Quei tagli che ci impoveriscono più del debito pubblico

di Luigino Bruni

pubblicato su ilsussidiario.net il 20/04/2014

Logo Il Sussidiario 2Ho sempre guardato con sospetto i tagli allo stato sociale come via di uscita dalla crisi economica e finanziaria dell’Italia e degli altri stati europei in difficoltà. Un paio di anni fa il Nobel per l’economia e filosofo Amartya Sen in più occasioni rimproverava l’Italia perché assisteva passiva allo smantellamento progressivo di una delle conquiste più importanti delle democrazie moderne - lo stato sociale. Ci sono molte ragioni per essere preoccupati dell’entusiasmo con il quale i funzionari europei, i nostri governanti e il commissario per la spending review interpretano il loro compito di tagliatori di welfare.

Innanzitutto due premesse. Non tutte le riduzioni della spesa pubblica sono riduzioni di sprechi, sono anche riduzioni e tagli di diritti: basta chiederlo ai sindaci e agli amministratori che oggi fanno fatica a garantire i servizi minimi in sanità, scuola, trasporti, viabilità. Secondo: tagliare la spesa pubblica significa quasi sempre ridurre posti di lavoro (quindi aumentare la disoccupazione) e ridurre il Pil. La spesa pubblica, nelle moderne democrazie e contabilità, è direttamente Pil (che in Italia pesa, complessivamente, per circa il 50% del totale). Aspetto ancora qualcuno che mi spieghi, dati alla mano, come si possano aumentare nel breve periodo occupazione e Pil tagliando la spesa pubblica. Ancora non l’ho incontrato. E poi sullo stato sociale ci sono almeno due considerazioni di carattere generale che trovo troppo poco presenti nei nostri dibattiti pubblici.

La prima riguarda la democrazia moderna. Quando sulla fine dell’Ottocento si iniziò a discutere del suffragio universale, uno dei punti controversi era il seguente: “Ma se diamo - dicevano borghesi e aristocratici, cioè più o meno il 10% della popolazione - il voto ai poveri, questi ci toglieranno i beni e ci cacceranno via”. Questo esito fu evitato e si costruì il nuovo patto sociale perché i “ricchi” fecero due grandi concessioni ai “poveri”: il lavoro e una crescente fetta di diritti. Lavoro e diritti si chiamavano, e si chiamano ancora, stato sociale. Se oggi i nuovi ricchi della finanza e delle rendite (e tra questi molti dei commissari e dei governanti) si dimenticano questa antica base del patto sociale, e la maggioranza della gente si vede soltanto ridurre il lavoro e i diritti, ciò che è a rischio è proprio il patto sociale, che potrebbe spezzarsi. Il primo bene comune delle democrazie è la democrazia stessa che, come tutti i beni comuni, se non “mantenuta” adeguatamente, viene progressivamente, e normalmente inintenzionalmente, distrutta.

La ricchezza delle persone e dei popoli - siamo alla seconda considerazione - è un vettore composto di beni privati (redditi e ricchezze individuali, automobile, casa, salute, istruzione, ecc.) e di beni pubblici (sicurezza, sistema scolastico, qualità, costi e quantità dei trasporti, la vivibilità delle città, diritti). Lo vediamo troppo spesso, soprattutto ultimamente in Sud America, Asia e ormai in Europa del sud, che quando in un Paese si riducono i servizi e i beni pubblici, la gente si impoverisce anche se si ritrovano redditi individuali maggiori. Se oggi in Italia dovessimo ricevere 100 euro in più al mese, ma aumentano i costi dei trasporti pubblici, peggiorano gli asili e le scuole pubbliche e dobbiamo mandare i figli nelle scuole private, idem per la sanità, tagliamo nella sicurezza urbana e dobbiamo aumentare la spesa per allarmi e cancelli blindati, in realtà la nostra ricchezza individuale diminuisce. Sono antiche verità, ma che la nostra cultura sta sistematicamente dimenticando e negando.

C’è tutto questo, e molto di più, dietro ai tagli allo stato sociale, un’eredità dei secoli passati: delle confraternite e ospizi medioevali, delle scuole e degli ospedali dei carismi religiosi moderni, e solo recentemente degli Stati. Impoveriremmo molto di più i nostri figli e i nipoti riducendo stato sociale e diritti di quanto non li stiamo impoverendo con l’aumento del debito pubblico. Non dimentichiamolo in questo tempo di passaggio.


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