Bruni Varie

Economia Civile

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In vista del prossimo "Black Friday", proponiamo ai nostri lettori un brano di Luigino Bruni tratto dal suo nuovo libro "Il capitalismo e il  sacro", Vita e Pensiero editore

di Luigino Bruni -  tratto da "Il capitalismo e il sacro", Vita e Pensiero, novembre 2019

Diversamente da quanto pensassero Saint-Simon, Marx e Weber, il dio del capitalismo non è il capitalista né il profitto. O almeno non lo è più. La predestinazione (della cultura calvinista) che per almeno due secoli era stata una esperienza elitaria di un ristretto numero di imprenditori e banchieri, nel corso del XX secolo è progressivamente diventata una religione di massa, grazie allo spostamento del baricentro etico del capitalismo dalla sfera della produzione a quella del consumo. A essere “benedetto da Dio” non è più l’imprenditore ma il consumatore, che è lodato e invidiato perché e se ha i mezzi per consumare. Più consumo, più benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al nuovo sacerdote-consumatore. È la sovranità del consumatore la sola sovranità riconosciuta ai cittadini-fedeli del mono-culto consumista, che sta seriamente minando la cittadinanza politica. 

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Si comprende allora che il primo idolo, il capo del pantheon dell’idolatria capitalista non è l’imprenditore; non è neanche la merce e il suo feticismo (Marx), ma il consumatore.

Pensiamo ad un aspetto che può apparire secondario: gli sconti, che sono il centro attorno al quale ruotano liturgie collettive come i saldi di fine stagione o, ancor più, al nuovo culto del Black friday. Anche se ogni anno vengono sollevati dubbi sulla loro ‘verità’, in realtà gli sconti sono e devono essere reali. Lo sono perché lo sconto vero è un elemento essenziale del culto. Gli sconti devono essere reali, perché non c’è una religione senza una qualche forma di dono, di grazia e di sacrificio. Con una differenza fondamentale però, che ci svela molto della sua natura sacrale. Nelle religioni tradizionali è il fedele che fa doni al suo Dio, nella idolatria capitalistica è invece l’impresa-dio che fa ‘doni’ ai suoi fedeli. La direzione cambia perché opposto è il senso del culto. Infatti, nella religione del consumo la divinità è il consumatore, che le imprese cercano di fidelizzare (altra parola religiosa) con il loro sacrificio-sconto. Dono senza gratuità - e quindi non religione ma idolatria.

Se, dunque, il dio della religione capitalista è il consumatore, chi è il superuomo o oltre-uomo nietzschiano del capitalismo? Se spingiamo fino in fondo questa analogia potremmo dire che il superuomo del capitalismo è colui che riesce a vivere senza il suo consumo; arrivando così al paradosso che chi esce dal sistema rinunciando ai suoi consumi e dogmi è il superuomo della religione capitalista, colui, sovraumanamente, capace di vivere in un mondo senza più il suo dio.Qualcosa di analogo lo aveva (forse) intuito Benjamin quando scriveva una frase sibillina: “L’idea del superuomo disloca il ‘balzo’ apocalittico non nell’inversione, nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo1


1 - Benjamin Walter (1921), Il capitalismo come religione, in La politica ed altri scritti, Mimesis, Milano, 2016.p. 53

Credits: Foto di Виктория Бородинова da Pixabay

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In vista del prossimo "Black Friday", proponiamo ai nostri lettori un brano di Luigino Bruni tratto dal suo nuovo libro "Il capitalismo e il  sacro", Vita e Pensiero editore

di Luigino Bruni -  tratto da "Il capitalismo e il sacro", Vita e Pensiero, novembre 2019

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Black Friday, una delle feste comandate della religione del consumo

In vista del prossimo "Black Friday", proponiamo ai nostri lettori un brano di Luigino Bruni tratto dal suo nuovo libro "Il capitalismo e il  sacro", Vita e Pensiero editore di Luigino Bruni -  tratto da "Il capitalismo e il sacro", Vita e Pensiero, novembre 2019 Diversamente da quanto pensassero ...
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Dopo "l'infarto" di una decina di anni fa, il capitalismo non si è sottoposto a "cure" adeguate. Cittadini e consumatori possono imporre le riforme tanto attese

di Luigino Bruni

pubblicato su Valori il 23/10/2019 nell'ambito del Dossier "La bolla del capitalismo etico"

Le dichiarazioni di tipo etico e valoriale delle grandi multinazionali vanno sempre prese cum grano salis perché se da una parte devono dire cose non troppo lontane dal vero (non fosse altro, oggi, nell’era dei social per motivi di reputazione), dall’altra fa parte del gioco di mercato promettere più di quanto si riesca a mantenere con i comportamenti. Comunque qualcosa è ormai certo: il modo con cui abbiamo inteso negli ultimi cento anni le imprese e il mercato, sta vivendo una crisi molto più radicale e profonda di quella finanziaria degli anni scorsi.

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Crisi 2007, un infarto che il capitalismo ha dimenticato presto

La crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata una sorta di infarto del sistema ma, una volta fatta l’angioplastica e messo lo stent, il “paziente capitalismo”, con l’aiuto di qualche farmaco ha continuato lo stesso stile di vita precedente; per qualche mese la paura gli ha fatto fare un po’ di dieta e smettere di fumare ma poi, un po’ alla volta sono tornate le vecchie abitudini come se nulla fosse successo. Questa volta invece la faccenda è molto diversa: la crisi ambientale che in queste dimensioni non ha precedenti nella storia umana, non rappresenta solo una crisi coronarica ma un cambiamento radicale delle condizioni di vita che richiedono un adeguamento a qualcosa di completamente nuovo.

L’insegnamento dei Fridays for Future

Tutto questo, gli esperti lo sapevano già da tempo ma grazie al movimento “Fridays for Future” ed anche al pensiero ed all’azione di Papa Francesco (v. Laudato sii e il movimento che ne è sorto), in questi ultimi tempi la consapevolezza che il giocattolo si è rotto sta diventando estesa, popolare, universale.

Le imprese devono cambiare cultura, non per altruismo, né per amore del bene comune, ma semplicemente se non vogliono fallire. L’unico vero sovrano del capitalismo è il consumatore con le sue preferenze. Questo è un dogma della religione capitalista, ma anche la sua grande fragilità perché alla fine se i consumatori cambiano insieme preferenze, le imprese non possono far altro che cambiare velocemente prodotti.

Dalla plastica a nuovi prodotti e stili di vita

Lo stiamo già vedendo con la plastica: solo pochi mesi fa si potevano ancora fare convegni – magari su etica ed economia – con sul tavolo ben in vista bottiglie di plastica. Oggi non è già più possibile (parlo per esperienze personali) perché quella bottiglia in vista mina qualsiasi discorso etico che si sta pronunciando su quella stessa cattedra.

Tutto questo è successo in pochi mesi (il primo Fridays for Future globale è del 15 marzo scorso). Tra qualche mese questa ondata di cambiamento epocale si estenderà a molti altri prodotti: dalle automobili, ai voli aerei. 

Tutto questo le imprese lo stanno intuendo perché per vocazione, come ricordava Jevons a fine Ottocento, l’imprenditore è un anticipatore delle tendenze dei mercati.

Ma c’è di più: potrei sbagliarmi ma è altamente probabile che quanto sta accadendo sul fronte ambientale si spinga progressivamente e velocemente sul fronte sociale e le imprese con governance non partecipative e con strutture proprietarie concentrate in pochi azionisti ricchissimi, saranno punite dai consumatori, dai giovani in particolare, perché ciò che è accaduto con la democrazia che il potere politico concentrato per secoli in poche mani e in poche teste (maschi, ricchi e nobili) progressivamente si è allargato fino a raggiungere il suffragio universale, si estenderà all’economia.

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Dopo "l'infarto" di una decina di anni fa, il capitalismo non si è sottoposto a "cure" adeguate. Cittadini e consumatori possono imporre le riforme tanto attese

di Luigino Bruni

pubblicato su Valori il 23/10/2019 nell'ambito del Dossier "La bolla del capitalismo etico"

Le dichiarazioni di tipo etico e valoriale delle grandi multinazionali vanno sempre prese cum grano salis perché se da una parte devono dire cose non troppo lontane dal vero (non fosse altro, oggi, nell’era dei social per motivi di reputazione), dall’altra fa parte del gioco di mercato promettere più di quanto si riesca a mantenere con i comportamenti. Comunque qualcosa è ormai certo: il modo con cui abbiamo inteso negli ultimi cento anni le imprese e il mercato, sta vivendo una crisi molto più radicale e profonda di quella finanziaria degli anni scorsi.

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Il consumatore e le sue scelte: il vero fattore per un nuovo modello economico

Dopo "l'infarto" di una decina di anni fa, il capitalismo non si è sottoposto a "cure" adeguate. Cittadini e consumatori possono imporre le riforme tanto attese di Luigino Bruni pubblicato su Valori il 23/10/2019 nell'ambito del Dossier "La bolla del capitalismo etico" Le dichiarazioni di tipo et...
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Occorre più creatività, e occorre un pensiero non ideologico che non porti a guardare i datori di lavoro come «padroni» cattivi e sfruttatori, e, dall’altra parte, che non guardi i lavoratori come pigri e fannulloni. L’innovazione, oggi, non è più una prerogativa degli imprenditori. Anche i lavoratori devono innovare, provare e osare di più.

di luigino Bruni

pubblicato su Toscana oggi il 20/09/2019

Distruzione creatrice. Questa è la notissima espressione che troviamo al centro dell’idea di concorrenza del grande economista austriaco J.A. Schumpeter. Il mercato crea e distrugge. Ma, e lo vediamo tutti i giorni, il mercato non crea e distrugge simultaneamente, negli stessi luoghi, negli stessi modi.

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Oggi la globalizzazione economica sta creando opportunità in Cina, in India, in Bulgaria. Meno in Europa e in Italia, dove invece la concorrenza mostra tutta la sua forza distruttrice e non quella creatrice (o non ne mostra abbastanza). Al di là della retorica di tutti i governi sulla «fine della crisi», chi osserva il Paese reale sa che la crisi non è finita.

Le imprese continuano a chiudere, i lavoratori a perdere il lavoro, e troppe famiglie a soffrire. Dietro un lavoro perso c’è una situazione finanziaria che si aggrava, un mutuo iniziato pensando di avere lavoro e che poi deve essere affrontato senza lo stipendio che si credeva di avere.

Il lavoro non è un contratto come gli altri, non è una merce; è la precondizione di tutti i contratti, di tutte le merci che servono ad una persona e ad una famiglia. E quando non si lavora più, è la fioritura umana di una persona che va in crisi, non solo la sua economia. Non a caso abbiamo messo il lavoro a fondamento della nostra Costituzione, perché il lavoro è la vita della gente. E allora una società non deve e non può considerare il lavoro come una faccenda da far gestire dal solo mercato. Il mercato non basta mai, ma non basta assolutamente nel lavoro.

Nel «mercato» del lavoro (non dimentichiamo mai di scriverlo tra virgolette) le parti non sono sullo stesso piano di potere e di forza. Il lavoratore, ad esempio, non può licenziare il datore di lavoro, e servono molte mediazioni, a cominciare dalla politica. Ma l’ideologia liberista dominante in tutto il mondo in nome del libero mercato (chi lo ha visto?) sta drasticamente riducendo le mediazioni non di mercato nelle crisi e nelle vertenze aziendali.

A ciò si aggiunge la fragilità di molte imprese, che sono spesso anch’esse vittime di una economia fragile e incerta. Non è raro che la crisi aziendale sia oggi un rapporto tra più soggetti fragili, lavoratori soprattutto, ma anche le imprese, che a volte sono filiali di multinazionali dove i manager sono sottoposti a forti pressioni di padroni invisibili e lontanissimi. Dobbiamo reinventarci politiche industriali nuove, in un mondo che è cambiato. Ora la politica è lontana e confusa, le imprese liquide e i sindacati non bastano più, hanno troppo spesso categorie del XX secolo che fanno fatica a gestire le nuove crisi del XXI.

C’è bisogno, subito, di un nuovo patto sociale ed economico tra lavoratori, imprese, sindacati, politica, società civile, che parta dalla consapevolezza che siamo tutti più fragili di qualche decennio fa, che la crisi del 2008 ha davvero spezzato l’equilibrio del sistema e non siamo ancora riusciti a ricrearne uno nuovo. È finito un mondo, e il mondo nuovo richiede nuovi strumenti.

Le vertenze, i tavoli, non sono più adeguati, sono lingue ormai morte che non parlano più, o parlano male e poco. Occorre più creatività, e occorre un pensiero non ideologico che non porti a guardare i datori di lavoro come «padroni» cattivi e sfruttatori, e, dall’altra parte, che non guardi i lavoratori come pigri e fannulloni. Più rispetto e stima reciproci. Ma soprattutto serve più capacità creativa, in tutti.

L’innovazione, oggi, non è più una prerogativa degli imprenditori. Anche i lavoratori devono innovare, provare e osare di più. In queste «distruzioni» c’è bisogno di più capacità «creativa».

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di luigino Bruni

pubblicato su Toscana oggi il 20/09/2019

Distruzione creatrice. Questa è la notissima espressione che troviamo al centro dell’idea di concorrenza del grande economista austriaco J.A. Schumpeter. Il mercato crea e distrugge. Ma, e lo vediamo tutti i giorni, il mercato non crea e distrugge simultaneamente, negli stessi luoghi, negli stessi modi.

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Una nuova capacità creativa per uscire dalla crisi infinita

Occorre più creatività, e occorre un pensiero non ideologico che non porti a guardare i datori di lavoro come «padroni» cattivi e sfruttatori, e, dall’altra parte, che non guardi i lavoratori come pigri e fannulloni. L’innovazione, oggi, non è più una prerogativa degli imprenditori. Anche i lavorato...
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La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa - Intervista a Luigino Bruni

di Andrea Monda

pubblicato sull'Osservatore Romano il 28/05/2019

Investire nei giovani, guardando con realismo il presente, senza rimpianti per il passato, per generare nuove opere e istituzioni che dicano la speranza e la fede nel futuro. Perché «la fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri». È la proposta che Luigino Bruni, economista e accademico, lancia in questa intervista, intervenendo nel dibattito sulla crisi della società italiana e sul ruolo della Chiesa.

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De Rita sostiene che per un buon governo è necessaria la compresenza di due autorità distinte tra loro: quella civile e quella religiosa, la prima garantisce la sicurezza, la seconda il senso. La sensazione è che la società italiana abbia perso il senso e viva solo della paura della insicurezza, quando forse non c’è stato un periodo più sicuro nella storia del nostro paese. Se questo è il quadro più realistico, quale può essere il ruolo della Chiesa italiana?

La dimensione religiosa nelle civiltà ha offerto ai singoli e alle comunità un orizzonte più largo di quelli politici ed economici che non sono abbastanza ampi per unire i popoli. Nel medioevo la fides era al tempo stesso fede religiosa e fiducia economica e politica, poiché come ricordava anche l’economista Antonio Genovesi nel ’700 fides significava originariamente corda. Quando viene meno l’orizzonte di una fiducia più robusta dei patti politici e dei contratti gli scenari possibili sono essenzialmente due: la guerra di tutti contro tutti (e la storia dell’Europa ce l’ha mostrato nel Novecento), oppure la fiducia commerciale dei contratti tende a diventare l’unico legame sociale, come si sta verificando nel XXI secolo. Ma, lo stiamo vedendo, i contratti senza patti non reggono. In occidente il «patto» per eccellenza è l’Alleanza biblica di cui la Chiesa è erede e testimone. Nello scenario attuale, con un mercato che vuole diventare la forma della vita in comune, la Chiesa deve ricordare almeno tre cose: 1. che i contratti economici hanno bisogno di una alleanza più profonda di natura non commerciale, che consente il buon funzionamento del gioco economico; 2. che il registro commerciale costruisce autentico bene comune se non è l’unico registro della vita civile: una dinamica sociale affidata interamente all’economico diventa troppo fragile e banale; 3. che c’è un principio di gratuità che fonda anche il principio del contratto: abbiamo qualcosa da scambiare sui mercati perché prima abbiamo ricevuto gratuitamente talenti e risorse dagli altri e dalla collettività.

La natura della crisi che da più di un decennio ha messo in ginocchio l’economia delle società occidentali è puramente economico-finanziaria o rivela una crisi più grande, a livello etico-spirituale?

Quella che stiamo vivendo da almeno due-tre decenni è una crisi etica e spirituale profonda, che tocca molte dimensioni legate alla crisi delle ideologie del XX secolo e dei secoli precedenti che le avevano generate. Un aspetto importante e in genere sottovalutato è la natura narrativa della crisi. Con l’inizio del terzo millennio si è terminata l’ultima fioritura di un umanesimo antico e cristiano, talmente radicato che anche chi non era cristiano ne capiva perfettamente i codici simbolici. Nel Novecento, in Italia e non solo, anche chi non era mai entrato in una chiesa capiva e sapeva cosa succedesse dentro, chi non aveva mai pregato Maria e Gesù li conosceva e si ricordava almeno una preghiera e la recitava di nascosto in quei momenti decisivi quando anche chi non prega ricorda una preghiera dei nonni e la recita veramente. La vita e la morte parlavano a tutti, quasi con le stesse parole. Il lavoro (dei campi e nelle fabbriche, il lavoro delle donne) era stato poi quel terreno comune che aveva generato una grammatica e una sintassi delle emozioni e dei sentimenti che consentivano a tutti di parlare e capirsi oltre le differenze di culture, di fedi, di umanesimo. Peppone e Don Camillo litigavano perché parlavano la stessa lingua.

Oggi invece quando un giovane passa davanti a una chiesa difficilmente capisce cosa accade lì dentro, quando vorrebbe pregare non sa come farlo perché non ricorda più nessuna preghiera, il suo cuore non è più abitato dai volti e dalle parole dei suoi nonni. E così, quando noi adulti, figli dell’umanesimo del Novecento, proviamo a raccontare le stesse storie di ieri, finiamo per dire parole d’amore in una lingua morta.

In questi ultimi anni sembra di assistere a uno scontro tra un sistema economico che è diventato assoluto, quasi divinizzato, e la voce del Papa che appare come l’unica contraddizione al paradigma tecnocratico: esiste una via praticabile per le intuizioni presenti nella predicazione di Francesco? Penso ad esempio alla Laudato si’. Forse è questa critica del Papa al sistema uno dei motivi della grande opposizione anti-papale?

Certamente l’analisi critica del capitalismo che questo Papa ha fatto fin dalla Evangelii gaudium è un fattore importante, forse decisivo, per comprendere l’opposizione che sta incontrando. Ma, se guardiamo bene e utilizzando le categorie giuste, ci accorgiamo che la critica di Papa Francesco è una critica teologica, non economica. Non a caso egli richiama spesso la natura idolatrica del nostro sistema economico. Il capitalismo, infatti, è sempre più simile a un culto religioso, o, meglio, a un culto idolatrico. Questa non è una novità del nostro secolo (basterebbe leggere Max Weber o Walter Benjamin), ma ciò che era già presente nella natura del capitalismo tradizionale, nell’economia finanziaria-consumistica del XXI secolo si sta manifestando in modo sempre più evidente.

Anche guardando semplicemente all’urbanistica delle nostre città, ci accorgiamo immediatamente che l’economia di mercato è cresciuta e cresce grazie al consumo del territorio sacro che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo spazio liberato per gli scambi commerciali. I mercanti sono tornati nel tempio, tutto il tempio sta diventando mercato, anche il sancta sanctorum rischia di essere messo a reddito.

Essendo la religione essenzialmente re-ligio (legare e unire), per distruggere una religione occorre prima minare le comunità e isolare le persone trasformandole in meri individui. Quando viene meno la terra comune della comunità, l’esperienza religiosa inesorabilmente si spegne; oppure diventa un bene di consumo, come sta accadendo oggi, quando nel giro di due generazioni abbiamo ridotto in macerie un patrimonio comunitario e religioso costruito in oltre duemila anni, e dove gli individui senza casa e senza radici sono diventati i consumatori ideali e perfetti. Ci siamo lasciati svuotare di senso e poi abbiamo riempito quell’infinito vuoto con le merci sempre più sofisticate per provare a rispondere a tutti i bisogni, persino al bisogno di Dio — ogni idolatria è una risposta sbagliata al bisogno di Dio. Questo svuotamento-riempimento rappresenta il massimo sviluppo di quel primo “spirito del capitalismo” che leggeva l’accumulo di beni come benedizione di Dio. Ma con una novità decisiva rappresentata dallo spostamento del baricentro etico del capitalismo dalla sfera della produzione a quella del consumo. A essere “benedetto da Dio” non è più, come accadeva nell’antica etica calvinista, l’imprenditore-produttore, ma il consumatore, che è lodato e invidiato perché ha i mezzi per consumare. I predestinati sono diventati coloro che possono consumare i beni, non più quelli che li producono lavorando. Più consumo, più benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al nuovo “sacerdote”: il manager, che è tanto più “benedetto” quanto più alto è il suo bonus e quindi il suo standard di consumo.

Come conseguenza di ciò, il lavoro è uscito di scena, relegato tra i ricordi un po’ nostalgici del passato e delle sue utopie. È diventato un mezzo per aumentare i consumi, grazie a una finanza sempre più amica del consumo e nemica del lavoro, dell’impresa e dell’imprenditore-lavoratore. Per il vecchio spirito calvinista il capitalismo, centrato attorno alla produzione e al lavoro, era ancora un capitalismo essenzialmente e naturalmente sociale. Lavorare e produrre sono azioni collettive, di cooperazione e mutualità. Il lavoro è il primo mattone delle comunità umane. Il consumo è invece sempre più un atto individuale, perdendo progressivamente quella dimensione sociale pur legata alla sfera economica.

Il passaggio dal lavoro al consumo è frutto anche di un’operazione sistematica di disistima di tutto ciò che sa di fatica, sudore, sacrificio. Il consumo ci piace molto perché è tutto e solo piacere: nessuna fatica, nessun dolore, nessun sacrificio. Così non stupisce che la nuova frontiera della battaglia civile si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”, che sta diventando lo slogan del XXI, magari reso possibile grazie a un reddito minimo garantito per poter essere introdotti nel nuovo tempio. Più consumo, meno lavoro, più benedizione. Le idolatrie sono sempre economie di puro consumo. Il totem non lavora, e il lavoro dei suoi devoti vale solo in quanto orientato al consumo: all’offerta, al sacrificio. Più una cultura è idolatrica più disprezza il lavoro e adora il consumo e quella finanza che promette un culto perpetuo di solo consumo senza fatica.

Paura e rancore, questi sembrano i sentimenti che agitano la società italiana, un circolo vizioso che si autoalimenta, come uscirne fuori?

In questi giorni mi torna spesso in mente il grande romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, dove Drogo e i suoi soldati per anni attendevano racchiusi nel loro forte un nemico che non arrivava mai, e nell’attesa di questo nemico scoppiavano conflitti e nevrosi all’interno del forte. Siamo stati capaci di costruire anche noi dei nemici immaginari che stanno producendo molti conflitti e molti rancori tra i cittadini dei paesi europei. Questa fase della nostra storia sarà ricordata fra i momenti peggiori del continente europeo perché da almeno quattro secoli, cioè dall’inizio delle guerre di religione, l’Europa aveva imparato che la paura e la costruzione ideologica del nemico producono solo guerre e genocidi. Se non reagiamo subito, insieme e con grande energia (inclusa l’energia intellettuale e culturale), nel giro di pochi anni regrediremo alle guerre fra Signorie e staterelli dell’inizio dell’era moderna, che precedettero la nascita degli stati nazionali. Il rilancio di un grande progetto europeo è dunque essenziale.

La prudenza della Chiesa italiana sembra miopia (Zamagni) o stanchezza (De Rita) di fronte all’urgenza di organizzare una qualche forma di presa di coscienza e di appello all’azione, è d’accordo sulla critica dei suoi illustri colleghi? E quale può essere il ruolo dei laici in una sinodalità “dal basso”?

I disturbi della vista e la stanchezza sono sintomi dell’invecchiamento. La Chiesa cattolica italiana, come la Chiesa europea e di altri paesi occidentali, vive un progressivo invecchiamento, che sta avvenendo parallelamente a un’accelerazione della storia che amplifica gli effetti di questo invecchiamento. Ci sarebbe bisogno di un grande, sistematico e ambizioso “progetto giovani”, avviato da Papa Francesco e dal Sinodo sui giovani, che non può limitarsi alle giornate dei giovani o alla tradizionale pastorale giovanile, ma che dovrebbe partire prendendo molto più sul serio il “pensiero” dei giovani e dei ragazzi, che hanno un loro punto di vista sul mondo, sul pianeta, sulla povertà, sull’ecologia — il movimento di Greta è un punto di non ritorno, occorre saperlo interpretare. I giovani vanno ascoltati, presi sul serio, responsabilizzati, interpellati, posti nei luoghi di governo.

Inoltre, il dopo-Concilio ha conosciuto una autentica primavera di nuovi movimenti e comunità, che ha riportato una stagione carismatica in tutta la Chiesa cattolica. Questa spinta collettiva si è in buona parte spenta. I grandi movimenti soffrono tutti della mancanza di nuove vocazioni e di innovazioni, e il XXI secolo non sembra generarne di nuove.

Una buona lettura del tempo che vive la Chiesa cattolica ci proviene dal grande profeta Geremia. Nel suo libro c’è un episodio che ha molto da dirci in questa età di passaggi d’epoca, che investono la società, l’economia, le religioni e i movimenti spirituali nati nel Novecento. Geremia profetizza a Gerusalemme prima e durante l’evento più importante e devastante della storia di Israele: la conquista della città da parte dei babilonesi, la distruzione del tempio e quindi la deportazione in Babilonia. Una prova soprattutto religiosa, perché fu difficilissimo per il popolo ebraico capire il senso di quella tragedia, capire che il loro Dio diverso, YHWH, poteva essere vero anche se sconfitto. Geremia continuava a ripetere la sua profezia, ma, mentre annunciava al suo popolo la resa, con i babilonesi ormai alle porte, Geremia decide di recarsi nel suo villaggio natale (Anatot) per acquistare un terreno: «Stesi il documento del contratto, lo sigillai, chiamai i testimoni e pesai l’argento sulla stadera» (Geremia 32,10). Gerusalemme stava per capitolare; tutti fuggivano lasciando case e terreni abbandonati. Il profeta, invece, fa un atto che va nella direzione opposta di quella distruzione: compra un pezzo di quella terra che sta per essere devastata e conquistata. Vede attuarsi quella fine che aveva profetizzato e che gli era costata persecuzioni, torture e carcere, ma insieme fa un gesto che dice futuro, perché, dice, «Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese» (32,15). E quindi con i fatti ripete: è finita una storia ma non è finita la storia. È finita la grande storia del regno di Davide, iniziata con la terra promessa conquistata e occupata. Questa storia, dice il profeta, è finita, e non si torna indietro. Ma, aggiunge: non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. E questo resto che tornerà continuerà la stessa storia, purificata dall’esperienza dell’esilio.

Questo episodio è utile, a mio avviso, per comprendere il nostro tempo. In questa fase di passaggio di epoca dovremmo imitare Geremia: guardare con realismo il presente, non illuderci né illudere rimpiangendo o ricordando il grande passato della cristianità; e poi comprare un campo, fare nuove opere e istituzioni per dire speranza e fede nel futuro. Oggi servirebbero nuove università, scuole, opere concrete. La fede non è faccenda di idee. Troppe volte nel Novecento, anche dentro movimenti e comunità, i giovani e le persone hanno incontrato una ideologia (c’è un’affinità tra ideologia e idolatria), non la fede biblica. La fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri. E quindi con opere concrete, che oggi mancano molto, troppo, nella Chiesa cattolica. Istituzioni nuove, giovani, fatte con e insieme ai giovani, con e insieme ai poveri — è sempre in mezzo ai poveri dove si impara a risorgere. Nei periodi delle sue molte crisi epocali, la Chiesa è risorta generando opere: i Monti di pietà del Quattrocento, che risposero alle gravi crisi della povertà urbana; le migliaia di opere educative e sanitarie dei carismi sociali dal Seicento al Novecento, le cooperative, le banche, le università nel Novecento. E oggi? E noi?

E infine ripetere insieme: è finita una storia, non è finita la storia. Un piccolo resto continuerà la storia di ieri. E sarà ancora più bello.

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La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa - Intervista a Luigino Bruni

di Andrea Monda

pubblicato sull'Osservatore Romano il 28/05/2019

Investire nei giovani, guardando con realismo il presente, senza rimpianti per il passato, per generare nuove opere e istituzioni che dicano la speranza e la fede nel futuro. Perché «la fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri». È la proposta che Luigino Bruni, economista e accademico, lancia in questa intervista, intervenendo nel dibattito sulla crisi della società italiana e sul ruolo della Chiesa.

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È finita una storia non la storia

La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa - Intervista a Luigino Bruni di Andrea Monda pubblicato sull'Osservatore Romano il 28/05/2019 Investire nei giovani, guardando con realismo il presente, senza rimpianti per il passato, per generare nuove opere e istituzioni che dicano la spe...
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Senza un aggiornamento della propria vocazione economica e civile, l’Italia è destinata a diventare il Paese dei balocchi dei turisti di tutto il mondo

di Luigino Bruni

pubblicato su Corriere della Sera - Supplemento Buone Notizie del 26/03/2019

Le economie sono molte e diverse, anche nell’era della globalizzazione che cerca di farcelo dimenticare. Il XX secolo era stato il secolo dell’economia plurale. Non per caso, la filantropia si è sviluppata negli Usa e il movimento cooperativo in Europa. Fino a tre decenni fa, queste differenze culturali, sociali ed economiche tra capitalismi erano molto evidenti, facevano parte del patrimonio identitario e civile dei popoli e delle nazioni, aumentavano la biodiversità della terra. La ricchezza straordinaria prodotta dal XX secolo dipendeva anche dagli incontri tra diversità, i soli incontri veramente generativi. La riduzione di bio-diversità tipica del nostro tempo si trasformerà presto in riduzione di ricchezza, se non ricominceremo a guardare i luoghi e porli al centro dell’analisi economica e politica.

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Il Festival nazionale dell’Economia civile nasce dalla convinzione che una riflessione culturale, politica ed economica sulla natura e sulla vocazione del capitalismo italiano, meridiano, cattolico, comunitario, «civile», possa aiutare la nostra società che soffre anche «per mancanza di pensiero» (Paolo VI). Siamo dentro una carestia intellettuale che ci impedisce di capire che per riformare la scuola, il lavoro, la cura, le comunità, le cooperative, le banche, ci sarebbe bisogno prima di cercare di capire lo specifico che un territorio, una storia, un’anima collettiva hanno generato nei secoli. I bambini e i giovani, ad esempio, vanno a scuola in tutto il mondo (o quasi), e sono simili tra di loro in molte cose ma non in tutte: per fare buona scuola occorre avere un’idea dello spirito di un luogo e di un tempo. L’Italia ha inventato nel Medioevo e nella Modernità le università e le accademie, perché in quei secoli ha saputo leggere nel profondo della sua vocazione e poi ha trasformato lo spirito in istituzioni. Ha generato la prima cattedra di economia nella storia, nata nel 1754 dalla sinergia tra un riformatore toscano, Bartolomeo Intuire, un abate salernitano cacciato dalla facoltà di teologia di Napoli, Antonio Genovesi, e quindi la tradizione dell’Economia civile nata dall’incontro tra lo spirito laico e quello cristiano italiano e europeo.

L’Economia civile è stata la forma che ha preso nella modernità lo spirito economico e sociale del nostro Paese, che vede nella pubblica felicità, eredità del mondo romano, il proprio obiettivo e ideale. Oggi all’Italia mancano spirito e istituzioni, economia civile e felicità pubblica, perché abbiamo smarrito l’anima collettiva del nostro umanesimo. L’economia è espressione della vita nei territori, nell’oikos, è una faccenda di luoghi concreti del vivere e di relazioni che in quei territori nascono e rinascono ogni giorno, come sapeva bene l’economista fiorentino Giacomo Becattini, che ha raccontato un’altra storia economica e civile dell’Italia, perché osservatore e ascoltatore dei luoghi e della loro «coralità produttiva».

I luoghi, non gli individui, sono l’unità elementare del benessere e dello sviluppo. La creazione di valore dipende dai valori delle persone e delle loro relazioni, come nel linguaggio, dove la prima unità di senso da cui partire per comprendere un discorso è la frase e non la singola parola in essa contenuta. Il Festival sarà una occasione per riflettere sulla crisi e sulla vocazione dell’Italia e dell’Europa, a partire dal suo specifico e diverso spirito civile del mercato. Senza un aggiornamento della propria vocazione economica e civile, l’Italia è destinata a diventare il Paese dei balocchi dei turisti di tutto il mondo. E sarebbe davvero troppo poco.

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Senza un aggiornamento della propria vocazione economica e civile, l’Italia è destinata a diventare il Paese dei balocchi dei turisti di tutto il mondo

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pubblicato su Corriere della Sera - Supplemento Buone Notizie del 26/03/2019

Le economie sono molte e diverse, anche nell’era della globalizzazione che cerca di farcelo dimenticare. Il XX secolo era stato il secolo dell’economia plurale. Non per caso, la filantropia si è sviluppata negli Usa e il movimento cooperativo in Europa. Fino a tre decenni fa, queste differenze culturali, sociali ed economiche tra capitalismi erano molto evidenti, facevano parte del patrimonio identitario e civile dei popoli e delle nazioni, aumentavano la biodiversità della terra. La ricchezza straordinaria prodotta dal XX secolo dipendeva anche dagli incontri tra diversità, i soli incontri veramente generativi. La riduzione di bio-diversità tipica del nostro tempo si trasformerà presto in riduzione di ricchezza, se non ricominceremo a guardare i luoghi e porli al centro dell’analisi economica e politica.

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«Recuperiamo l’anima collettiva smarrita»

«Recuperiamo l’anima collettiva smarrita»

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Dedicato a Greta Thunberg ed a tutti i ragazzi che, come lei, chiedono solo di essere presi sul serio. #ClimateStrike #FridaysforFuture

di Luigino Bruni

tratto dall'introduzione del libro "Generazione Fame zero" curato dai ragazzi del Movimento dei Focolari, co-edizione Fao-New Humanity

Le ragazze e i ragazzi hanno un loro proprio punto di vista sul mondo. Fanno molte cose, come e più degli adulti, e con le loro azioni cambiano e migliorano il mondo ogni giorno. L’infanzia e l’adolescenza sono un patrimonio globale della terra, il primo bene comune (common) globale, quello che ha più valore perché in sé contiene la possibilità stessa della continuazione della vita umana. I ragazzi e le ragazze, però, non sanno solo fare: sanno anche pensare, pensano diversamente dagli adulti ed hanno molte idee, perché non occorre diventare grandi per iniziare a pensare veramente. La nostra civiltà ama molto i bambini e i ragazzi, ma non conosce, e quindi non apprezza, il loro pensiero sul mondo. Eppure il loro punto di vista è prezioso ed essenziale: hanno idee sull’economia, sulla politica e, ancora di più, sull’ambiente. Le pensano e le dicono con linguaggi loro, ma le dicono e le pensano. Vivono e guardano lo stesso mondo dei genitori, ma lo guardano e lo vivono diversamente, e quindi lo pensano diversamente. 

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Il pensiero dei ragazzi è troppo assente dal nostro tempo presente, come era assente nei tempi passati. Eppure hanno sempre pensato, ma il mondo da loro pensato non era considerato dagli adulti qualcosa di interessante né, tantomeno, di utile per la vita sociale, economica, politica. E così questo grande patrimonio è rimasto in massima parte trascurato, dimenticato, non valorizzato. Avremmo avuto una società, una economia e una politica migliori se avessimo preso sul serio anche questo diverso pensiero. Più giuste, più sostenibili, più belle. Il pensiero ragazzo è stato ed è il grande assente nel dibattito pubblico.

Il modo con cui i ragazzi e le ragazze guardano alla fame e la pensano, ad esempio, non è il modo adulto. Loro, molto più di noi, vedono i beni economici all’interno delle relazioni. Sono più sensibili alla diseguaglianza, danno poco peso al denaro, sono generosi. Il loro è un pensiero concreto: non c’è la fame nel mondo, ma ci sono bambini, ragazzi e persone concrete che hanno fame. Perché si può parlare molto loro di fame e povertà, ma la capiscono veramente solo quando vedono e incontrano qualcuno in carne ed essa che è povero e ha fame. La tv e la rete vanno bene per molte cose, ma non per conoscere la fame e la povertà, che sono beni di esperienza (experience goods), che li capisci solo se li vivi, se li tocchi. Per questa ragione, anche il loro pensiero è concreto, è vivo, si tocca: come un panino dimenticato da un cuoco, come la spazzatura gettata per terra dagli adulti e raccolta da loro.

I ragazzi e le ragazze dovrebbero e dovranno partecipare al dibattito pubblico su tutti i temi, Interagire con i politici e gli economisti, raccontare le loro esperienze e esprimere il loro pensiero. Il loro pensiero dovrebbe essere conosciuto dai principali politici ed economisti, perché ne hanno bisogno, perché è un pane che non hanno e che dovrebbero avere. E gli eventi di questi giorni ci dà la buona notizia che qualche politico sta cambiando e sta dando loro ‘voce in capitolo’.
Il pensiero dei ragazzi è rivolto a tutti, è un dono per la società intera. Finora lo abbiamo dimenticato, è forse arrivato il tempo di ricordarcelo. Rilanciare questo pensiero diverso è essenziale per il Bene comune. Perché il Bene comune sarà più vicino quando sarà accolto e ascoltato anche il pensiero dei ragazzi.

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Dedicato a Greta Thunberg ed a tutti i ragazzi che, come lei, chiedono solo di essere presi sul serio. #ClimateStrike #FridaysforFuture

di Luigino Bruni

tratto dall'introduzione del libro "Generazione Fame zero" curato dai ragazzi del Movimento dei Focolari, co-edizione Fao-New Humanity

Le ragazze e i ragazzi hanno un loro proprio punto di vista sul mondo. Fanno molte cose, come e più degli adulti, e con le loro azioni cambiano e migliorano il mondo ogni giorno. L’infanzia e l’adolescenza sono un patrimonio globale della terra, il primo bene comune (common) globale, quello che ha più valore perché in sé contiene la possibilità stessa della continuazione della vita umana. I ragazzi e le ragazze, però, non sanno solo fare: sanno anche pensare, pensano diversamente dagli adulti ed hanno molte idee, perché non occorre diventare grandi per iniziare a pensare veramente. La nostra civiltà ama molto i bambini e i ragazzi, ma non conosce, e quindi non apprezza, il loro pensiero sul mondo. Eppure il loro punto di vista è prezioso ed essenziale: hanno idee sull’economia, sulla politica e, ancora di più, sull’ambiente. Le pensano e le dicono con linguaggi loro, ma le dicono e le pensano. Vivono e guardano lo stesso mondo dei genitori, ma lo guardano e lo vivono diversamente, e quindi lo pensano diversamente. 

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Il pensiero dei ragazzi, patrimonio globale della terra.

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Cosa vuol dire avere una missione nella vita? Si può parlare di “vocazioni civili”? Lo abbiamo chiesto all’economista Luigino Bruni, che da tempo affronta questa tematica nei suoi articoli per il quotidiano italiano Avvenire.

di Paolo Balduzzi

pubblicato su unitedworldproject.org il 15/02/2019

Prof. Bruni, cominciamo con il chiarire il concetto di “vocazione civile”…

Io non avrei aggiunto “civile” perché ogni vocazione è civile. Anche la vocazione di una suora di clausura è civile, perché ha a che fare con la vita umana. Una monaca di clausura può vivere una vita appartata, ma è sempre una vocazione che guarda l’umanità, che prega per tutti.

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Cos’è la vocazione?

Rispondo partendo dal dato empirico che nel mondo esistono le vocazioni. In tutti gli ambiti della vita ci sono delle persone che sentono una chiamata interiore a svolgere un compito. I luoghi più forti sono la vita artistica e quella religiosa, un po’ quella scientifica. A un certo punto e in un certo luogo, c’è una chiamata interiore nella propria coscienza, un qualcosa che ti chiama dentro e ti chiede di fare qualcosa. E tu senti che la tua vita ha a che fare con un compito. Questa è la vocazione. Qualcuno, questa “voce”, la chiama Dio; altri la sentono e basta, ma è un dato concreto, storico, empirico che esistano questo tipo di persone che fanno il mondo più bello! Il mondo è più bello perché esistono le vocazioni, perché esiste gente che vive la vita come un compito, un impegno, un destino.

C’è una caratteristica che contraddistingue la vocazione?

Penso sia il fatto che questo compito, questo destino, non ha tanto a che fare con le cose che facciamo ma con “chi sono io”. Quindi, ha a che fare con l’identità, riguarda il mio posto nel mondo. Non è detto che sia l’unica dimensione della persona. Ogni persona ha più identità, ha più elementi: è madre, padre, per tanti anni è un lavoratore, però c’è una dimensione particolarmente forte della vita che ti fa dire, “io sono un pittore”, non solo, “faccio il pittore”.

A volte, però, magari per paura, si sente la voce e ci si gira dall’altra parte…

Come le alleanze vere, come i matrimoni, la vocazione ha a che fare con il sangue, con la carne. Tu puoi lasciare un’alleanza, puoi rompere un patto ma la carne rimane segnata per sempre, perché è un problema di carne, non è un problema di idee.

Tu senti la voce in una condizione, poi magari le cose durante la vita cambiano… cosa vuol dire allora essere fedeli a una vocazione?

Questa voce non è fissa, è un’alleanza, quindi cresce con me. Io vorrei cambiare il patto che si legge durante il matrimonio, che in lingua italiana dice: “Io prometto di prendere te come mia sposa, di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore”. Io invece direi: “Prendo te come mia sposa e prometto di esserti fedele sempre, a ciò che sei ora e a ciò che diventerai e che, né tu, né io, sappiamo”. Perché il problema delle vocazioni, dei patti, è che si cambia tutti e due, cambia la “voce” e cambi tu. Quindi: “prometto di esserti fedele a ciò che sei ora e a ciò che diventerai e che non sappiamo né tu, né io”. Invece, quando si lascia qualcuno, gli si dice: “Sei cambiato!” Ma l’essere umano non è una mummia che rimane intatta tutta la vita.

La vocazione ha quindi a che fare con sé stessi, non è solo un fatto religioso?

Assolutamente sì, anche se in un libro grande come è la Bibbia, si parla di vocazione, di quali forme prendono le vocazioni… Ve ne racconto alcune che mi sembrano molto interessanti, poi, ognuno si può ritrovare più in una, piuttosto che in un’altra, ma sono tutte molto belle. La prima forma che troviamo, non in ordine storico, ma perché è molto famosa, è la vocazione di Abramo. Abraham è un uomo già adulto che, a un certo punto, sente una voce che lo chiama per nome e lo invita a partire, promettendogli una “terra nuova”, dove scorre latte e miele che, a quel tempo, era il massimo dell’abbondanza. Come dire, oggi: “Ti darò caviale”. In quel mondo, i figli erano il Paradiso, perché nell’Antico Testamento non c’è l’idea del Paradiso, l’unico Paradiso erano i figli, cioè l’idea che tu continui dopo la morte. Quella che viene fatta ad Abramo è una promessa di felicità: tu senti un incontro con una chiamata e lì, ci vedi la tua felicità: “Vai, parti, fa questo lavoro, segui (ad esempio) la tua vocazione artistica e sarai felice”. Quindi, una promessa di felicità che è una struttura molto comune a tante vocazioni, soprattutto giovanili, perché i giovani vogliono essere felici.

Beh, se permetti, anche i più maturi vogliono essere felici…

È chiaro! E, poi, posso dirti che tantissime vocazioni avvengono mentre la gente lavora! Non c’è niente di più bello di questo. Il lavoro è un luogo dove Dio ti parla, ed eccoci ad una seconda forma: Mosè, ad esempio, sta lavorando, fa il pastore e un roveto ardente lo chiama: “Va’ e libera il mio popolo schiavo in Egitto”. Non c’è nessuna terra promessa, nessuna felicità, c’è un compito di liberazione di schiavi, tanto che Mosè dice: “Io non ci vado, manda mio fratello Aronne, io non so parlare”. C’è poca felicità, c’è la vocazione come compito: devi fare questo, perché la vita è così, lo senti dentro e devi farlo.

Ci sono degli esempi che ci aiutano a capire meglio come si concretizza una vocazione?

C’è lo schema della vocazione di Samuele, che a me piace molto. Samuele è una figura molto interessante, perché è un ragazzo già destinato al tempio, fin da bambino, e vive nel tempio, cresce, ma ancora non conosce il Signore. Finché il Signore stesso lo chiama, una notte. Ma il sacerdote anziano, Eli, non capisce e lo rimanda a letto per tre volte. Solo alla terza chiamata capisce che Samuele è chiamato da Dio. Cosa vuol dire? C’è gente che non capisce subito, c’è bisogno di chiamare più volte, e ci vuole Eli. Eli è il nome di questo sacerdote anziano, un esperto della parola, un esperto della vita spirituale, che dice: “Attenzione, è il Signore!”, ma Eli ha anche voluto aspettare tre volte.  Per dirti che ci vuole pazienza in queste cose. A volte le vocazioni si perdono perché non si aspetta e si dice subito: “Guarda, sì, ti chiama il Signore”, o perché manca un “Eli” che insegna come fare. Per quanto riguarda la “concretizzazione”, come la chiami tu, ti dico questo: pensa al fatto, stupendo, che Samuele, quando diventa grande, consacra Saul, il primo re, nella periferia della città, non nel tempio. Mi piace moltissimo che un atto fondamentale della storia biblica accada in una periferia, nella banlieue di una città e non accada nel tempio. Così come Mosè viene incontrato mentre pascola le pecore, e gli Apostoli mentre pescano. A me questo piace moltissimo: la laicità della vita! Cioè, le cose più importanti, avvengono mentre lavori, mentre lavi i piatti, mentre guidi la macchina. Questa è la laicità delle vocazioni, accadono dove vivi, dove sei. Dalla storia dei Vangeli, sembra che l’Arcangelo Gabriele stesso raggiunga Maria a casa sua, non nel tempio, e io sono convinto che forse lei stesse lavando i piatti o sistemando la stanza.

Eppure oggi è difficile sentire quella voce in mezzo a un frastuono di voci che dicono altro, ti portano su altre strade, ma anche in mezzo a mille doveri e compiti…

Guarda, io sono un grande fan di Noè, perché Noè è un uomo giusto in un mondo guastato dopo Caino, un mondo dove la gente uccideva un ragazzo per un graffio, dove si era arrivati a una guerra di tutti contro tutti. Dice la Bibbia che era rimasto solo un giusto: era Noè. Tu puoi salvare una città intera se ne è rimasto uno, puoi salvare un’impresa se ce n’è uno, una famiglia, se ce n’è uno. Non è che ce ne vogliono 50, ma ci vuole uno che sa ascoltare e risponde a una vocazione: ecco cosa vuol dire “giusto”.  Poi, questo “uno” trova anche dei compagni, ma in fondo Francesco era uno, Chiara era una. Comincia che uno ti chiama: “Francesco!”, “Chiara!”, “Noè!”. “Uno” e “giusto” che risponde a una chiamata senza parlare, perché Noè nella Bibbia non parla con Dio, parla costruendo l’arca. Dio gli dice: “costruisci un’arca” e lui la fa. Ci sono alcune persone, alcuni che diventano Noè, facendo l’arca, che sentono una chiamata a costruire un’arca, non sanno chi sia la voce ma sentono una spinta, costruiscono l’arca e poi, magari dopo tanti anni, scoprono chi è la voce. L’arca è un’immagine: è una famiglia, un impegno in politica, in conservatorio, nella professione. Quello che è importante è che arriva, prima o poi, questo momento “dell’arca”. Tante vocazioni cominciano come Abramo: “Vai, ti farò felice” e finiscono come Noè, cioè cominci per la tua felicità e finisci per la felicità degli altri. Parti per essere felice e un giorno ti accorgi che quello che veramente conta non è la tua felicità ma salvare gli altri.

Magari uno passa tutta la vita a cercare la vocazione… e non la scopre..

Questo tipo di vocazioni non ha età. Può anche arrivare poco prima di morire. Tu scopri di essere un poeta a 80 anni, non lo sapevi e fai una poesia, però quella poesia è stata preparata da 80 anni di vita. Questa cosa è fondamentale, le vocazioni fioriscono, la vita funziona quando arriva l’arca e tu ti scordi di te e salvi qualcuno: può essere un’arca, può essere un panfilo, può essere uno yacht, può essere una canoa, ma non un monoposto, non è k1, almeno k2. Ci vuole uno vicino a te, cioè devi salvarne uno. Questo, secondo me, è un bel modo di immaginare la vita, cioè una vita che comincia pensando a sé stessi e finisce pensando agli altri. Tu senti di fare delle scelte più vere di quelle che sono soltanto la tua felicità privata. La felicità di tutti è quella più importante. Ecco le vocazioni, al di là di come parlano (un linguaggio religioso, un linguaggio laico, artistico). Ci vuole “uno” che si sente chiamare, che risponde, che cerca la felicità e poi, un giorno, capisce che quella felicità significa costruire un’arca per salvare gli altri, per salvare qualcuno.

Quali sono allora i “luoghi” delle vocazioni?

Se noi volessimo capire dove si trovano nel mondo, oggi, queste vocazioni, dovremmo andarle a cercare soprattutto nelle periferie esistenziali, sulle barche degli immigrati a Lampedusa, sui luoghi di chi combatte per i diritti umani, per l’ambiente, per i rifugiati, per i carcerati, per i poveri…

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Cosa vuol dire avere una missione nella vita? Si può parlare di “vocazioni civili”? Lo abbiamo chiesto all’economista Luigino Bruni, che da tempo affronta questa tematica nei suoi articoli per il quotidiano italiano Avvenire.

di Paolo Balduzzi

pubblicato su unitedworldproject.org il 15/02/2019

Prof. Bruni, cominciamo con il chiarire il concetto di “vocazione civile”…

Io non avrei aggiunto “civile” perché ogni vocazione è civile. Anche la vocazione di una suora di clausura è civile, perché ha a che fare con la vita umana. Una monaca di clausura può vivere una vita appartata, ma è sempre una vocazione che guarda l’umanità, che prega per tutti.

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La vocazione e l’altro

Cosa vuol dire avere una missione nella vita? Si può parlare di “vocazioni civili”? Lo abbiamo chiesto all’economista Luigino Bruni, che da tempo affronta questa tematica nei suoi articoli per il quotidiano italiano Avvenire. di Paolo Balduzzi pubblicato su unitedworldproject.org il 15/02/2019 Pr...
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La società spinge sul merito ma diventa spietata, dimenticando i bisogni. Il rischio? La legittimazione etica della diseguaglianza. L’antidoto al male del nostro secolo? La rivoluzione della gratuità

di Luigino Bruni

Pubblicato sul Corriere della Sera - Supplemento Buone Notizie dell'11/12/2018

La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la diseguaglianza. La sua origine si perde infatti nella storia delle religioni e dei culti idolatrici. La Bibbia (i profeti e Giobbe soprattutto) e il Cristianesimo hanno tentato una vera e propria rivoluzione anti-meritocratica, anche se con scarso successo. Per capirlo basterebbe leggere la parabola dell’operaio dell’ultima ora, e la sua politica salariale anti-meritocratica; o prendere sul serio il «fratello maggiore» nel racconto del Figliol prodigo, che rimprovera il padre misericordioso per non aver seguito il registro del merito. La misericordia è l’opposto della meritocrazia: non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che la genera. Le società meritocratiche sono spietate. Nonostante ciò, l’antica teologia meritocratica ha continuato a influenzare l’Occidente.

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Eppure fino a tempi molto recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno, grande parola oggi dimenticata. Inoltre, l’impresa e il mercato non sono ambiti meritocratici, perché le scelte avvengono sulla base di informazioni ex-ante mentre i risultati dipendono in buona parte da eventi ex-post imprevisti e spesso imprevedibili.

Tra gli imprenditori di successo ci sono molti demeritevoli premiati solo dal caso, e tra i falliti ci sono molti meriti che hanno semplicemente trovato il vento sfavorevole. E invece è proprio il business il principale veicolo di meritocrazia. Un altro paradosso, ancora più sorprendente, di una meritocrazia del business prodotta prevalentemente da mondo anglosassone e Usa il cui umanesimo era nato dalla radicale polemica di Lutero e Calvino contro la «salvezza per meriti». La novità del nostro capitalismo è l’estensione della meritocrazia a ogni ambito della vita civile, la cui prima e più rilevante conseguenza è la legittimazione etica della diseguaglianza, che da male da combattere sta diventando un valore da difendere e promuovere. I passaggi sono tre: 1) si inizia con il considerare il talento un merito; 2) si continua riducendo i molti meriti delle persone solo a quelli più semplici e utili (chi vede oggi i meriti della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3) infine si remunerano diversamente i talenti-meriti amplificando le distanze tra le persone, dimenticando radicalmente il ruolo decisivo che il caso e la provvidenza esercitano sui nostri talenti. Così se sono figlio di genitori colti, ricchi e intelligenti, se nasco e cresco in un Paese con molti beni pubblici, quando andrò in pensione la distanza dai miei concittadini venuti al mondo con meno talenti-meriti si sarà moltiplicata di un fattore pari a dieci o cento.

La nostra Costituzione all’articolo 34 recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Una formulazione quanto meno parziale, perché chi dovrebbe essere messo nelle condizioni di raggiungere «i gradi più alti» non sono solo, né tanto, i capaci, ma i meno capaci, perché l’essere più o meno capace non è faccenda di merito ma di condizioni sociali e ambientali in parte ereditate. Se quindi un sistema sociale premia chi è già capace, non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che non sono tali per demerito ma per la vita.

In questa ondata di religione meritocratica sarebbe più che mai urgente tornare all’antica critica di Agostino a Pelagio. Agostino non negava l’esistenza nelle persone di talenti e di impegno che poi generano quelle azioni o stati etici che chiamiamo meriti (da merere: guadagnare, mercede, meretrice). Il punto decisivo per Agostino riguardava la natura dei doni e dei meriti. Per lui erano charis, grazia, gratuità. I meriti non sono merito nostro, se non in minima parte, una parte troppo infima per farne il muro maestro di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti come merito e non come dono è una drammatica carestia di gratitudine. Non capiamo allora l’aumento delle diseguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio l’avanzare indisturbato della teologia meritocratica. Come non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più visti come demeritevoli e non come sventurati. Se, infatti, il talento è merito, l’equivalenza demerito-colpa è immediata. E se i poveri sono colpevoli io non sento nessun dovere di aiuto. Le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché ne è il loro antidoto. Solo una rivoluzione della gratuità potrà liberarci da questa nuova religione senza dio.

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La società spinge sul merito ma diventa spietata, dimenticando i bisogni. Il rischio? La legittimazione etica della diseguaglianza. L’antidoto al male del nostro secolo? La rivoluzione della gratuità

di Luigino Bruni

Pubblicato sul Corriere della Sera - Supplemento Buone Notizie dell'11/12/2018

La meritocrazia sta diventando la nuova religione del nostro tempo, i cui dogmi sono la colpevolizzazione del povero e la lode per la diseguaglianza. La sua origine si perde infatti nella storia delle religioni e dei culti idolatrici. La Bibbia (i profeti e Giobbe soprattutto) e il Cristianesimo hanno tentato una vera e propria rivoluzione anti-meritocratica, anche se con scarso successo. Per capirlo basterebbe leggere la parabola dell’operaio dell’ultima ora, e la sua politica salariale anti-meritocratica; o prendere sul serio il «fratello maggiore» nel racconto del Figliol prodigo, che rimprovera il padre misericordioso per non aver seguito il registro del merito. La misericordia è l’opposto della meritocrazia: non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che la genera. Le società meritocratiche sono spietate. Nonostante ciò, l’antica teologia meritocratica ha continuato a influenzare l’Occidente.

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«Meritocrazia, adesso basta»

La società spinge sul merito ma diventa spietata, dimenticando i bisogni. Il rischio? La legittimazione etica della diseguaglianza. L’antidoto al male del nostro secolo? La rivoluzione della gratuità di Luigino Bruni Pubblicato sul Corriere della Sera - Supplemento Buone Notizie dell'11/12/2018 L...
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Sul portale di San Francesco, un contributo sull'economia circolare dell'economista Luigino Bruni

di Luigino Bruni

pubblicato su SanFrancesco il 10/05/2018

A volte si legge l’avanzare dell’economia circolare come una alternativa al capitalismo. In realtà, uscire dal capitalismo non è cosa semplice. Dovremmo, quantomeno, individuare la ‘domanda’ di uscita e poi metterci d’accordo da che cosa dovremmo uscire. La parola capitalismo ormai è diventata un’espressione che avvolge così tante cose che una volta usciti non è chiaro quale luogo resti per recarvisi.

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Non stupisce, quindi, che i sostenitori dell’economia circolare non parlino di uscire dal capitalismo ma di riforma di alcuni aspetti dell’attuale modello di economia e di società. Dubbi che le idee non siano chiare emergono quando sul web si incontrano affermazioni sull’economia circolare del tipo: “Per diventare un modello realizzabile e dominante l’economia circolare dovrebbe naturalmente garantire ai diversi soggetti economici una redditività almeno pari a quella attuale: non basta che sia “buona”, deve diventare conveniente”.

La ‘redditività’ pari a quella ‘attuale’ è il frutto di una economia non-circolare e spesso predatoria che è cresciuta troppo e non è stata sostenibile. Pensare che un cambio di paradigma nel senso circolare garantisca la stessa ‘redditività’ è semplicemente ingenuo, se detto in buona fede. Il che dice però che quando si evocano i cambiamenti di paradigma non siamo sempre consapevoli dei costi che tali cambiamenti comporterebbero: ci piacciono le domande ma non sempre le risposte che otterremo a tali domande. Molti dei teorici di questa idea mentre l’annunciano girano il mondo in aereo, sapendo che una economia circolare vera non sarebbe sostenibile con l’attuale traffico via aria (e via terra). Molti usano cellulari, automobili, scarpe e jeans non compatibili con l’implementazione dei loro ideali.

Quali siano i temi cruciali dell’economia circolare non è affatto chiaro, perché l’espressione è diventata una sorta di ombrella culturale che copre un’ampia famiglia di fenomeni, nati da visioni molto diverse e con antropologie e umanesimi diversi. Si riconoscono nello slogan molti attivisti della decrescita, della Green economy, dell’agricoltura biologica e sostenibile, teorici della bio-economia, della sharing economy, fino ad alcune imprese multinazionali (come la Coca Cola) che hanno dichiarato di voler adottare il paradigma dell’economia circolare.

Come mettere insieme Serge Latouche, Carlo Petrini, Coca Cola, Uber e papa Francesco non è affatto semplice. Seguiamo l’economia circolare con benevolenza perché introduce novità importanti, ma esercitiamo anche pensiero critico, per non svuotarla di significato e renderla simpatica a troppe persone

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Sul portale di San Francesco, un contributo sull'economia circolare dell'economista Luigino Bruni

di Luigino Bruni

pubblicato su SanFrancesco il 10/05/2018

A volte si legge l’avanzare dell’economia circolare come una alternativa al capitalismo. In realtà, uscire dal capitalismo non è cosa semplice. Dovremmo, quantomeno, individuare la ‘domanda’ di uscita e poi metterci d’accordo da che cosa dovremmo uscire. La parola capitalismo ormai è diventata un’espressione che avvolge così tante cose che una volta usciti non è chiaro quale luogo resti per recarvisi.

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Riformare il capitalismo con l'economia circolare

Sul portale di San Francesco, un contributo sull'economia circolare dell'economista Luigino Bruni di Luigino Bruni pubblicato su SanFrancesco il 10/05/2018 A volte si legge l’avanzare dell’economia circolare come una alternativa al capitalismo. In realtà, uscire dal capitalismo non è cosa semplic...
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La fondatrice dei Focolari moriva 10 anni fa. Luigino Bruni: "Aveva capito quanto siano preziosi i corpi intermedi per la vita di un popolo. Invece la nuova politica sogna di poterne fare a meno..."

di Giuseppe Frangi

pubblicato su Vita il 14/03/2018

 Chiara Lubich rid«Chiara mi chiamò nel 1998: voleva che l’aiutassi a dare dignità scientifica alla grande esperienza dell’Economia di comunione». Luigino Bruni rievoca così il suo rapporto con Chiara Lubich, la fondatrice del movimento dei Focolarini, morta il 14 marzo di 10 anni fa. A riviverla oggi quella chiamata ha un grande contenuto profetico: Lubich avvertiva il rischio che una bellissima prassi senza una teoria che la sorreggesse potesse esaurirsi. «È un’attenzione che dice tanto della persona, della sua intelligenza oltre che della sua passione. Ho lavorato con lei sino al 2008, per dare all’Economia di comunione una strutturazione che le permettesse di alimentarsi, grazie ad un’elaborazione di pensiero in cui sono stati coinvolti tanti importanti economisti».

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Chiara Lubich è stata una delle grandi personalità che nel secolo scorso hanno contribuito a costruire la realtà dei corpi intermedi in tutto il mondo, e in particolare in Italia. Oggi quel processo, nella sua dimensione complessiva, sembra essersi arenato.

In che termini quindi personalità come Chiara possono indicative per l’oggi? È il tema del dialogo con Luigino Bruni. La vicenda elettorale ha reso evidentemente ancor più urgente una riflessione sul tema.

La politica che vince è quella che salta tutte le mediazioni. Sembra un processo irreversibile...
È un processo drammatico, ma io penso che sarà molto meno semplice di quel che i leader politici oggi immaginano. Prendiamo la misura del reddito di cittadinanza. Può anche essere un’idea da condividere, ma che rischia di implodere, proprio perché il cittadino ha davanti a sé come unico interlocutore l’impiegato dell’ufficio del lavoro. Un percorso come questo può funzionare se si investe sulla società civile per la sua capacità di attivazione delle persone. L’esperienza della cooperazione sociale insegna. Se tra stato e individuo c’è solo un vuoto, il reddito di cittadinanza diventerà una sorta di parcheggio per le persone, senza che nessuno si occupi di un percorso di attivazione.

E persone come Chiara Lubich cosa potrebbero insegnare oggi?
Lei non pensava mai in astratto. Aveva sempre in testa il bisogno umano e capiva che per rispondere a quel bisogno si dovevano attivare nuove narrazioni capaci di attrarre persone e di comunicare ideali. Non si possono pensare misure, anche buone, fuori da un desiderio di cambiamento del mondo. Un desiderio che non può essere individuale, ma collettivo, pur nella diversità delle storie e delle appartenenze. È una narrativa che ha come orizzonte la felicità degli uomini, ma una felicità pubblica. Invece oggi domina una narrativa che ghettizza le persone dentro la prospettiva della felicità privata.

A quanto pare al potere oggi va bene così...
Pasolini lo aveva capito prima di tutti gli altri. È stato realizzato uno svuotamento delle persone. Un’operazione a suo modo geniale del capitalismo, perché le persone svuotate di interiorità sono molto più manipolabili. Quando Pasolini diceva, sollevando lo scandalo degli intellettuali, che il consumismo stava facendo molto più danni che non lo stesso fascismo, coglieva pienamente nel segno. Era stato capace di profezia.E dove si possono scovare le ragioni per nuove azioni collettive?
Personaggi come Chiara Lubich insegnano a non essere mai astratti. Tutto si genera dalla vita. Proprio come in botanica. Nuovi boccioli sbocciano, e il giardiniere non ha il compito artificioso di crearli, ma semplicemente di coltivarli e curarli. Ma è dalla terra che si generano. Oggi la terra di un Paese come il nostro è inaridita. Ma mi vien da dire: quanto era inaridita la terra in tante circostanze narrate dalla Bibbia. Eppure proprio il terreno inaridito è stato quello che tante volte ha attivato energie profetiche. Sono stato recentemente in Corea e ho scoperto che sono state introdotte ore di meditazioni dentro le scuole. Anche in Cina è stato dato spazio alla riscoperta di Confucio. Vuol dire che chi ha responsabilità di governo ha capito il rischio di avere persone svuotate di vita interiore. E che possono diventare preda di ogni follia ideologica.

E in Europa?
Siamo prigionieri del mito della tecnologia che risolve tutto. Siamo colonizzati, in particolare in Italia, dove anche il pensiero economico è schiacciato anche dal punto di vista del vocabolario sul modello americano. Invece abbiamo un genius loci che potrebbe alimentare una visione diversa e capace di generare azioni collettive.

E Chiara Lubich come alimenterebbe oggi un processo di questo tipo?
Dicendoci di non guardare alle risposte che lei aveva dato, in una stagione che è diversa dalla nostra, perché bloccarsi sulle risposte è un’operazione nostalgica. Invece si deve ripartire dalle domande che lei si era posta: domande a partire dai bisogni degli uomini, dal bisogno di felicità. Le domande spingono in avanti la storia.

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La fondatrice dei Focolari moriva 10 anni fa. Luigino Bruni: "Aveva capito quanto siano preziosi i corpi intermedi per la vita di un popolo. Invece la nuova politica sogna di poterne fare a meno..."

di Giuseppe Frangi

pubblicato su Vita il 14/03/2018

 Chiara Lubich rid«Chiara mi chiamò nel 1998: voleva che l’aiutassi a dare dignità scientifica alla grande esperienza dell’Economia di comunione». Luigino Bruni rievoca così il suo rapporto con Chiara Lubich, la fondatrice del movimento dei Focolarini, morta il 14 marzo di 10 anni fa. A riviverla oggi quella chiamata ha un grande contenuto profetico: Lubich avvertiva il rischio che una bellissima prassi senza una teoria che la sorreggesse potesse esaurirsi. «È un’attenzione che dice tanto della persona, della sua intelligenza oltre che della sua passione. Ho lavorato con lei sino al 2008, per dare all’Economia di comunione una strutturazione che le permettesse di alimentarsi, grazie ad un’elaborazione di pensiero in cui sono stati coinvolti tanti importanti economisti».

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Cosa direbbe Chiara Lubich a quest'Italia

La fondatrice dei Focolari moriva 10 anni fa. Luigino Bruni: "Aveva capito quanto siano preziosi i corpi intermedi per la vita di un popolo. Invece la nuova politica sogna di poterne fare a meno..." di Giuseppe Frangi pubblicato su Vita il 14/03/2018  «Chiara mi chiamò nel 1998: voleva che l...
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Moralia Blog - Nel percorso del blog Moralia verso le elezioni del 4 marzo, è la volta della prospettiva di un economista.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Il Regno il 13/02/2018

In ogni dibattito politico è fin troppo facile scivolare nel «benaltrismo»; quasi inevitabile però cadere in questa tentazione sotto elezioni, quando ogni commentatore aggiunge il suo «ben altro è importante» all’elenco dei desiderata e alle promesse dei vari partiti. Anch’io aggiungo dunque il mio elenco.

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Tre nodi:

  • Innanzitutto il debito pubblico. Non è senz’altro originale, ma l’Italia è come un villaggio su cui incombe una frana (per riprendere una metafora usata recentemente da Benedetto Gui su Avvenire del 9 febbraio). Essa potrebbe precipitare da un momento all’altro, non appena venisse meno uno dei puntelli che la tengono in equilibrio sulla parete – i bassissimi tassi d’interesse, l’acquisto enorme di titoli di debito pubblico italiano dalla Banca centrale europea, o la relativa pace finanziaria internazionale… Se gli interessi sul debito risalissero di uno o due punti, il nostro debito sarebbe insostenibile, e certo il default.

  • Poi la demografia. I dati ISTAT di questi giorni dicono che da 10 anni la natalità cala e la mortalità cresce. Dall’umanesimo biblico sappiamo che il primo segno di speranza e di futuro sono i bambini. Dieci anni sono esattamente la durata della crisi economica del paese. Non è difficile cogliere il nesso: la crisi di lavoro ha rimandato tante giovani donne a casa, e il «non lavoro» diventa anche «non figli». Non torneremo a fare più bambini senza nuovo lavoro, e senza servizi seri alle famiglie.
  • Infine il cosiddetto gioco d’azzardo, che è realtà e dovremmo chiamare semplicemente azzardo: non è un gioco. L’azzardo nel nostro paese assorbe quasi 100 miliardi di fatturato, sottratto all’economia reale, che soffre e chiude. È stato voluto e incentivato da 20 anni, da ogni governo. Occorre cambiare radicalmente direzione, se non vogliamo distruggere il paese, togliendo l’appalto a multinazionali e dando l’azzardo in gestione allo stato o al non-profit. Spezzando così il rapporto incentivante, che è al cuore dell’attuale industria dell’azzardo.
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Moralia Blog - Nel percorso del blog Moralia verso le elezioni del 4 marzo, è la volta della prospettiva di un economista.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Il Regno il 13/02/2018

In ogni dibattito politico è fin troppo facile scivolare nel «benaltrismo»; quasi inevitabile però cadere in questa tentazione sotto elezioni, quando ogni commentatore aggiunge il suo «ben altro è importante» all’elenco dei desiderata e alle promesse dei vari partiti. Anch’io aggiungo dunque il mio elenco.

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Un economista va a votare

Moralia Blog - Nel percorso del blog Moralia verso le elezioni del 4 marzo, è la volta della prospettiva di un economista. di Luigino Bruni pubblicato su: Il Regno il 13/02/2018 In ogni dibattito politico è fin troppo facile scivolare nel «benaltrismo»; quasi inevitabile però cadere in questa ten...
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Dossier | N.15 Articoli - Processo all’economia

di Luigino Bruni

pubblicato sul Sole24ore il 02/11/2017

«Economics is what economists do». Così l’economista americano Jacob Viner definiva la scienza economica negli anni 30. Pochi decenni prima, il suo collega italiano Maffeo Pantaleoni aveva scritto che «in economia esistono soltanto due scuole: quelli che la sanno e quelli che non la sanno». Pur esprimendo due visioni diverse del mestiere, Viner e Pantaleoni avevano, a modo loro, entrambi ragione.

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L’economia fin dal suo inizio è stata una scienza plurale e pluralista. Anche se ogni generazione ha avuto il suo mainstream, il suo pensiero normale, sono comunque stati sempre molti i torrenti e i ruscelli che scorrevano accanto al corso principale - alcuni avevano alvei paralleli, altri lunghi tratti carsici. La situazione attuale non è molto diversa. Soprattutto negli ultimi due decenni, si è aperta una stagione autenticamente pluralista, dove gli economisti si occupano veramente di molte cose diverse, scrivono insieme a psicologi, sociologi, neuroscienziati, biologi.

Al tempo stesso, questo pluralismo incontra dei problemi concreti molto seri e in genere sottovalutati. È, infatti, sempre più forte ed efficace una nuova forma di imperialismo. È quella dei «top-journals», cioè quelle poche riviste scientifiche internazionali che hanno, di fatto, in mano il destino accademico soprattutto dei giovani. Puoi scrivere (quasi) quello che vuoi, ma se non li pubblichi in riviste che la disciplina considera eccellenti o quanto meno buone, le cose che scrivi non hanno alcun impatto e non ti consentono di accedere alle università e nei centri di ricerca migliori. Oggi dovremmo rettificare quelle due celebri frasi di Viner e Pantaleoni, e dire: «L’economia è quello che gli economisti fanno, e che riescono a pubblicare nelle riviste giuste», e che “quelli che la sanno” devono diventare “quelli che sanno pubblicarla”, convincendo i pochissimi editors che contano (e i loro referees).

Tutto ciò ha poi importanti ripercussioni anche nella formazione dei giovani economisti. Nei dottorati e Ph.D., che sono il principale vivaio dei nuovi economisti, ai giovani viene fortemente consigliato di specializzarsi in un tema di ricerca che con maggiore facilità li condurrà a pubblicare presto e “bene”, cioè sulle riviste che contano davvero. Così si concentrano per tre e più anni su un modello o su un fenomeno, per poter massimizzare la probabilità di avere almeno una buona pubblicazione nelle riviste che contano, e così iniziare una buona carriera. Ma in tutti i processi di buona formazione per apprendere un mestiere vero, presto e bene non stanno facilmente assieme. Presto si accompagna a frettoloso, approssimativo, superficiale, e Bene a profondità, maturazione, rigore.

Che cosa sta accadendo allora nei nostri dottorati di economia? In primo luogo, un giovane bravo e con vocazione alla ricerca, fa spesso molta fatica a seguire la propria vocazione scientifica, perché è l’output finale che determina la scelta iniziale. Se, ad esempio, qualcuno arriva in un dottorato con una autentica passione per le questioni metodologiche o filosofiche, se decide di sviluppare un progetto di ricerca su «Economics and Philosophy», ha pochissime possibilità di trovare domani un lavoro in un dipartimento di scienze economiche, dove si troverà a competere con colleghi con “prodotti” con fattore d’impatto molto maggiore. E anche se pubblicherà un articolo nella rivista migliore di quel settore marginale, sarà sempre una rivista non considerata eccellente dalla disciplina economica. E così succede che questi giovani con vocazioni particolari, rare e quindi preziose per la mantenere e sviluppare la biodiversità nella scienza, vengono fortemente consigliati di “mettere da parte” la loro arte, e pensare a cose più serie e utili. Questo è lo scenario di questi ultimi anni, che, tra l’altro, sta facendo fuoriuscire molti giovani eccellenti dall’economia verso altre discipline con più pluralismo - o li fa emigrare in Paesi come l’Uk e l’Olanda, dove ancora qualche spazio libero resta.

Inoltre, per questi stessi motivi, nella formazione dei giovani economisti sono di fatto inesistenti elementi di storia, di filosofia, di humanities, e il dialogo con altre discipline è scoraggiato - per non parlare dei programmi degli attuali corsi triennali e magistrali di economia: quel che c’era di diritto pubblico e di storia nella vecchia laurea in Economia e commercio, è stato cancellato per lasciare spazio a tecniche più utili. Peccato che le discipline umanistiche sono molto “utili” per coltivare domande nuove e per sviluppare la creatività dei giovani. «Un economista che è solo economista è un cattivo economista», dicevano Marshall e Pareto. E così quando il futuro economista farà il docente, o darà consigli per scelte che riguardano la vita di tutti, si ritroverà con un bagaglio culturale troppo piccolo, e con una mono-coltura poco fertile.

La crisi di reputazione e di rilevanza che sta conoscendo da anni il mestiere dell’economista teorico, dipende anche dalla sterilità e ripetitività delle nostre domande di ricerca, che richiederebbero più aria aperta e libera, soprattutto negli anni cruciali della formazione: «Economic theorists may have to become as much philosophers as mathematicians», diceva nel 1991 Robert Sugden, un economista che ha saputo innovare in economia anche perché studioso di storia, di psicologia, di filosofia. Credo che i nuovi Keynes, Schumpeter, Sen non si stanno formando oggi in un PhD in Economics, ma staranno crescendo in ambienti culturali con più libertà e promiscuità generativa. Se vogliamo attrarre giovani con alta creatività e veramente innovativi, dobbiamo rivedere profondamente i contenuti e la durata della formazione dei nuovi economisti.

Dare loro più tempo e più respiro, e anche più speranze concrete di poter pubblicare bene i loro lavori diversamente eccellenti.

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Dossier | N.15 Articoli - Processo all’economia

di Luigino Bruni

pubblicato sul Sole24ore il 02/11/2017

«Economics is what economists do». Così l’economista americano Jacob Viner definiva la scienza economica negli anni 30. Pochi decenni prima, il suo collega italiano Maffeo Pantaleoni aveva scritto che «in economia esistono soltanto due scuole: quelli che la sanno e quelli che non la sanno». Pur esprimendo due visioni diverse del mestiere, Viner e Pantaleoni avevano, a modo loro, entrambi ragione.

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Intelligenze che non passano in rivista

Dossier | N.15 Articoli - Processo all’economia di Luigino Bruni pubblicato sul Sole24ore il 02/11/2017 «Economics is what economists do». Così l’economista americano Jacob Viner definiva la scienza economica negli anni 30. Pochi decenni prima, il suo collega italiano Maffeo Pantaleoni aveva scri...
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Su Famiglia Cristiana, intervista a Luigino Bruni in occasione del nuovo programma "Benedetta Economia!" su TV2000 a partire dal 29 ottobre, alle ore 19.00, per 8 puntate

per 8 puntate

di Francesco Anfossi

pubblicato su Famiglia Cristiana il 26/10/2017

Benedetta Economia luigino bruni eugenia scotti 04 300x200"Benedetta economia!" è il nuovo programma di Tv2000 che propone una lettura inedita dell’economia dei nostri giorni. Otto puntate, otto brani diversi della Bibbia, per scoprire cosa ci sia di antico e di nuovo all’origine di quella “economia dell’esclusione e dell’iniquità” condannata da Papa Francesco nell’esortazione apostolica ’Evangelii Gaudium’.

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È la nuova sfida di Luigino Bruni, economista, docente della Lumsa e appassionato biblista (i lettori di Avvenire conoscono bene i suoi appassionati articoli domenicali dedicati a una lettura teologica dei fenomeni economici). I suoi ospiti si confronteranno in studio con Bruni e con la bravissima Eugenia Scotti sulle contraddizioni dell’economia del terzo millennio: la precarietà del lavoro, un capitalismo piegato alle logiche della finanza speculativa, un mondo del commercio senza orari né feste, le differenze ormai abissali tra gli stipendi degli operai e quelli dei manager, l’inganno di una meritocrazia che finisce per assegnare ai poveri l’intera colpa della loro condizione. La prima a intervenire in studio sarà Susanna Camusso, poi via via Brunello Cucinelli, Cesare Romiti, Elsa Fornero, Giulio Tremonti, Suor Giuliana Galli, Johnny Dotti, Bill Niada: otto incontri per capire insieme come tradurre nella pratica quotidiana l’esortazione di Papa Bergoglio “ad un ritorno dell’economia e della finanza ad un’etica in favore dell’essere umano”. 

Abbiamo cercato di creare un programma un po’ diverso che mettesse insieme una riflessione sull’economia di oggi a partire dalla tradizione biblica”, spiega lo studioso di Economia civile, allievo del caposcuola Stefano Zamagni. “La Bibbia ha ancora qualcosa da dire o è solo una faccenda per il culto e per la messa? Io ho lanciato questa proposta. L’economia oggi ha bisogno di parole nuove quelle del Novecento sono logore allora nei tempi di crisi di parole logore bisogna tornare alla fonte. Siccome da anni mi occupo di questo di rilettura della Bibbia a partire dalla domande economiche allora ci siamo detti: scegliamo otto temi dal lavoro al perdono dalle beatitudini a Noé (il tema del giusto che salva tutti) vedere che queste pagine ci interessano ancora oggi hanno da dire delle cose importanti oggi”.

Recentemente papa Francesco ha ribadito l’esigenza di pagare le tasse.

Papa fa bene a ribadire che le tasse vanno pagate. E’ un grande tema della dottrina sociale della Chiesa. Da San Paolo ad oggi è una questione che attraversa il cristianesimo nel profondo e tocca i rapporti tra religione e politica. I cristiani sono abitanti di un regno diverso, ma sono anche cittadini del mondo. Basta citare la lettera a Diogneto”.

Dunque il cristiano deve pagare le tasse fino all’ultimo centesimo.

Sappiamo anche che ci sono state all’interno della Chiesa dei momenti in cui i cristiani hanno scelto di non pagare le tasse per non essere complici di un regime che compiva solo nefandezze. Ad esempio durante le persecuzioni dei primi secoli nell’Impero. Ci sono stati episodi in cui una forma di protesta e di libertà dagli imperatori consisteva nel rifiutare di partecipare alla vita civile e dunque nel rifiutare di pagare le tasse”.

Dobbiamo riferirci solo ai primi secoli, dalla persecuzione di nerone in poi?

 “Certamente no. Anche in epoca moderna c’è stata qualche forma di ribellione, come durante le dittature sudamericane, che Francesco conosce bene avendo vissuto in quel periodo. Ma anche in Italia il Non Expedit è stato interpretato con l’obiezione fiscale. Ma sono casi marginali. La linea della Chiesa è quella di comportarsi da buoni cittadini e dunque da buoni contribuenti. Il papa fa bene a ricordarlo”.

Eppure l’Italia è uno dei Paesi in cui si pagano più tasse a fronte di meno servizi. Il fisco è avvertito da tanti come una vessazione, soprattutto in tempi di crisi.

E’ un momento di crisi del patto sociale. Tanti non capiscono perché le tasse vanno pagate. Le tasse hanno sostanzialmente tre funzioni. La prima è la costruzione dei beni pubblici (le strade, la sicurezza, i lampioni, le scuole pubbliche, gli ospedali); la seconda è la redistribuzione del reddito dai più ricchi ai più poveri; la terza serve a favorire i beni di merito e sfavorire il consumo dei beni non di merito”.

Una funzione morale, si potrebbe dire

Esattamente. Si tassano gli alcolici e le sigarette (che fanno male alla salute pubblica) e si mettono meno tasse per il pane e il latte. In questo modo lo Stato dà un indirizzo morale alla sua tassazione, utilizza il fisco per far capire cosa fa bene e cosa fa male. Ma oggi il problema è un altro”.

E quale?

Se noi non diamo più un senso del perché i ricchi devono dare ai poveri, è un dramma. La società è un corpo unico: la ridistribuzione delle risorse serve a considerarla una comunità di gente che si aiuta reciprocamente, un organismo solidale.  Ma se uno nega questa logica è finita. La società si frantuma come un cristallo in tanti piccoli egoismi. E i politici di oggi sono bravissimi a sfruttare queste pulsioni individualiste, per esempio assicurando che non metteranno le mani nelle tasche degli italiani e via dicendo. Ma così viene meno il senso di appartenenza, lo Stato non è più una comunità dove chi ha più risorse ne dona una parte a chi ne ha meno perché nella vita è stata più sfortunato”.

Dunque i recenti referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia, che chiedono di trattenere le tasse versate, si inseriscono in queste preoccupazioni?

Certamente, e infatti si lega alle preoccupazioni dei vescovi recentemente espresse

E’ per questo che papa Francesco ribadisce il concetto?

Il papa intuisce queste cose. Oggi il vero rischio è lo sfaldamento dello Stato basato sull’individualismo. Le istituzioni sono dei beni comuni che se nessuno se ne occupa si distruggono: Province, Regioni, Comuni,  Europa,  tutte realtà costruite da chi voleva il bene comune. Le tasse sono una forma di mantenimento di questo bene comune. E’ più che mai opportuno pagare le tasse.  Un Paese che ne paga poche vuol dire che dimentica i poveri”.

Ma se il cittadino ha la percezione che finiscano nelle tasche sbagliate, come greppia della corruzione e del clientelismo…

Questo è un altro discorso, serve vigilare. Ma un Paese che riduce l’imposizione fiscale tende a ridurre i beni pubblici e il Welfare. E questo piace molto poco a papa Francesco”.

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Su Famiglia Cristiana, intervista a Luigino Bruni in occasione del nuovo programma "Benedetta Economia!" su TV2000 a partire dal 29 ottobre, alle ore 19.00, per 8 puntate

per 8 puntate

di Francesco Anfossi

pubblicato su Famiglia Cristiana il 26/10/2017

Benedetta Economia luigino bruni eugenia scotti 04 300x200"Benedetta economia!" è il nuovo programma di Tv2000 che propone una lettura inedita dell’economia dei nostri giorni. Otto puntate, otto brani diversi della Bibbia, per scoprire cosa ci sia di antico e di nuovo all’origine di quella “economia dell’esclusione e dell’iniquità” condannata da Papa Francesco nell’esortazione apostolica ’Evangelii Gaudium’.

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"Benedetta economia", le lezioni di Luigino Bruni tra denaro e Vangelo

Su Famiglia Cristiana, intervista a Luigino Bruni in occasione del nuovo programma "Benedetta Economia!" su TV2000 a partire dal 29 ottobre, alle ore 19.00, per 8 puntate per 8 puntate di Francesco Anfossi pubblicato su Famiglia Cristiana il 26/10/2017 "Benedetta economia!" è il nuovo progr...
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Bruni (economista), “Chiesa, l’unica agenzia che parla degli ultimi”

pubblicato su AgenSIR il 19/10/2017

Titolo WS PASSLa Chiesa è forse rimasta l’unica agenzia che parla del bene comune e degli ultimi”. Così l’economista Luigino Bruni descrive al Sir i lavori che si stanno svolgendo da questa mattina alla casina Pio IV in Vaticano su “come cambiano le relazioni tra mercato, Stato e società civile”. Un convegno internazionale promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze sociali che sta riunendo i maggiori esperti di economia, società, politica ma anche filosofi e teologi. Domani i partecipanti  incontreranno alle 12 papa Francesco.

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Il convegno parte da quanto papa Francesco ha scritto nella Evangelii Guadium: “Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della inequità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema. L’inequità è la radice dei mali sociali”.

La prospettiva è quella della dottrina sociale della Chiesa ma anche quella delle scienze sociali moderne”, spiega Bruni. “La Chiesa su queste tematiche ha uno sguardo diverso rispetto al capitalismo dominante che sta diventando l’unica ideologia di riferimento in tutto il mondo” e “parte da un presupposto antropologico”, che mette al centro “la persona e, in particolare, gli ultimi, ricordando che oggi c’è un grande problema di diseguaglianza e delle nuove povertà che il capitalismo da solo non riesce a risolvere e che la Chiesa invece ha molto a cuore. Ricordarlo in modo solenne e con studiosi di tutto il mondo ed esperti a vario livello è già un valore in sé”. Dai lavori sta  emergendo anche “una sorta di appello a guardare l’uomo in maniera diversa”, racconta Bruni, “non come ce lo raccontano le multinazionali e nemmeno lo Stato burocratico. L’uomo è un essere meraviglioso, molto migliore. Per questo, un’altra parola che ricorre qui spesso è fiducia, speranza”. Sono parole che nel mondo della finanza e della economia occorre ripetere spesso perché sono spesso ignorate. “Ed è quanto sta facendo oggi la Chiesa”, evidenzia Bruni, che è rimasta “l’unica l’agenzia a parlare del bene comune e di ultimi. La Chiesa non ha centri di interessi né soldi da difendere ma ha da promuovere il Vangelo e quindi ha tutta la libertà di dire cose che certamente altri sanno ma non vogliono ascoltare e lo fa con sempre più energia e competenza, con persone qualificate, preoccupate come noi dalla distrazione del capitalismo dagli ultimi, dalla persona e dal tema dell’ambiente”.

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Economia: in Vaticano convegno su “mercato, Stato e società civile"

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