La paga del manager

di Luigino Bruni

pubblicato su Pagina99 il 24/03/2014

Logo pagina99 ridLe reazioni e i dibattiti attorno all’annuncio della riduzione degli stipendi dei top manager pubblici, dicono molto, sebbene su scala nazionale, su una delle grandi malattie del nostro capitalismo, e sui suoi paradossi. Senza ripetere la critiche ormai note (e abusate) ai super-stipendi e ai bonus di uscita dati anche a manager pessimi, dovremmo invece criticare i compensi dei manager usando le stesse categorie del mercato e della concorrenza da essi stessi evocate (“è il mercato, bellezza”).

Il comportamento di questi paladini virtuali delle virtù e dei benefici del capitalismo, si muove infatti nella direzione esattamente opposta a quella dei meccanismi del mercato e della concorrenza. I loro stipendi sono il frutto dell’uso del potere di una casta internazionale e molto potente, che usa il suo potere per tenere alte le loro ‘quotazioni’, e traslare questi loro alti costi sui consumatori o sugli imprenditori.

Dal punto di vista sostanziale, gli stipendi dei top manager si sono trasformati in una grave forma di rendita, che ha nulla o troppo poco a che fare né con l’equità né con l’efficienza.

E ancor meno col merito, che è diventata la nuova parola magica, e vaghissima, in nome della quale si giustificano i superstipendi (almeno di quelli ‘bravi’). Non dobbiamo dimenticare che molti manager miliardari della Lehman Brothers avevano curricula meritevolissimi! La domanda cruciale attorno al merito non è quella, banale, se il merito sia da preferire al demerito, ma: quale merito? Il merito è realtà multipla – verità già ben nota all’economista milanese Melchiorre Gioia due secoli fa, nel suo trattato ‘Del merito e delle ricompense’ - e la scelta di quale dimensione premiare è faccenda culturale, di regole del gioco, e quindi di potere.

Per questa ragione dietro questo dibattito si nasconde una questione chiave del nostro capitalismo: è l’ipertrofia e la forza delle rendite, che sta riportando la nostra economia ad una situazione molto simile a quella feudale. La centralità delle rendite è stata ed è la malattia di tutte le società bloccate, poiché il centro del sistema economico-sociale non lo occupano gli imprenditori e il lavoro (cioè i creatori di flussi), ma i proprietari di patrimoni (stock) accumulati dalle generazioni passate o sorti da privilegi.

Come ha messo in luce l’economista francese Thomas Piketty (nel volume Le Capital au XXIe siècle), negli ultimi anni la rendita sta tornando ad essere la grande minaccia del nostro capitalismo, esattamente come nelle società statiche del passato. Le rendite, e non solo quelle finanziarie, stanno di nuovo tornando ad erodere i profitti e i salari – come messo in luce nel passato da economisti come l’inglese David Ricardo, e l’italiano, oggi non a caso dimenticato, Achille Loria, che vedevano nel conflitto rendite-profitti l’asse del sistema capitalistico.

Il comportamento della casta dei top manager sta alimentando il conflitto tra coloro che si arricchiscono occupando e difendendo posizioni di vantaggio, e chi (soprattutto imprenditori e lavoratori) vede la quota di valore aggiunto loro destinata in caduta libera. Dovremmo, allora, approfittare di questo dibattito sugli stipendi dei manager, pubblici e privati, per scavare più in profondità, e far ripartire una stagione critica sulla natura del nostro capitalismo e sulla dimenticata questione della distribuzione del reddito; riparlare un po’ anche di potere e di democrazia economica, parole eclissate dalle nuovi termini, sempre più vaghi, del nuovo capitalismo finanziario.

Una buona politica degli stipendi ai manager dovrebbe allora invocare esattamente il mercato e la concorrenza, ma nella direzione giusta: eliminare le barriere all’entrata create dalla classe-casta stessa, rendere veramente contendibili le posizioni manageriali, fare trasparenza nelle carriere e nel reclutamento. Il mercato è buono e civile quando riduce le rendite e aumenta la remunerazione di chi usa ricchezze e talenti per includere e così creare ricchezza diffusa.

Il mercato ha fatto questo per molto tempo, e quando lo ha fatto ha prodotto buoni beni, democrazia e bene comune. Oggi lo sta facendo molto meno, anche per un grande e forte ritorno della rendita estrattiva. Inclusa quella dei manager. Non sarebbe male, allora, che in questo tempo di profonda crisi dell’Italia e dell’Europa, da noi ripartisse una critica seria al capitalismo delle rendite, non usando però gli strumenti dell’anti-mercato. Dovremmo, invece, ripartire dalla natura più profonda della concorrenza e dell’impresa e richiamare questo capitalismo ad una vocazione di mercato civile che ha perso negli ultimi decenni. L’Europa ha conosciuto altri capitalismi, ma oggi la sua bio-diversità economica e finanziaria sta scomparendo di fronte all’incedere di un pensiero unico di matrice US. Non fermiamoci allora alla superficie degli stipendi dei manager, ma partendo da qui puntiamo più in alto: ce n’è un estremo bisogno. 


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