Messaggero di S. Antonio

Economia Civile

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Se vogliamo avere un rapporto giusto con il lavoro dobbiamo ricordarci che prima sono l’uomo e la donna a nobilitare il lavoro con la loro presenza, con le loro mani e con la loro intelligenza.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 06/07/2023

Le crisi ambientali, finanziarie e militari di questo inizio di millennio, talmente gravi da non poter essere ignorate, rischiano però di farci sottovalutare o dimenticare una triplice crisi di cui si parla troppo poco: la crisi della fede, delle grandi narrative e del generare. Un mondo che non attende più il paradiso, che ha dimenticato le narrative collettive e che non mette al mondo figli, non trova più un sufficiente senso per vivere e quindi per lavorare. Le cosiddette «grandi dimissioni» di milioni di lavoratori, giovani e di mezza età, che lasciano il lavoro senza averne un altro, hanno certamente molte ragioni, ma una sta diventando quella dominante. È la mancata risposta a una domanda cruciale: «Perché dovrei lavorare, se non spero più in una terra promessa (sopra o sotto il cielo), se non ho nessuno che dal mio lavoro spera in un presente e un futuro migliori?».

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Non dobbiamo mai dimenticare che il mondo del lavoro non ha mai creato né esaurito il senso del lavoro. Il lavoro è un pezzo importante del senso della vita, ma non lo esaurisce, c’è bisogno di qualcos’altro, oltre al lavoro, per vivere bene, anche quando il lavoro è bellissimo e ci appaga profondamente. Ieri questo «qualcos’altro» erano la famiglia, le ideologie, la religione, che davano al lavoro il suo giusto senso. Poi la fabbrica, i campi o l’ufficio rafforzavano quel senso che però nasceva fuori dal lavoro. Si lavorava bene perché prima e dopo del lavoro c’erano cose e persone più grandi del lavoro. Il lavoro era ed è grande, ma per essere visto nella sua vera grandezza deve essere guardato da fuori, da una porta o una finestra che si apre sull’esterno del luogo di lavoro; perché senza questo spazio più largo che prepara e segue il lavoro, la stanza del lavoro è troppo piccola, il tetto della fabbrica o dell’ufficio è troppo basso affinché quell’animale malato d’infinito che è l’homo sapiens possa restarci bene senza asfissiare, e possa restarci a lungo. 

La nostra Costituzione è fondata sul lavoro perché il lavoro era fondato su qualcos’altro, era fondato sulla vita. Se le madri e i padri costituenti non fossero stati convinti che il lavoro era solo una parte della vita, che era quella zona mezzana tra un prima e un dopo, non avrebbe mai scritto quell’Articolo 1; perché fondare la costituzione su un lavoro che non si fonda su altro, sarebbe stata l’eresia etica più grande. Anche perché in quel qualcosa che precede e segue il lavoro ci sono i bambini che non lavorano perché non devono lavorare, i vecchi che non lavorano più, chi non ha potuto lavorare o non lavorerà mai perché la vita glielo impedisce. Fondare la democrazia sul lavoro è buono solo se ci ricordiamo che la parola lavoro è seconda, non è parola prima.

Il lavoro nobilita l’uomo, è vero. Lavorare ci fa migliori, e aumenta la dignità della vita e del denaro che ci serve per vivere, perché il denaro-salario diventa espressione di quella reciprocità civile che è il cemento buono della società. Ma se vogliamo avere un rapporto giusto con il lavoro dobbiamo ricordarci che prima sono l’uomo e la donna a nobilitare il lavoro con la loro presenza, con le loro mani e con la loro intelligenza. Perché se una attività, che potrebbe essere svolta da una macchina è invece svolta da una persona umana libera, questa persona dona maggiore dignità a quel gesto – a una lezione universitaria, a una visita medica, a un’opera d’arte –. E allora tutte le volte che espelliamo lavoratori e inseriamo macchine, stiamo riducendo la dignità di quel luogo di lavoro. È il nostro lavoro che aumenta la dignità della terra.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 06/07/2023

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Prima la vita, poi il lavoro

Prima la vita, poi il lavoro

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Un sistema sociale che premia chi è già capace non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che in genere non sono tali per demerito, ma per le condizioni di vita.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/06/2023

Le dimissioni del senatore Carlo Cottarelli perché, tra l’altro, non vedeva il suo partito abbastanza deciso nel sostenere la meritocrazia, ha posto di nuovo l’attenzione sul significato e sull’ideologia del merito nel nostro tempo. Merito è sempre stata una parola ambigua, perché profondamente legata al fascino che il merito esercita su tutti noi. Tutti vorremmo meritarci i nostri successi (meno meritarci gli insuccessi), nessuno ama pensare che la bella carriera che ha fatto sia frutto soltanto della fortuna e di raccomandazioni.

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Se poi andiamo a vedere come il merito viene usato, ieri e oggi, nelle scelte concrete dell’economia e della società, ci accorgiamo che esso non è stato quasi mai dalla parte dei poveri, che sono stati spesso scartati e poi colpevolizzati perché considerati demeritevoli, convincendoli così di non essere soltanto poveri ma anche colpevoli e maledetti. Merito deriva da merere, cioè guadagnare, da cui derivano anche mercede e meretrice. La meritocrazia è l’ideologia del merito che, come tutte le ideologie, prende una parola che ci piace e ci affascina, la manipola e la perverte. E così, in nome della valorizzazione di chi è meritevole e povero, l’ideologia meritocratica è diventata la legittimazione etica della diseguaglianza. 

È bastato soltanto cambiarle nome e la diseguaglianza da male è diventata un bene. I passaggi sono stati tre: 1. considerare i talenti delle persone un merito e non un dono; 2. ridurre i molti meriti delle persone a quelli più semplici da misurare dalle società di consulenza (chi vede oggi i «meriti» della compassione, della mitezza, dell’umiltà?); 3. leggere il talento come merito porta a remunerare diversamente i meriti e così si amplificano le distanze tra le persone.

L’equivoco sul merito lo troviamo già dentro la nostra stupenda Costituzione, che all’articolo 34 recita: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Non a caso il nuovo governo si è basato su questo articolo per giustificare il cambiamento del nome del ministero «dell’Istruzione» in «dell’Istruzione e del merito», insinuandosi nel pertugio lasciato aperto dall’ambiguità di quell’articolo 34. 

Gli amanti del merito dicono: «il merito non è solo talento, è una combinazione di talento e impegno, perciò quello che si premia è l’impegno personale». Questi meritocratici dimenticano però l’elemento cruciale: anche potersi impegnare non è merito, è soprattutto dono. Tornare a casa da scuola e avere tempo per fare i compiti, invece di dover lavorare, non è un merito. Se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che ciò che siamo e diventiamo è per il 90% dono e per il 10% merito; la meritocrazia, invece, ribalta questa percentuale, e fa di quell’esile 10% la pietra angolare dell’edificio della giustizia.

La scuola deve essere, come istituzione, anti-meritocratica: deve cioè ridurre quelle asimmetrie dei punti di partenza che non hanno nulla a che fare con il merito dei nostri bambini. Un sistema sociale che premia chi è già capace non fa altro che lasciare sempre più indietro i meno capaci, che in genere non sono tali per demerito ma per le condizioni di vita. Don Milani, di cui festeggiamo quest’anno il centenario, queste cose le sapeva molto bene. Sapeva che i suoi ragazzi di Barbiana non erano demeritevoli: erano soltanto poveri; non erano colpevoli, erano soltanto poveri. Che questo centenario ci faccia riflettere sull’ideologia del merito che sta diventando la nuova religione del nostro tempo, una religione senza gratuità e senza Dio. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Poveri e ideologia del merito

Poveri e ideologia del merito

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All’origine della civiltà biblica c’è l’istituzione solidale della spigolatura. Il libro di Rut è tutto costruito su di essa: quando i mietitori passavano a tagliare le messi non ripassavano una seconda volta, perché la seconda battuta era per i poveri...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di S. Antonio il 07/05/2023

«Signore come funziona questa macchinetta per il parcheggio?» mi chiede una signora anziana che stava cercando, come me, di pagare la sosta nelle righe blu. In quella città l’azienda che gestisce i parcheggi comunali - cioè suolo pubblico, quindi di tutti -, ha avuto la buona idea, ormai diffusa, di richiedere al cittadino di inserire nella macchinetta il numero della targa. «Non me la ricordo», mi dice la signora. Mi indica dove si trova la sua auto, distante per lei che aveva difficoltà a camminare. Vado, faccio una foto alla targa, e l’aiuto a pagare il ticket.

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Alla fine, una domanda mi è sorta spontanea: «Perché occorre inserire la targa?». La sola risposta che mi viene in mente è impedire al parcheggiante che ha pagato due ore e ne ha usata una sola di poter donare a qualcun altro l’ora residua. Un’amica vigilessa mi dice che, forse, ci potrebbe essere anche un’altra ragione: se per errore mi fanno la multa perché non vedono lo scontrino sull’auto, con la targa posso dimostrare che avevo pagato. Onestamente, credo che la prima ragione sia di gran lunga quella dominante, visto che in quasi quarant’anni di guida non ho mai ricevuto multe quando avevo pagato il parcheggio! 

Quindi la questione è semplice: un’azienda for-profit deve massimizzare i guadagni, e se gestisce un bene pubblico per conto del comune lo fa con lo scopo di fare profitti. E invece io sono convinto che aziende pubbliche o private che gestiscono beni comuni e pubblici dovrebbero essere imprese civili, o non-profit, che non hanno, cioè, come obiettivo massimizzare i profitti, ma gestire con efficienza un bene di tutti. L’introduzione di un prezzo per gestire beni pubblici può servire per razionalizzare la gestione (le cose gratis diventano quasi sempre cose di nessuno) e non necessariamente per fare cassa. 

Ma quali sono gli effetti dell’introduzione del numero di targa? Il primo lo abbiamo visto: le persone non sono tutte uguali nei loro «funzionamenti», direbbe il grande economista Amartya Sen. Quindi gli interventi pubblici e amministrativi hanno effetti diversi sulle diverse persone. E un buon criterio da seguire quando si vuol innovare nei beni pubblici è guardare gli effetti dell’innovazione a partire dalle categorie più svantaggiate: anziani, bambini, persone con disabilità. 

Poi c’è l’effetto specifico legato al divieto di scambiare i ticket con altri concittadini. Quando studiavo a Londra, c’era una fermata della Metro dove tutti sapevano che si potevano trovare dei ticket con durata ancora valida, lasciati lì da chi non li aveva usati tutti perché ne usufruissero giovani e poveri. Impedire questi (possibili) scambi per qualche dollaro in più, oltre a essere civilmente stupido, lancia segnali sul tipo di città che si vuol realizzare: una città dove stanno meglio i forti e i ricchi, e dove stanno sempre peggio i fragili e gli scartati. All’origine della civiltà biblica c’è l’istituzione solidale della spigolatura. Il libro, bellissimo, di Rut è tutto costruito su di essa: quando i mietitori passavano a tagliare le messi non ripassavano una seconda volta, perché la seconda battuta era per i poveri, le vedove, i forestieri. I campi non erano soltanto dei padroni, perché «tutta la terra è di Dio».

Stiamo privatizzando i beni comuni, stiamo eliminando le molte forme antiche di spigolatura. Avremo presto città abitate da sempre più mercanti e da sempre meno cittadini, dove tutto il raccolto si esaurisce nella prima battuta. E forse la signora anziana non uscirà più a fare la spesa: gliela porterà a casa una nuova azienda che farà profitti con queste consegne. La città sarà più povera e triste, e noi con essa.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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All’origine della civiltà biblica c’è l’istituzione solidale della spigolatura. Il libro di Rut è tutto costruito su di essa: quando i mietitori passavano a tagliare le messi non ripassavano una seconda volta, perché la seconda battuta era per i poveri...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di S. Antonio il 07/05/2023

«Signore come funziona questa macchinetta per il parcheggio?» mi chiede una signora anziana che stava cercando, come me, di pagare la sosta nelle righe blu. In quella città l’azienda che gestisce i parcheggi comunali - cioè suolo pubblico, quindi di tutti -, ha avuto la buona idea, ormai diffusa, di richiedere al cittadino di inserire nella macchinetta il numero della targa. «Non me la ricordo», mi dice la signora. Mi indica dove si trova la sua auto, distante per lei che aveva difficoltà a camminare. Vado, faccio una foto alla targa, e l’aiuto a pagare il ticket.

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Spigolature urbane

Spigolature urbane

All’origine della civiltà biblica c’è l’istituzione solidale della spigolatura. Il libro di Rut è tutto costruito su di essa: quando i mietitori passavano a tagliare le messi non ripassavano una seconda volta, perché la seconda battuta era per i poveri... di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero...
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Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di S. Antonio il 06/04/2023

Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza. Nel Novecento la critica sociale si era indirizzata verso la teoria economica liberale, individuando negli economisti teorici il grande nemico da combattere per costruire una società finalmente giusta ed egualitaria.

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Mentre gli intellettuali, fossero essi cattolici o socialisti, battagliavano questa guerra, nelle facoltà di ingegneria e nelle business school crescevano le tecniche e gli strumenti del management che negli ultimi decenni si sono progressivamente trasformati nell’«ideologia del management» costruita attorno ai tre dogmi dell’incentivo, della leadership e del merito. Una ideologia che sta dilagando ovunque, incluse le comunità cristiane e le chiese, dove ormai si stanno moltiplicando i corsi sulla leadership per parroci e responsabili di movimenti, dove ormai non si può più fare un convegno o un capitolo generale senza coach o facilitatori professionisti provenienti dal mondo del business, come se avessimo, d’un tratto, dimenticato quella antica sapienza di come svolgere gli incontri di comunità e le assemblee. 

Anche il mondo europeo e i Paesi di cultura cattolica come l’Italia stanno subendo una rapida evoluzione e un veloce cambiamento culturale. Noi cattolici eravamo così convinti che le leggi della vita non seguissero quelle del merito che lo avevamo relegato in cielo, dove era il criterio per «meritarci» l’inferno o il paradiso. Il mondo protestante, invece, in nome della salvezza per sola gratia (Lutero) o per predestinazione (Calvino) aveva espulso il merito dal paradiso e dall’inferno, e poi sulla terra ha inventato, qualche secolo dopo, la meritocrazia (che nasce negli Stati Uniti). Il business sta esportando questo umanesimo protestante dagli Usa (e dal Nord Europa) in tutto il mondo, e oggi lo fa soprattutto con l’ideologia del management, che è talmente penetrata anche in Italia da far cambiare il nome del ministero «dell’Istruzione» in «dell’Istruzione e del Merito».

Così, al posto dell’antica etica delle virtù su cui avevamo fondato la nostra civiltà, l’ideologia del management e della consulenza globale e totale offre un insieme di principi, buone pratiche, elementi di psicologia, citazioni di classici della filosofia, della sociologia e dell’economia, qualche aneddoto di teoria dei giochi, molti diagrammi di flusso, stupendi power point. E infine i consulenti di ogni tipo e nome fanno diventare i principi del management strumenti operativi di gestione e di governance. La grande impresa è così diventata il paradigma che tutti dovrebbero seguire se vogliono fare cose buone e serie. Nel Novecento era la democrazia, quindi la partecipazione, che aveva offerto il modello da estendere a tutta la vita civile. Ma mentre la prima trasformazione democratica dall’antico regime si è svolta in mezzo a conflitti e a grandi lotte sociali, la grande trasformazione etica e culturale che il business sta operando nel mondo si sta compiendo nell’indifferenza (quasi) generale. Non si tratta di negare l’importanza dei valori e delle virtù economiche, sarebbe stolto e sbagliato. Il problema è un altro, e non riguarda né l’impresa né il necessario management, tantomeno gli imprenditori che sono le prime vittime di questa nuova stagione. I problemi riguardano l’ideologia del management, che arriva ovunque perché, barando, si presenta laicamente come tecnica, e quindi come qualcosa di necessario e di non ideologico. Forse è ora di prenderne coscienza e parlarne di più.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di S. Antonio il 06/04/2023

Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza. Nel Novecento la critica sociale si era indirizzata verso la teoria economica liberale, individuando negli economisti teorici il grande nemico da combattere per costruire una società finalmente giusta ed egualitaria.

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L’ideologia del management

L’ideologia del management

Il management sta diventando la nuova ideologia del nostro mondo globale, in particolare quel management insegnato nelle business school e veicolato dalle grandi imprese globali di consulenza. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di S. Antonio il 06/04/2023 Il management sta diventando la...
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Oggi dovremmo prendere la parte ancora viva del cristianesimo e inculturarlo nel nostro tempo post-cristiano, che non capisce più i linguaggi della fede, ma che li capirebbe con una adeguata operazione culturale e narrativa.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/03/2023

La cristianità, cioè la civiltà cristiana, non è nata solo dal Vangelo. È stata il risultato di una ibridazione tra vangeli, Bibbia, cultura greco-romana, civiltà italiche ed europee, e poi longobarda, nordica, slava, bizantina, araba. L’Europa cristiana è il frutto di questo meticciato, molto più ricco e variegato delle sole teologia o fede cristiana. La pietà popolare è un intreccio di molti fedi e tradizioni, le processioni hanno progressivamente preso il posto delle processioni pagane dedicate agli dèi dei campi e della natura. La grande maggioranza di italiani ed europei pre-moderni non aveva alcuna idea di che cosa fosse la Trinità, della differenza tra Gesù e Dio Padre, di quella tra Gesù, la Madonna e i santi: erano tutte divinità da cui, credeva, dipendesse la vita. Nelle loro feste gli antichi europei e italiani continuavano a cantare le solite canzoni dietro baldacchini che avevano solo cambiato la statua trasportata, e a volte neanche questa.

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Questo meticciato è continuato, senza grosse discontinuità, fino al Novecento. La religione di mia nonna e mio nonno, contadini e cristiani, era fatta di preghiere in latino-dialetto dal contenuto incomprensibile. In Maria non vedevano tanto la sua immacolata concezione, ma che era stata madre, che aveva partorito al freddo e al gelo in una stalla, che era stata sotto la croce del figlio, che lo aveva tenuto, morto, sulle sue braccia. Come facevano loro, come facevano le donne e le madri. Non conoscevano i dogmi cristologici, ma sapevano che Gesù era buono, amava i poveri e guariva i malati, che era morto crocifisso con sua madre sotto la croce, che quindi anche lui aveva sofferto molto, forse più di loro. E per questo lo amavano, e non serviva altro per credere che anche Dio Padre era buono, ma poteva sempre arrabbiarsi e punire (l’idea che Dio fosse solo amore non è mai stata quella del popolo). Ancora oggi mio padre sa recitare a memoria soltanto una preghiera in un misto di italiano e dialetto ascolano. Non è tra quelle imparate a catechismo (che credo non abbia mai fatto, il catechismo era roba da ricchi o per i bambini delle città), una preghiera teologicamente imperfetta, ma piena della vita e della fede della gente. Gente che non sapeva nulla di teologia, ma il 28 dicembre, nella memoria della «strage degli innocenti» per mano di Erode, non tagliava il pane per non dover impugnare il coltello.

La Chiesa, soprattutto quella cattolica, non ha dunque avuto paura di prendere feste pagane e integrarle nella civiltà cristiana. Oggi dovremmo fare una operazione simile e simmetrica: prendere la parte ancora viva del cristianesimo e inculturarlo nel nostro tempo post-cristiano, che non capisce più i linguaggi della fede ma che li capirebbe con una adeguata operazione culturale e narrativa. Come i cristiani presero i templi pagani e ci costruirono sopra le nuove chiese (a Siracusa o Ascoli si vede ancora bene), oggi dovremmo prendere le colonne ancora vive della cristianità – soprattutto quelle spirituali – e costruirci sopra nuovi edifici spirituali che possano essere riempiti dalle donne e uomini del nostro tempo, che non capiscono più il linguaggio teologico del XX secolo ma hanno sempre sete e fame di Dio, di salvezza, di Cristo. Un’operazione difficile, ma essenziale: altrimenti, la depressione sarà la pandemia dei prossimi anni. Siamo in grave ritardo. Dietrich Boenhoeffer lo aveva scritto nella stupenda lettera dal carcere del 30 aprile 1944, quando annunciò il bisogno di dar vita a un cristianesimo post-religioso. In ritardo, ma forse ancora in tempo.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Oggi dovremmo prendere la parte ancora viva del cristianesimo e inculturarlo nel nostro tempo post-cristiano, che non capisce più i linguaggi della fede, ma che li capirebbe con una adeguata operazione culturale e narrativa.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/03/2023

La cristianità, cioè la civiltà cristiana, non è nata solo dal Vangelo. È stata il risultato di una ibridazione tra vangeli, Bibbia, cultura greco-romana, civiltà italiche ed europee, e poi longobarda, nordica, slava, bizantina, araba. L’Europa cristiana è il frutto di questo meticciato, molto più ricco e variegato delle sole teologia o fede cristiana. La pietà popolare è un intreccio di molti fedi e tradizioni, le processioni hanno progressivamente preso il posto delle processioni pagane dedicate agli dèi dei campi e della natura. La grande maggioranza di italiani ed europei pre-moderni non aveva alcuna idea di che cosa fosse la Trinità, della differenza tra Gesù e Dio Padre, di quella tra Gesù, la Madonna e i santi: erano tutte divinità da cui, credeva, dipendesse la vita. Nelle loro feste gli antichi europei e italiani continuavano a cantare le solite canzoni dietro baldacchini che avevano solo cambiato la statua trasportata, e a volte neanche questa.

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Per un nuovo capitale spirituale

Per un nuovo capitale spirituale

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Oggi è più che mai urgente re-inventare la vita adulta, schiacciata da una gioventù e una vecchiaia artificialmente sempre più lunghe. Finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 02/02/2023

Il nostro tempo sta conoscendo un nuovo protagonismo dei giovani, che stanno facendo in molti Paesi cose straordinarie. Sono giovani e adolescenti insieme, e la presenza dei teenagers è una grande novità rispetto all’analogo Sessantotto. Dai «Fridays for future» alle giovani iraniane e afgane, a «Economy of Francesco», fino ai giovani di «Ultima generazione», che imbrattano con vernice lavabile quadri e palazzi per ricordare che i potenti hanno imbrattato, con vernice indelebile, il pianeta e il loro futuro. Giovani meravigliosi, che ci stanno salvando, eppure non vogliamo prenderli abbastanza sul serio. Perché la nostra cultura capitalistica ama la giovinezza, ma ama poco i giovani. Così, mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza – bellezza, salute, energia… – capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono fondamentali, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di allontanare dal suo orizzonte, che così si abbuia e si intristisce. Perché una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo è quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra generazione è la prima che sta sommando tra di loro queste due stoltezze.

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Che la nostra cultura non ami i giovani lo si vede da come li tratta nella scuola, nell’università, nel mondo del lavoro, nelle istituzioni, nei partiti politici, dove i giovani sono sempre più assenti e tenuti ben distanti. Sono troppi oggi i giovani che rischiano di passare, quasi senza accorgersene, dalla giovinezza alla vecchiaia, senza vivere mai l’età adulta – si è trattati da giovani fino ai 40 anni inoltrati, e già per troppe cose si diventa vecchi dopo i 50 –. I miei genitori non hanno vissuto il Sessantotto, sebbene fossero anagraficamente giovani, per la semplice ragione che nella campagna marchigiana dove sono cresciuti la gioventù non era stata ancora «inventata». Certo, esisteva l’età biologica corrispondente: i «giovani» si innamoravano e sognavano, come oggi e come, spero, domani. Ma non esisteva quella specie di categoria o gruppo sociale che oggi chiamiamo gioventù. Questa l’hanno «inventata» il rock, i Beatles e poi il Sessantotto. Prima, con il matrimonio o con il militare si passava direttamente dall’adolescenza alla vita adulta, con le sue responsabilità.

Quella della gioventù è stata una delle più grandi invenzioni sociali della storia, che ha cambiato società, politica, economia, modo di divertirsi, vestirsi, sperare, lavorare, vivere e morire. Ma oggi è più che mai urgente re-inventare la vita adulta, schiacciata da una gioventù e una vecchiaia artificialmente sempre più lunghe. Finché non si lavora davvero e seriamente non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità. E un lavoro che arriva troppo tardi, e che – se e quando arriva – è troppo spesso insicuro, frammentario, precario e fragile, non fa altro che alimentare e prolungare una giovinezza oltre i suoi orizzonti biologici, snaturandola. La giovinezza è stupenda perché finisce, e quando non finisce è una tragedia antropologica e sociale. Tutto ciò fa perdere al mondo dell’economia, alla società e alle istituzioni l’energia vitale e morale fondamentale che proviene dai giovani, e rende per questi accidentato e troppo rischioso quel processo e passaggio fondamentale che dovrebbe portarli, presto, al lavoro vero. Non è semplice uscire da questa specie di «trappola di povertà» epocale e collettiva nella quale siamo, più o meno consapevolmente, caduti, soprattutto in Occidente. Ma dobbiamo iniziare a vederla, a chiamarla per nome. 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Oggi è più che mai urgente re-inventare la vita adulta, schiacciata da una gioventù e una vecchiaia artificialmente sempre più lunghe. Finché non si lavora davvero non si è pienamente adulti, perché non inizia effettivamente l’età della responsabilità.

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 02/02/2023

Il nostro tempo sta conoscendo un nuovo protagonismo dei giovani, che stanno facendo in molti Paesi cose straordinarie. Sono giovani e adolescenti insieme, e la presenza dei teenagers è una grande novità rispetto all’analogo Sessantotto. Dai «Fridays for future» alle giovani iraniane e afgane, a «Economy of Francesco», fino ai giovani di «Ultima generazione», che imbrattano con vernice lavabile quadri e palazzi per ricordare che i potenti hanno imbrattato, con vernice indelebile, il pianeta e il loro futuro. Giovani meravigliosi, che ci stanno salvando, eppure non vogliamo prenderli abbastanza sul serio. Perché la nostra cultura capitalistica ama la giovinezza, ma ama poco i giovani. Così, mentre apprezza sempre più i valori associati alla giovinezza – bellezza, salute, energia… – capisce sempre meno e disprezza i valori, che pur sono fondamentali, della vecchiaia, che cerca in tutti i modi di allontanare dal suo orizzonte, che così si abbuia e si intristisce. Perché una civiltà che non valorizza gli anziani e non sa invecchiare è stolta come lo è quella che non capisce e valorizza i veri giovani: la nostra generazione è la prima che sta sommando tra di loro queste due stoltezze.

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La scomparsa degli adulti

La scomparsa degli adulti

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La distanza tra i governanti e i poveri è un grande problema della democrazia. Senza una nuova competenza della politica e dei politici la distanza tra la vita e il palazzo è destinata a crescere.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 06/01/2023

In una delle pagine più belle del libro Cuore di Edmondo De Amicis, Alberto Bottini, il papà di Enrico (il ragazzo protagonista del libro) dice al figlio: «L’uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non ha altro che un libro». In quella fase post-unitaria era molto importante cercare di «fare gli italiani» superando il mondo feudale e le sue caste. E questo superamento nella direzione della fraternità civile era affidato soprattutto alla scuola pubblica, che stava diventando obbligatoria per i primi anni delle elementari.

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Il messaggio per Enrico, figlio della borghesia, era chiaro: fatti amici i ragazzi di tutte le classe sociali, dal muratorino al figlio del fabbro, perché questa amicizia fanciulla sarà decisiva per una nuova amicizia sociale quando diventerete cittadini adulti. Questa frase contiene una grande saggezza. Oggi, infatti, sappiamo che la prima ragione della decadenza di tutte le élite – culturali, economiche, politiche, religiose – sta nella perdita della biodiversità relazionale. Quando un gruppo di persone si sente e si auto-rappresenta come una élite, e quindi smette di frequentare i luoghi di tutti, non ha più amici e conoscenti di culture e condizioni socio-economiche diverse; quando la vita degli appartenenti a questa élite si svolge tra hotel di lusso, campi da golf, ristoranti stellati, senza più il contatto con le persone nella metro, nei mercati, nelle code alla posta, il declino inesorabile di quell’élite è già iniziato.

E lo stiamo già vedendo con l’attuale generazione di manager delle grandi aziende, in profonda crisi antropologica e di senso (anche se ricchissimi), perché da troppo tempo ormai si sono auto-reclusi in mondi autoreferenziali, perdendo contatto anche dai propri lavoratori e operai. L’imprenditore di ieri nella stragrande maggioranza dei casi abitava nelle città di tutti, mandava i figli nelle scuole di tutti, frequentava i bar e i barbieri di tutti, e soprattutto frequentava le fabbriche e le officine dei suoi operai, conosceva il lavoro perché conosceva i lavoratori e lavorava spesso con loro, condividendo odore e ferite. Quando questa auto-segregazione avviene anche per le élite politiche chiamate a governare, i danni sono ancora più gravi. Perché si trovano a perdere l’essenziale competenza nelle materie sulle quali dovrebbero legiferare.

Pensiamo, per un esempio importante, al tema della povertà. Nell’immaginario dei nostri governanti, tra quel milione circa di cittadini che percepiscono in media attorno ai 500 euro mensili di Reddito di Cittadinanza ci sarebbe una significativa quota di colpevoli, cioè persone che potrebbero lavorare e che invece, pigri e fannulloni, preferiscono il divano al lavoro. Poi uno guarda i dati e si chiede da dove provenga questa convinzione forte come un dogma religioso. Chi conosce almeno alcune delle famiglie percettrici di Reddito di Cittadinanza, sa benissimo che se queste persone non lavorano è quasi sempre per qualche problema grave, e che una forma di povertà è anche condurre una vita degradata che ti porta a preferire il divano al lavoro.

Ma la distanza tra i governanti e i poveri veri è un grande problema della democrazia. Troppi politici parlano di poveri in astratto, senza averli mai visti, averci parlato. Fanno così leggi per i poveri immaginati e finiscono per perdere contatto con i poveri veri che, anche per questa ragione, diventano gli scarti della società. Senza una nuova competenza della politica e dei politici, che tornino alla scuola della strada e dei poveri, la distanza tra la vita e il palazzo è destinata inesorabilmente a crescere.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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La distanza tra i governanti e i poveri è un grande problema della democrazia. Senza una nuova competenza della politica e dei politici la distanza tra la vita e il palazzo è destinata a crescere.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 06/01/2023

In una delle pagine più belle del libro Cuore di Edmondo De Amicis, Alberto Bottini, il papà di Enrico (il ragazzo protagonista del libro) dice al figlio: «L’uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non ha altro che un libro». In quella fase post-unitaria era molto importante cercare di «fare gli italiani» superando il mondo feudale e le sue caste. E questo superamento nella direzione della fraternità civile era affidato soprattutto alla scuola pubblica, che stava diventando obbligatoria per i primi anni delle elementari.

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La scuola della strada e dei poveri

La scuola della strada e dei poveri

La distanza tra i governanti e i poveri è un grande problema della democrazia. Senza una nuova competenza della politica e dei politici la distanza tra la vita e il palazzo è destinata a crescere. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 06/01/2023 In una delle pagine più b...
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Come insegnare l'uso corretto del denaro ai figli? Ecco quattro regole che potrebbero risultare utili in famiglia...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/12/2022

L’uso del denaro all’interno delle relazioni primarie è sempre molto delicato, soprattutto in famiglia, dove nel gioco monetario entrano i bambini, i ragazzi e gli adolescenti. Potrebbe essere utile seguire quattro regole, suffragate dalle ricerche della scienza economica e dalla pratica.

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Prima regola. Il denaro deve arrivare dai genitori, sono loro gli amministratori unici del denaro famigliare. E anche quando entrano donazioni esterne (cresime, compleanni...) queste devono essere conosciute e gestite dai genitori. Le Avventure di Pinocchio ce lo dicono molto chiaramente: il denaro che arriva a Pinocchio gli crea soltanto guai. Quando i ragazzi/e superano i 10 anni diventa difficile fare doni che apprezzino, e forte è la tentazione di regalare denaro. Quasi sempre questa è una scorciatoia perché non si ha il tempo di scegliere un dono insieme, perché non conosciamo abbastanza i nostri figli, perché non abbiamo tempo. I nonni amano aprire conti correnti e assicurazioni ai nipoti. Lo facciano, ma non glielo dicano: esprimano il loro amore in altre forme.

Seconda regola. Non usare il denaro come incentivo per ottenere qualcosa da figli e figlie. Occorre motivarli, certo, ma dentro casa e da piccoli occorre insegnare loro l’arte della gratuità non l’arte del commercio; per quest’ultima avranno tempo per tutta la vita, e sarà una buona arte solo se poggia sull’arte della gratuità. Perché la famiglia (con la scuola) è il primo luogo dove si impara che ci sono cose belle e buone che vanno fatte non per la ricompensa che ci danno, ma perché sono belle e buone: e basta. È l’educazione dell’«e basta» ciò che davvero conta quando si è ragazzi. Quindi pessima cosa fare un listino prezzi dentro casa (2 euro piatti, 3 cane…) o inventare la «paghetta a punti» ideata da un mio collega economista (poi pentito, quando vide che la figlia non faceva più nulla senza essere pagata: ma ormai era tardi, aveva creato un homo oeconomicus in gonnella).

Terza regola. La paghetta, che una certa cultura economica dominante sta introducendo nelle famiglia, è pericolosa. È raccomandata da molti esperti perché è vista come un’educazione alla responsabilità. Ciò che invece mostrano gli studi è che la paghetta tende ad aumentare nei figli un atteggiamento mercantile con la vita, con gli amici, con se stessi. E ciò è serio: se non impariamo da piccoli a dare un valore intrinseco a quelle che il mondo antico chiamava virtù, da grandi saremo dei cattivi lavoratori, che lavoreranno solo se e quando ci sono bastone e carota.

Quarta regola. Imparare a sviluppare ricompense non monetarie. Le ricompense sono importanti con i ragazzi, perché rafforzano il comportamento buono. I premi dunque sono importanti, purché non diventino incentivo. Il premio, non monetario e simbolico (una gita, un dono, o anche un abbraccio…), riconosce che quell’azione fatta è buona: non è un contratto, non si definisce il prezzo prima che l’azione venga fatta, non c’è sempre ma solo qualche volta, e cambia nel tempo. I premi rafforzano la gratuità, gli incentivi la erodono.

Il nostro capitalismo sta trasformando tutti i patti in contratti e tutti i premi in incentivo. Proteggiamo almeno la famiglia da questa invasione, teniamo il tempio innocente del cuore dei fanciulli libero dai mercanti. Molti errori in questo campo si fanno per mancanza di pensiero e di attenzione, soprattutto da parte di pedagogisti e moralisti, che hanno sempre sottovalutato il peso economico nella formazione dei bambini. Dobbiamo dedicare più tempo all’economia, non fosse altro che per difendersi dalla sua logica potente.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Come insegnare l'uso corretto del denaro ai figli? Ecco quattro regole che potrebbero risultare utili in famiglia...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 04/12/2022

L’uso del denaro all’interno delle relazioni primarie è sempre molto delicato, soprattutto in famiglia, dove nel gioco monetario entrano i bambini, i ragazzi e gli adolescenti. Potrebbe essere utile seguire quattro regole, suffragate dalle ricerche della scienza economica e dalla pratica.

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Più tempo all’economia (e ai figli)

Più tempo all’economia (e ai figli)

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Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli?

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio l'8/11/2022

La parabola del «Buon Samaritano» è tra le più belle dei vangeli (Lc 10). Papa Francesco ha scelto questa parabola come pietra angolare biblica della sua enciclica sulla fraternità, Fratelli tutti. Il primo messaggio del buon Samaritano è la differenza tra il «vicino» e il «prossimo». Il Samaritano che passava lungo la strada non era il più vicino della vittima che si era imbattuta nei briganti; anzi, era il più lontano da ogni punto di vista (per religione, etnia, geografia). I vicini erano invece il sacerdote e il levita, che, al contrario, non si fermano. Dunque, il Samaritano si fece prossimo di quella persona sebbene non fosse suo vicino.

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La regola aurea del Vangelo sgancia allora l’amore dalle molte forme di vicinanza: non si ama il prossimo perché mi è accanto, o perché mi è più vicino di un altro, ma perché è una persona che mi trovo davanti e si trova nel bisogno, perché è una vittima. Altrimenti, come ci ha ricordato l’economista Amartya Sen (L’idea di giustizia), avremo sempre persone che ci sono più vicine di altre, e quindi non saremo giusti perché ogni idea di giustizia porta con sé una idea di equità di trattamento. Se tratto i più vicini meglio rispetto ai meno vicini viene meno la prima regola della giustizia. Frasi e politiche che si basano allora su espressioni come «prima gli italiani», «prima gli europei», «prima i cattolici» sono radicalmente contrarie alla logica e alla politica del Vangelo, che ci consente soltanto di dire: «Prima c’è chi incontro sulla strada e si trova in una condizione di bisogno».

Gesù stesso impara la logica del buon Samaritano, quando (come narra il vangelo di Marco al capitolo 7,24-30) incontra la donna siro-fenicia. Quella donna, di un altro popolo e di un’altra religione, quindi una «lontana», gli chiede di cacciare via un demone dalla sua bambina. E Gesù come prima risposta confonde il prossimo con il vicino, e le dice: «Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». Qui Gesù ripete quello che ogni persona di buon senso direbbe. L’occuparsi prima dei figli propri e poi di quelli degli altri è parte del diritto naturale: non va bene occuparsi degli altri senza avere ancora risolto i problemi della famiglia.

Ma il Vangelo non è né buon senso né diritto naturale: è agape, è altro. Allora quella donna straniera e lontana, anche se non lo sapeva, stava raccontando a Gesù la parabola del buon Samaritano, gli stava insegnando il suo Vangelo. Gesù si lasciò convertire da lei: «Ma lei gli replicò: “Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola, va’: il demonio è uscito da tua figlia”». È stupendo vedere Gesù che impara il suo Vangelo da una donna pagana, da una madre, commovente e umanissimo vedere che anche Gesù cambia idea, che anche Dio si converte.

La Chiesa segue ancora Gesù se continua a farsi convertire dalle vittime, se e quando è capace di riscoprire il Vangelo incontrando i poveri lungo la strada, quei poveri e lontani che hanno spiegato e spiegano alla Chiesa il suo stesso Vangelo, con parole che parlano di diritti umani, di rispetto, di uguaglianza, di fraternità e sororità. La Chiesa si è convertita a un Vangelo più cristiano grazie alle parole umane di vittime e lontani. Perché nella Bibbia l’uomo impara il cielo da Dio ma Dio impara la terra dagli uomini, dalle donne e dai bambini. Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli?

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli?

di Luigino Bruni

pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio l'8/11/2022

La parabola del «Buon Samaritano» è tra le più belle dei vangeli (Lc 10). Papa Francesco ha scelto questa parabola come pietra angolare biblica della sua enciclica sulla fraternità, Fratelli tutti. Il primo messaggio del buon Samaritano è la differenza tra il «vicino» e il «prossimo». Il Samaritano che passava lungo la strada non era il più vicino della vittima che si era imbattuta nei briganti; anzi, era il più lontano da ogni punto di vista (per religione, etnia, geografia). I vicini erano invece il sacerdote e il levita, che, al contrario, non si fermano. Dunque, il Samaritano si fece prossimo di quella persona sebbene non fosse suo vicino.

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I poveri ci spiegano il Vangelo

I poveri ci spiegano il Vangelo

Oggi la terra è piena di samaritani e donne siro-fenicie che ci attendono ai crocicchi della strade per spiegarci il Vangelo che loro non conoscono ancora: quando ci chineremo per ascoltarli? di Luigino Bruni pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio l'8/11/2022 La parabola del «Buon Samaritano» è t...
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Non è più il tempo di nascondersi dietro «le leggi del mercato», perché il mercato siamo noi: il mercato sono le nostre scelte, è la foto dei nostri valori, della nostra dignità, del nostro onore.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 03/10/2022

«È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società». Queste parole sono tra quelle donate da papa Francesco agli imprenditori di Confindustria il 12 settembre scorso. Donate, si’ potremmo titolarle: perché le parole di Francesco sono state soprattutto un dono, in particolare di fronte alle difficoltà di questi anni straordinari, difficili per tutti e anche per gli imprenditori, almeno per quelli che ha accostato al «buon pastore» (non certo per quelli simili ai «mercenari»), che quindi soffrono quando le loro comunità aziendali soffrono.

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Questo tema dei salari dei manager in rapporto a quello dei lavoratori è molto importante. Non può esserci un rapporto di cento o mille a uno... È sempre più decisivo per la qualità del capitalismo di oggi e di domani. L’impresa è anche una comunità, sebbene un certo «pensiero» economico oggi lo voglia negare, in nome di una visione dell’impresa come un mercato dove i «contratti» fanno tutto senza alcun bisogno di «patti». Il patto non è solo incontro di interessi: è incontro di destini, di anima, di vita. E chi lavora sa che le imprese senza questi patti sociali, spesso impliciti, non funzionano; e se anche generano profitti, non generano vita buona e benessere della gente che lavora. I patti, diversamente dai contratti, hanno bisogno di una certa uguaglianza. Non una uguaglianza perfetta su tutte le dimensioni. 

Ogni lavoratore sa che le responsabilità, le funzioni, i talenti e la produttività dei vari soggetti di una impresa sono diversi; lo sa e non pretende di avere lo stesso stipendio del direttore generale. Ma ogni lavoratore, incluso quel «lavoratore» che si chiama imprenditore (e manager) come ha ancora ricordato Francesco, sa anche che per quanto diversi sono i vari lavoratori, alla fine sono tutti dentro la stessa realtà, al servizio dello stesso bene comune chiamato impresa. Come sa che, senza la parte di ciascuno, più o meno piccola, l’impresa non funziona, o funziona male. Stanno in questa consapevolezza di co-essenzialità, la dignità, l’onore, il rispetto, l’auto-stima di ogni lavoratore. «Non sono il padrone, non ho studiato come l’ingegnere; lo so: ma anche io so fare il mio lavoro, anche io sono importante, e se mi fermo l’impresa non è più bella come ora. La bellezza e la qualità della nostra azienda dipende anche da me». Sono questi ragionamenti che ci tengono in piedi ogni giorno, che ci fanno aprire il pc ogni mattina con orgoglio; e quando mancano, ci spegniamo, prima nell’anima e poi del tutto. E con noi si spengono le nostre imprese.

I lavoratori hanno bisogno di questa stima come dello stipendio. E se manca non danno la loro parte migliore. E, continua Francesco, «quando i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il senso di appartenenza a un destino comune, non si crea empatia e solidarietà tra tutti; e così, di fronte a una crisi, la comunità di lavoro non risponde come potrebbe rispondere, con gravi conseguenze per tutti». Ci aspettano tempi difficili, forse molto difficili. Perché non siano troppo difficili e quindi impossibili, occorre che nelle imprese cresca questo senso di «destino comune», che ciascuno si senta co-protagonista dell’impresa collettiva della sua azienda. Tutto ciò si chiama politica. Non è più il tempo di nascondersi dietro «le leggi del mercato», perché il mercato siamo noi: il mercato sono le nostre scelte, è la foto dei nostri valori, della nostra dignità, del nostro onore: quello di tutti e di ciascuno.

Nella foto, l'impresa Edc Todobrillo

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Non è più il tempo di nascondersi dietro «le leggi del mercato», perché il mercato siamo noi: il mercato sono le nostre scelte, è la foto dei nostri valori, della nostra dignità, del nostro onore.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 03/10/2022

«È vero che nelle imprese esiste la gerarchia, è vero che esistono funzioni e salari diversi, ma i salari non devono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale, e presto si ammala la società». Queste parole sono tra quelle donate da papa Francesco agli imprenditori di Confindustria il 12 settembre scorso. Donate, si’ potremmo titolarle: perché le parole di Francesco sono state soprattutto un dono, in particolare di fronte alle difficoltà di questi anni straordinari, difficili per tutti e anche per gli imprenditori, almeno per quelli che ha accostato al «buon pastore» (non certo per quelli simili ai «mercenari»), che quindi soffrono quando le loro comunità aziendali soffrono.

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«Donate si’»: parole agli imprenditori

«Donate si’»: parole agli imprenditori

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Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022

Da sempre lo sport viene accostato ai mercati e all’economia, ma non sempre i parallelismi sono proposti con una sufficiente attenzione e con uno sguardo che sa discernere. Infatti, le parole e le ispirazioni che lo sport può offrire ai mercati sono diverse: alcune sono buone e utili, altre meno, qualcuna è semplicemente fuorviante. Iniziamo da quelle buone. Una prima riguarda il rapporto che c’è negli sport individuali tra il singolo atleta e la propria squadra di appartenenza o la squadra nazionale.

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Questo rapporto è complesso, perché vive di un intreccio di cooperazione e di competizione, di molta cooperazione e di pochi momenti di competizione. Durante gli allenamenti, nelle staffette, è la cooperazione e l’amicizia che domina: il bene di tutti e quello di ciascuno coincidono. Durante le gare decisive, invece, le relazioni diventano giochi a somma zero, e la competizione diventa solo posizionale: la vittoria di un atleta significa la sconfitta di altri. Anche nelle relazioni di mercato tra i vari agenti (imprese, consumatori, fornitori…), la stragrande maggioranza dei rapporti è di tipo cooperativo e di mutuo vantaggio (giochi a somma positiva), e sono davvero molto rare, quando ci sono, le gare in cui qualcuno vince a scapito degli altri. Perché?

Immaginiamo che Giovanni sia un giovane idraulico che inizia la sua attività come piccolo imprenditore artigiano. Il migliore – per me l’unico – atteggiamento intelligente con cui deve iniziare la sua impresa è chiedersi: «A chi servono nella mia città i miei servizi?», e quindi cercare dei clienti con cui cooperare in un rapporto di mutuo vantaggio. Se invece iniziasse domandandosi: «Dove si trovano i concorrenti che voglio battere?», difficilmente Giovanni diventerà un buon imprenditore, perché investirà le sue energie in passioni rivali e non generative. Perché mentre nello sport, forse, un atleta può anche crescere orientando le sue energie per battere i suoi concorrenti (ho comunque qualche dubbio), il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

Un secondo ambito di vicinanza tra mercato e sport è il ruolo dei concorrenti. Nello sport avere concorrenti forti è essenziale per far crescere i singoli atleti e raggiungere risultati eccellenti. Analoga situazione nel mercato, dove la presenza della concorrenza è essenziale per migliorare: i monopoli fanno male a ogni sistema economico e sociale, e alla lunga anche al monopolista. Le parole sbagliate sono invece quelle che diciamo quando pensiamo che lo sport sia solo concorrenza in un gioco a somma zero e quindi utilizziamo le espressioni «vincente» e «perdente» (pessime parole sempre e ovunque) e le applichiamo alle imprese.

Così non capiamo più che cosa siano i mercati – e lo sport –, perché perdiamo di vista la legge aurea dell’economia: il mutuo vantaggio. Quando usciamo da una pizzeria e al nostro «Grazie» il proprietario risponde: «Grazie a lei», stiamo semplicemente dicendo che l’economia nella sua vera natura è una forma di reciprocità civile. Questa caratteristica dei mercati era nota anche ai primi economisti del Settecento, che speravano che lo sviluppo dei mercati avrebbe portato alla fine delle guerre, proprio perché ogni mercante sa che la crescita degli altri è la precondizione per la sua propria crescita. Oggi purtroppo lo stiamo dimenticando e neghiamo così nei fatti la natura pacifica dell’economia utilizzando le sanzioni come armi da guerra.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022

Da sempre lo sport viene accostato ai mercati e all’economia, ma non sempre i parallelismi sono proposti con una sufficiente attenzione e con uno sguardo che sa discernere. Infatti, le parole e le ispirazioni che lo sport può offrire ai mercati sono diverse: alcune sono buone e utili, altre meno, qualcuna è semplicemente fuorviante. Iniziamo da quelle buone. Una prima riguarda il rapporto che c’è negli sport individuali tra il singolo atleta e la propria squadra di appartenenza o la squadra nazionale.

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Sport e mercato

Sport e mercato

Il mercato è una faccenda di relazioni e le relazioni positive sono quelle che fanno crescere tutti e in cui non perde nessuno. In questo il mercato è davvero diverso dallo sport. di Luigino Bruni pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 23/09/2022 Da sempre lo sport viene accostato ai merc...
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Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022

La pandemia, prima ancora la crisi climatica, la guerra in Ucraina e le sue implicazioni sui costi e sui prezzi di quasi tutto, dovrebbero farci riflettere molto di più sul rapporto tra il privato e il pubblico. Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico, convinti che il movente del profitto privato fosse l’unica motivazione per far impegnare lavoratori e imprenditori. E così ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitali e capitalisti privati, e i profitti che da questi beni comuni nascono finiscono in pochissime mani già molto ricche.

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Il paradosso di tutto ciò è che la prima entusiasta di questo dogma religioso – più privato uguale più motivazioni e quindi più efficienza – è stata e continua a essere la sinistra europea, che è nata da una critica al capitalismo e al profitto. E così, di fronte all’aumento del costo dei carburanti che, insieme all’inflazione, giorno dopo giorno sta affamando le famiglie a medio-basso reddito (ce ne accorgeremo tra qualche mese), si sarebbe potuto ridurre almeno il pedaggio delle autostrade, se, come ci fu promesso dopo il crollo del ponte Morandi, queste fossero tornate in mani pubbliche. Se c’è un business a profitto sicuro questo è proprio la gestione delle autostrade, ancor più in un Paese lungo e turistico come l’Italia.

Ci hanno convinti che il privato è il paradiso della nuova economia, il pubblico è l’inferno, e il non-profit il purgatorio. Da economista e da storico del pensiero economico non riesco ancora a capire come questa idea malsana e sbagliata si sia potuta affermare. Conosco le ideologie e i demagoghi, ma aspetto ancora qualcuno che mi dimostri perché i beni comuni sono gestiti meglio da privati che dal pubblico. L’Italia ha inventato i liberi comuni, ha inventato già con i Romani e poi nel Medioevo la gestione comune delle risorse collettive. Abbiamo fatto autentici miracoli economici, civili e artistici, perché le città erano forme di cooperative, consorzi di cittadini che gestivano insieme molte attività politiche e anche molte imprese.

Il capitalismo delle privatizzazioni è prodotto d’importazione, da Paesi (come gli USA e l’Olanda) che poi in industrie chiave e importanti sono anti-liberisti, come tutti sappiamo. Dobbiamo ripensare, subito e profondamente, il rapporto tra il pubblico e il privato. I beni comuni globali ambientali gestiti con la logica privata non solo non sono più efficienti ma vengono distrutti: a riguardo basterebbe leggere quanto ha scritto l’ecologo Garrett Hardin circa la «tragedia dei beni comuni». E lo stiamo vedendo, e ogni giorno lo vediamo di più.

La sanità e i trasporti sono altri beni comuni dove il profitto privato è troppo poco, c’è bisogno di principi, norme e valori che tengano presente la dimensione del Bene comune: in alcuni settori anche gli interessi privati possono generare il Bene comune (scarpe, vestiti, forse nella frutta), ma in altri ambiti i valori da tutelare sono talmente importanti e decisivi da doverli gestire senza essere guidati dagli incentivi dei profitti privati, che sono troppo deboli per le cose davvero cruciali. Queste cose le sapevamo in passato. Poi sono arrivati i nuovi consulenti, figli delle business school, con poca cultura umanistica e molto inglese, e hanno deciso che il privato fosse la Terra promessa. Ci hanno convinto, hanno convito anche i politici, e ora stanno convincendo praticamente tutti, persino le Chiese. Quando ci accorgeremo di questo imbroglio e lo chiameremo bluff? 

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico. Ma il privato non è la Terra promessa...

di Luigino Bruni

pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio il 01/07/2022

La pandemia, prima ancora la crisi climatica, la guerra in Ucraina e le sue implicazioni sui costi e sui prezzi di quasi tutto, dovrebbero farci riflettere molto di più sul rapporto tra il privato e il pubblico. Per quarant’anni ci siamo ubriacati di privatizzazioni, abbiamo smantellato beni pubblici e beni comuni e li abbiamo affidati al mercato capitalistico, convinti che il movente del profitto privato fosse l’unica motivazione per far impegnare lavoratori e imprenditori. E così ferrovie, energia, acqua, autostrade, e sempre più sanità, scuole e università sono gestite da capitali e capitalisti privati, e i profitti che da questi beni comuni nascono finiscono in pochissime mani già molto ricche.

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Il grande bluff

Il grande bluff

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Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022

Il poliedro è una immagine molto cara a papa Francesco (Evangelii Gaudium, n. 236). Applicandola alle comunità, possiamo, in linea astratta (si tratta di modelli), parlare di comunità-sfera e di comunità-poliedro. Le comunità che nascono da un fondatore tendono a essere comunità-sfera. In esse, come nella corrispondente figura geometrica, una volta che conosco un qualsiasi punto della sfera e un suo «intorno» conosco il tutto, poiché la sua struttura regolare e simmetrica e l’equidistanza dal centro non riservano sorprese. Le persone sono tutte simili, tutte orientate nello stesso modo nella stessa direzione (il centro), di fatto tutte uguali negli aspetti carismatici e si conformano sulla personalità e sul carisma del fondatore. Basta così conoscere un singolo membro per farsi una idea precisa dell’intera comunità. Certo, come nella figura geometrica della sfera, ogni punto della superficie ha coordinate uniche diverse da tutti gli altri, ma la conoscenza dei diversi punti non mi fa scoprire altro, perché ogni punto mi dà le stesse informazioni di superficie e di volume.

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Nelle comunità-poliedro, invece, per conoscere una comunità devo conoscere tutte le sue facce-persone, perché ognuna è diversa da tutte le altre pur appartenendo tutte alla stessa realtà. In queste comunità non posso prescindere dai talenti e dai carismi di ogni singolo e da questi bisogna partire per conoscere e capire il tutto (solo le comunità-poliedro sono sussidiarie). Ogni nuova persona che incontro mi rivela nuove dimensioni della comunità, e non conosco veramente la comunità finché non conosco tutti i suoi membri, uno per uno, e la mancanza di uno solo mi impedisce di conoscere la natura della comunità intera e quindi del carisma.

Le comunità-sfera sono particolarmente efficienti e performanti finché vive il fondatore, che dà forma alla sfera e a tutti i suoi componenti, simmetrici, equidistanti, tutti simili tra loro. Non ci sono increspature, discontinuità, asimmetrie, salti, scarti, spigoli, disallineamenti né eccedenze. La comunità-sfera riproduce se stessa generando altre sfere, tutte simili a quella madre. Le comunità-poliedro, invece, a causa delle loro asimmetrie e disallineamenti, sono difficili da gestire, da controllare, da orientare tutte agli stessi obiettivi. Creano attriti, urti, disarmonie, dovute semplicemente alla diversità e ai molti modi con cui ciascuno sente e vive lo stesso carisma. Crescono più lentamente, dedicano più tempo all’attivazione di processi e meno all’occupazione di spazi, devono imparare ad accudire i conflitti, perché ciascuno dei membri è uguale e diverso da tutti gli altri.

È nelle generazioni successive a quelle del fondatore che si manifestano le differenze più importanti tra queste due tipologie di comunità. Le comunità-sfera hanno grandi difficoltà a trovare una nuova conformazione quando il fondatore viene meno, perché sono costitutivamente nate e cresciute simmetriche e orientate, isomorficamente, al centro. Quelle poliedro, invece, hanno costi più alti nella prima generazione, soprattutto costi di coordinamento e di allineamento dovuti alle molte forze centrifughe, ma se riescono a non disfarsi nella prima fase poi sono molto più capaci di dar vita a quella innovazione e creatività necessarie per continuare nel tempo dopo i fondatori. Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022

Il poliedro è una immagine molto cara a papa Francesco (Evangelii Gaudium, n. 236). Applicandola alle comunità, possiamo, in linea astratta (si tratta di modelli), parlare di comunità-sfera e di comunità-poliedro. Le comunità che nascono da un fondatore tendono a essere comunità-sfera. In esse, come nella corrispondente figura geometrica, una volta che conosco un qualsiasi punto della sfera e un suo «intorno» conosco il tutto, poiché la sua struttura regolare e simmetrica e l’equidistanza dal centro non riservano sorprese. Le persone sono tutte simili, tutte orientate nello stesso modo nella stessa direzione (il centro), di fatto tutte uguali negli aspetti carismatici e si conformano sulla personalità e sul carisma del fondatore. Basta così conoscere un singolo membro per farsi una idea precisa dell’intera comunità. Certo, come nella figura geometrica della sfera, ogni punto della superficie ha coordinate uniche diverse da tutti gli altri, ma la conoscenza dei diversi punti non mi fa scoprire altro, perché ogni punto mi dà le stesse informazioni di superficie e di volume.

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Comunità-sfera e comunità-poliedro

Comunità-sfera e comunità-poliedro

Molte comunità e molti movimenti dei nostri giorni sono nati nel Novecento come comunità-sfera e oggi si trovano nella necessità di avviare una transizione verso il poliedro: è una sfida decisiva, che deve essere vinta. di Luigino Bruni pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/06/2022 Il po...
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Il Vangelo di Marco (Mc 15) ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici.

di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/05/2022

Le guerre sono anche delle pesti dell’anima. Il loro virus di violenza si allarga, contagia, agisce a distanza e infetta i cuori di molte più persone di quelle coinvolte direttamente dal conflitto armato. È un male comune globale dell’umanità, che riduce il bene di tutti, aumenta la cattiveria, fa perdere bellezza alla Terra. Eravamo già usciti divisi dal covid, avvelenati gli uni contro gli altri e ora una divisione si sta moltiplicando, su assi diversi, con la guerra in Ucraina, fino a toccare per rovinarlo un gesto stupendo di due donne sotto una croce.

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Non solo alcuni politici, ma anche intellettuali e professori cattolici hanno criticato infatti la scelta di papa Francesco di far portare, insieme, un brano di croce a due donne, una ucraina e l’altra russa, due cristiane, due discepole del crocifisso lungo la sua via dolorosa. Eppure non c’è gesto più cristiano e biblico di quello che abbiamo visto il venerdì santo al Colosseo. È passato ormai un po’ di tempo da quel giorno, ma la forza di quel gesto rimane intatta, e lo resterà in futuro.

Il Vangelo di Marco (Mc 15), il più antico dei vangeli e quindi quello più vicino ai fatti storici, ci dice che sotto la croce c’erano soltanto donne, e tra queste Maria Maddalena; donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme. I maschi erano scappati tutti. Non lo aveva tradito solo Giuda, lo avevano tradito, in altri modi ma realmente, anche Pietro e tutti i suoi apostoli. Le donne no: tutti fuggono dal crocifisso, le donne restano. Forse furono quelle donne che raccontarono a Marco e agli evangelisti la scena della passione e così è arrivata fino a noi: tra i nostri occhi e quei fatti ci sono occhi di donne, che hanno visto, amato e raccontato. Una compagnia fedele femminile stupenda.

Le donne stanno, sanno stare sotto le croci degli amici. Lo hanno sempre fatto e continuano a farlo. Questo quadro di carne che Marco salva e ci dona è un omaggio a tutte le donne, una lapide eterna eretta per tutte quelle donne anonime e dimenticate che hanno saputo stare sotto le croci. Lo stabat è il verbo della madre, è il verbo delle donne. Quando papa Francesco ha voluto proporre a quelle due donne di accompagnarlo in una stazione della via crucis, stava citando un vangelo di carne, stava ricreando una scena viva della passione vera, incarnata, crocifissa. Quelle due cristiane e amiche hanno fatto rivivere il Golgota, hanno fatto uscire quel racconto dalla letteratura e lo hanno fatto risorgere.

Papa Francesco sarà ricordato per i suoi gesti, sarà ricordato per questo gesto, ecclesiale, umano e profetico, che i politici della terra, amanti degli equilibri, non avrebbero fatto. L’agape è imprudente, parziale, partigiano, squilibrato e per questo è stato crocifisso. Altri al posto di Gesù avrebbero trovato una via d’uscita dal calvario, avrebbero trovato compromessi e salvezze più economiche. Gesù no, la sua fedeltà alla propria vocazione lo ha portato fino in fondo, fino alla cima, e lì inchiodato veramente, morto veramente, e quindi risorto veramente.

Grazie papa Francesco per questo gesto, grazie Albina e Irina che ci avete riportato al 7 aprile dell’anno 30 a Gerusalemme. Con voi, nuove cirenee, siamo saliti anche noi sul monte, abbiamo sentito sulla nostra carne i troppi chiodi che continuano a crocifiggere uomini e donne, abbiamo finalmente visto l’uomo dei dolori. Lo abbiamo capito meglio, abbiamo compreso meglio i crocifissi della storia. Nel venerdì santo di questo 2022, la resurrezione è iniziata due giorni prima, sotto quel legno più vivo del solito. Perché le resurrezioni vere non iniziano nel sepolcro vuoto: iniziano sui Golgota.

Credits foto: © Giuliano Dinon / Archivio MSA

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di Luigino Bruni

pubblicato su Il messaggero di Sant'Antonio il 02/05/2022

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