimo, poi i francescani, i tanti carismi religiosi e laici delle modernità, il movimento socialista, hanno utilizzato anche la bellezza per “salvare il mondo”. Come fece Olivier Messiaen che, nel Campo di internamento di Goerlitz compose ed eseguì in una baracca con alcuni musicisti deportati il “Quatuor pour la fin du temps”; come il violinista Karel Fröhlich che nel 1944 a Theresienstadt fece un concerto a coloro che sarebbero partiti la mattina seguente per Auschwitz–Birkenau. L’arte, la bellezza, ha sempre lottato e lotta contro la morte e la barbarie, e offre strumenti per la liberazione e il progresso anche civile delle coscienze e dei popoli.
In tutto ciò la scuola e l’educazione hanno un ruolo fondamentale: “Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo” (Nussbaum, Non per profitto).
A tutto questo discorso sulla cultura e sulla democrazia è legato anche il tema del benessere e delle capabilities, un altro dei pilastri del magistero di Martha Nussbaum. In una mia recente intervista alla domanda: “Quindi l’approccio delle capacità è interessato a misurare ciò che la gente effettivamente fa, non quanto sente o crede, poiché si può essere anche schiavi perfettamente adattati e forse anche felici?” La Nussbaum mi ha risposto: “Credo di sì. Infatti, come è stato sottolineato ancora da Mill, la felicità non è uno stato, ma un’attività. Oggi molti associano la felicità a uno stato momentaneo, un piacere, ma in Mill (e nel mio approccio), la domanda da rivolgere alle persone nello studiare la felicità (almeno quella aristotelica o di Mill) non sarebbe tanto “quanto ti consideri o senti felice?”, ma “che cosa fai nella tua vita? Quali attività riesci a svolgere?”.
Questo è un punto centrale in tutto l’approccio di Daniel Kahneman: quando lui con il suo metodo empirico cerca di misurare i “feeling” momentanei, fa qualcosa di possibile e forse interessante. Ma quando si cerca di misurare la “soddisfazione nella propria vita nel suo insieme”, come si fa oggi negli studi sulla felicità, entriamo in un terreno ambiguo. Infatti, se la soddisfazione con la propria vita nel suo insieme è un sentimento, un feeling, credo che questo dato sia poco interessante. Se invece vogliamo misurare un giudizio meditato di una persona sulla propria vita, allora la felicità ha poco a che fare con i feeling. Come è noto, l’ultima frase di Mill prima di morire fu “Ho svolto il mio compito” (I have done my work), intendendo con una simile frase che la sua vita aveva funzionato, era riuscita bene. Ma J. Stuart Mill si sentiva triste, anche perché aveva perso sua moglie Harriet, non era certamente felice in termini di feelings. Credo quindi che ci siano diversi problemi concettuali nel misurare la felicità.
Quando nel 1996 Kahneman mi chiese un parere sul suo programma di ricerca di misurazione della felicità momentanea, io espressi molti di questi dubbi, e lui mi disse ‘grazie, ma questi dubbi non posso prenderli in considerazione, perché ormai stiamo entrando nella fase operativa del progetto’. E così la misurazione della felicità è decollata, ma i problemi che ho sollevato rimangono”. Questo ultimo passaggio sul mancato dialogo con Kahneman e con gli studi degli economisti sulla felicità hanno riecheggiato il “calcolate e non pensate”, invito rivolto da Benedetto Croce agli economisti all’inizio del ’900. In realtà, essendo uno degli economisti coinvolto da tempo nei lavori anche empirici sulla felicità, sono convinto che le domande difficili di Martha Nussbaum siano molto importanti perché il calcolo senza pensiero profondo non porta molto lontano, neanche in economia. E anche misurare la felicità può essere importante e rilevante, però solo una volta ascoltate e prese in considerazione critiche importante come queste di Martha Nussbaum.
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pubblicato su Arcipelago Milano il 05/07/2011
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pubblicato su Benecomune.net il 01/07/2011
Il grande economista Albert O. Hirschman, sul finire degli anni settanta pubblicò un libricino, dal suggestivo titolo Felicità privata e felicità pubblica. La tesi del libro era forte e chiara: nei diversi Paesi non esistono soltanto cicli economici, nei quali si alternano fasi di boom e crescita a fasi di crisi e depressione; esistono anche dei cicli politici tra impegno pubblico e impegno privato. Sulla base di qualche evidenza storica, e con una forte capacità intuitiva, Hirschman ci ha spiegato che se guardiamo la storia possiamo ritrovarvi fasi di impegno pubblico seguite da periodi di ritorno al privato.
[fulltext] =>E proprio come accade nei cicli economici, la fase precedente spiega e determina quella successiva. In economia il boom economico e la crescita quando giungono al culmine creano le premesse della crisi e della decrescita (e viceversa): nella sfera civile una fase di ricerca di interessi e obiettivi privatistici e individuali creano le premesse per una nuova ondata in direzione opposta, cioè di impegno civile per il bene comune e la pubblica felicità. Si verifica quindi una sorta di oscillazione tra periodi di preoccupazione e impegno per la sfera pubblica e altri nei quali ci si concentra prevalentemente sui miglioramenti della sfera privata. Nelle fasi “pubbliche” di questo ciclo storico, è la politica a occupare il centro della scena; il benessere economico e il consumo individuale sono invece i protagonisti nelle fasi “private” del ciclo. E il meccanismo che Hirschman pone al centro di questa alternanza pubblico/privato è quello della delusione, che porta le persone a cambiare preferenze e valori una volta che hanno indugiato a lungo nel privato o nel pubblico: e una volta superata una soglia critica la reazione scoppia, e il ciclo si inverte.
Questa teoria ci può aiutare a comprender e a descrivere che cosa sta accadendo attorno al Mediterraneo, Italia compresa: è probabile che stiamo attraversando il punto di flesso del ciclo privato/pubblico, e che dopo una lunga fase in cui siamo stati concentrati sulla crescita del benessere economico privato. Le fasi di questo ciclo sono diverse nei vari contesti culturali: per l’Italia e la Spagna si tratta di un ritorno di pubblico dopo una trentina di anni dedicati alla felicità e al benessere economico privati; per il Medioriente si tratta in molti casi dell’aurora di una stagione di partecipazione inedita. Ciò che è certo è che nell’era della globalizzazione e dei social networks gli effetti di contagio sono veloci e molto rilevanti, e sebbene con storie e culture molto diverse, i giovani egiziani hanno con ogni probabilità influenzato i giovani europei che sono scesi in piazza o andati in massa alle urne per una voglia di “pubblico” simile a quella dei loro coetanei dell’altra sponda del mare nostrum.
Negli anni Sessanta e Settanta (l’ultima stagione di felicità pubblica in Italia e in Europa) ciò che spingeva le persone, i giovani soprattutto, in piazza e ad occuparsi di faccende pubbliche erano soprattutto le ideologie; oggi sono l’ambiente (compresa la TAV), l’energia, il cibo (pensiamo al crescente fenomeno dei GAS, Gruppo di Acquisto Solidale) a portare le persone a riscoprire il pubblico. E l’elemento nuovo è rappresentato dalla consapevolezza della centralità dei beni comuni, dall’acqua all’aria alle città. Ci stiamo cioè rendendo conto che siamo entrati decisamente nell’era dei beni comuni, nella quale i beni più preziosi e cruciali non sono più scarpe e pc, ma quei beni che consumiamo assieme e che sono soggetti, come ci insegna la teoria ecomica, alla tragedia dell’auto-distruzione. Se i beni comuni diventano la regola, il rifugio nel privato non funziona più, perché per non distruggere i beni comuni c’è bisogno di riconoscere il legame tra le persone, l’interdipendenza tra le scelte di tutti e di ciascuno.
Va infine notato che quando si parla di “pubblica felicità”, da Aristotele a Sen, l’aggettivo (pubblica) prevale sul sostantivo (felicità), poiché non è la ricerca comune del piacere a spingere la gente alla partecipazione, ma la ricerca, a tratti confusa, di libertà e diritti, di voglia di comunità, anche quando questa ricerca di felicità pubblica è associata a lotte e a sofferenze e non a sensazioni piacevoli. Infatti, come ci ricordava l’economista napoletano Antonio Genovesi a metà Settecento mentre la felicità privata può coincidere con la ricerca del piacere edonistico, la pubblica felicità ha bisogno di virtù civiche, di amicizia, di beni relazionali (diremmo oggi). Perché il ciclo pubblico della felicità duri e non sparisca nello spazio di un mattino, c’è bisogno che alla società civile, nazionale e internazionale, si affianchi la politica, che oggi è ancora la grande assente di questa ripresa di impegno pubblico. Ma, credo, non ancora per molto.
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pubblicato su Benecomune.net il 01/07/2011
Il grande economista Albert O. Hirschman, sul finire degli anni settanta pubblicò un libricino, dal suggestivo titolo Felicità privata e felicità pubblica. La tesi del libro era forte e chiara: nei diversi Paesi non esistono soltanto cicli economici, nei quali si alternano fasi di boom e crescita a fasi di crisi e depressione; esistono anche dei cicli politici tra impegno pubblico e impegno privato. Sulla base di qualche evidenza storica, e con una forte capacità intuitiva, Hirschman ci ha spiegato che se guardiamo la storia possiamo ritrovarvi fasi di impegno pubblico seguite da periodi di ritorno al privato.
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pubblicato sul Blog dell'IHU l'11/06/2011
“L'Economia di Comunione dice che l'impresa deve cambiare. Non si tratta di occuparsi dei poveri, senza cambiare le strutture economiche, ma di proporre imprese diverse che non hanno il profito come scopo, che includono i poveri, per evitare che ci siano i poveri domani”, spiega l'economista italiano Luigino Bruni. Secondo lui, l'Economia di Comunione “è una proposta più radicale nel cambiamento struturale del sistema economico, attraverso il cambiamento della principale istituzione che è l'impresa”.
Disponibile qui l'audio originale in italiano:
Ascolta l'intervista
In portoghese, il testo integrale
[fulltext] =>Confira a entrevista.
IHU On-Line – Que diferenças há entre a Economia de Comunhão e outras formas de economia, como a economia social, solidária? Como alternativa ao modelo hegemônico, quais são os diferenciais da Economia de Comunhão?
Luigino Bruni – Uma diferença, por exemplo, a respeito do modelo da economia solidária – eu a conheço apenas em parte – é que esta tem um aspecto interessante: isto é, embora nasça de um paradigma essencialmente de tipo marxista, na realidade, ocupando-se da pessoa, sem querer, não coloca em discussão o sistema de produção, isto é, as relações econômicas normais. Ocupa-se das pessoas que ficam fora do jogo, dos marginalizados, dos excluídos, mas, ao fazer isso, não coloca em questão as relações econômicas do sistema capitalista.
A Economia de Comunhão, na realidade, colocando no centro também uma definição sobre a empresa, está dizendo que ela, a empresa, deve mudar. Deta maneira, não é tanto apenas se ocupar dos pobres sem mudar as estruturas econômicas, mas sim propor empresas diferentes, que não tenham o lucro como objetivo, que incluam os pobres, para evitar que haja pobres amanhã.
"Nós falamos de amor, de gratuidade, de ágape, porque não é tanto 'o que faço', mas sim 'como o faço'. É um estilo de vida"
Assim, é uma proposta mais radical na mudança estrutural do sistema econômico, por meio da mudança da sua principal instituição, que é a empresa. E nisso há uma diferença muito importante. Depois, há outras diferenças como o laço profundo entre a empresa, de um lado, e os excluídos, de outro; a tentativa de dar vida à estrutura de governança de comunhão dentro da empresa etc.IHU On-Line – Como o dom se manifesta na Economia de Comunhão?
Luigino Bruni – Basta ouvir os empresários, mas não é algo simples de explicar, porque há um modo que poderia ser equivocado de interpretar isso. Qual? Que o empresário produz riqueza, não se preocupa em mudar as relações de produção e, quando tem dinheiro, o doa aos pobres. Se fosse assim, seria um modelo muito pouco interessante e em nada inovador.
Nós podemos falar mais de gratuidade, e menos de dom, porque a gratuidade convive com os contratos, com os devedores, nas relações dentro da empresa, nas relações comunitárias. E, portanto, até mesmo empresas que não doam seu lucro, vivem a cultura do dom. Metade dessas empresas não tem lucro, porque ou estão em perda ou porque são empresas sem fins lucrativos, como as cooperativas sociais. O dom, portanto, não é simplesmente doar o dinheiro. O dom é muito mais profundo. Por exemplo, o empresário doa, sobretudo, talentos, recursos, não doa tanto dinheiro.
"É preciso mudar as relações dentro da empresa que, com formas jurídicas diversas, devem nascer da vida"
Assim, a cultura do dom é muito importante, mas não deve ser entendida como filantropia, não deve ser entendida como presente, mas deve ser entendida como relações novas de gratuidade, uma gratuidade que, talvez, deve conviver com o contrato. Portanto, o dom que nós falamos não é oposto ao contrato, ao devedor: é uma dimensão da vida. Nós falamos de amor, de gratuidade, de ágape, porque não é tanto “o que faço”, mas sim “como o faço”. É um estilo de vida.IHU On-Line – Quais são as principais novidades da Economia de Comunhão quanto às relações de trabalho, mais especificamente, por exemplo, a relação entre patrão e empregado? É uma relação emancipatória, realizadora, ou o patrão é sempre patrão e o empregado é sempre empregado?
Luigino Bruni – A Economia de Comunhão que vemos hoje é ainda muito tradicional, porque recém iniciou um processo. Ou melhor, hoje é um pouco menos, mas há 10 anos era muito tradicional. E em 20 anos será muito diferente. Isto é, nós devemos também mudar os direitos de propriedade da empresa. Não é suficiente apenas dizer que o empresário, com boa motivação, é altruísta. É preciso também mudar as relações dentro da empresa que, com formas jurídicas diversas, devem nascer da vida.
Em certos países do mundo, como na Itália, por exemplo, já há experiências participativas, também no contrato, nas regras formais. Em outros países não, mas há um movimento que levará seguramente a uma superação da forma tradicional, em que há o patrão de um lado, e o funcionário de outro. Agora, isso não é muito visível.
Alguém que olha de fora não vê muita novidade – mas a verá em breve, em alguns anos. Porque a tendência é a de chegar a formas de empresa diferentes, mais participativas, mais inclusivas.
IHU On-Line – Quais são as principais dificuldades da Economia de Comunhão? E que contribuições ela pode dar ao paradigma liberal dominante global de hoje?
Luigino Bruni – Se olharmos para esses 20 anos, veremos um caminho. Isto é, hoje, a Economia de Comunhão começa a ser um projeto que produz categorias diferentes, que hoje começam a ser aceitas por alguns setores, como justamente a fraternidade, a reciprocidade, gratuidade, felicidade, bens relacionais. São categorias originais, nascidas dentro da Economia de Comunhão, também categorias teóricas.
"A Economia de Comunhão ainda é uma semente. Porém, já há alguma coisa. Há uma tendência importante"
Mas ainda é uma semente, ou seja, ainda está no início, porque é um projeto muito complexo. Estamos ainda nas primeiras horas de um dia. Porém, já há alguma coisa. Há uma tendência importante e, sobretudo, começamos a ver interesse crescente na universidade. Só no último ano, três ou quatro universidades – na África, no Chile, na Itália – que inseriram, dentro do currículo de estudos, cursos sobre Economia de Comunhão.Há um movimento crescente. A tendência é muito positiva. Mas os tempos são longos, porque é um organismo muito complexo. E, quanto mais complexo é o organismo, mais longa é a infância. Por exemplo, um gato, depois de três meses, já é adulto; um homem precisa de 20 anos. Sendo o nosso carisma muito complexo – é um carisma espiritual, religioso, que tem muitas dimensões, da arte à cultura, do esporte à política –, ele precisa de mais tempo para entender às novidades que existem, porque há uma incubação muito mais longa.
Portanto, dentro de 10 ou 15 anos, veremos coisas belas. Em 10 anos, se poderá chegar a uma massa crítica para sair mais à vida pública e não só nos pequenos ambientes. Se estivermos vivos, veremos.
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di Luigino Bruni
pubblicato su ilsussidiario.net il 9/06/2011
Ciò che più mi stupisce in questi giorni di discussione sull’acqua, è che tutto il dibattito continua a essere centrato interamente sul binomio e sulla contrapposizione Stato-mercato. Sulla gestione dell’acqua si sono formati due partiti: quello che vuole mantenere la gestione pubblica (cioè affidata alla pubblica amministrazione) e quello che vuole affidarla al mercato. Chi vuole il pubblico afferma che l’acqua non è una merce, e che non si possono fare profitti sui beni comuni che diventerebbe presto una tassa per i cittadini (verità sacrosanta, tra l’altro); chi vuole il mercato dice che pubblico significa spreco, corruzione e inefficienza.
[fulltext] =>Questa visione dicotomica è una malattia molto italiana (e latina), dove continuiamo a vedere il mondo sociale a due dimensioni, trascurando un terzo elemento (non terzo settore, attenzione) che si chiama società civile, che è invece sempre cruciale per la qualità della democrazia. Sono convinto che non si troverà una soluzione condivisa a questo tema cruciale finché non daremo centralità a questo “terzo escluso”, la società civile e alle sue espressioni anche economiche.
Perché, infatti, non immaginare e poi realizzare anche per la gestione dell’acqua una soluzione simile a quella che è emersa dalla società civile sui temi della cura, del disagio, della malattia mentale? In questi settori, che sono altre forme di beni comuni, trent’anni fa la loro gestione era totalmente in mano allo Stato (e alle famiglie); oggi gran parte di questi servizi sono in mano a migliaia di cooperative sociali che gestiscono questi servizi eticamente e relazionalmente sensibili in modo efficiente (mercato quindi), ma senza avere il profitto come movente. È la cosiddetta impresa sociale o civile, cioè un soggetto che è mosso da finalità sociali e solidaristiche, ma che non ha come scopo il profitto.
La società civile ha saputo esprimere quindi imprenditori sociali, che pur senza aspettarsi grandi remunerazioni del capitale investito, hanno voluto e saputo utilizzare il loro talento imprenditoriale per gestire beni comuni (gli imprenditori sono essenziali per gestire in modo efficiente risorse scarse). E tutto ciò è stato possibile (nei casi più virtuosi, non tutti ovviamente) grazie a una nuova alleanza o patto tra mercato, pubblico e società civile: il pubblico è ben presente, ma è un partner alla pari con imprenditori e comunità.
Per l’acqua credo che dovremo immaginare una soluzione simile: dar vita, con apposite leggi (come è avvenuto nel 1991 con la cooperazione sociale) a nuove imprese sociali per la gestione dell’acqua che siano frutto di un’alleanza tra pubblico, imprese e società civile. È ciò non significa proibire per legge i profitti alle imprese sociali (anche perché occorreranno capitali significativi), ma porre limiti a questi (non si parla di imprese “non profit” ma “low profit”), prevedere governance pluralistiche e con più soggetti coinvolti nelle decisioni, istituire profondi legami con le comunità locali interessate alla gestione dell’acqua.
L’impresa sociale, che alcuni chiamano impresa di comunità o di comunione, è la soluzione alla gestione dei beni comuni: e non solo dell’acqua, ma del suolo pubblico delle città (parcheggi), dell’energia, dell’ambiente, una soluzione perfettamente in linea con il principio di sussidiarietà.
Per questa ragione sono convinto che il giorno più importante sarà il giorno dopo il referendum, poiché se vincerà (come spero) il sì, saremo soltanto all’inizio del processo, poiché la gestione pubblica (lasciare cioè le cose come stanno) non è la soluzione, ma è il problema da risolvere. Dovremo subito dar vita a queste nuove imprese sociali, cercare insieme la soluzione al problema che non può essere conservare lo status quo, ma maggiore creatività e fantasia politica, economica, civile.
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di Luigino Bruni
pubblicato su ilsussidiario.net il 9/06/2011
Ciò che più mi stupisce in questi giorni di discussione sull’acqua, è che tutto il dibattito continua a essere centrato interamente sul binomio e sulla contrapposizione Stato-mercato. Sulla gestione dell’acqua si sono formati due partiti: quello che vuole mantenere la gestione pubblica (cioè affidata alla pubblica amministrazione) e quello che vuole affidarla al mercato. Chi vuole il pubblico afferma che l’acqua non è una merce, e che non si possono fare profitti sui beni comuni che diventerebbe presto una tassa per i cittadini (verità sacrosanta, tra l’altro); chi vuole il mercato dice che pubblico significa spreco, corruzione e inefficienza.
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pubblicato su il sole 24 ore il 25/05/2011
Per lungo tempo, l'idea dominante riguardo la diseguaglianza è stata quella di un andamento ad U rovesciata: cresce nelle prime fasi dello sviluppo per poi decrescere nelle fasi più avanzate. Questa teoria portava a considerare legittima una certa crescente diseguaglianza quando decolla lo sviluppo. Il grande economista Albert Hirschman esemplificava la cosa con la metafora dell'ingorgo: se siamo bloccati in autostrada e a un certo punto vedo che le auto della corsia accanto iniziano a muoversi, anch'io sono felice, perché penso che in breve anche la mia corsia si muoverà.
[fulltext] =>Si è anche a lungo pensato che esistesse un compromesso necessario tra equità (eguaglianza) e crescita (efficienza): essendo i talenti distribuiti in modo ineguale nella popolazione, occorre lasciare ai pochi molto efficienti crescere più della media. Gli effetti di questa maggiore crescita di pochi ricadranno anche sui più poveri, sotto forma di trasferimenti, tasse, e beni pubblici e meritori (scuola, sanità, welfare ecc.).
In realtà, stando all'ultimo rapporto Istat sul sistema Paese che afferma come il rischio povertà o esclusione sociale riguardi circa 15 milioni di italiani (24,7%), queste teorie non sembrano avere raccontato la storia reale. Dopo una fase di diminuzione, la disuguaglianza ha infatti ricominciato ad aumentare di nuovo negli ultimi due decenni: il nostro è oggi uno dei Paesi europei con il più alto indice di diseguaglianza (indice di Gini). Inoltre, dati provenienti da diversi Paesi mostrano che il rapporto tra crescita e diseguaglianza è più complesso, e spesso diventa conflittuale.
In società semplici e statiche, come era quella italiana fino a pochi decenni fa, Stato e famiglia svolgevano i principali ruoli nella creazione e redistribuzione della ricchezza. E il momento dell'aumento delle "dimensioni della torta" (efficienza) poteva essere più importante di quello della "divisione delle fette" (equità). Ciò che però sta dicendo la storia recente della società italiana post-moderna è che in un contesto più dinamico, con meno famiglia e meno Stato, non è più vero che l'aumento della torta aumenti la dimensione di tutte le fette. Infatti, da una parte, negli ultimi vent'anni la quota del reddito prodotto destinata al lavoro (salari) è diminuita molto rispetto alla quota andata alle rendite finanziarie e alle rendite in generale (anche per precise scelte fiscali). Dall'altra, se come in Italia la povertà relativa aumenta soprattutto tra le famiglie giovani, è facile capire che i consumi ne risentono seriamente, e con essi la crescita del Paese. Che fare allora?
Negli anni 50 e 60 l'Italia del miracolo economico ha saputo includere milioni di persone rimaste fino ad allora ai margini della vita economica, e quindi civile. La fabbrica, l'immigrazione, lo Stato sociale, hanno svolto assieme una funzione di riduzione dell'ineguaglianza sostanziale, della povertà assoluta e relativa e di aumento della ricchezza nazionale e individuale. Ma questo miracolo, assieme economico (crescita) ed etico (inclusione e eguaglianza), fu possibile anche e soprattutto perché furono garantiti a tutti servizi sanitari di base, educazione, pensioni e diritti umani. Oggi, in una società post-moderna e frammentata, questi servizi e diritti di base sono sempre meno garantiti a tutti, e invece occorre iniziare ad affermare con forza che debbono diventare presto diritti umani universali. Pensiamo ai nuovi poveri, agli immigrati, ai vecchi non autosufficienti senza rete famigliare, alle famiglie giovani con bambini.
Senza questo aumento dell'uguaglianza sostanziale tra i cittadini la crescita non può riprendere, perché manca non solo la domanda di beni di consumo, ma anche l'entusiasmo e la gioia di vivere dei giovani, senza i quali nessun Paese è mai cresciuto. Poiché quando passa qualche tempo e la corsia del vicino continua a correre e la tua resta ferma, gli automobilisti iniziano a voler passare nell'altra corsia, il traffico si complica di nuovo, si creano nuovi ingorghi, e a qualcuno viene la tentazione di passare illegalmente nella corsia d'emergenza.
Infine - come dimostra il nuovo Better life index reso noto ieri dall'Ocse - gli studi sulla diseguaglianza e sulla povertà dovrebbero essere profondamente rivisti, tenendo conto delle conquiste fatte dalla scienza economica. Innanzitutto, come accennato, nelle misure della povertà e della diseguaglianza al reddito individuale e famigliare occorre aggiungere i beni pubblici, poiché avere 1.000 euro a Trento (con asili nido, trasporti pubblici efficienti, ospedali vicini e funzionanti ecc.) è ben diverso che averli nell'interno della Basilicata. Inoltre, come ci ha insegnato soprattutto Amartya Sen, la povertà e la ricchezza non è tanto una faccenda di reddito e di beni, ma di capacità di fare, di come la gente è capace di trasformare le risorse, poche o tante che siano, in attività, libertà, sviluppo.
E tutto ciò ci riporta al tema delle relazioni, dei rapporti, dei legami che tengono assieme una città e un Paese, che oggi in Italia sta diventando sempre più tenue; e senza ricreare un legame che si chiama nuovo patto sociale, nessuna riduzione della diseguaglianza né aumento della ricchezza nazionale saranno possibili.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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stdClass Object ( [id] => 1559 [title] => I pirati e le elezioni [alias] => i-pirati-e-le-elezioni [introtext] =>di Luigino Bruni
Un gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo un’offerta di accordo per ripartire il tesoro trovato, ma se non raccoglie la maggioranza dei voti (il voto del più anziano vale doppio in caso di parità) viene eliminato dagli altri quattro compagni (gettato fuori dalla nave), e sarà il secondo più anziano a fare la sua offerta di ripartizione con la stessa regola, e così via.
[fulltext] =>Se i pirati sono razionali e auto-interessati, l’offerta ottima che il più anziano deve fare per ottenere il consenso è la seguente: offrire un solo lingotto al terzo e uno al quinto, e tenere per sé i restanti 98.
(La dimostrazione non è banale ma può essere intuita ragionando a ritroso partendo dalla fine: perché il 3 e il 5 pirata – gli unici ai quali il primo chiede il voto – dovrebbero rifiutare l’offerta? Se infatti non la accettano eliminando il primo, il “pallino” passa al secondo, che offrirà ai tre rimanenti che cosa? Offrirà 1 al quarto (il penultimo), e zero agli altri due, che sono esattamente il 3 e il 5 ai quali l’anziano aveva offerto 1: ed essendo il loro un confronto tra 1 e 0, accetteranno l’offerta del più anziano).
Questa storiella è una buona rappresentazione di come si raggiungono gli accordi tra individui razionali e auto-interessati in contesti di scelte non ripetute o tragiche, quando esiste un’asimmetria di potere tra le parti, e quando c’è qualcuno che ha il potere di fare la prima mossa, sapendo però che se non passa esce dal gioco, e il potere passa al secondo, e così via. Il messaggio che proviene da questo gioco è il seguente: non si cerca mai l’accordo con il secondo, ma con l’ultimo, se si vuole evitare di essere eliminato, pur avendo un ampio potere. Ora, immaginiamo che i gruppi siano 5, ordinati in numero di voti ricevuti al primo turno. Che cosa consiglia in questo caso la logica di questo gioco? Il primo dei cinque, se non vuole sbagliare offerta e lasciare il campo al secondo, deve allearsi con due gruppi minori, il terzo e soprattutto il quinto, il più debole. Non deve cercare il terzo e il quarto, ma il terzo e l’ultimo, poiché il quarto non accetterebbe l’offerta, o la accetterebbe con minor probabilità rispetto a 1 e 3 (ma vorrebbe più di 1 lingotto, poiché otterrebbe almeno la stessa offerta di 1 dal secondo). Cioè le alleanze tendono a divenire: 1-3-5 da una parte, 2-4 dall’altra.
Altri due corollari:
1. Il primo proponente si può salvare (non venire gettato giù dalla nave, o vincere) non se offre una divisione equa (20 ciascuno), ma se offre una distribuzione fortemente iniqua: se, infatti, avesse offerto distribuzione diversa da (98, 1, 1), sarebbe stato gettato giù dalla nave da una ciurma razionale (non avrebbe trovato l’accordo, poiché i giocatori avrebbero potuto offrire al secondo turno la stessa allocazione, ma con uno in meno (25 ciascuno, 100/4), e così via.
2. Il gioco cambia radicalmente quando i pirati sono tanti e superano una soglia. Se ad esempio con un tesoro di 100 i giocatori fossero più di 200, il primo proponente si salverebbe la vita (o eviterebbe un bagno nell’oceano) solo se propone una divisione del denaro dove non tiene niente per sé (dovrebbe dare un lingotto ad ogni pirata numerato pari, fino al 198°).
Possono queste riflessioni servire a qualcosa di pratico? Chissà!
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Un gruppo di 5 pirati trova un tesoro di 100 lingotti d’oro in un’isola deserta. Tra loro vige questa regola: il più anziano deve fare per primo un’offerta di accordo per ripartire il tesoro trovato, ma se non raccoglie la maggioranza dei voti (il voto del più anziano vale doppio in caso di parità) viene eliminato dagli altri quattro compagni (gettato fuori dalla nave), e sarà il secondo più anziano a fare la sua offerta di ripartizione con la stessa regola, e così via.
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di Luigino Bruni
editoriale pubblicato su Mondo e Missione n.5/2011
L’economia globalizzata è una macchina potentissima ma fragile e instabile: è questo uno dei messaggi che la crisi che stiamo attraversando ci sta dicendo. In particolare l’economia globalizzata crea enormi opportunità di ricchezza, ma produce anche nuovi costi, tra cui una radicale incertezza dei sistemi finanziari, e squilibri sociali più forti. Spesso le conseguenze delle crisi le pagano settori sociali diversi da quelli che la procurano, e normalmente molto più poveri.
[fulltext] =>Ecco perché il tema della giustizia sociale è oggi direttamente anche il tema dominante della nuova economia: lo stiamo vedendo in medio-oriente (non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione di questi mesi è stata innescata da faccende di giustizia economica), e, credo, lo vedremo nei prossimi anni ancor più nei Paesi arabi ma anche in Cina e in India dove, una volta che le libertà individuali e la democrazia prenderanno il sopravvento, non sarà più tollerata l’enorme diseguaglianza che oggi ritroviamo in questi nuovi colossi. E’ mia convinzione che nel mondo sta maturando una crescente intolleranza nei confronti della diseguaglianza, all’interno dei singoli Paesi e tra Paesi, come se l’uomo post-moderno, informato e globale, dopo la democrazia politica oggi inizi seriamente a richiedere anche la democrazia economica, e sembra essersi accorto, con fatica e con ritardo, che la democrazia economica è parte essenziale della democrazia politica. Infatti il mercato, essendo un ambito della vita in comune retto dalla regola aurea del mutuo vantaggio, non riesce ad assicurare la giustizia distributiva, anzi, in certo senso, se non è accompagnato da altri principi e istituzioni co-essenziali, nel tempo il mercato tende ad aumentare le diseguaglianze. Da una parte, infatti, il mercato è luogo della libertà e della creatività basato sui talenti individuali, e i talenti non sono distribuiti in modo uniforme nella popolazione; dall’altra, nella gara del mercato non partiamo tutti dalla stessa linea, e chi ha di più oggi (risorse, istruzioni, opportunità …) tende ad avere ancora di più domani.
Che fare allora?
Il 29 maggio 2011 è l’anniversario dell’istituzione dell’Economia di Comunione (EdC), il progetto economico lanciato, in Brasile, da Chiara Lubich, nello stesso mese nel quale Giovanni Paolo II aveva pubblicato la Centesimus annus, un’ enciclica che Chiara aveva letto e meditato durante quel viaggio. Per questa occasione rappresentanti del mondo dell’EdC si ritroveranno a San Paolo dal 25 al 29 maggio per un bilancio dei primi venti anni, e soprattutto per guardare ai prossimi venti (www.edc-online.org). Il messaggio lanciato da Chiara in quel viaggio brasiliano è oggi ben vivo, matura e cresce nella storia, ben oltre la comunità (i Focolari) nel quale l’EdC è nata, come ha ben colto Benedetto XVI che l’ha voluta indicare nella Caritas in Veritate come una esperienza da sviluppare e diffondere.
Il messaggio è semplice e chiaro: l’impresa deve essere innanzitutto uno strumento e un luogo di inclusione e di comunione, che mentre produce ricchezza si occupa anche di redistribuirla, e quindi di giustizia. Se infatti vogliamo che cresca la democrazia economica e la giustizia redistributiva non possiamo e non dobbiamo fare troppo affidamento sugli Stati o sui Governi: deve essere la stessa impresa, sotto la spinta della società civile e dei cittadini del mondo, ad evolvere e ad occuparsi di cose nuove, di quelle res novae del contesto globalizzato in cui viviamo. L’impresa non può limitarsi ad operare nei limiti della legge, pagare le tasse (anche quando le paga), e fare un po’ di filantropia per abbonirsi i clienti. In questa nuova fase all’impresa è chiesto di più, molto di più, se vogliamo che la società civile consideri l’impresa e l’economia come amiche per il Bene comune. Ben venga allora il compleanno dell’EdC, se ricorda a tutte le imprese questo bisogno di diventare altro, di evolvere in una economia a misura di persona.
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di Barbara Faverio
pubblicato su “La Provincia” il 30/03/2011
La disponibilità di beni è indispensabile al benessere, ma un eccesso di ricchezza può innescare una degenerazione delle caratteristiche relazionali e ambientali. Lo spiega Luigino Bruni, professore alla facoltà di Economia dell’Università Bicocca di Milano, protagonista oggi del confronto con monsignor Diego Coletti.
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Per un economista il benessere è molto simile a quello di tutti. Con una particolarità, quella di attribuire più peso agli aspetti materiali della vita all’interno del benessere in generale delle persone. Infatti gli economisti (più quelli di "ieri", un po’ meno quelli di oggi) sanno che soprattutto quando si è poveri il reddito è molto importante, poiché generalmente significa aumentare le libertà delle persone.
Lo sviluppo è libertà, recita il titolo di un libro dell’economista A.Sen (contemporaneo, ma più vicino a Smith che ai suoi colleghi di oggi), una frase non lontana da alcune di Paolo VI sullo sviluppo. Al tempo stesso, oggi ci stiamo accorgendo che quando il benessere materiale supera una soglia (quella che garantisce una vita decente), il benessere economico può entrare in conflitto con il benessere generale: è questo il cosiddetto "paradosso della felicità".
La crisi economica ha ridefinito il concetto di benessere?
In parte sì, perché ci ha mostrato almeno due cose: che la ricchezza che non deriva dal lavoro raramente si trasforma in benessere (come le speculazioni finanziarie), e che il mercato per funzionare bene ha bisogno della fiducia tra le persone. In altre parole, il contratto ha bisogno di un patto sottostante, da cui si genera la fiducia. La crisi è stata la dimostrazione che una finanza auto-regolata, che conta di poter funzionare senza riferimento ad un patto di lealtà e di correttezza tra persone e istituzioni, produce "male comune", non benessere.
Secondo lei questo cosa dovrebbe suggerirci a livello di comportamenti?
Valutare di più i beni relazionali e meno i beni di consumo, poiché i beni di consumo si distruggono con l’uso e lasciano spesso insoddisfazione (che ci spinge a nuovi acquisti), mentre i beni relazionali (amicizia, amore, comunità) aumentano con l’uso, e sono un investimento che produce molto benessere nel tempo.
Lei ha studiato la teoria della felicità in economia, quale è il rapporto tra beni e benessere?
Quando il reddito (pro-capite o come Paese) è basso, l’aumento del reddito produce anche aumento di benessere, in genere. Quando si supera una soglia, il segno può invertirsi, perché l’aumento di reddito "inquina" altri beni, quelli ambientali, quelli relazionali, e spirituali, e possiamo ritrovarci più opulenti e meno soddisfatti.
Ma l’economia è autorizzata ad occuparsi anche delle relazioni tra gli esseri umani?
Non solo è autorizzata, ma "deve" perché se non se ne occupa semplicemente le distrugge: come negli anni sessanta, l’economia non "vedeva" i beni ambientali, e teorizzava imprese efficienti che invece stavano distruggendo l’ambiente. Oggi se l’economia non "vede" le relazioni umane come beni, dà consigli di politica economica dove le relazioni umane
diventano sempre più costose e difficili (si pensi alla costruzione delle città, ai luoghi di lavoro, ai trasporti, agli asili, agli anziani, ai supermercati, ecc.).L’economia oggi persegue un modello di benessere compatibile con una visione globale dell’uomo?
Non ancora, ma c’è un grosso dibattito in corso, e le crisi che stiamo vivendo possono aiutare le coscienze, individuali e collettive.
Il concetto di gratuità può aggiungere valore alla dimensione esistenziale?
La gratuità è la condizione dell’umano, poiché dice eccedenza rispetto al dovuto, quindi dice libertà. Senza gratuità
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non abbiamo lavoratori, ma solo macchine e computer. Una economia senza gratuità si arresta sull’uscio dell’umano, e quindi anche dell’economia che è la gestione della casa degli esseri umani e del pianeta.In occasione del dialogo con Mons. Coletti del 30 marzo 2011 alle "Primavere di Como", intervista a Luigino Bruni
di Barbara Faverio
pubblicato su “La Provincia” il 30/03/2011
La disponibilità di beni è indispensabile al benessere, ma un eccesso di ricchezza può innescare una degenerazione delle caratteristiche relazionali e ambientali. Lo spiega Luigino Bruni, professore alla facoltà di Economia dell’Università Bicocca di Milano, protagonista oggi del confronto con monsignor Diego Coletti.
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pubblicato su GVonline il 14 febbraio 2010
Che la via d’uscita all’attuale situazione di grande difficoltà dell’economia italiana e mondiale possa venire dall’intuizione e dalle prime elaborazioni teoriche di una donna a suo tempo “respinta” dall’Università di Venezia e mai arrivata alla laurea?
Possibile se la donna è Chiara Lubich, la fondatrice del movimento dei Focolarini, mancata nel 2008, e se il tema della sua costruzione teorica è quello dell’ ”economia di comunione”.
[fulltext] =>A Venezia non l’hanno voluta... «Chiara non ha potuto frequentare l’università – tra l’altro quella di Venezia – anche se lo avrebbe tanto voluto. Quasi come una consolazione, aveva però sentito dentro di sé Gesù dirle ‘sarò io il tuo maestro’. Ecco perché ha sempre cercato la giustificazione teorica e scientifica del carisma del movimento da lei fondato. Ed ecco perché io mi occupo di ‘economia di comunione’ dal 1998: perché Chiara, colpita anche dalla povertà delle favelas brasiliane che aveva potuto visitare, mi ha affidato parte di quella ricerca». A parlare è Luigino Bruni, docente alla Bicocca di Milano e, soprattutto, all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, la cittadella dei Focolarini.
Che continua: «Quando, il 7 maggio 1998, Chiara mi ha telefonato in Inghilterra, dove mi trovavo per un dottorato in economia, per chiedermi di studiare l’“economia di comunione” da lei fondata nel 1991, quasi non ci volevo credere. Perché mi invitava a far parte della scuola del movimento, Abbà, che raccoglieva una ventina di studiosi di varie discipline e che per noi Focolarini era un po’ come l’accademia dei Nobel. Ho risposto di sì e dal 1998 al 2006, quando ha cominciato a stare male, ho potuto incontrare ogni sabato Chiara e con lei e gli altri studiosi elaborare la giustificazione teorica multidisciplinare (economica, teologica, filosofica, sociologica insieme) di quanto il movimento stava realizzando».
I poveri sono protagonisti. Ma che cos’è l’“economia di comunione”? «Un approccio che considera gli attori dell’economia come persone che entrano in relazione le une con le altre per raggiungere insieme il bene (anche quello misurabile dell’economia) proprio e quello degli altri. Non persone interessate solo al proprio tornaconto individuale e che si comportano come se gli altri non esistessero, come postula il pensiero economico dominante. E che implica una grande responsabilità verso i poveri, al punto di coinvolgere anche gli imprenditori e le loro imprese per aiutarli», spiega Giuseppe Argiolas che, all’Università di Cagliari, insegna “economia e gestione delle imprese” mentre a Sophia tiene un corso di “management dell’economia di comunione” tout-court.
E funziona? «Le esperienze di economia di comunione sono ancora relativamente poco diffuse nel mondo e non vanno considerate come l’”unica” via ma “una delle” vie buone – conclude Argiolas – ma molti imprenditori le guardano con sempre maggior favore, soprattutto adesso che altri approcci hanno mostrato tutta la loro inefficienza. E quando chiedo ai miei studenti di Cagliari, ai quali presento l’economia di comunione come un caso di responsabilità sociale d’impresa senza però mai usare il suo nome, quale sia la parte del corso che più li ha convinti, mi rispondono sempre indicandomi questo tema».
Approfondimento dell'Articolo precedente:
800 imprese praticano l'economia di comunione
pubblicato su GVonline il 14 febbraio 2011
L’elaborazione teorica e la prima realizzazione pratica dell’economia di comunione si svolge tutta a Loppiano, sobborgo di Incisa in provincia di Firenze, dove si trova la cittadella dei Focolarini. «Chiara diceva che non ci vogliono nuove Università nelle città ma Università in città nuove», spiega Luigino Bruni, lo studioso – recentemente presente anche al Marcianum – che del movimento dei Focolarini è responsabile proprio per questo tema.
Che continua: «Proprio questo – grazie al carisma di Chiara e all’instancabile opera di Piero Coda, il teologo che l’ha sempre affiancata nella sua opera – stiamo realizzando con l’Istituto Universitario Sophia, dove mettiamo a tema i “fondamenti e le prospettive di una cultura dell’unità” in una chiave multidisciplinare che comprende la teologia, la filosofia, le scienze sociali e la razionalità logico-scientifica di matematica e fisica».Sophia conta oggi un centinaio di giovani studenti di tutto il mondo e una comunità di una trentina di docenti, tra stabili e incaricati, anch’essi provenienti da diversi Paesi. E la realizzazione pratica? E’ fatta di circa 800 imprese (250 in Italia) che nel mondo operano secondo questo tipo di economia e che trova un importante centro di raccolta e incubazione nel “Polo Lionello Bonfanti”, poco distante da Loppiano, che mette a disposizione della ventina di aziende attualmente ospitate 9.600 metri quadrati di superficie su tre piani e tutti i servizi di cui le aziende presenti hanno bisogno. (F.P.)
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di Luigino Bruni
pubblicato su Il Regno-att. n.2/2011
Ho letto con piacere l’importante articolo del prof. Severino Dianich sulla rivista (Regno-att. 20,2010, 714), uno studioso che considero tra i migliori e più originali teologi europei. La lettura dell’articolo è stata coinvolgente e avvincente, sia per i temi che tratta sia per il modo aperto e innovativo con cui li tratta. Sono aspetti cruciali per il presente e per il futuro della Chiesa, e quindi anche per la società e la cultura. La lettura mi ha suscitato alcuni pensieri, due direttamente legati alle tesi dell’articolo e altri più generali ma connessi alle questioni affrontate nel testo. Cerco di procedere con ordine.
[fulltext] =>Il primo punto che voglio sottolineare è quella che chiamerei l’italianità dell’analisi di Dianich: il suo discorso è molto legato alla Chiesa in Italia. In quasi tutti gli altri paesi del mondo nei quali la Chiesa cattolica è presente, da sempre, o da molti decenni, i cristiani vivono in una condizione di minoranza, e da tempo hanno offerto risposte esplicite e implicite alle questioni sollevate da Dianich. Per questa prima ragione un titolo più congruo dell’articolo poteva essere: “Chiesa in Italia: che fare?”.
In secondo luogo, la lucida analisi contenuta nell’articolo è tutta centrata sulla Chiesa come istituzione o, nel linguaggio di von Balthasar, sul «profilo petrino». Non vi è praticamente alcun cenno alla dimensione o profilo carismatica/o della Chiesa, ai carismi per così dire «antichi» (ordini, istituti, congregazioni…) e ai carismi nuovi (movimenti e nuove comunità). L’inserimento nell’analisi della condizione della Chiesa anche di questo profilo co-essenziale, avrebbe reso il discorso più complesso, certamente diverso nelle luci come nelle ombre. Se, infatti, usciamo dai confini istituzionali ed entriamo nel territorio dei carismi presenti nella Chiesa, i segni di stima, di profezia e di rilevanza civile dei cattolici forse non sono così tenui. Il grande mondo dei carismi «antichi», ad esempio, sebbene condivida con la Chiesa istituzione molte delle preoccupazioni sollevate da Dianich, al tempo stesso è percepito dall’opinione pubblica (cattolica e non) generalmente come una presenza ancora rilevante e preziosa per la società, dagli asili nido alle opere di assistenza e cura, dalla vita spirituale agli oratori. Quindi un’ulteriore modifica del titolo dell’articolo, poteva essere la seguente: “Chiesa istituzione in Italia: che fare?”.
Profilo petrino e mariano
Detto ciò, con umiltà, simpatia e rispetto per chi cerca di fare analisi serie della Chiesa in un’età di cambiamenti enormi, nella rimanente parte di questa mia nota mi soffermo sulla seconda metà del titolo dell’articolo, cioè sul «che fare?».
Il mio punto di osservazione non è quello della teologia, ma quello di uno studioso di scienze sociali, economiche e storiche, nonché osservatore della dinamica civile e culturale del mio tempo. Riguardo al «che fare?», c’è per me un aspetto assolutamente centrale, sebbene a tale riguardo sia più semplice evidenziare domande che offrire risposte.
È mia impressione forte che la Chiesa (soprattutto l’istituzione, ma non solo) appaia oggi sempre più distante dalle questioni ordinarie, urgenti e vitali della gente. I grandi temi sui quali in questi anni si stanno concentrando le nostre battaglie, non sono sentiti urgenti, vicini e capaci di muovere le grandi passioni del vivere. Non voglio negare che le unioni omossessuali, la fine della vita, la fecondazione assistita eterologa siano faccende gravi, o che siano lontane dal Vangelo, o irrilevanti per la vita delle persone e per la qualità del nostro presente e futuro. Voglio soltanto dire che non sono questioni che ci collocano al centro della vita ordinaria della gente, che muovono gli entusiasmi, che rispondono alle grandi domande del quotidiano vivere.
Fino a qualche decennio fa (un mondo che non ho mai rimpianto, mi si intenda), con le sue luci e con le sue ombre, la Chiesa era però presente nella ferialità della vita, poneva la sua presenza nel cuore dei desideri e delle passioni ordinarie: si pensi al grande tema della festa, fino a qualche tempo fa scandito e riempito di senso dalla Chiesa, ma anche i riti di passaggio del vivere, ’eternità, l’accompagnamento del lutto, temi che erano legati alle grandi domande pre-moderne.
Oggi molte di queste domande (non tutte) sono radicalmente cambiate, ma se non saremo di nuovo capaci di decifrarle, intercettarle e cercare di entrare in esse per «abitarle», la marginalità crescente sarà solo un effetto di qualcosa di molto più profondo e radicale. Queste domande ordinarie e feriali oggi hanno certamente a che fare con la vita economica, politica, con le città, con la multiculturalità e con molto altro.
La nuova evangelizzazione richiede un’operazione preliminare di nuova inculturazione, in una postmodernità che è un fatto culturale del tutto nuovo.
Gli strumenti per una tale inculturazione nuova non potranno essere prevalentemente le encicliche e i documenti, i libri o le omelie: gli strumenti vanno inventati con creatività e coraggio profetico.Questa nuova inculturazione rimanda all’altra grande questione del linguaggio e del codice simbolico che la Chiesa utilizza. Ricordo un episodio personale. Durante una summer school per giovani, la domenica era prevista, a conclusione, una messa. Non vedendo molti degli studenti in chiesa mi affaccio sul sagrato e ne scorgo lì un bel gruppo. Mi avvicino senza essere notato e sento che parlavano con passione e slancio ideale di gratuità, di dono, di reciprocità, le tematiche che avevano appreso durante le lezioni della scuola; non comprendevano però che oltre il sagrato si stava celebrando, con una potenza enormemente superiore del linguaggio parlato, un evento che «diceva» quelle stesse realtà (e molto di più).
I nostri linguaggi e i nostri simboli non sono più capaci di parlare parole theofore: molta semantica evangelica e sapienziale si sta perdendo, proprio perché non siamo sufficientemente capaci di risemantizzare quelle verità con segni e parole che possano essere comprese.
Ad esempio, quando oggi una persona colta (cristiano o non) legge un numero di una rivista di teologia non sente più (se non troppo raramente) che in quelle pagine si sta parlando anche della sua vita, dei problemi ordinari suoi e della gente del suo tempo, delle grandi questioni del vivere suo e degli altri; e non perché in quelle pagine di teologia tali questioni non ci siano, ma perché la sintassi e la semantica di quei discorsi appartiene a un universo simbolico e culturale che è oggi troppo distante, e sentito troppo distante, dal quotidiano.
La teologia ha invece conosciuto stagioni (non tutte, ma alcune sì) in cui le quaestiones disputatae nelle scholae e negli studia erano percepite urgenti e rilevanti anche dai mercanti, dai banchieri e dai politici del tempo.
I segni dei tempi
Infine, credo che questa urgente operazione di nuova inculturazione e di nuova mediazione linguistica e simbolica potrà essere effettuata con successo se, come cristiani, prenderemo più sul serio la modernità e la post- (o dopo) modernità.
Come è ben noto, molti (quasi tutti) i princìpi e le conquiste degli ultimi secoli in Occidente (uguaglianza, libertà, la fraternità tra uguali e liberi, i diritti individuali ecc.) sono anche, sebbene non interamente, figli della maturazione del seme del cristianesimo nel terreno dell’Europa, anche quelle espressioni che spesso la Chiesa combatte perché non riconosce sue. Si tratta di cogliere i semi di verità che stanno maturando o che sono maturati fuori dalla Chiesa (i diritti delle donne, l’etica ambientale, i diritti degli animali ecc.), e che sono un autentico dono fatto anche alla Chiesa, perché possa capire più in profondità la sua stessa funzione e missione e trovare oggi il suo nuovo linguaggio.
Esiste, infatti, un magistero laico che soprattutto in questa nostra età ha tante cose importanti da dire, anche e in modo speciale a noi cristiani: penso, per restare nei miei ambiti, a chi oggi (come l’economista A. Sen) ci sta svelando dimensioni nuove e nascoste della povertà, dei diritti e di altre questioni che sono essenziali alla Chiesa stessa.
Nelle sue fasi più luminose (e non meno difficili della presente), come nei primi secoli apostolici e dei padri, o durante la grande Scolastica, la Chiesa ha incluso nelle sue sintesi elementi di verità provenienti dal mondo greco, romano, arabo, germanico. È stata veramente Chiesa perché più grande della chiesa. Credo che oggi ci attenda una sfida analoga, non meno impegnativa, ma che non può essere rinviata ancora troppo a lungo.
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Inventare un linguaggio
di Luigino Bruni
pubblicato su Il Regno-att. n.2/2011
Ho letto con piacere l’importante articolo del prof. Severino Dianich sulla rivista (Regno-att. 20,2010, 714), uno studioso che considero tra i migliori e più originali teologi europei. La lettura dell’articolo è stata coinvolgente e avvincente, sia per i temi che tratta sia per il modo aperto e innovativo con cui li tratta. Sono aspetti cruciali per il presente e per il futuro della Chiesa, e quindi anche per la società e la cultura. La lettura mi ha suscitato alcuni pensieri, due direttamente legati alle tesi dell’articolo e altri più generali ma connessi alle questioni affrontate nel testo. Cerco di procedere con ordine.
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di Luigino Bruni
L'evento centrale dell'ultima giornata del convegno è stata la firma della "convenzione" tra Economy of Communion e Università Cattolica per sviluppare insieme l'EdC nei prossimi anni: un momento veramente solenne, forte, simbolico, pieno di significati. Il giorno precedente il Nunzio aveva celebrato una liturgia con tutta l'università e, sebbene non so come fossero le liturgie dei primi cristiani ad Antiochia, né quelle di Francesco ad Assisi, né abbia mai visto le liturgie nelle Ande o in Australia, credo che messe più belle di quelle che ho visto qui sia davvero difficile immaginarle: basterebbe la danza iniziale di giovani con cui si aprono le liturgie ufficiali e i canti in lingua tradizionale per rendere queste liturgie splendide.
[fulltext] =>La stessa solennità delle messe l'abbiamo ritrovata nella firma di questo patto, da parte del Rettore, Prof. Maviiri e mia: era una firma seria, impegnativa, un patto o covenant (allenza, come nel Genesi), che ci impegna ancora di più per l'Africa nei prossimi anni.
L'impegno che abbiamo preso insieme è quello di assicurare due corsi (di 3 settimane) sull'EdC, uno aperto a tutti e l'altro agli studenti di master, già a partire da questo luglio. L'idea è di sviluppare questa collaborazione sempre di più, coinvolgendo anche l’Istituto Universitario Sophia (il Rettore avevapartecipato alla sua inaugurazione).
Nel mio breve discorso ufficiale, ho detto tre cose.
1. Non siamo venuti in Africa per offrire ricette ma attratti dalla vita che già c'era, soprattutto dalla vita delle nostre comunità che sono in Africa da quasi 50 anni, e ormai in tutti i Paesi. Siamo venuti come una risposta d'amore ad un amore grande per l'Africa, che si aggiunge a tutti coloro che (anche per un desiderio implicito o esplicito di riparare tanti dolori provocati dall'Occidente) sono venuti nei secoli in queste terre morene.
2. Non so ancora se l'EdC sarà utile all'Africa: ciò che è certo è che l'Africa è stata molto importante per l'EdC, perché ci ha consentito di capire ancora meglio le potenzialità e le caratteristiche dell'intuizione di Chiara Lubich.
3. "No EdC without Africa", ho concluso, invitandoli agli eventi del prossimo maggio in Brasile, per i 20 anni del progetto, per rendere ancora più visibile la presenza oggi dell'Africa nel network mondiale dell'EdC.
Che cosa è emerso sull'EdC da questo viaggio? Alcune realtà si sono stagliate con forza.
Innanzitutto che il principale modo che l'EdC propone per alleviare l'estrema povertà non è primariamente la redistribuzione della ricchezza (prendere dai ricchi per dare ai poveri) ma la creazione di nuova ricchezza, includendo nel processo le persone in difficoltà: si aumentano le torte, non si ritagliano diversamente soltanto le "fette" di una torta data.
In secondo luogo, l'EdC si mostra sempre più come una visione economica aperta a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, soprattutto ora che è presente anche nell'Enciclica.
Poi è stato molto forte, in quel contesto, comprendere nuovamente che l'EdC per funzionare ha bisogno di un rapporto diretto con la povertà. Quando Chiara Lubich la lanciò, colpita dalla corona di spine, dalla povertà in San Paolo e in Brasile, chiamò la comunità brasiliana innanzitutto a far qualcosa di più per risolvere quello scandalo. Allora il Brasile partì, poveri ma tanti, costruendo il Polo, le 100 imprese ... perché l'edc era legata (oggi forse meno direttamente anche in Brasile) ad un problema evidente e diretto di povertà. Se manca questo contatto diretto, le imprese edc non capiscono il senso di quello che fanno. Inoltre, non può essere sufficiente raccogliere denaro in Europa per usarlo in altre parti del mondo all'interno del nostro movimento, perché ciò è un legame troppo blando, almeno con il passare degli anni.
Che fare allora? Intanto rendere più evidente il legame tra l'attività di tutte le imprese e alcuni progetti (più impegnativi e più grandi) che l'edc porta avanti nel suo insieme nel mondo. Dopo 20 anni i micro-progetti non bastano per tener viva negli imprenditori la passione per donare buona parte degli utili: occorre fare di più. Inoltre, e secondo me in modo più decisivo, occorre rilanciare negli imprenditori edc di tutto il mondo una nuova stagione di creatività alla scoperta delle povertà di varia natura (non solo materiale) nelle loro città, e far qualcosa direttamente per loro, magari insieme.
L'EdC nasce perché un mondo con persone indigenti da una parte e opulente dall'altra non può essere "un mondo unito" (il carisma dell’unità di Chiara Lubich). Quindi L'EdC avrà sempre uno sguardo speciale sulle povertà (e sulle ricchezze non condivise, altra forma di "miseria"), e non solo in alcuni Paesi del mondo.
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Per capire Edc occorre "fame di vita e di futuro"
di Luigino Bruni
Nairobi, 26 gennaio 2011 – Si è conclusa ieri la 1° Scuola Edc panafricana presso la Mariapoli Piero, e oggi, 30° anniversario della morte proprio qui a Nairobi di Piero Pasolini (uno dei primi focolarini a portare il carisma dell’unità in Africa ndr), abbiamo iniziato la conferenza all’ Università Cattolica.
[fulltext] =>La scuola panafricana è stata uno degli eventi più forti che io ricordi con l'EdC: questi popoli (ed erano tanti i Paesi rappresentati, da tutta l'Africa sub-sahariana) hanno una purezza nell'adesione al carisma di Chiara Lubich che mi ha colpito molto davvero.
Li abbiamo invitati a fare un patto "di committment" per diffondere Economia di Comunione in Africa, mettendo la loro firma su un foglio bianco, specificando che era una scelta libera per un patto serio, e che doveva firmare solo chi sentiva questa vocazione all'EdC per amore dell'Africa.
In tantissimi hanno firmato, con grande solennità, e poi, ieri, alla messa con il Nunzio, abbiamo consegnato i 4 fogli di firme sull'altare. Doveva essere Genevieve Sanze a portarle e a dire una preghiera durante l'offertorio, ma lei a chiesto a me di farlo. Ed io, preso totalmente in contropiede, quando si è trattato di aprire bocca e di pregare più o meno così "Signore accogli queste firme, che sono la nostra vita offerta perché in Africa possa diffondersi una economia di comunione ...", mi sono bloccato, non riuscivo più a parlare per la forte emozione che mi ha preso.
Mi è venuta in mente come in un film e in un attimo la sofferenza di questi popoli, i miei fratelli europei che sono venuti in queste terre a strappare persone e risorse, a trattarli come schiavi, come mezze-persone. E ho pensato a Chiara Lubich, ai tanti missionari venuti qui dando la vita (quanti ne sono morti!) nei secoli passati, avviando opere sociali per alleviare le sofferenze di questi popoli, ai nostri focolarini e focolarine che hanno dato e danno la vita. Ma soprattutto ho guardato quel centinaio di persone che erano lì, una ad una, donate perché anche attraverso l'EdC l'Africa possa trovare la sua strada.
C'era tanto amore e tanta speranza in quella firma. E io mi sono bloccato, facendo una figura "ottima" con il Nunzio (al quale ero stato presentato come il responsabile del progetto!). Comunque anche quelle lacrime hanno creato più fraternità e uguaglianza con tutti, forse mostrando che non eravamo andati lì per parlare di teorie, ma che sentiamo sulla nostra pelle le gioie, le speranze e i dolori delle loro terre.
La liturgia del primo giorno parlava di Gesù che sceglieva i dodici. Oggi, la liturgia parlava di Gesù che sceglieva i 72 discepoli: tutto parlava di missione, di apostolato: la liturgia ci accompagna sempre in questi momenti fondativi.
Stiamo vivendo un momento importante: per tanti è rivivere qualcosa di simile alla “bomba brasiliana”.
Nel concreto:
• Si sono fatti avanti i primi 15 soci del futuro polo alla Mariapoli Piero, e sono arrivati i primi fondi.• Una decina di imprenditori presenti hanno aderito formalmente all'edc con la loro impresa, e questa mi sembra una cosa immensa. Si sono delineati alcuni progetti concreti, che partono da loro. In uno in Burundi il Bangco Kabayan entrerà come partner in un programma di micro-credito, iniziando così la sua prima attività fuori dalle Filippine.
• E’ nata la commissione panafricana EdC, con Genevieve Sanze (membro anche della commissione centrale) come coordinatrice, due segretari presso la Mariapoli Piero (che sarà la sede di questa commissione) e un rappresentante di ogni zona dell’Africa.
Teresa Ganzon, John Mundell, Leo Andringa, Giampietro e Elisa Parolin, Francesco Tortorella, e le loro famiglie, sono stati un dono per tutti. Bellissima la festa, molti degli ospiti (John e la moglie Julie, Giampietro, Leo e Anneke, Teresa suo marito Francis e sua figlia Alexandra) hanno contribuito con dei pezzi artistici.
E' bellissima l’intesa con tutti, inclusi i responsabili del Movimento dei Focolari qui: anche se si lavora molto, farlo assieme rende il giogo leggero e soave, e soprattutto c'è tanta gioia, e ridiamo tanto.
E da oggi siamo alla CUEA: molti dei partecipanti alla Scuola sono venuti, e si sono aggiunti studenti e professori di qui. Abbiamo aperto con il messaggio del Cardinale presidente di Justitia e Pax in Vaticano. Sono seguite le relazioni su EdC e cultura africana, con vivo dialogo, e interesse. Il pranzo è stato molto elegante, poi nel pomeriggio abbiamo continuato i lavori. Il contesto è cambiato, ma sensazione di vivere giorni speciali è forte.
Da questo convegno dovrebbe nascere un corso permamente sull'EdC, portato avanti da docenti del nostro gruppo: dobbiamo investire in Africa, c'è bisogno e entusiasmo: questi popoli più "giovani" (anche se siamo vicini alla Rift Valley) hanno una fame di vita e di futuro che è la pre-condizione per capire l'EdC e prima ancora il carisma dell’Unità di Chiara Lubich: se manca questa “fame” non c'è speranza che qualcuno possa capire il carisma. Qui la gente vuole vivere: mi ha colpito vedere quanto amano studiare qui i giovani. Per loro entrare in un college è l'impresa della vita, perché significa futuro. Si vedono giovani studiare di notte sotto i lampioni pubblici perché non tutti hanno la luce a casa ... (e pensavo ai nostri studenti, spesso svogliati perché hanno tutto, e quindi hanno spento il desiderio). Senza questo desiderio e fame di futuro il nostro movimento non può crescere.
Abbiamo fatto incontri importanti, nel clima della Parola del Vangelo: in molte donne africane, belle di una bellezza persa in occidente, ho rivisto le donne dei vangeli e della Bibbia, e il loro amore concreto per Gesù, per gli apostoli e per i profeti. L'Africa parla tanto di donne (ho capito perché qualcuno ha proposto il Nobel per la pace alle donne africane!), perché in esse si concentrano le più grandi ferite e le più grandi benedizioni di questi popoli (comprese le nostre focolarine).
Ho rivisto Zaccheo, in un camerunese benestante che in questi giorni ha voluto donare parte dei suoi beni per l'EdC: "io sono di Fontem, il movimento da bambino mi ha salvato la vita, mi ha fatto studiare nel suo College. Oggi ho capito che anche io debbo donare". E Nicodemo, in un anziano di Duala che ha sentito la voglia di rinascere nello Spirito, aderendo con la sua ditta all'EdC.
Ma soprattutto ho visto Maria, all'opera nella sua Opera (“Opera di Maria” è il nome ufficiale del Movimento dei Focolari ndr ), nei canti ("mama Maria") cantati nelle belle liturgie, e presentissima in questa terra. E potrei continuare ma ... non lo faccio, perché domani ci attende un altro giorno intenso, che deve essere ancora più bello. "Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra".
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Per capire Edc occorre "fame di vita e di futuro"
di Luigino Bruni
Nairobi, 26 gennaio 2011 – Si è conclusa ieri la 1° Scuola Edc panafricana presso la Mariapoli Piero, e oggi, 30° anniversario della morte proprio qui a Nairobi di Piero Pasolini (uno dei primi focolarini a portare il carisma dell’unità in Africa ndr), abbiamo iniziato la conferenza all’ Università Cattolica.
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