Messaggero di S. Antonio

Economia Civile

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L’aumento dell’invidia sociale è soprattutto segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 19/10/2021

«Il commercio ha insegnato alle nazioni a vedere con benevolenza la ricchezza e la prosperità l’una dell’altra. Prima il cittadino desiderava che tutti gli altri paesi fossero deboli, poveri e mal governati, tranne il proprio: ora vede nella loro ricchezza e progresso una fonte diretta di ricchezza e di progresso per il proprio paese» (J.S. Mill, Principles of Political Economy, 1848). Questa frase del grande economista e filosofo inglese è tra le più belle definizioni di cosa sia veramente il mercato, quando ci liberiamo dalle ideologie di ieri e di oggi e lo guardiamo come economia civile, dove dunque la possibilità di scambiare e produrre è una forma della libertà dei moderni e un mezzo di incivilimento.

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Questa filosofia è stata non solo quella dei mercanti fiorentini, ma ha ispirato anche i primi frati francescani. Se infatti volessimo sintetizzare in una battuta in che cosa consistette la novità etica alla radice della nascita dell’economia di mercato in Europa, potremmo dire: la trasformazione dell’invidia in benevolenza. La ricchezza degli altri, che nel mondo antico e alto medievale era occasione di invidia, di rabbia sociale e quindi di violenza, attorno al XIII secolo iniziò a diventare qualcosa di positivo. Il commercio divenne il primo meccanismo che può operare la trasformazione dell’invidia in benevolenza.

Se esiste la possibilità di scambiare con chi è più ricco di me, allora posso orientare una parte della sua ricchezza a mio vantaggio. Un commercio che da faccenda limitatissima, marginale ed eticamente sospetta, divenne così nel Trecento arte civile e ben vista da tutti. Il commercio divenne civil mercatura, grazie a un grosso lavoro teologico, soprattutto dei maestri francescani e dei domenicani. Senza l’improbabile e imprevista alleanza tra l’altissima povertà dei francescani e la civil ricchezza dei mercanti non avremmo avuto i miracoli economici, sociali, religiosi e artistici dell’ultimo medioevo, dell’umanesimo, e oggi l’Italia e l’Europa sarebbero molto più povere.

Ma questa grande e buona trasformazione dell’invidia, sentimento naturale, non è solo una buona legge economica, è la regola aurea della vita in comune. Che impariamo ad apprendere a scuola, quando capiamo che se io non sono il più bravo della classe, invece di invidiare chi è più bravo di me è bene cercare di studiare con lui o lei. E poi nel mondo del lavoro, dentro il nostro ufficio, fare dei colleghi più bravi nostri alleati per crescere insieme, e trasformare così l’energia negativa e distruttiva dell’invidia, l’unico vizio non associato a un piacere ma a un dolore. Educare i giovani all’anti-invidia significa educarli alla cooperazione.

Finché siamo in una società bloccata, dove i figli dei poveri saranno quasi sicuramente poveri anche loro, vedere la ricchezza degli altri ci procura solo delle emozioni negative, tra queste l’invidia, perché non riusciamo a vedere nulla di buono per noi nella ricchezza degli altri. Quando aumenta la mobilità sociale, quando il ragazzo oggi più povero ha buone speranze che, se si impegna e lavora duro, domani potrà vivere meglio, allora le ricchezze degli altri (almeno una parte) diventano emulazione e imitazione di quelle virtù che le hanno generate.

Ecco perché dobbiamo rattristarci e protestare per un’Italia dove diminuisce la mobilità sociale, dove la probabilità di fare oggi una vita migliore di quella che hanno fatto i propri genitori è in calo rispetto alla generazione passata. Abbiamo curato l’invidia con la democrazia. Allora l’aumento dell’invidia sociale è soprattutto un segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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L’aumento dell’invidia sociale è soprattutto segnale di un deterioramento della nostra vita democratica: e questo deve preoccuparci davvero molto.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 19/10/2021

«Il commercio ha insegnato alle nazioni a vedere con benevolenza la ricchezza e la prosperità l’una dell’altra. Prima il cittadino desiderava che tutti gli altri paesi fossero deboli, poveri e mal governati, tranne il proprio: ora vede nella loro ricchezza e progresso una fonte diretta di ricchezza e di progresso per il proprio paese» (J.S. Mill, Principles of Political Economy, 1848). Questa frase del grande economista e filosofo inglese è tra le più belle definizioni di cosa sia veramente il mercato, quando ci liberiamo dalle ideologie di ieri e di oggi e lo guardiamo come economia civile, dove dunque la possibilità di scambiare e produrre è una forma della libertà dei moderni e un mezzo di incivilimento.

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E i francescani sconfissero l’invidia…

E i francescani sconfissero l’invidia…

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Occorre avere coscienza, e tenerla sempre viva, che ogni volta che permettiamo a un «no» di entrare dentro la nostra vita, quel «no» si moltiplica, diventa una montagna, e riduce l’orizzonte di libertà nostro e di tutti. 

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2021

Il premio Nobel per l’Economia Thomas Schelling, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha elaborato modelli che ci aiutano a comprendere alcuni fenomeni socio-politici. In particolare, ha mostrato come vincoli personali che sembrerebbero «normali» producono, una volta aggregati e su larga scala, esiti molto radicali, che le singole persone non volevano né prevedevano all’inizio del processo. Se, ad esempio, ciascuna delle alunne il primo giorno di scuola pensa: «Non vorrei stare seduta in un banco tra due maschi», questa preferenza individuale produrrà una classe con le ragazze tutte su un lato e i ragazzi tutti sull’altro. E potremmo continuare con altri esempi simili.

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Gli studi di Schelling offrono suggerimenti importanti anche per la democrazia e per la vita comunitaria. Ci fanno capire come mai certi fenomeni «macro» e collettivi che appaiono molto polarizzati ed estremi sono il risultato di preferenze individuali molto meno polarizzate ed estreme. In altre parole, le contrapposizioni ideologiche su temi etici o politici – sulla vita, sull’orientamento sessuale, sugli immigrati, sull’Europa, sui vaccini… – tendono a diventare molto più esasperate e polarizzate di quanto le persone, prese una a una, pensino e ciò avviene quando dalle singole persone si passa a grandi soggetti collettivi (partiti, movimenti). Da qui l’esperienza che nei dialoghi privati ci si trova meno contrapposti di quanto non siano i partiti-movimenti che quelle singole persone votano e dalle quali sono rappresentate. Quindi un consiglio pratico: se i cittadini non vogliono partiti radicali, è bene che riducano al minimo i vincoli e le condizioni delle proprie preferenze personali, perché un vincolo che a noi appare poco esigente si amplifica molto a livello collettivo.

Ma pensiamo anche alla vita comunitaria. Nelle comunità, quelle abitudini e pratiche collettive che, viste dall’esterno (e a volte anche dall’interno) appaiono bizzarre o eccessive, in genere nascono da persone che prese una a una sono molto meno «bizzarre» della loro comunità. Alcune abitudini (nel modo di pregare, di gesticolare, di sedersi a tavola, di parlare…) non sono volute da nessuno preso individualmente, ma si creano grazie alle amplificazioni di aggregazione. Di queste cose debbono essere ben coscienti i dirigenti, perché la coscienza è il solo modo per prevenire derive fondamentaliste; tali derive si possono bloccare se si è capaci di non concedere troppo a deformazioni individuali che prese in sé sembrano non così gravi, ma che lo diventano quando si sommano a quelle degli altri.

Occorre avere coscienza, e tenerla sempre viva, che ogni volta che permettiamo a un «no» – «no» a una persona, a una dimensione della diversità… – di entrare dentro la nostra vita, quel «no» si moltiplica, diventa una montagna, e riduce l’orizzonte di libertà nostro e di tutti. E ci ritroviamo in un mondo che non piace neanche a noi, solo perché, quando ancora eravamo in tempo, non abbiamo tenuto largo il nostro cuore e il nostro mondo. L’educazione dei bambini e dei giovani è in questo essenziale, perché è nei primi anni di vita che questi «no» iniziano a insinuarsi nei pertugi educativi. Entrano, crescono e poi si moltiplicano nelle nostre comunità. Abbiamo realizzato i miracoli politici ed economici del secondo Novecento, perché il grande dolore delle guerre aveva eliminato molti «no» nell’educazione dei nostri genitori. Oggi, mentre siamo dentro altre guerre, dobbiamo evitare che quei «no» rientrino nei nostri cuori e producano nuovi mostri collettivi. La sfida è decisiva, non possiamo perderla.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA 

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di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2021

Il premio Nobel per l’Economia Thomas Schelling, negli anni Sessanta del secolo scorso, ha elaborato modelli che ci aiutano a comprendere alcuni fenomeni socio-politici. In particolare, ha mostrato come vincoli personali che sembrerebbero «normali» producono, una volta aggregati e su larga scala, esiti molto radicali, che le singole persone non volevano né prevedevano all’inizio del processo. Se, ad esempio, ciascuna delle alunne il primo giorno di scuola pensa: «Non vorrei stare seduta in un banco tra due maschi», questa preferenza individuale produrrà una classe con le ragazze tutte su un lato e i ragazzi tutti sull’altro. E potremmo continuare con altri esempi simili.

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Di vincoli e contrapposizioni

Di vincoli e contrapposizioni

Occorre avere coscienza, e tenerla sempre viva, che ogni volta che permettiamo a un «no» di entrare dentro la nostra vita, quel «no» si moltiplica, diventa una montagna, e riduce l’orizzonte di libertà nostro e di tutti.  di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/0...
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L’ecologia va inserita dentro l’economia, in quella ecologia-economia integrale che è il grande messaggio dell'enciclica «Laudato si’».

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 11/08/2021

Il tema economico del momento è la transizione ecologica. I segnali però sono ambigui. Invece di mettere al ministero dell’Economia una persona con forte e chiara sensibilità ecologica, vi abbiamo messo un uomo della Banca d’Italia e della finanza, e poi gli abbiamo affiancato un altro uomo-maschio per la transizione ecologica – che tra l’altro proviene dalla nostra più grande azienda pubblica di armi –. Continua così quella «logica dei tempi» che ci ha portato nelle condizioni ecologiche che tutti vediamo. Questa logica dicotomica fa sì che l’economia e la finanza agiscano secondo le loro regole autonome (cioè condoni fiscali, rilancio del gioco d’azzardo, etc.) e parallelamente il ministro per la Transizione dovrebbe orientare all’ecologia quell’economia che è concepita e guidata senza essere dall’inizio ecologica. Noi invece sappiamo che se l’economia non è «da subito» e dall’inizio ecologica diventa da subito diseconomia. L’ecologia va inserita dentro l’economia, in quella ecologia-economia integrale che è il grande messaggio della Laudato si’.

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Anche i miliardi che stanno affluendo dall’Europa sono ambigui. Non solo non garantiscono soluzione ai nostri problemi, ma possono rappresentare un nuovo problema. L’afflusso di denaro significa aumento del debito pubblico, visto che una buona parte di quei miliardi sono prestiti, a migliori e buone condizioni, ma comunque debito, che si aggiunge al debito corrente (lievitato in questi due anni). E quindi continuiamo a scaricare i nostri guai sul futuro, come nel recente passato. Abbiamo chiamato l’operazione Next Generation EU, ma per ora alla nuova generazione stiamo lasciano enormi debiti. Ecco perché una patrimoniale dovrebbe essere una politica complementare a quella degli aiuti-prestiti dell’Europa e dell’aumento del debito domestico. Perché quando si vivono crisi enormi come questo covid, non è etico spostare le conseguenze dei costi straordinari sui figli. Se siamo una comunità, quando la casa brucia o crolla, coloro che abitano in quella casa, e hanno le risorse per farlo, devono tirarle fuori per il «bene comune».

Questo si chiama principio di sussidiarietà, il quale comanda che prima di chiedere aiuto all’Europa dobbiamo essere noi come Paese a farci carico qui e ora di trovare le risorse e riparare la casa che va in rovina. Perché se queste spese vengono fatte col debito, non solo trasliamo i nostri costi sui giovani, ma facciamo pagare il conto ai più poveri. Tassiamo i non-patrimoni. Perché la fiscalità generale si copre con la tassazione generale, il che significa con le fatiche dei lavoratori dipendenti e del ceto medio-basso, perché è ben noto quante tasse pagano gli imprenditori, i liberi professionisti e i veri ricchi: riparare i danni straordinari con le tasse ordinarie, significa chiedere ai poveri di pagare la riparazione delle case dei ricchi, e far pagare il conto delle nostre tragedie alle prossime generazioni e alle classi meno abbienti. Un’ingiustizia profonda, che si ripete da secoli nel silenzio dei media, perché quanti scrivono e approvano le leggi sono gli stessi che hanno le redini della grande opinione pubblica.

Di tutto questo, e di altro, si è parlato alla giornata nazionale Slotmob del 10 luglio contro l’azzardo (francescoeconomy.org), e poi (se ne parlerà) al Festival dell’Economia civile (www.festivalnazionaleeconomiacivile.it) a Firenze (Palazzo Vecchio) dal 24 al 26 settembre. Per continuare a pensare l’economia in profondità, perché il mondo non continui a soffrire troppo «per mancanza di pensiero».

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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L’ecologia va inserita dentro l’economia, in quella ecologia-economia integrale che è il grande messaggio dell'enciclica «Laudato si’».

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 11/08/2021

Il tema economico del momento è la transizione ecologica. I segnali però sono ambigui. Invece di mettere al ministero dell’Economia una persona con forte e chiara sensibilità ecologica, vi abbiamo messo un uomo della Banca d’Italia e della finanza, e poi gli abbiamo affiancato un altro uomo-maschio per la transizione ecologica – che tra l’altro proviene dalla nostra più grande azienda pubblica di armi –. Continua così quella «logica dei tempi» che ci ha portato nelle condizioni ecologiche che tutti vediamo. Questa logica dicotomica fa sì che l’economia e la finanza agiscano secondo le loro regole autonome (cioè condoni fiscali, rilancio del gioco d’azzardo, etc.) e parallelamente il ministro per la Transizione dovrebbe orientare all’ecologia quell’economia che è concepita e guidata senza essere dall’inizio ecologica. Noi invece sappiamo che se l’economia non è «da subito» e dall’inizio ecologica diventa da subito diseconomia. L’ecologia va inserita dentro l’economia, in quella ecologia-economia integrale che è il grande messaggio della Laudato si’.

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La logica del burrone

La logica del burrone

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In un momento in cui il capitalismo sta mostrando la sua insufficienza per salvare il pianeta e i poveri, il pontificato di Francesco sta proponendo sfide importanti alla vita economica e finanziaria.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 24/06/2021

Il 25 gennaio del 1959 papa Giovanni XXIII, a tre mesi dall’elezione, convocò il Concilio ecumenico Vaticano II. In Italia eravamo in pieno boom economico, i movimenti giovanili del ’68 erano lontani, i Beatles non si erano ancora formati. Quell’anziano Papa riuscì a sognare una Chiesa e un mondo che ancora non c’erano. Giovanni XXIII e in lui la Chiesa (in buona parte) riuscì a leggere i segni dei tempi prima che il tempo cambiasse. Vide, lesse e diede voce ai segnali deboli del proprio tempo. E poi agì, convocando un Concilio che ha fatto cambiare la Chiesa prima della società civile, intercettando il soffio dello Spirito nel momento/kairos opportuno. 

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L’enorme portata epocale di quel Concilio dipese anche dalla sua capacità di anticipare i tempi. Una Chiesa cattolica che è considerata icona della lentezza dei processi di cambiamento culturale, allora fu più veloce della società civile. Capì prima che c’era domanda di partecipazione, di comunità, di protagonismo del popolo, di superamento di certe strutture gerarchiche inadeguate, di tornare alla centralità della Scrittura, e che le persone chiedevano più spazio e più ascolto.

Oggi papa Francesco si trova in una condizione, soggettiva e oggettiva, simile a quella di Giovanni XXIII. Con la Laudato si’ e la Fratelli tutti ha rimesso al centro la dimensione economica ed ecologica. E in un momento in cui il capitalismo sta mostrando la sua insufficienza per salvare il pianeta e i poveri, il pontificato di Francesco sta proponendo sfide importanti alla vita economica e finanziaria

Se come sua grande eredità papa Francesco volesse anche lui indire un Concilio Vaticano III – e credo sarebbe molto utile e necessario – è molto probabile che lo incentrerebbe attorno all’economia e all’ecologia. I segnali che l’economia che ha retto il mondo in questi ultimi due secoli non è più adeguata alle nuove sfide ambientali e sociali iniziano a essere fortissimi. Papa Francesco è l’unica autorità etica mondiale che sta portando avanti una sua riflessione profonda e sistematica sulla crisi del capitalismo e sulle sue sorti e per capirlo è sufficiente interpretare il movimento di giovani economisti e imprenditori da lui lanciato: The economy of Francesco (francescoeconomy.org). 

La sfida ora è far diventare la sua azione e il suo pensiero l’azione e il pensiero dell’intera Chiesa. Il Concilio ecumenico è lo strumento per questo passaggio dalla profezia individuale di un Pontefice alla profezia collettiva ecclesiale. Certamente sarebbe un evento diverso da quello di Giovanni XXIII (e Paolo VI), perché oggi coinvolgere tutti i vescovi del mondo (cresciuti molto di numero) richiede altri strumenti. E soprattutto perché, dopo il Vaticano II, un nuovo Concilio ecumenico non potrebbe restare una sola faccenda di vescovi ma dovrebbe coinvolgere seriamente anche i laici; né una sola faccenda di maschi ma dovrebbe coinvolgere seriamente anche le donne; né una sola faccenda di adulti ma dovrebbe coinvolgere seriamente anche i giovani; né una sola faccenda di cattolici ma dovrebbe coinvolgere le altre Chiese, religioni e atei di buona volontà.

La Chiesa di Francesco oggi avrebbe le risorse per preparare un nuovo cambiamento epocale, quello del «capitalismo» dopo il capitalismo. Perché una nuova cultura e prassi economiche non hanno bisogno solo di nuove tecniche, nuove leggi, nuove teorie, ma di un nuovo spirito che non si apprende nelle business school e neanche nelle università. Lo spirito nasce dall’anima delle persone e dei popoli. Francesco lo sa bene, e la sua Chiesa può donarlo a tutti.

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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In un momento in cui il capitalismo sta mostrando la sua insufficienza per salvare il pianeta e i poveri, il pontificato di Francesco sta proponendo sfide importanti alla vita economica e finanziaria.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 24/06/2021

Il 25 gennaio del 1959 papa Giovanni XXIII, a tre mesi dall’elezione, convocò il Concilio ecumenico Vaticano II. In Italia eravamo in pieno boom economico, i movimenti giovanili del ’68 erano lontani, i Beatles non si erano ancora formati. Quell’anziano Papa riuscì a sognare una Chiesa e un mondo che ancora non c’erano. Giovanni XXIII e in lui la Chiesa (in buona parte) riuscì a leggere i segni dei tempi prima che il tempo cambiasse. Vide, lesse e diede voce ai segnali deboli del proprio tempo. E poi agì, convocando un Concilio che ha fatto cambiare la Chiesa prima della società civile, intercettando il soffio dello Spirito nel momento/kairos opportuno. 

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A.A.A. Nuovo Concilio cercasi

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Cosa manca ancora a una economia circolare perché sia anche «civile» e magari di «comunione»?

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 10/05/2021

«Economia circolare» sembra la parola d’ordine della nuova economia Green e sostenibile. Non possiamo certo negare che la circolarità nell’uso delle risorse sia una importante conquista della nostra civiltà, e che la filiera interna di ogni organizzazione deve pensarsi sempre più a impatto prossimo e tendente a zero. Tutto questo è ormai così evidente che non occorre aggiungere molto altro alle tante pagine che si sono scritte, a tutti i livelli, incluso il Next Generation EU Fund, tutto costruito attorno a questa nuova filosofia economica.

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Invece può essere utile riflettere su che cosa manca ancora a una economia circolare perché sia anche «civile» e magari di «comunione». Innanzitutto l’etica non è solo una questione ambientale; deve essere ambientale, ma deve essere anche altro. È stato emblematico che il governo italiano, appena varato il nuovo ministero per la Transizione energetica, abbia approvato un condono fiscale sulle cartelle esattoriali.

E sarebbe molto importante che i governi mettessero lo stesso impegno che mettono nel combattere la C02 anche per combattere la «C02 della diseguaglianza», come hanno detto i giovani della Economy of Francesco; mettessero la stessa energia per eliminare lo scandalo dei paradisi fiscali, che è la più grande evasione fiscale legale del capitalismo; e che, con la stessa forza, chiedessero a quelle imprese e banche multinazionali che hanno guadagnato, e molto, dalla pandemia di restituire parte di questi extra-profitti, magari per pagare i vaccini dei Paesi più poveri.

Inoltre, ormai da diversi anni si sta verificando una sorta di effetto crowding-out (spiazzamento) delle dimensioni green rispetto alle altre. Tutto il mondo della cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo, le cooperative sociali, le organizzazioni nate per occuparsi degli esclusi e delle varie forme di povertà, stanno conoscendo una progressiva riduzione di risorse che si stanno destinando ai programmi di sostenibilità ambientale. Come se i «poveri e basta» fossero scomparsi dalla Terra, o come se occuparsi di ambiente significasse automaticamente occuparsi di alleviamento della miseria. Uno dei grandi temi della Laudato si’ è l’unicità del grido della Terra e del grido dei poveri; ma la nuova ondata di economia circolare rischia fortemente di dimenticare questo secondo grido, assorbito dal primo.

Una economia circolare è anche civile e di comunione se mentre fa di tutto per recuperare gli scarti nelle risorse fa altrettanto, e magari di più, per recuperare anche gli «scarti umani», o per ridurre la disoccupazione. E invece sono già molte le imprese circolari che non mostrano nessun interesse né per la povertà né per l’equità salariale, e neanche per la creazione di posti di lavoro. Nei nuovi bilanci ambientali possiamo trovare contabilità meravigliose sul piano circolare che però licenziano migliaia di lavoratori per massimizzare i profitti. I profitti: nessuno parla nei manuali di economia circolare della destinazione dei profitti che nascono dal rispetto dell’ambiente.

L’ecologia integrale include anche l’uso dei profitti, le tasse pagate e non pagate, il benessere dei lavoratori e la creazione di lavoro. Una economia civile e di comunione richiede la capacità di chiamare fratello e sorella l’uomo e la donna, non solo la Terra. L’umanesimo biblico e cristiano sa che quell’uomo (Adam), nato dalla terra (adamah), è chiamato a prendersi cura (shamar) della creazione ma anche del fratello: non possiamo continuare a imitare l’Adam nella custodia della Terra e Caino nella non-custodia (shomer) di suo fratello. 

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Cosa manca ancora a una economia circolare perché sia anche «civile» e magari di «comunione»?

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 10/05/2021

«Economia circolare» sembra la parola d’ordine della nuova economia Green e sostenibile. Non possiamo certo negare che la circolarità nell’uso delle risorse sia una importante conquista della nostra civiltà, e che la filiera interna di ogni organizzazione deve pensarsi sempre più a impatto prossimo e tendente a zero. Tutto questo è ormai così evidente che non occorre aggiungere molto altro alle tante pagine che si sono scritte, a tutti i livelli, incluso il Next Generation EU Fund, tutto costruito attorno a questa nuova filosofia economica.

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Abele e l'economia circolare

Abele e l'economia circolare

Cosa manca ancora a una economia circolare perché sia anche «civile» e magari di «comunione»? di Luigino Bruni pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 10/05/2021 «Economia circolare» sembra la parola d’ordine della nuova economia Green e sostenibile. Non possiamo certo negare che la circolari...
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Dalla rivoluzione della cura operata dal covid usciremo pagando meglio la cura stessa e reimparando a chinarci sulle vittime, perché ancora capaci di sentir commuovere le nostre viscere davanti al dolore del mondo.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio di aprile 2021

La Bibbia potrebbe essere raccontata anche attraverso le sue monete. A partire dai trecento sicli d’argento pagati da Abramo per comprare dagli ittiti la tomba di sua moglie Sarah, il primo contratto monetario di cui si ha traccia nella Bibbia (Gen 23). Sempre nel libro della Genesi, la parola profitto (bècà), presa in prestito dal lessico commerciale del tempo, fa la sua comparsa nell’episodio della vendita di Giuseppe da parte dei suoi fratelli: «Quale profitto se uccidiamo nostro fratello?» (Gen 37,26). Così, dopo averlo gettato nella cisterna, i fratelli diedero retta a Giuda, e «per venti sicli di argento vendettero Giuseppe» (Gen 37,28) a dei mercanti di passaggio in viaggio verso l’Egitto. 

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Fratelli che vendono un fratello, e mercanti che lo comprano. Il profitto dei mercanti che entra da subito in conflitto con il valore della fraternità. Venti sicli era il prezzo di uno schiavo o di un paio di sandali (Amos), venti volte meno dei quattrocento sicli di Abramo. Questa somma infima pagata per un fratello dice disprezzo della vita e della fraternità. Giuseppe, poi (cap. 37), donerà a suo fratello minore Beniamino 300 sicli, dodici volte più del prezzo pagato per la sua vendita, un dono che supera dodici volte il profitto. Basterebbe questo ingresso del lucro dentro la Bibbia per intuire l’origine dell’ambivalenza del denaro nell’umanesimo biblico. Il cristianesimo, poi, ha ripreso e sviluppato questa ambivalenza, a partire dagli stessi vangeli, dove abbondano le monete, presenti in testi decisivi, dalla dracma perduta all’operaio dell’ultima ora, per non parlare di debiti e debitori presenti addirittura dentro il Paternoster.

Gesù scaccia i cambiavalute dal tempio di Gerusalemme, mette la religione del denaro («mammona») in alternativa alla propria; ma poi Luca ci narra una parabola, quella dei talenti – considerata, tra l’altro, tra le poche narrate probabilmente dal Gesù storico –, dove la logica del Regno dei cieli è affidata a due «procuratori» lodati perché hanno investito il denaro ricevuto, mentre il terzo è rimproverato in quanto pigro e avaro. Ma i denari più famosi della Bibbia cristiana sono senz’altro i trenta di Giuda. Il vangelo di Giovanni ci mostra Giuda che rimprovera la donna di Betania che aveva sprecato olio per Gesù: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?» (12,5). A dirci che Giuda oltre a essere traditore fu anche pessimo mercante, per aver svenduto per pochi denari il Cristo, che aveva un valore immenso.

Ma non finisce qua la presenza del denaro nel Vangelo. Ci sono anche i due denari che il buon Samaritano paga all’albergatore, aggiungendo quella bellissima frase: «Abbi cura di lui» (Lc 10,35). Questi due denari pagati per la cura ci dicono molte cose. Il samaritano avrebbe potuto invocare la sua stessa gratuità anche per l’albergatore, ma non lo fa: lo paga, e così riconosce il valore del lavoro di cura. Allora pagare un prezzo può essere un buon strumento per la cura. Non è solo il dono gratuito il buon linguaggio della cura. Al tempo stesso, il contratto con l’albergatore è pienamente cristiano e umano se è preceduto dalla cura diversa e gratuita del Samaritano, che si prende, appunto, cura della vittima imbattutasi nei briganti per il «movimento delle viscere». Oggi i pagamenti per la cura non mancano, ma essa è pagata sempre troppo poco, perché socialmente non stimata. Dalla rivoluzione della cura operata dal covid usciremo pagando meglio la cura stessa (e quindi le donne, che spesso sono quelle a essa dedite), e reimparando a chinarci sulle vittime, perché ancora capaci di sentir commuovere le nostre viscere davanti al dolore del mondo. 

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Dalla rivoluzione della cura operata dal covid usciremo pagando meglio la cura stessa e reimparando a chinarci sulle vittime, perché ancora capaci di sentir commuovere le nostre viscere davanti al dolore del mondo.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio di aprile 2021

La Bibbia potrebbe essere raccontata anche attraverso le sue monete. A partire dai trecento sicli d’argento pagati da Abramo per comprare dagli ittiti la tomba di sua moglie Sarah, il primo contratto monetario di cui si ha traccia nella Bibbia (Gen 23). Sempre nel libro della Genesi, la parola profitto (bècà), presa in prestito dal lessico commerciale del tempo, fa la sua comparsa nell’episodio della vendita di Giuseppe da parte dei suoi fratelli: «Quale profitto se uccidiamo nostro fratello?» (Gen 37,26). Così, dopo averlo gettato nella cisterna, i fratelli diedero retta a Giuda, e «per venti sicli di argento vendettero Giuseppe» (Gen 37,28) a dei mercanti di passaggio in viaggio verso l’Egitto. 

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Soldi e cura

Soldi e cura

Dalla rivoluzione della cura operata dal covid usciremo pagando meglio la cura stessa e reimparando a chinarci sulle vittime, perché ancora capaci di sentir commuovere le nostre viscere davanti al dolore del mondo. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio di aprile 2021 La Bibbia...
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Non ce ne renderemo conto subito, riprenderemo a uscire insieme, certo; ma questo anno mancante lascerà un vuoto nella tela delle nostre relazioni. 

di Luigino Bruni

pubblicato su Messaggero di Sant'Antonio il 18/03/2021

Ci vorrà molto tempo per fare bene i conti dei danni di questo lungo anno 2020 che, a dispetto delle regole, non vuole finire mai. I conti più facili da fare sono quelli economici, quelli registrati sui libri contabili e nel PIL nazionale; molto più difficili sono invece i «conti morali» nell’anima di imprenditori che hanno vissuto questo tempo sull’orlo del precipizio, che andavano a letto senza la certezza che il giorno dopo la loro azienda ce l’avrebbe fatta. Questi conti si fanno molto male, perché non abbiamo la moneta adeguata, perché li dimentichiamo presto per poter continuare a vivere. Ma, anche se li dimentichiamo, restano là, tenaci, e operano nella nostra vita, affiorano quando meno ce l’aspettiamo, e tutto torna vivo e vero come nei momenti in cui accadevano.

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Tra i danni quasi invisibili del covid – p.s. il mio correttore continua a trasformare covid in covi: non ha ancora imparato il suo nome dopo tutto questo dolore degli umani –, ci sono anche quelli al nostro capitale relazionale, al nostro patrimonio di amicizia e di rapporti umani. Al di là dei colori delle nostre regioni e province, sono ormai molti mesi che abbiamo dovuto ridurre, a volte eliminare, gli incontri con i nostri amici e parenti. L’amicizia, lo sappiamo, è sottoposta a deterioramento per disuso e abbandono; come le case, i palazzi, i giardini, i fiumi, che se non li curiamo perdono valore, cambiano aspetto, l’ambiente circostante se ne reimpossessa, fino a non farceli vedere più, a non riconoscerli. Non parlo di quei pochissimi amici che non sono sottoposti a questa forma di obsolescenza. Questi ci sono, quasi sempre, ma sono pochi, a volte pochissimi.

Ma la nostra felicità e il nostro benessere dipendono anche da quegli amici «normali», che non sono amicissimi e speciali, ma che fanno la nostra vita più ricca e bella. Quelli che vediamo ogni tanto, per i compleanni o per gli aperitivi, gli amici del calcetto, della partita a carte al bar dello sport, quelle chiacchierate tra amiche dove il primo piacere sta proprio nel tempo sprecato, quando ci si dimentica l’orologio per stare, semplicemente, insieme, a scambiarci l’anima e le parole. O anche i passaggi in auto con i colleghi, dove non si parla di lavoro ma di tutto il resto, un resto non di lavoro che poi rende più umano anche il lavorare.

In questo anno queste relazioni le abbiamo ridotte molto, troppo. Ci siamo abituati a trascorrere pomeriggi e giorni di festa da soli o con una o due persone, sempre le stesse. Nei primi tempi ci stavamo male, sentivamo l’assenza del corpo degli amici; poi col passare dei mesi ci siamo abituati alla solitudine e alla socialità a scartamento ridotto, fino a quasi non sentire più la nostalgia per i mancanti incontri, per i non-abbracci, per quei baci che erano il primo linguaggio dell’amicizia. Noi umani sappiamo abituarci anche alla nostra infelicità.

Non ci pensiamo, non ne parlano i media né la televisione, non è tra le priorità del recovery plan, nessun politico lo mette tra le sue urgenze. Ma noi usciremo da questa crisi (se ne usciremo mai del tutto) con una forte svalutazione del nostro patrimonio relazionale. Non ce ne renderemo conto subito, riprenderemo a uscire insieme, a frequentare le case gli uni degli altri, certo; ma questo anno mancante, come e più dell’anno di scuola dei nostri ragazzi, lascerà un vuoto, un buco nella tela delle nostre relazioni. Non nascondiamolo, perché solo vedendolo lo potremo ricordare.

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Non ce ne renderemo conto subito, riprenderemo a uscire insieme, certo; ma questo anno mancante lascerà un vuoto nella tela delle nostre relazioni. 

di Luigino Bruni

pubblicato su Messaggero di Sant'Antonio il 18/03/2021

Ci vorrà molto tempo per fare bene i conti dei danni di questo lungo anno 2020 che, a dispetto delle regole, non vuole finire mai. I conti più facili da fare sono quelli economici, quelli registrati sui libri contabili e nel PIL nazionale; molto più difficili sono invece i «conti morali» nell’anima di imprenditori che hanno vissuto questo tempo sull’orlo del precipizio, che andavano a letto senza la certezza che il giorno dopo la loro azienda ce l’avrebbe fatta. Questi conti si fanno molto male, perché non abbiamo la moneta adeguata, perché li dimentichiamo presto per poter continuare a vivere. Ma, anche se li dimentichiamo, restano là, tenaci, e operano nella nostra vita, affiorano quando meno ce l’aspettiamo, e tutto torna vivo e vero come nei momenti in cui accadevano.

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Covid e relazioni

Covid e relazioni

Non ce ne renderemo conto subito, riprenderemo a uscire insieme, certo; ma questo anno mancante lascerà un vuoto nella tela delle nostre relazioni.  di Luigino Bruni pubblicato su Messaggero di Sant'Antonio il 18/03/2021 Ci vorrà molto tempo per fare bene i conti dei danni di questo lungo anno ...
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Applaudire è una forma importante di dialogo, è relazione, è reciprocità, è comunità. È amore. Forse lo avevamo dimenticato...

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/02/2021

Un teatro al termine di un’opera, l’ultima lezione del corso universitario, un gol allo stadio, l’ultima nota di una canzone… Che cosa hanno avuto in comune, nell’anno speciale che si è da poco concluso? Li ha accomunati un silenzio che ha preso il posto di quello che fino a dodici mesi fa era l’applauso.

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Applaudire una compagnia di teatro, un cantante, il prof che termina le sue lezioni, il gesto sportivo, è una forma importante di dialogo, è relazione, è reciprocità, è comunità. È amore. Forse lo avevamo dimenticato, troppo abituati a ripetere quasi meccanicamente questo gesto, senza più vedere il legame con la sua radice.

Non ci ricordavamo le parole del Salmo 47: «Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia». Il popolo imparò che di fronte alla grandezza dell’amore e della grazia del suo Dio non si poteva restar inerti e muti, e impararono ad applaudire, a battere le mani. E così anche noi: nello scorso, tremendo anno abbiamo imparato nuove cose, alcune per la prima volta (le mascherine, i non-abbracci, le distanze, soffrire e morire da soli, la gioia di essere «negativi»), e altre le abbiamo riscoperte: il valore di una telefonata, il significato vero di chiedere «come stai?», il linguaggio delle mani. 

Abbiamo capito in modo nuovissimo che le mani sanno dire molte cose, sanno dire le parole più importanti. Con un applauso, con una carezza, o sfiorandoci attraverso un vetro quando questo tocco è l’unico linguaggio rimasto. Non potendo per un lungo tempo usare le mani come le avevamo usate sempre, le abbiamo riscoperte. In un vuoto, in un’assenza, abbiamo capito che cosa è veramente una mano, che cosa è una mano che tocca quella di un’altra persona, che sfiora i capelli, che, battuta insieme all’altra, diventa uno dei modi più belli per dire grazie. 

Perché il 2020 è stato anche una grande epifania del corpo. Durante la sofferenza fisica collettiva più grande dalla fine della seconda guerra mondiale, durante la più grande eclisse del corpo generata prima da internet e poi dai social, abbiamo reimparato la grammatica del corpo, abbiamo riappreso il suo infinito linguaggio. Lo abbiamo riscoperto soffrendo per questa nuova malattia; e lo abbiamo riscoperto nella sua assenza quando, incontrando chi amavamo, non potevamo toccarlo.

Avevamo già imparato da qualche anno a fare molte cose senza corpo nel nostro ambiente sempre più virtuale; ma, improvvisamente, un invisibile virus ci ha fatto capire che cosa è veramente il corpo, il nostro e quello degli altri. Stare di fronte a un genitore e non poterlo abbracciare, guardare il nipote che ci viene a trovare e non poterlo baciare in fronte o l’amico che torna e ci dà il gomito; anche in questi non-abbracci abbiamo imparato che cosa è il corpo, in questi non-baci che cosa è un bacio. Nei non-applausi che cosa è davvero un applauso, e nell’assenza del pubblico che cosa è veramente il pubblico in uno stadio, in un teatro, in un’aula universitaria.

Abbiamo capito che il pubblico è essenzialmente corpo, e anche se sappiamo che le stesse persone che un giorno erano in platea ora ci stanno guardando in streaming, sentiamo che manca qualcosa, e che quel qualcosa è essenziale: manca il corpo. Torneranno gli applausi, torneranno gli abbracci. Ma non dimentichiamo che cosa abbiamo imparato sul corpo, questo fragile e fortissimo corpo che ci fa essere «poco meno degli angeli» (Salmo 8).

Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Applaudire è una forma importante di dialogo, è relazione, è reciprocità, è comunità. È amore. Forse lo avevamo dimenticato...

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/02/2021

Un teatro al termine di un’opera, l’ultima lezione del corso universitario, un gol allo stadio, l’ultima nota di una canzone… Che cosa hanno avuto in comune, nell’anno speciale che si è da poco concluso? Li ha accomunati un silenzio che ha preso il posto di quello che fino a dodici mesi fa era l’applauso.

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Torneranno gli applausi

Torneranno gli applausi

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di Luigino Bruni

pubblicato su: Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2021

Colpa e debito (che in tedesco e olandese sono la stessa parola: schuld) sono categorie antiche almeno quanto la Bibbia e i miti greci, se non vogliamo arrivare fino ai miti sumeri e indiani. Categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti. La cultura della colpa nel mondo greco e in quello biblico ha preso progressivamente il posto della «cultura della vergogna». La vergogna è ancora più arcaica della colpa. Le culture della vergogna – ancora molto vive in Asia o in Africa – associano l’approvazione e la condanna delle azioni all’«essere visti dagli altri». Se non si è visti da nessuno è come se quel reato non ci fosse. L’approvazione e il biasimo sociale sono i meccanismi di creazione delle morali della vergogna. 

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La cultura della colpa è molto presente nella Bibbia, dove la vergogna inizia a cedere il passo, o almeno a intrecciarsi, con la colpa, dove l’etica inizia a essere legata a una legge interiore, alla coscienza che agisce anche quando nessuno ti vede (tranne Dio). La cultura della vergogna è comunque ancora presentissima anche nelle culture occidentali. Basti pensare alla povertà, che spesso è vissuta dai poveri come colpa e come vergogna, un intreccio di concetti messi molto bene assieme oggi dall’ideo­logia meritocratica. Della povertà ci si è sempre vergognati (e delle malattie, proprie e dei figli), ed è sempre più forte la tendenza a considerare i poveri colpevoli della loro povertà – nonostante il Vangelo li chiamasse beati e san Francesco li baciasse –.

La comprensione del peccato come colpa e debito è all’origine e al cuore anche dell’umanesimo biblico, dove ha determinato una visione mercantile della religione e della salvezza. È molto antica e radicata l’idea che Cristo sia morto per pagare al Padre le nostre colpe-debiti, perché solo il sangue di suo Figlio poteva soddisfarlo pienamente. Da lì l’idea che il dolore sia soprattutto una sorta di espiazione di colpe nostre o degli altri, e che non ci sia nessuna salvezza senza «spargimento di sangue», che diventa il prezzo delle salvezze. La sensibilità moderna fa fatica ad accettare questa idea commerciale della fede e di Dio, e il Concilio Vaticano II ha cercato di correggere gli eccessi di questa visione «economica» della religione, sebbene senza molto successo. Perché noi cattolici continuiamo ancora a immaginarci un Dio che abbia bisogno del nostro dolore e sofferenze, o che chi soffre stia pagando il prezzo per qualche colpa. Dio viene inserito in questi commerci, senza avergli chiesto il permesso. 

Siamo troppo impregnati di una visione economica della fede e del mondo per poter accettare l’idea che Dio ci ama veramente gratis, anche se non lo meritiamo, anche se siamo pieni di colpe. E siamo così impegnati a pensare alle nostre colpe (e soprattutto a quelle degli altri) da dimenticarci che siamo amati immensamente di un amore infinito, che siamo immersi in un oceano di amore. Avremmo bisogno di una seria analisi teologica del capitalismo per capirlo meglio e magari provare a cambiare. 

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Sono categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti.

di Luigino Bruni

pubblicato su: Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2021

Colpa e debito (che in tedesco e olandese sono la stessa parola: schuld) sono categorie antiche almeno quanto la Bibbia e i miti greci, se non vogliamo arrivare fino ai miti sumeri e indiani. Categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti. La cultura della colpa nel mondo greco e in quello biblico ha preso progressivamente il posto della «cultura della vergogna». La vergogna è ancora più arcaica della colpa. Le culture della vergogna – ancora molto vive in Asia o in Africa – associano l’approvazione e la condanna delle azioni all’«essere visti dagli altri». Se non si è visti da nessuno è come se quel reato non ci fosse. L’approvazione e il biasimo sociale sono i meccanismi di creazione delle morali della vergogna. 

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Colpa e debito

Colpa e debito

Sono categorie antiche, e quindi molto profonde e radicate nell’animo umano, individuale e collettivo, dove risiede l’eredità delle emozioni e delle passioni, anche quando non ne siamo coscienti. di Luigino Bruni pubblicato su: Il Messaggero di Sant'Antonio il 13/01/2021 Colpa e debito (che in te...
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La gratuità è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose, non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 22/12/2020

Questo Natale così diverso dagli altri e così simile ai Natali di guerra e carestie che i nostri nonni conoscevano bene, è anche un’ottima occasione per riflettere sulla realtà più associata al Natale: la famiglia. La famiglia è molte cose, ma è anche il principale luogo dove apprendiamo – per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini – un’arte fondamentale, l’arte alla base di tutte le arti e le professioni della vita adulta: l’arte della gratuità. Imparando questa arte essenziale impariamo a lavorare, perché non c’è lavoro senza gratuità.

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Ma che cos’è veramente la gratuità? La nostra età di consumismo e di finanza ha logorato il significato della parola gratuità. L’ha confusa col gratis, l’ha contrapposta al contratto e al doveroso, l’ha associata agli sconti di fine stagione, ai gadget, alla mezza ora in più al lavoro non remunerata. In realtà la gratuità è charis, grazia, ma è anche l’agape, quell’amore che supera e completa l’eros e l’amicizia.

La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose, non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli. La gratuità ci salva dalla tendenza predatoria che c’è in ogni persona, che distingue la preghiera dalla magia, che ci salva dal narcisismo, la grande malattia di massa del nostro tempo.

Si capisce, allora, perché la famiglia è il luogo principale, sebbene non unico, dove questa gratuità si sviluppa e si custodisce. Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione. La cultura economica capitalistica dominante, e la sua teoria e prassi economica, sta invece operando su questo fronte una rivoluzione silenziosa ma di portata epocale: il denaro è diventato il principale o unico «perché» del lavorare, della sua qualità e quantità.

È questa la cultura, che possiamo chiamare cultura dell’incentivo, che si sta sempre più estendendo anche nella sanità e nella scuola, dove è divenuto normale pensare che un insegnante o un medico si comportano da buoni lavoratori solo se e in quanto adeguatamente remunerati e controllati. 

Questa vera e propria ideologia sta producendo il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro umano alla servitù o alla schiavitù antica, perché chi paga non compra solo le prestazioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi la loro libertà. 

Se la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta attenzione a non importare dentro casa la logica che oggi vige fuori. Guai, ad esempio, a usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi, va usato poco, e se usato deve essere usato come premio o riconoscimento e mai usato come prezzo e come incentivo. 

Uno dei compiti della famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto. Il letto va riassettato bene perché deve essere fatto bene, non per la mancia; i compiti vanno fatti bene perché vanno fatti bene e basta, per ragioni cioè interne allo studiare, e se oggi imparo quest’arte dell’«e basta» domani sarò capace di lavorare bene anche quando nessuno mi vede, mi incentiva o mi punisce.

Se, invece, anche in casa, il denaro diventa il «perché» si fanno e non si fanno compiti e lavoretti, i ragazzi da adulti difficilmente saranno buoni lavoratori e non sperimenteranno la libertà profonda e vera che nasce dalla gratuità. Buon Natale, buona festa della gratuità!


Credits Foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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La gratuità è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose, non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 22/12/2020

Questo Natale così diverso dagli altri e così simile ai Natali di guerra e carestie che i nostri nonni conoscevano bene, è anche un’ottima occasione per riflettere sulla realtà più associata al Natale: la famiglia. La famiglia è molte cose, ma è anche il principale luogo dove apprendiamo – per tutta la vita e in un modo tutto speciale da bambini – un’arte fondamentale, l’arte alla base di tutte le arti e le professioni della vita adulta: l’arte della gratuità. Imparando questa arte essenziale impariamo a lavorare, perché non c’è lavoro senza gratuità.

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La festa della gratuità

La festa della gratuità

La gratuità è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, a Dio, alle cose, non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero...
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Perché la diseguaglianza è un male? E quali sono le radici e la ragioni di questo male economico e civile?

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 18/11/2020

Che la diseguaglianza sia qualcosa di tremendamente serio e concreto lo sapevamo già da tempo (e ora quanto sta avvenendo con la pandemia sta rendendo tutto ancora più evidente), ce lo ricordava papa Francesco. Perché se è vero che siamo tutti sulla stessa barca, che, come in ogni grande epidemia, si ammala anche don Rodrigo insieme ai contadini delle campagne milanesi, è ancora più vero che trascorrere il lockdown in una villa con parco e piscina coperta è ben diverso dal trascorrerlo in un appartamento di 50 metri quadri in una periferia di una grande città. Per non parlare delle corsie preferenziali per i pazienti «solventi» delle cliniche private.

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Ma perché la diseguaglianza è un male? E quali sono le radici e la ragioni di questo male economico e civile? La diseguaglianza è una malattia del rapporto, del legame sociale, quindi è una malattia della fraternità – come ha messo in luce il Papa nella sua ultima enciclica Fratelli tutti –. A noi non interessa soltanto quanto possediamo, ci interessa anche quanto possiedono coloro che vivono attorno a noi. E non solo per l’invidia sociale e per la componente agonistica dell’homo sapiens. C’è anche il sentimento della giustizia e dell’ingiustizia distributiva, che è il primo cemento di una società.

Noi riusciamo a stare in pace accanto ai nostri concittadini finché consideriamo che le differenze di reddito e di opportunità tra noi e loro, tra quelle dei nostri figli e i loro, sono considerate accettabili dal punto di vista etico. Perché il giorno in cui le considerassi troppo inique, o cambierei Paese o inizierei una ribellione (vedi i Gillet gialli, la cui proposta è essenzialmente legata alla diseguaglianza, non tanto alla povertà). La povertà di tutti è diversa della povertà di alcuni, magari molto pochi, circondati da ricchi. 

Nella Bibbia la diseguaglianza appare già nel mito di Caino e Abele. Caino, ce lo dice la Genesi (cap. 4), era il primo figlio e quindi unico fino all’arrivo di Abele. Quando diventò fratello, e quindi non più unico, dovette gestire la non unicità delle risorse e degli affetti dei genitori e di Dio. Ma l’elemento che scatena l’omicidio è il trattamento diverso che lui riceve da Dio in rapporto a quello ricevuto da Abele – Dio accettava i doni di Abele ma non quelli di Caino –. Quindi i beni di Caino erano valutati meno di quello di Abele, il suo problema era un problema di percepita ingiustizia orizzontale, non del suo rapporto individuale con Dio. Era un rapporto sociale malato, la fraternità appunto. 

Se non ci fosse il principio di fraternità, la diseguaglianza sarebbe percepita in modo diverso. È l’essere fratelli, e quindi uguali e diversi a un tempo, che crea le premesse per il principio di uguaglianza. Se non fossimo prima legati da un rapporto di fraternità, non ci sarebbe nessuna ragione per pretendere l’uguaglianza, perché non ci sarebbe nessuna base morale per protestare per trattamenti diversi che la vita, la sorte e i talenti ci riservano.

Noi protestiamo per la diseguaglianza, affermiamo quindi l’uguaglianza come un principio fondamentale della democrazia, perché ci riconosciamo prima legati da un rapporto, perché siamo dentro un legame di fraternità. Se fossimo totalmente slegati gli uni dagli altri non avremmo motivi per esigere l’uguaglianza. La diseguaglianza è naturale, l’uguaglianza è artificiale, non è il dato reale ma quello ideale, che invochiamo in nome del principio di fraternità. E dobbiamo farlo di più oggi, quando la diseguaglianza sta di nuovo crescendo nel mondo. L’abbiamo chiamata meritocrazia, e l’abbiamo lasciata crescere indisturbata, perché abbiamo dimenticato il principio di fraternità.

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Perché la diseguaglianza è un male? E quali sono le radici e la ragioni di questo male economico e civile?

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 18/11/2020

Che la diseguaglianza sia qualcosa di tremendamente serio e concreto lo sapevamo già da tempo (e ora quanto sta avvenendo con la pandemia sta rendendo tutto ancora più evidente), ce lo ricordava papa Francesco. Perché se è vero che siamo tutti sulla stessa barca, che, come in ogni grande epidemia, si ammala anche don Rodrigo insieme ai contadini delle campagne milanesi, è ancora più vero che trascorrere il lockdown in una villa con parco e piscina coperta è ben diverso dal trascorrerlo in un appartamento di 50 metri quadri in una periferia di una grande città. Per non parlare delle corsie preferenziali per i pazienti «solventi» delle cliniche private.

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La fraternità crea l’uguaglianza

La fraternità crea l’uguaglianza

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Tornare (o andare) oggi all’economia di Francesco significa prendere sul serio l’«agape», l'amore disinteressato. La sua fraternità non è quella del sangue, ma l’incontro di due o più «agape». 

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 28/10/2020

L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Lo sappiamo tutti, almeno sul piano dell’esperienza. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti, ma in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate e le mogli, fratelli e sorelle, maestre, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, molto, gli amici e le amiche. Moltissimo i fratelli, forse ancora di più le sorelle. L’amore umano poi non si limita agli esseri umani. Raggiunge gli animali, tocca la natura intera, sfiora Dio. Il mondo greco, per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, che non esaurivano le sue molte forme, ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Quel lessico era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che il secondo non era né inferiore né meno vero del primo. 

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Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, già presente nella Bibbia ebraica (nella traduzione greca dei Settanta) e, soprattutto, già presente nella vita. Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico, un amore che sembra poter fare a meno anche della reciprocità. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente nell’amicizia, dove la philia non è mai sola, perché è lei la prima ad avere bisogno di amici. È accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape perché le consente di poter durare per sempre, di farci risorgere dai nostri fallimenti e dalle nostre fragilità. Un’amicizia che è solo philia non è abbastanza calda e forte per non lasciarci soli sulle salite delle nostre strade. Al tempo stesso è la philia che lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella – anche Gesù ha avuto bisogno del registro della philia per dirci il suo amore –. 

In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo perdonato e che ci hanno perdonato settanta volte sette, quelli che quando non tornavano sono stati attesi e desiderati come una sposa o un figlio. Quelli che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci, quelli con i quali abbiamo mischiato molte volte le lacrime fino a fonderle nella stessa goccia salata. Pochi dolori sono poi più grandi di quello per la morte di un amico: in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere, e non ricomincia più. La Bibbia usa la stessa parola – ahavahper descrivere l’amore tra padre e figlio, l’amore erotico e sensuale tra un giovane e una giovane, e anche l’amore tra due amici.

L’economia si è costruita unicamente sul registro dell’eros, cioè su una forma di amore senza gratuità. Ha tentato qualche esperimento di philia, soprattutto nel grande movimento cooperativo. Non ha conosciuto, se non in quantità omeopatiche e a livello quasi esclusivamente individuale, l’economia dell’agape. Tornare (o andare) oggi all’economia di Francesco significa prendere sul serio l’agape anche in economia. La sua fraternità non è quella del sangue, ma l’incontro di due o più agape. Una economia agapica e francescana non l’avremo mai se prima non la desideriamo, se non iniziamo almeno a sognarla.

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pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 28/10/2020

L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Lo sappiamo tutti, almeno sul piano dell’esperienza. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti, ma in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate e le mogli, fratelli e sorelle, maestre, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, molto, gli amici e le amiche. Moltissimo i fratelli, forse ancora di più le sorelle. L’amore umano poi non si limita agli esseri umani. Raggiunge gli animali, tocca la natura intera, sfiora Dio. Il mondo greco, per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, che non esaurivano le sue molte forme, ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Quel lessico era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che il secondo non era né inferiore né meno vero del primo. 

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Una economia dell’amore

Una economia dell’amore

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l covid ci ha mostrato che il mercato funziona bene per le cose semplici, male per le complicate, malissimo per le crisi, quando, senza istituzioni forti, i mercati sono «nudi» come il re della fiaba.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 07/09/2020

Un importante messaggio che non dovremmo dimenticare quando questa pandemia passerà è la diversa visione degli uomini e delle donne emersa da questa crisi. Dopo decenni nei quali ci eravamo rassegnati a una visione pessimistica e cinica degli esseri umani, e ci guardavamo gli uni gli altri come potenziali evasori e corrotti, ci siamo ritrovati quasi in tutto il mondo in lockdown e ci siamo accorti di coordinarci per azioni collettive difficili. Abbiamo dimostrato di essere capaci di cooperare, e lo abbiamo fatto non soltanto per paura del virus o delle multe, ma perché abbiamo capito che dovevamo coope­rare per un bene più grande di noi.

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La paura non basta a fondare il patto sociale. In questi secoli di modernità abbiamo capito che la paura produce più guerre che pace, che la democrazia ha bisogno delle virtù civili per nascere e per durare. Anche noi abbiamo cooperato per difendere le nostre persone più fragili, per gli anziani, per i nostri genitori e nonni. E lo abbiamo fatto anche per virtù, anche per amore. Perché se alle persone si chiede poco danno poco, ma se si chiede molto danno molto, e lo danno bene e volentieri. Abbiamo cantato dai balconi, siamo stati disciplinati e ordinati nelle file, abbiamo obbedito alle regole e rispettato i divieti. E tutto questo perché siamo migliori di quanto pensiamo. La principale povertà del nostro tempo è aver ridotto l’essere umano a un massimizzatore di piacere, un cercatore di profitti, che risponde solo agli incentivi. Non è vero: noi valiamo molto di più, valiamo «più di molti passeri».

Il tema del pessimismo antropologico è anche alla base del rapporto tra Stato e mercato. Venivamo da decenni di fiducia generalizzata nell’azione della libera iniziativa individuale. Ma prima la crisi finanziaria del 2008, poi ora quella prodotta dal covid-19, ci stanno dicendo qualcosa d’importante sul rapporto tra privato e pubblico.

Siamo stati dominati dall’idea che se vuoi fare qualcosa di serio devi affidarlo all’iniziativa privata. L’azione pubblica è via via diventata sinonimo di corruzione, di spreco, un’ideologia suffragata, purtroppo, anche dall’evidenza di corruzione offerta da molti Paesi, Italia compresa. Abbiamo così affidato crescenti aree di vita civile a manager e consulenti provenienti dalle business school, che hanno stravolto le istituzioni pubbliche, la scuola, la sanità, gestite sempre più con la logica tipica del business e dell’impresa capitalista.

Alla base di questa invasione di logica economica privatista c’è un grande pessimismo antropologico: l’uomo non è capace di impegnarsi davvero per il bene comune, perché ciò che lo motiva a far le cose bene è l’incentivo monetario. E così, le imprese private sono garanzia di efficienza e di qualità perché mettono in moto l’unica motivazione capace di farci lavorare. Di conseguenza, la parola «pubblico» è diventata sinonimo di cose tutte negative, vecchie. Se, infatti, osserviamo bene l’umanesimo del mercato capitalistico ci troviamo idee molto ciniche e parsimoniose di essere umano, dominato dall’interesse personale. Nella sfera pubblica le motivazioni pro-sociali sono troppo deboli, quindi dobbiamo accontentarci degli interessi e della «mano invisibile» che li trasforma, con una alchimia, in «ricchezza delle nazioni».

Il covid ci ha mostrato invece che il mercato funziona bene per le cose semplici, male per quelle complicate, malissimo per le grandi crisi, quando, senza istituzioni forti e i loro aiuti, i mercati sono «nudi» come il re della fiaba. Lo stiamo vedendo, non dimentichiamolo più, e ripensiamo seriamente il nostro capitalismo.

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l covid ci ha mostrato che il mercato funziona bene per le cose semplici, male per le complicate, malissimo per le crisi, quando, senza istituzioni forti, i mercati sono «nudi» come il re della fiaba.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 07/09/2020

Un importante messaggio che non dovremmo dimenticare quando questa pandemia passerà è la diversa visione degli uomini e delle donne emersa da questa crisi. Dopo decenni nei quali ci eravamo rassegnati a una visione pessimistica e cinica degli esseri umani, e ci guardavamo gli uni gli altri come potenziali evasori e corrotti, ci siamo ritrovati quasi in tutto il mondo in lockdown e ci siamo accorti di coordinarci per azioni collettive difficili. Abbiamo dimostrato di essere capaci di cooperare, e lo abbiamo fatto non soltanto per paura del virus o delle multe, ma perché abbiamo capito che dovevamo coope­rare per un bene più grande di noi.

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Siamo migliori di quanto pensiamo: ce l'ha detto il covid

Siamo migliori di quanto pensiamo: ce l'ha detto il covid

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di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 29 luglio 2020

«Noi suore della generazione di mezzo saremmo felici di dedicare il resto della nostra vita a occuparci delle suore anziane, in modo da liberare le suore giovani dal grande peso che comporta la cura di una congregazione così anziana». Queste parole me le ha dette la Madre Generale di una congregazione, qualche giorno fa. Una generosità che mi ha commosso, e poi mi ha stimolato una riflessione di carattere più generale sul presente e sul futuro degli ordini religiosi della Chiesa.

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Nel mondo delle imprese, quando si ha a che fare con un’impresa molto indebitata e in crisi, è sempre più comune scorporare la parte sana dell’impresa, quella che ha ancora capacità di futuro, per evitare che la vecchia compagnia affondi anche la sua parte più nuova. È questo un modo di salvare la società, continuare la sua tradizione ed evitare la chiusura totale dell’impresa. 

Il mondo degli ordini religiosi non è sovrapponibile al mondo delle imprese, ma nondimeno esistono delle analogie. Quando oggi una giovane o un giovane riceve una vocazione e si avvicina a una congregazione o a un ordine religioso, deve gestire un conflitto molto serio. Da una parte c’è la sua naturale aspirazione alla felicità che è un diritto-dovere di ogni persona, in particolare dei giovani; dall’altra la certezza di dover trascorrere la propria vita a occuparsi di un ordine composto per una quota elevatissima di persone anziane, a dover vendere case, gestire problemi crescenti di sostenibilità economica, ecc.ecc.

Questo conflitto sempre più evidente sta producendo due fenomeni: in primo luogo una riduzione di vocazioni maggiore di quella dovuta alla sola secolarizzazione, perché molti giovani con autentiche vocazioni si bloccano per una impossibilità pragmatica di coltivarla; in secondo luogo, quelle poche vocazioni rimaste si orientano soltanto nei nuovi movimenti e nelle nuove comunità, producendo una drammatica scarsità di giovani negli ordini e nelle congregazioni secolari, che sono tra le realtà più belle della Chiesa e dell’umanità. 

Ecco che l’idea della «nuova società» delle imprese, scorporata dalla vecchia, può offrire qualche spunto e indicare qualche prospettiva interessante. Come mi diceva quella Madre, l’attuale governo di queste grandi famiglie religiose potrebbe distinguere sul piano operativo e magari anche giuridico la «vecchia» istituzione, che dovrebbe occuparsi della gestione dell’esistente e dei problemi della terza età, facendo chiaramente in modo che le persone anziane possano trovare una loro buona vita nell’ultima fase della loro esistenza, elemento fondamentale per tutte le comunità umane.

Al tempo stesso, utilizzare i capitali e i patrimoni, spirituali ma anche immobiliari e finanziari, per dar vita a una nuova «società», con una attualizzazione del carisma, con uno specifico lavoro narrativo sulla spiritualità, in modo che l’antico carisma possa presentarsi alle nuove vocazioni come una vita possibile ed entusiasmante, capace di futuro e non solo di passato. 

Simili operazioni richiederebbero, oltre a un coraggio carismatico e alla fede che il proprio carisma è ancora in grado di avere, figli e nipoti (ricordando sempre l’antica saggezza del proverbio africano: «Chi si mangia i figli non vedrà mai i nipoti»), anche una grande generosità da parte della attuale generazione di mezzo degli ordini religiosi, che dovrebbe mettere la felicità dei giovani prima della propria. Ho incontrato alcune comunità dove questa generosità esiste, manca solo il passo per renderla concreta e operativa dando vita oggi a qualche esperimento concreto. Buon lavoro: la posta in gioco è davvero grossa.

Credits foto: © Giuliano Dinon / archivio MSA

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di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 29 luglio 2020

«Noi suore della generazione di mezzo saremmo felici di dedicare il resto della nostra vita a occuparci delle suore anziane, in modo da liberare le suore giovani dal grande peso che comporta la cura di una congregazione così anziana». Queste parole me le ha dette la Madre Generale di una congregazione, qualche giorno fa. Una generosità che mi ha commosso, e poi mi ha stimolato una riflessione di carattere più generale sul presente e sul futuro degli ordini religiosi della Chiesa.

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Lo scorporo della vita religiosa

Lo scorporo della vita religiosa

l mondo degli ordini religiosi non è sovrapponibile al mondo delle imprese. Eppure, soprattutto nei momenti di difficoltà, esistono delle analogie... di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 29 luglio 2020 «Noi suore della generazione di mezzo saremmo felici di dedicare il re...