Il docente della Lumsa su Roncalli e Wojtyla: «Profetici a occuparsi di pace, donne e lavoro. La Chiesa muore se resta lontana dalla società»
di Alessandra Turrisi
pubblicato su Il Giornale di Sicilia il 27/04/2014
«Hanno avuto ruolo profetico e coraggio di rischiare. Hanno dimostrato che la Chiesa è se stessa se si occupa di politica e di economia, altrimenti rischia di morire».
I due nuovi santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II visti con gli occhi di un economista cattolico, esperto di Dottrina sociale della Chiesa, assumono tutto un altro aspetto, lontano anni luce dal «santino» con l'aureola e molto più vicino ai problemi concreti della gente, dal lavoro alla famiglia. Il professor Luigino Bruni, docente di Economia alla Lumsa di Roma, è un esperto di economia di comunione, una vera rivoluzione in tempi di crisi finanziarie e recessione.
Davanti al milione di pellegrini che affollerà oggi Roma per un evento eccezionale, ancor di più per la presenza di due papi viventi che hanno conosciuto coloro che vengono canonizzati, prova un'analisi del segno che verrà impresso nella storia della cristianità.
Professor Bruni, come hanno interpretato la Chiesa questi due nuovi santi?
«Innanzitutto si tratta di due papi molto diversi, che hanno rappresentato stagioni diverse della Chiesa, ma con molte analogie. Giovanni XXIII ha aperto il Concilio Vaticano II e Giovanni Paolo II lo ha interpretato e applicato. Il primo era molto più pastore, è noto per essere stato ben presente e aver governato la Curia romana, anche se aveva un approccio più tradizionale; il secondo ha guardato di più al rapporto con l'esterno. Entrambi hanno in comune il Concilio: Giovanni XXIII fu eletto papa già anziano, era considerato un pontefice di passaggio e ha cambiato la Chiesa, ha intuito che ci voleva un cambiamento epocale, ha guardato dentro la Chiesa ma in senso ecumenico. È stato un altro scherzo della Provvidenza. Giovanni Paolo II ha guardato fuori, aprendo le porte della Chiesa, avviando una stagione della Chiesa che incontra le persone là dove si trovano, in tutto il mondo, basti pensare ai tanti viaggi in ogni continente. Tutti e due hanno cambiato la Chiesa con linguaggi diversi».
È stato deciso di canonizzare Giovanni XXIII anche non in presenza di un secondo miracolo a lui attribuito. Quale significato assume questo fatto?
«La Chiesa cattolica è l'unico istituto al mondo in cui esiste il diritto premiale, in cui un processo si conclude non per forza con una condanna, ma con un premio, la beatificazione e poi la canonizzazione. È importante che oggi si dia meno peso ai miracoli. La persona non è santa perché fa i miracoli, sarebbe una categoria premoderna. Oggi è il popolo che affermala santità di una persona. Da sempre, d'altronde, è la morte in odore di santità che è precondizione per istruire un processo di beatificazione. Ma in un mondo precedente contavano i miracoli. Oggi questo vale meno ed è giusto così».
Qual è stato il loro ruolo nel cambiamento di prospettiva della Chiesa su temi socio-politici ed economici?
«Il loro intervento nella Dottrina sociale della Chiesa è stato di fondamentale importanza. Giovanni XXIII, per esempio, ha scritto l'enciclica Pacem in terris, in un contesto di guerra fredda ha saputo parlare di pace come valore assoluto. È stato un atto profetico importante. Poi Giovanni Paolo II ha presentato il lavoro in una forma antropologicamente molto alta, ha introdotto il concetto di imprenditoria come valore positivo, assolutamente rivoluzionario. Penso alle encicliche Centesimus annus, Sollecitudo rei socialis, Laborem exsercens, che parlano di lavoro come costitutivo dell'essere umano, prima invece considerato un patrimonio solo del pensiero comunista. Sono stati introdotti concetti come solidarietà e sussidiarietà. Poi anche sul tema del ruolo della donna la Mulieris dignitatem ha avviato una stagione nuova nella Chiesa, dove la considerazione della donna è ancora rimasta al Medioevo. Questo è il primo documento della Chiesa in questo senso».
Cosa dovremmo imitare di questi due nuovi santi?
«Dovremmo imitare la loro capacità di guardare più lontano degli orizzonti del proprio tempo. Loro hanno capito che, se la Chiesa non fosse cambiata, avrebbe perso il suo appuntamento con la storia. Hanno avuto una grande dimensione profetica e il coraggio di rischiare. Hanno capito che la Chiesa è se stessa se si occupa di politica e di economia, altrimenti muore».
Con Papa Francesco la Chiesa sta vivendo un altro momento di svolta. Cosa la colpisce di più?
«Francesco ha ereditato le parti migliori di entrambi i papi che saranno canonizzati: la dimensione di apertura alle periferie, del coraggio e della profezia. L'antropologia è sempre attuale, il mondo economico e politico, però, rispetto ai tempi di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II è cambiato».
Cosa è la santità oggi?
«Essere santo vuol dire che è possibile su questa terra seguire una vocazione fino in fondo e terminare la propria esistenza dicendo che il Vangelo porta a una bellezza comprensibile da tutti. C'è la santità biblica, quella di Noè, che fabbrica un'arca, affronta il diluvio e poi torna a fare il contadino; quella di Abramo, da cui si evince che la santità non è la perfezione morale, ma è la sequela di una voce».
Vengono canonizzati due papi insieme, arriva la notizia che anche Paolo VI potrebbe essere beatificato entro l'anno. Viene da chiedersi: è l'onore degli altari la strada di chi ricopre questo incarico?
«Il rischio di autorefenzialità c'è, non si può nascondere. Ma non credo che un pontefice come Francesco corra questo rischio. Mi piacerebbe, però, che noi cristiani proponessimo la santità dei laici, dei lavoratori che hanno fatto solo quello. Mi piacerebbe che una persona con un handicap mentale diventasse santo, per esempio. Altrimenti rischiamo un'eugenetica della santità».