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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/12/2018
La nostra cultura non considera il dono una virtù del mercato. Lo considera una faccenda privata, o importante in alcuni momenti particolari (durante le catastrofi o nelle emergenze), ma non lo vede necessario dentro i negozi né nelle fabbriche, se non per aspetti molto secondari e, tutto sommato, trascurabili.
[fulltext] =>Il nostro mercato conosce gli sconti, i gadget, le offerte promozionali, che somigliano al dono «vero» perché ne prendono dosi infinitesime e le inseriscono nel corpo dell’economia. È una sorta di «dono omeopatico» che viene immesso nel mercato allo scopo di tenere lontano il virus del dono vero e proprio. Se quest’ultimo entrasse davvero dentro grandi imprese e banche, infatti, le manderebbe profondamente in crisi, perché esso è troppo sovversivo e incontrollabile per poter essere gestito dalle tecniche del management.
Ed è qui che si apre un vero e proprio paradosso. Nessuna realtà umana potrebbe nascere né sopravvivere senza doni e senza scambi di doni. Neanche l’economia, che non è altro che la vita, potrebbe allora nascere e vivere senza doni.
Il dono è, infatti, il luogo della libertà, è quella dimensione della persona che si attiva quando ci sentiamo veramente liberi di fare e di dare tutto e così, potendo fare e donare molto, siamo anche capaci di donare qualcosa. Il dono è la cifra degli uomini liberi. Imprese senza persone libere sarebbero troppo piccole per generare innovazioni e ricchezza. Solo le persone libere innovano e lavorano veramente; ma le persone libere non possono essere gestite e comprate dagli incentivi e dai contratti, perché quando le imprese provano a farlo finisce la libertà, finisce il dono, finisce l’innovazione vera, finisce la ricchezza.
Per questa ragione anche gli scambi economici hanno un bisogno vitale di dono, ma la cultura del business non lo sa, o lo sa male. Pensiamo al lavoro: se quando entro in un’aula non introduco, insieme, il dottor Bruni e Luigino, non lavoro veramente. Vale a dire che se io (che sono un docente) prima di entrare in classe non mi fermo un attimo per mettere da parte i miei problemi, per dare ai miei studenti la parte migliore di me, il mio entusiasmo, la mia voglia di vivere, in realtà mi fermo sull’uscio del lavoro. Ma – e qui sta il paradosso del dono – l’entusiasmo e la voglia di vivere non sono contratti. Nessuna impresa li può comprare se noi non decidiamo liberamente di donarli. Eppure se nel lavoro mancano queste dimensioni di gratuito, che non possono essere acquistate, l’impresa fallisce.
È questa una delle verità più importanti e poco conosciute del nostro capitalismo: le aziende possono comprare solo la parte meno importante del nostro lavoro – a che ora entriamo e usciamo, etc. – ma non possono comprare ciò di cui hanno veramente e disperatamente bisogno.
L’economia e le imprese sono piene di dono, ma non riusciamo a vederlo. Consumano molti doni che non pagano, perché il dono è, nella sua parte più importante, invisibile. Parla un linguaggio opposto a quello del business. Accade come quando portiamo un regalo a un amico e lui ci dice: «Non dovevi disturbarti, mi dispiace…». Se il management interpreta male tale linguaggio, cioè prende alla lettera le parole del dono, lo distrugge.
C’è molto dono «rubato» nelle nostre imprese, le quali, non potendo acquistare il dono lo trasformano in doveroso, in contratto. Ed è proprio l’impressione di essere defraudati del molto dono che ogni giorno mettiamo nel lavoro una delle prime cause di malessere dei lavoratori.
Ci vorrebbero manager capaci di vedere e di riconoscere il dono. Ma ciò è difficile, perché il riconoscimento del dono crea gratitudine, e la gratitudine rende vulnerabili e fragili, una vulnerabilità non amata e molto temuta dalla nostra cultura del business. Ma il dono resiste, vive, opera, nonostante facciamo di tutto per disinnescarlo.
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pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/12/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 06/11/2018
Una virtù del mercato oggi particolarmente preziosa si chiama partecipazione. Nel Novecento, la partecipazione era associata alla politica, non al mercato. I sindacati hanno portato la partecipazione nelle grandi imprese, ma nel consumo o nel risparmio la partecipazione, e con essa la democrazia, è stata considerata una parola estranea, o quantomeno molto marginale.
[fulltext] =>I consumatori, si dice, votano ogni volta che entrano in un supermercato o che cliccano per un acquisto online, perché, come in politica, selezionano e premiano un’impresa o una banca tra le molte possibili. Questa coscienza deve continuare a crescere per fare sempre più la spesa «con la testa», imparando a vedere nei prodotti anche le loro «calorie morali» e gli «zuccheri etici».
Ma anche se diventassimo tutti consumatori critici, non basterebbe: la partecipazione deve andare oltre. Se ci limitassimo a questo sarebbe come dire che la democrazia in politica si traduce solo nel voto, e poi, una volta eletti parlamento e governo, i politici potessero fare unicamente gli interessi della parte della popolazione che li ha votati, non riconoscessero la presenza e l’importanza di poteri non elettivi, non rispettassero gli accordi internazionali fatti dai governi precedenti, cambiassero tutto per poi alla fine non cambiare nulla. Questa non sarebbe democrazia ma dittatura della maggioranza che, fin dai greci, conosciamo molto bene nei suoi effetti devastanti per tutti.
La democrazia deve entrare anche nella vita economica. Alcune grandi imprese e banche hanno un peso enorme nella vita delle persone, gestiscono le nostre relazioni, sono diventate la nuova piazza del Paese nella quale ci incontriamo.
Ma i proprietari di queste mega-imprese restano sempre molto pochi, non vengono eletti da nessuno (o da pochissimi), decidono in base ai loro incentivi economici privati, rispondono solo ai mercati e, in minima parte, a qualche legge che riesce a intercettarli prima che abbiano cambiato sede legale. La lenta politica non può controllare questa nuova economia che è velocissima, globale, liquida.
Chi può governare l’economia di oggi sono solo i cittadini, cioè noi. Ma occorrono dei cambiamenti importanti.
Nel Medioevo, la politica non era democratica. Le città sono nate da patti tra famiglie potenti, che non erano elette da nessuno. I villaggi si formavano attorno a signorotti che gestivano il potere e l’economia con forme e strumenti di comando e con molti privilegi. Progressivamente, proprio a partire dalle città comunali, città, regioni e poi stati nazionali divennero proprietà dei cittadini, prima di una minoranza di loro, poi, nel Novecento, di tutti. Questo è stato il primo frutto della democrazia in politica: trasformare città e stati da beni privati a beni comuni.
Un processo lungo, doloroso, a volte violento, ma provvidenziale. Qualcosa del genere dovrebbe accadere anche per l’economia. Se nel prossimo futuro noi consumatori di Facebook o Google, ad esempio, ne fossimo anche azionisti – se, poniamo, con 5 euro potessimo acquistare azioni –, potremmo partecipare alle assemblee per eleggere gli amministratori e per dire la nostra. La democrazia estesa all’economia trasformerebbe le grandi imprese in enormi public company, con centinaia di milioni di azionisti.
Dovremmo, certo, organizzarci per capire come questa democratizzazione potrebbe convivere con innovazione, rischio e responsabilità, che sono i valori dell’impresa capitalistica, cosa non impossibile. La base teorica di questo scenario sta nella trasformazione recente delle grandi imprese.
Oggi i profitti, enormi, di queste imprese non nascono dai loro beni privati, ma da beni comuni liberi, come la conoscenza, la rete, i nostri dati, che esse vendono ma non comprano né pagano.
Quindi è giusto immaginare una distribuzione non solo privata di quella ricchezza. La qualità della vita in comune di questo secolo dipenderà dalla nostra capacità di allargare la virtù della partecipazione dalla politica all’economia. Dobbiamo almeno provarci.
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di Luigino Bruni
Pubblicato su Il Messaggero di S.Antonio il 09/10/2018
[fulltext] =>Al centro di comunità, movimenti e associazioni nati da ideali più grandi dei profitti (incluse molte imprese cooperative, civili, sociali o di comunione), si ritrova uno dei paradossi più rilevanti della vita sociale. Un paradosso non abbastanza esplorato, in particolare negli ambiti spirituali e religiosi, perché, in genere, si considerano diversi dalle esperienze «laiche», diversi al punto da trascurare molte malattie e nevrosi che, non prese sul serio, finiscono per crescere libere e nuocere indisturbate.
È quel paradosso che emerge quando si prova a mettere insieme la libertà della persona con l’adesione alla comunità. Infatti, quando si ha a che fare con comunità con una forte identità e un grande senso di appartenenza (ad esempio, quelle fondate da persone portatrici di carismi), per poter dar vita a esperienze autenticamente collettive, c’è bisogno di membri capaci di aderire internamente a un messaggio, a una missione, a degli ideali.
La stessa parola comunità rimanda a una idea di legami forti, di un «noi» che non è semplicemente la somma degli «io» che lo compongono (si pensi al «corpo mistico» di san Paolo). Perché, a differenza delle imprese e delle istituzioni politiche, dove l’adesione si ottiene principalmente sulla base degli incentivi, dei contratti, del comando e della legge, nelle comunità spirituali e ideali l’adesione è essenzialmente una faccenda intima del cuore. Nessun incentivo estrinseco (denaro o carriera) è sufficiente per spendere una vita per un ideale, o, addirittura, per Dio.
Ma è proprio qui che si apre e si rivela il paradosso. Poche cose come una comunità religiosa, un movimento spirituale o politico (nella sua fase sorgiva) sono capaci di attrarre e sedurre persone creative, generose, con forti personalità. Al tempo stesso, non appena queste persone aderiscono alla nuova comunità e ai suoi ideali, la loro creatività e libertà sono orientate alla grande causa comune. Niente è più «dolce» del «naufragare in questo mare». La sola o principale declinazione della libertà individuale che le persone esercitano nell’alba delle esperienze carismatiche/ideali è la libertà di rinunciare all’esercizio della propria libertà ordinaria, per sperimentare una libertà diversa di immedesimazione e fusione con la libertà comunitaria e con i suoi ideali.
Nei primi tempi (che possono durare decenni) questa dimensione comunitaria della libertà (nella quale ciò che va fatto e non fatto, sentito e non sentito, pregato e non pregato, è definito dalla comunità stessa e dai suoi leaders) appaga all’infinito, e le persone non sentono alcun bisogno d’altro. Se però le persone crescono e riescono a diventare adulte dentro la comunità (impresa non ovvia, e non troppo comune), arriva il momento della tensione tra l’esercizio della libertà individuale e quella della comunità. Alcuni, e non pochi, abbandonano adesioni forti alle esperienze comunitarie proprio quando questa tensione cresce e non trova sbocchi interni positivi. Altri rimangono, e lì inizia una costante e a volte lunga dialettica tra le varie dimensioni della libertà personale.
Perché le comunità hanno un bisogno vitale ed essenziale che le persone scelgano liberamente di riconoscersi in un corpo, altrimenti implodono; ma questa adesione, soprattutto nelle fasi adulte della vita, può solo essere dono e non esclusiva, se vogliamo salvare qualcosa di reale della libertà individuale adulta. Perché comunità composte da persone talmente libere da non riconoscersi più in un noi, non sono capaci di comunità.
Un paradosso vitale, ma non semplice da gestire. Queste tensioni sono molto complicate e dolorose sia per i responsabili delle comunità sia per le singole persone, e, in genere, è molto carente una cultura dell’accudimento di queste forme di disagio reciproco.
La sfida delle comunità ideali del XXI secolo sarà inventare nuove forme di libertà, dove gli esseri umani adulti possano continuare liberamente a fiorire in forme collettive del vivere, e dove le comunità siano capaci di dar vita a un «noi» che non abbia bisogno del monopolio degli «io».
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio il 01/09/2018
La capacità di cooperare è forse la prima virtù della vita economica e civile. Il lavoro, le famiglie, le comunità, le scuole, funzionano e diventano luoghi belli in cui vivere, quando la maggior parte dei loro membri sanno cooperare, quando sanno vedere più le ragioni della cooperazione di quelle della concorrenza e della rivalità. Perché anche se oggi una scadente cultura economica ci vorrebbe convincere che le aziende e le organizzazioni funzionano tanto meglio quanto più è incoraggiata e incentivata la logica competitiva tra i lavoratori, in realtà, se entriamo nelle imprese vere, ci accorgiamo subito che queste funzionano e crescono davvero quando le persone sono capaci di dar vita ad azioni cooperative.
[fulltext] =>Poche cose al mondo ci danno più soddisfazione di azioni collettive produttive, grazie alle quali vediamo nascere idee, prodotti, servizi: andiamo a lavorare per quarant’anni per tanti motivi, ma anche e forse soprattutto perché ci piace molto dar vita ad azioni collettive generative, perché ci piace risolvere problemi dentro dinamiche di empatia e di reciprocità. Ecco perché se le nuove tecnologie ci terranno in futuro troppo dentro casa, e troppo da soli, perderemo proprio questa tipica felicità del lavorare e generare insieme ad altri, che è tanto più piena e feconda quando si lavora fianco a fianco, corpo a corpo (per le interazioni più importanti, le videoconferenze non bastano).
Le imprese invece entrano in crisi quando non hanno abbastanza lavoratori capaci di queste virtù relazionali, persone che sanno entrare in sintonia con i gruppi di lavoro, che hanno sviluppato almeno un po’ di intelligenza relazionale ed empatica. Peccato, però, che negli ultimi decenni le nostre università di economia, le business school e i famigerati MBA (Master of Business Administration: costoso titolo di studio in voga negli Usa, ndr) stanno educando lavoratori e manager a coltivare virtù opposte a quelle che servirebbero oggi alle imprese.
La prima povertà delle imprese è la carestia di dirigenti e manager capaci di entrare in relazioni vere, sincere, attente, con le persone che operano nei loro gruppi di lavoro. Qua e là sta emergendo la consapevolezza di questa povertà, e si cerca di porvi rimedio con nuove figure professionali (in particolare i cosiddetti coach), che dovrebbero curare relazioni che la cultura dei manager usciti dalle business school feriscono e intossicano quotidianamente. Succede qualcosa di analogo alle compagnie aeree che ti propongono di fare un’offerta per piantare la quantità di alberi necessaria a riparare l’inquinamento del volo che stai facendo o le imprese di azzardo che finanziano cliniche per curare le loro vittime.
Nel mondo economico c’è un bisogno crescente di una nuova classe dirigente, meno esperta di tecniche e di strumenti e più esperta in umanità; meno occupata in infinite riunioni e più presente in mezzo ai lavoratori, per vederli lavorare e quindi conoscerli (un lavoratore lo conosciamo veramente solo quando lo vediamo lavorare).
La classe dirigente dell’economia del XX secolo era stata formata dalle famiglie, dalle chiese, dalla pietà popolare, dalla fatica della vita dei campi e della disciplina della povertà. Negli anni Settanta l’Italia triplicò il numero di imprese (da 300 mila a un milione), perché una intera generazione di mezzadri, artigiani, commercianti, divenne imprenditrice (lo divenne perché lo era già, senza saperlo). Il primo capitale che portò con sé nelle nuove imprese fu quel patrimonio umano ereditato dai genitori, formatosi nel dolore delle guerre, nel sudore dei campi, nelle virtù generate e coltivate da secoli. Non sapeva l’inglese, né le tecniche di gestione delle «risorse umane», ma sapeva ascoltare i lavoratori, li guardava negli occhi al mattino quando entravano nella fabbrica e, se si accorgeva che questi erano lucidi, sapeva fermarsi a parlare, a chiedere.
Quel patrimonio civile, spirituale ed etico ha prodotto il miracolo economico e civile italiano, trasformando il nostro Paese da uno dei più poveri in una delle potenze economiche del mondo. Oggi non vediamo più miracoli economici perché ci mancano i «miracoli» umani di uomini e donne con una umanità più grande di quella insegnata e vissuta dal nuovo business. La nostra economia ha un estremo bisogno di anima, ma purtroppo non esistono mercati dove comprarla.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio il 11/07/2018
Sono stato recentemente in Spagna (Valencia) a conoscere un centro di accoglienza per immigrati (Dorothy Day), dove alcuni imprenditori dell’Economia di comunione stanno provando a creare dei lavori per giovani provenienti prevalentemente dall’Africa. Nel dialogo spontaneo che è nato, qualcuno ha chiesto a una decina di quei giovani, tutti attorno ai 20 anni: «Quali sono i tuoi sogni?». «Fare il meccanico», «l’idraulico», «la sarta»…, hanno risposto. Nell’ascoltare le loro parole, spesso mescolate con le lacrime (loro e nostre), ho capito nuovamente che ogni giovane è figlio di tutti, non solo dei suoi genitori. Ogni figlio è anche figlio mio, ogni bambino che nasce è abitante della terra, e quindi è mio prossimo. Il mio prossimo non è il mio vicino geografico, religioso o etnico: è questo uno dei grandi insegnamenti della parabola del Buon Samaritano.
[fulltext] =>Su questa legge naturale e cristiana abbiamo fondato l’Europa, abbiamo accolto soldati inglesi e tedeschi che bussavano fuggiaschi e impauriti alle porte delle case dei nostri nonni. Avevano una divisa diversa da quelle dei loro figli al fronte, ma appena li guardavano negli occhi, bagnati e impauriti, capivano che prima di essere «stranieri» erano dei ragazzi, e quindi erano figli. E aprivano le loro porte e li nascondevano, rischiando la vita, nelle cantine e nelle stalle, e condividevano con loro il poco pane. Quei ragazzi dentro casa li resero meno sicuri, ma li fecero più umani.
Questa è l’Europa cristiana, queste sono le radici, ricoperte di lacrime e di agape, del nostro grande continente. Siamo stati capaci di guerre fratricide, degli orrori infiniti dei lager, ma siamo stati anche capaci di riconoscere un ragazzo e un figlio sotto una divisa di colore diverso. Le benedizioni civili ed economiche dell’Europa del dopoguerra sono state anche il frutto di questa grande capacità di accogliere, che ci ha consentito di pensare alla Comunità Europea, quando sulle montagne si stavano ancora combattendo le guerre. Le prime lettere della Costituzione repubblicana e poi dei trattati economici europei sono state scritte dalle donne e dagli uomini che hanno saputo aprire una porta e condividere il pane, diventando compagni (cum-panis) di forestieri. Molti di loro erano analfabeti, ma seppero scrivere queste meravigliose parole con la loro carne, attingendo all’umanità più profonda.
Oggi stiamo conoscendo altre guerre. Non si combattono sulle nostre montagne, ma nelle montagne oltre il mare. I giovani continuano ad arrivare, impauriti e fuggiaschi, a bussare alle nostre porte. Ma la distanza dal dolore e dalla pietas cristiana dei nostri nonni e genitori ci rende molto più difficile aprire le nostre porte, che troppo spesso rimangono chiuse, e giustifichiamo queste chiusure con nuove-antiche ideologie.
Eppure, anche oggi, il confine tra civiltà e barbarie si colloca proprio sulle nostre risposte concrete ai sogni di questi giovani. Possiamo comportarci come i Ciclopi che divoravano i loro ospiti, come gli abitanti di Sodoma che li violentarono. Oppure possiamo scegliere di imitare gli accoglienti Feaci, o i vecchi Abramo e Sara che ospitarono i tre uomini alle querce di Mamre sentendosi poi annunciare da loro la nascita del figlio della promessa. Tre forestieri accolti che portarono vita e un figlio: nella terra promessa non ci sono porte chiuse.
Nel Dna del nostro umanesimo ci sono sia i Ciclopi che i Feaci, ci sono gli abitanti di Sodoma ma anche Abramo. Ogni generazione deve fare la sua scelta, deve dire da quale parte vuole stare, se vuole guardare il colore della divisa o i giovani-figli che la indossano. Una cosa comunque è certa: la vita, i bambini, il futuro stanno solo dalla parte dei Feaci e di Sara e Abramo. «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2).
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio il 11/07/2018
Sono stato recentemente in Spagna (Valencia) a conoscere un centro di accoglienza per immigrati (Dorothy Day), dove alcuni imprenditori dell’Economia di comunione stanno provando a creare dei lavori per giovani provenienti prevalentemente dall’Africa. Nel dialogo spontaneo che è nato, qualcuno ha chiesto a una decina di quei giovani, tutti attorno ai 20 anni: «Quali sono i tuoi sogni?». «Fare il meccanico», «l’idraulico», «la sarta»…, hanno risposto. Nell’ascoltare le loro parole, spesso mescolate con le lacrime (loro e nostre), ho capito nuovamente che ogni giovane è figlio di tutti, non solo dei suoi genitori. Ogni figlio è anche figlio mio, ogni bambino che nasce è abitante della terra, e quindi è mio prossimo. Il mio prossimo non è il mio vicino geografico, religioso o etnico: è questo uno dei grandi insegnamenti della parabola del Buon Samaritano.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio il 10/06/2018
Una virtù particolarmente scarsa nel nostro tempo si chiama speranza. La speranza non è solo una virtù (è anche un dono, come sottolinea il suo essere stata chiamata dai cristiani virtù teologale), ma è anche una virtù, perché richiede esercizio, soprattutto per non perderla nei momenti difficili, individuali e collettivi (come è quello che stiamo vivendo ora). E chi ha dubbi che la speranza sia una preziosissima virtù economica, lo chieda agli imprenditori, soprattutto a quelli che hanno superato crisi lunghe e profonde, nelle quali il primo cibo è stata la virtù della speranza, morta e risorta molte volte (si esce vivi dalle crisi quando le resurrezioni sono una in più delle morti).
[fulltext] =>La speranza è qualcosa di più e di diverso dall’ottimismo o dal pensiero positivo. È, prima di tutto, un moto dell’anima e spesso nasce dentro condizioni che non favoriscono né l’ottimismo né il pensiero positivo. Come quando, toccato il fondo, il cuore viene scosso da un venticello leggero, e fiorisce la voglia di ricominciare.
C’è un aspetto molto prezioso della speranza vera, di cui si parla molto poco, troppo poco. Riguarda la scelta, sempre intenzionale (come in tutte le virtù) del punto dal quale vogliamo guardare la vita nostra e quella degli altri. Il punto di osservazione che scegliamo per guardare il mondo è sempre una scelta decisiva.
Possiamo decidere di osservare la nostra società e le nostre azioni ponendoci sul piedistallo dei ricchi e dei potenti (e lo possiamo fare anche se siamo poveri). Da lì, in alto, vediamo il mondo come un grande mercato, una progressiva espansione della libertà di scelta di beni, vediamo crescere i confort della vita, ricchi che pagano poveri per fare le cose che non amano fare. E vediamo i poveri diventare semplicemente le scorie e il prezzo da pagare per questo progresso.
Ma possiamo anche scegliere – magari perché chiamati per nome dalla voce del dolore del mondo – di giudicare mettendoci dalla prospettiva delle vittime. Di vedere lo spettacolo sociale ed economico della terra da sotto il tavolo, mentre raccogliamo, con Lazzaro, le briciole che cadono dal banchetto del ricco Epulone. A differenza della prima, questa seconda scelta di prospettiva non può essere mai astratta e distaccata. Se decidiamo di guardare il mondo insieme con i poveri e gli scartati, non possiamo restare sul nostro piedistallo soltanto a guardare. Dobbiamo scendere nell’agone, metterci accanto a loro.
E, dal loro posto di vedetta, vediamo cose diverse da tutti gli altri, a volte molto brutte, altre di una bellezza infinita. Il cristianesimo ha fatto un grande dono all’umanità quando ha scelto come suo primo simbolo il crocifisso. Poteva scegliere il risorto, ma non lo ha fatto. Ha deciso così quale doveva essere il suo primo punto di vista sul cielo e sulla terra.
Quando si inizia a guardare il mondo con gli scarti e con gli ultimi, quando si impara questa forma (splendida) di speranza, non ci si ferma più. Cambia, ad esempio, il modo con cui leggiamo la letteratura, la poesia, la Bibbia. Quando incontriamo una vittima in un romanzo, soprattutto in quelli grandi ed eterni, mentre la seguiamo nel suo dolore, la amiamo guardandola e stando in sua compagnia. Si spera per lei e con lei. La sentiamo viva e vera, e poi scegliamo di stare dalla sua parte. E così in Renzo, Lucia, Cosette si scoprono i tanti loro fratelli e sorelle fuori dal romanzo.
Qualcuno va ancora oltre. Vede e scopre Giobbe, Uria l’ittita, l’uomo «mezzo morto» che scendeva a Gerico, Geremia nella cisterna, il figliol prodigo nel porcile, e decide di stare dalla loro parte. E poi, esce di casa, si fa prossimo delle vittime che camminano verso le nostre Gerico. E lì, lungo la strada, reimpara a sperare, ricomincia a risorgere.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di sant'Antonio il 10/06/2018
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 07/05/2018
Nella Bibbia, molte chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. «Il Signore mi prese mentre seguivo il gregge, e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (Amos 7,15). Gedeone stava lavorando quando lo raggiunse l’angelo del Signore: «Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel frantoio» (Giudici 6,11). Saul stava inseguendo le sue asine smarrite quando Samuele lo incontrò e lo unse per diventare il primo re d’Israele (1 Samuele, 9).
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Questa enorme stima che la Bibbia ha del lavoro ci deve dire molte cose, tutte belle. Innanzitutto ci ricorda che per le teofanie non ci sono luoghi spirituali migliori di una barca, una cucina, un roveto, un viaggio per riportare a casa le asine. Di un guado notturno di un fiume, del deserto, della strada per Damasco, di una chiesetta diroccata nei pressi di Assisi. E se oggi vogliamo avere nuove annunciazioni, nuovi incontri con Dio, dobbiamo aspettarli in un’officina, nelle corsie degli ospedali, tra i banchi di scuola.
Sono gli idoli che «funzionano» soltanto nel loro territorio sacro recintato di cui sono prigionieri; il Dio biblico non è un idolo anche perché è libero dai nostri luoghi religiosi, si sente scomodo nei templi, gli piace l’aria aperta, ama condividere la strada con noi, bazzicare i luoghi del lavoro perché sono i luoghi della vita. Noi invece continuiamo a cercare Dio nei posti dove noi abbiamo deciso debba trovarsi, e non lo troviamo, perché ci aspetta, laicamente, nei crocicchi delle strade polverose di tutti. Ci sono troppi atei, fuori e dentro le religioni, che non conoscono Dio perché, semplicemente, lo hanno cercato nei luoghi religiosi dove non si trovava.
Gli appuntamenti decisivi della vita ci aspettano nei luoghi del nostro vivere ordinario, e quindi anche nel nostro lavoro quotidiano. Possiamo partecipare a mille liturgie, fare dieci pellegrinaggi e cento ritiri spirituali, ma gli eventi spirituali che veramente ci cambiano e permangono nell’anima per tutta la vita accadono nella quotidianità, quando, senza cercarla né attenderla, una voce ci chiama per nome nelle condizioni umili del vivere. Lavando i piatti, correggendo un compito, guidando un tram. Ci siamo salvati da autentiche morti dell’anima perché sapevamo ancora preparare bene un pranzo, perché abbiamo curato per anni una pianta in giardino, o perché non abbiamo dimenticato una ultima preghiera e l’abbiamo recitata ogni sera. E quante volte dopo lutti, abbandoni, delusioni, separazioni, siamo tornati in ufficio o in negozio e abbiamo sentito dentro che la vita ricominciava, semplicemente riprendendo il nostro solito lavoro. Fratello lavoro.
È questa la grande laicità della vita e della fede biblica, che ha un’idea talmente grande e degna dell’uomo da farlo dialogare con gli angeli nei campi, nei laboratori, nelle botteghe artigiane, rendendo così i luoghi della vita e del lavoro veramente e altamente spirituali. In questo senso il lavoro è autenticamente «vocazione».
E allora quando a una persona, soprattutto se è giovane, non è consentito, per qualsiasi ragione, di lavorare, tra le molte cose splendide che gli vengono negate, gli si riducono i luoghi dove poter incontrare gli angeli e dialogare con l’infinito.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 07/05/2018
Nella Bibbia, molte chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. «Il Signore mi prese mentre seguivo il gregge, e mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo”» (Amos 7,15). Gedeone stava lavorando quando lo raggiunse l’angelo del Signore: «Gedeone, figlio di Ioas, batteva il grano nel frantoio» (Giudici 6,11). Saul stava inseguendo le sue asine smarrite quando Samuele lo incontrò e lo unse per diventare il primo re d’Israele (1 Samuele, 9).
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 09/04/2018
Umiltà è una parola fondamentale dell’umanesimo occidentale, al centro di ogni processo educativo, che è presente in ogni persona che stimiamo davvero. Ma, come tutte le parole grandi della vita, anche «umiltà» è ambivalente, perché c’è umiltà buona e umiltà cattiva.
Non possiamo dimenticare che, nei secoli passati, in nome del valore dell’umiltà sono state umiliate tante persone, tante donne, tanti poveri. Persone umiliate dai potenti, e magari veniva loro raccomandato di coltivare l’umiltà nella loro umiliazione. Questo uso dell’umiltà e dell’umiliazione è tutt’altro che virtù, e ha generato tanto dolore e ha fatto sfiorire troppe persone. Non è infatti questa umiltà-umiliazione quella che ritroviamo nella Bibbia e nei vangeli, dove invece gli umili vengono «innalzati» (Magnificat), non vengono lasciati umiliati. Nell’umanesimo del Magnificat ciò che si loda è il riscatto di chi è stato umiliato e non lasciato nella sua condizione di vittima.
[fulltext] =>La sola umiliazione buona è quella che ci arriva dalla vita senza che nessuno la voglia. Si preparano i bambini e i giovani all’umiltà buona mettendoli in contatto con la bellezza, con l’arte, con la natura, con la spiritualità, con la poesia, con le fiabe, portandoli con noi ai funerali, facendo loro capire che può esistere un cielo più alto del tetto di casa. E poi un giorno alzare gli occhi e sentire il cielo «infinito e immortale».
Allora la prima espressione di umiltà buona è quella che vive chi cerca di riscattare chi è stato umiliato. È una virtù attiva, che non pensa tanto a coltivare la propria umiltà ma a liberare chi è umiliato. L’umiltà più alta di Gesù è quella che ha vissuto sulla croce, nella cacciata dei mercanti dal tempio dove ha liberato Dio dalla logica retributiva che lo aveva umiliato, quando ha salvato la donna dalla lapidazione. È quella del padre che rialza il figliol prodigo dalla sua umiliazione, quell’angelo che consola Agar cacciata via nel deserto dalla sua padrona (Sara), quella di YHWH che ascolta il pianto strozzato di Anna e la innalza donandole un figlio (Samuele).
L’umiltà, l’humilitas più importante è quella che sperimenta chi riesce a risollevare il suo volto dalla terra, dall’humus, e guardare di nuovo avanti e in alto con dignità. L’umiltà che salva non consiste nell’abbassare noi stessi (dietro gli auto-abbassamenti si nasconde spesso molto orgoglio), ma nell’innalzare gli altri che sono stati abbassati.
Nelle organizzazioni e nella vita in comune, l’umiltà buona si riconosce dai suoi segni.
Il primo è la gratitudine sincera nei confronti della vita, degli altri, dei propri genitori. L’umile è sempre grato. E solo l’umile sa pregare. Un secondo segnale della sua presenza è la capacità di dire «scusa» e «perdonami».Tutti i corsi sulla leadership aziendale dovrebbero iniziare con un pre-corso sull’umiltà. Pronunciare «scusa» e «perdonami» è sempre difficile nelle imprese. È difficile dire «scusa» a un nostro responsabile. Ma è ancora più difficile dirlo a un nostro dipendente. L’umiltà vera educa alla sequela. Un responsabile che non abbia imparato la sequela – di ogni altro, dei poveri, della parte migliore di sé – non sarà mai una buona guida (leader) di altri. Oggi l’impresa e la politica soffrono per carenza di responsabili e leader, perché abbiamo dimenticato la cultura della buona umiltà.
Nell’umiltà si ritrova una legge universale che ritroviamo al cuore di molte virtù e di altre cose grandi della vita: si diventa umili veramente senza accorgersene. L’umiltà arriva mentre cerchiamo altro: la giustizia, la verità, l’onestà. Non può essere programmata, ma può essere desiderata, stimata, attesa. L’umiltà è una virtù radicalmente relazionale: sono solo gli altri che possono e devono riconoscere la nostra umiltà, e noi riconoscere la loro, in un gioco di reciprocità tra i più sublimi «sotto il sole».
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 09/04/2018
Umiltà è una parola fondamentale dell’umanesimo occidentale, al centro di ogni processo educativo, che è presente in ogni persona che stimiamo davvero. Ma, come tutte le parole grandi della vita, anche «umiltà» è ambivalente, perché c’è umiltà buona e umiltà cattiva.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/03/2018
C’è una virtù molto scarsa nel mondo dell’impresa del nostro tempo, che, anche per la sua scarsità, sarebbe invece molto preziosa. Questa virtù è la mitezza, la mansuetudine. La mitezza è l’anti-violenza, ma è anche l’anti-ira, un vizio oggi parecchio popolare, che incattivisce le nostre riunioni di lavoro o di condominio, il traffico, le campagne elettorali, e che il tempo dei social ha amplificato.
[fulltext] =>I miti sono la sola cura davvero efficace ai violenti e agli irosi, perché, come in poche altre realtà, la mitezza di pochi cura e accudisce l’ira di tanti. I miti sono il primo lievito del mondo, il «resto fedele» che salva un intero popolo. Senza mitezza non resisteremmo nelle lunghe malattie, nelle notti insonni quando, come Giobbe, ci giriamo e rigiriamo fino all’alba; affonderemmo nelle prove vere della vita, negli abbandoni, nelle solitudini infinite della vedovanza.
Il mansueto, come dice l’etimologia della parola, è come l’agnello che sa far passare docile la mano del pastore sul suo dorso, è colui che è diventato esperto (sueto) alla mano della vita, degli altri, di Dio. Nella Bibbia ai miti è promessa l’eredità della terra. Di quale terra? La prima eredità della terra è quella che riceveranno domani i nostri figli se noi, oggi, saremo miti. Nelle imprese, nella politica, nelle famiglie, verso i giovani. Nel rapporto con la terra. Tutte le volte che siamo violenti e predatori con la terra e con le sue risorse, stiamo svalutando il patrimonio che lasceremo in eredità. Chi è mite custodisce l’oikos (la casa) e quindi fa una oikonomia mite, che usa le risorse sapendo che le deve lasciare in eredità, perché ieri le ha ricevute in eredità.
I miti, nei calcoli del Pil e nelle stime del benessere, darebbero molto più peso al consumo di risorse non rinnovabili e a tutte quelle che abbiamo trovato sulla terra e che dobbiamo lasciare in eredità. Ci insegnerebbero a usare tutti i beni come fossero beni comuni (perché, in qualche modo, lo sono), e con la stessa cura con cui si usano le cose dei figli. Una mitezza economica (che ci manca) porterebbe a ridurre l’aggressiva presenza della pubblicità in tutti i momenti della nostra vita, a interrompere l’utilizzo di gratta-e-vinci e slotmachine, a mitigare i linguaggi arroganti e volgari dei capi, sarebbe più femminile e meno maschile.Il mite ha infatti il suo tipico linguaggio. Nel mondo del lavoro e nella vita civile non c’è bisogno solo di un linguaggio non-violento (che è già qualcosa), ci occorre un linguaggio mite.
Un importante àmbito dove il linguaggio mite è particolarmente prezioso è la gestione dell’invidia nei confronti di amici e colleghi. Quando un mite ascolta una critica verso un proprio amico/collega che sa nascere soltanto dalla cattiveria-invidia-violenza, protegge l’amico e non gli riferisce queste parole cattive. Le tiene per sé, le digerisce nel proprio cuore, e con la sua mitezza impedisce che quella violenza ferisca e intristisca quelle persone, e poi si moltiplichi. La blocca sul nascere, non le consente di diventare cultura e male comune. Fa invece come quegli alberi che purificano l’ambiente dai veleni e purificandolo se ne nutrono. Trasformano gli scarti della piccolezza e meschinità umane in cibo di vita. Ogni atto di mitezza nutre la mitezza del mite, e aumenta la mitezza delle organizzazioni, accresce la mitezza del mondo.
Infine, la terra che i miti certamente erediteranno è quel brano di terra che accoglierà, alla fine, il loro corpo. In quel giorno quando, dopo aver speso una vita nell’esercizio della mitezza, si ritroveranno capaci di farsi accarezzare dalla mano dell’angelo, nell’ultimo e decisivo abbraccio mite. Sarà l’ultima mitezza, quella più bella. Beati i miti, perché erediteranno la terra.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 05/03/2018
C’è una virtù molto scarsa nel mondo dell’impresa del nostro tempo, che, anche per la sua scarsità, sarebbe invece molto preziosa. Questa virtù è la mitezza, la mansuetudine. La mitezza è l’anti-violenza, ma è anche l’anti-ira, un vizio oggi parecchio popolare, che incattivisce le nostre riunioni di lavoro o di condominio, il traffico, le campagne elettorali, e che il tempo dei social ha amplificato.
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 06/02/2018
Milioni di persone ogni giorno si spostano, partono, arrivano. Per visitare amici, per vacanze, ma soprattutto per «lavorare». Qualche volta, guardando i molti tir, cargo, navi mercantili, ci chiediamo: che cosa li muove? Per quale ragione questa gente si alza presto al mattino, si mette in viaggio, scambia e traffica? Per gli interessi, per il profitto, per il denaro: è questa la risposta più semplice e immediata che in genere diamo a quelle domande.
[fulltext] =>Se però guardiamo bene, osserviamo con più attenzione e andiamo oltre le prime apparenze, ci accorgiamo che dietro un uomo che si mette in auto, un altro che guida un camion, una donna che cerca di raggiungere velocemente il suo ufficio, ci sono bambini, mogli, genitori. Ci sono persone da amare con i frutti di quel lavoro che li fa svegliare presto, dormire tardi, correre, scambiare. Se quindi fossimo capaci di purificare e ripulire la parola amore da tutte le incrostazioni e sedimentazioni con cui la nostra civiltà dei consumi e del piacere l’ha ricoperta, ci accorgeremmo che dietro i nostri affari e le nostre corse economiche c’è molto amore, e che gli interessi sono spesso il rivestimento di azioni che alimentano le nostre relazioni affettive primarie.
Gli economisti guardano il mondo e vedono consumatori nei supermercati che acquistano per massimizzare la loro utilità individuale; imprenditori che fanno nascere imprese per massimizzare i profitti; risparmiatori che investono per massimizzare le rendite finanziarie. Ma quando e se gli economisti escono dai libri astratti e dai modelli teorici e si mettono a parlare con la gente in carne e ossa, si possono accorgere che le donne e gli uomini vanno nei mercati (non sempre «super» ma anche nei negozi ordinari e piccoli del centro) perché devono far la spesa per cucinare qualcosa di buono per i loro figli o per invitare amici a cena; che la maggior parte degli imprenditori fa nascere imprese perché ha voglia di creare qualcosa di bello, o perché non vuole far morire il sogno di una vita dei propri genitori racchiuso in quella fabbrica, oppure per non licenziare i propri dipendenti; che tanti uomini e donne risparmiano per consentire ai nipoti di studiare in una buona università, o per lasciare qualche cosa ai loro figli. E poi scopriamo anche che dietro a chi lascia figli e genitori in un altro Paese per occuparsi dei nostri figli e dei nostri genitori, c’è molto di più degli interessi e del denaro. C’è anche molto, moltissimo amore. Ma dobbiamo essere capaci di vederlo, parlando, ascoltando, guardando negli occhi la gente, soprattutto i poveri. Uscire dall’economia immaginata e incontrare l’economia quotidiana di chi prepara pranzi, fa lezione in classe, ripara un’auto. Se riusciamo a vedere questa economia la scopriremo piena di umanità, di vita, di virtù. E quindi pienissima di amore.Quando i cristiani di Roma dovettero tradurre la parola greca (agape) che Paolo e poi gli evangelisti avevano scelto per dire quell’amore diverso che avevano imparato da Gesù, scelsero charitas. Presero una parola commerciale, caritas, che esprimeva (e ancora esprime) ciò che è caro, ciò che costa. Scelsero una umile parola dell’economia per dire la parola umana più alta di tutte, così alta da sfiorare il cielo. Ma ci misero una «h» (charitas), per dire che per quell’amore nuovo e diverso la vecchia parola commerciale non bastava: c’era bisogno anche della gratuità, cioè della charis.
E così inventarono la splendida parola charitas, per dire insieme amore, gratuità e… economia – c’è molta economia nella Bibbia, e molta Bibbia nell’economia: ne riparleremo –. La gratuità per poter cambiare il mondo ha bisogno dell’economia di tutti. L’economia della salvezza non è piena senza la salvezza dell’economia. Perché l’acca della gratuità senza la semplice caritas dell’economia resta un’acca muta.
@bruniluis
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 04/01/2018
Nonostante l’economia e il mercato ci offrano, quotidianamente, uno spettacolo di vizi, l’economia e il mercato sono abitati anche da molte virtù. Perché, semplicemente, l’economia è la vita. E quindi è piena di vizi e di virtù, come lo è la vita. In questo nostro tempo di passaggio d’epoca sono però troppe le parole spese per sottolineare i vizi dell’economia, degli imprenditori, delle banche. C’è quindi un estremo bisogno di nuove «parole buone» sull’economia, sui lavoratori, sulle imprese. C’è bisogno di bene-dizioni, che prendano il posto delle tante male-dizioni che si odono. Se non ricominciamo a parlare bene e a «riconoscere» il lavoro, potremmo immaginare tutti i sistemi incentivanti più perfetti, ma non aumenteremo la gioia di vivere nei luoghi del lavoro. Il vero bonus di cui avrebbero bisogno oggi gli insegnanti in Italia è la stima, tremendamente carente in un Paese che, mentre vuole incentivare maestre e professori, li tratta come dei fannulloni incompetenti. Il denaro non è mai stato un buon sostituto della gratitudine, anche se ci ha sempre provato.
[fulltext] =>Per questa ragione, inizieremo da oggi a parlare delle virtù del mercato, delle virtù degli imprenditori, del lavoro, della vita economica in generale. Virtù è una parola antica come l’uomo. Ben prima che in Grecia, in Medio Oriente e in Asia circa tremila anni fa alcuni saggi iniziassero a scrivere sulle virtù, l’homo sapiens era già capace di virtù. Sapeva compiere azione buone e belle, per il solo motivo di fare cose belle e buone, e così raggiungere l’eccellenza, e condurre una vita felice. Compiere azioni virtuose è parte del repertorio umano.
Siamo tutti capaci di virtù, anche quando intenzionalmente scegliamo di seguire i nostri vizi. Al tempo stesso, la virtù richiede «educazione», altra grande parola dimenticata dalla nostra società. Siamo fatti per le virtù, ma occorre formare il carattere perché questa potenzialità si traduca in azioni. Le virtù non sono faccende per soli eroi o santi. Sono per tutti, a condizione che ci formiamo, mente e anima, per condurre una vita virtuosa. A partire dalla famiglia, dalla scuola, dai luoghi vitali dove si esercita la nostra umanità.
Anche l’economia, essendo un pezzo di vita, ha le sue virtù, che sono in parte specifiche e in parte universali. Le virtù della giustizia, della prudenza, della temperanza, della fortezza, le cosiddette «virtù cardinali», non sono «solo» virtù specificatamente economiche ma sono «anche» virtù economiche, benché oggi vengano, troppo spesso, considerate dalla nostra cultura del business come dei vizi. Come non sono prerogativa dell’economia e del mercato le «virtù teologali» della fede, della speranza e dell’agape, che comunque restano «anche» virtù economiche (che sarebbero le imprese e il lavoro senza gente capace di credere, di sperare, di amare?).
Ci sono poi virtù «tipicamente» economiche, quelle che gli operatori dei mercati e delle imprese dovrebbero coltivare per raggiungere l’eccellenza in questo àmbito della vita. Alcune di queste virtù oggi sono molto enfatizzate dalla cultura dominante nelle grandi imprese – efficienza, meritocrazia, efficacia… –. Di altre si parla molto meno, e per questo saranno le virtù di cui soprattutto parleremo nel corso dell’anno.
In genere le virtù sono associate a un’altra bella parola: felicità. Si dice che il premio della virtù sia la felicità, o che addirittura lo scopo ultimo di chi pratica le virtù sia la felicità. In realtà, sono sempre più convinto che per noi esseri umani la felicità è troppo poco. Dalla vita vogliamo molto di più della felicità. Vogliamo, vorremmo, stima, riconoscenza, verità, senso. Nella vita, e quindi nell’economia e nel lavoro. La felicità non basta per saziare la nostra fame insaziabile d’infinito. Anche in quelle cose splendide e umanissime che chiamiamo economia, mercati, lavoro.
@bruniluis
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di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di S.Antonio il 04/01/2018
Nonostante l’economia e il mercato ci offrano, quotidianamente, uno spettacolo di vizi, l’economia e il mercato sono abitati anche da molte virtù. Perché, semplicemente, l’economia è la vita. E quindi è piena di vizi e di virtù, come lo è la vita. In questo nostro tempo di passaggio d’epoca sono però troppe le parole spese per sottolineare i vizi dell’economia, degli imprenditori, delle banche. C’è quindi un estremo bisogno di nuove «parole buone» sull’economia, sui lavoratori, sulle imprese. C’è bisogno di bene-dizioni, che prendano il posto delle tante male-dizioni che si odono. Se non ricominciamo a parlare bene e a «riconoscere» il lavoro, potremmo immaginare tutti i sistemi incentivanti più perfetti, ma non aumenteremo la gioia di vivere nei luoghi del lavoro. Il vero bonus di cui avrebbero bisogno oggi gli insegnanti in Italia è la stima, tremendamente carente in un Paese che, mentre vuole incentivare maestre e professori, li tratta come dei fannulloni incompetenti. Il denaro non è mai stato un buon sostituto della gratitudine, anche se ci ha sempre provato.
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di Laura Pisanello
pubblicato su Il Messaggero di Sant'Antonio, gennaio 2015
Luigino Bruni è docente di economia politica all’Università Lumsa di Roma. Fu sollecitato da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, a «dare dignità scientifica» a Economia di Comunione. È autore di numerosi volumi e di saggi in cui partendo dalla Bibbia fornisce chiavi di lettura per il mondo di oggi.
[fulltext] =>Superstizione, cartomanzia… possono togliere libertà all’uomo?
Certo perché – per usare il linguaggio biblico – sono espressione di «culti idolatrici», e tutti gli idoli hanno come scopo il legare gli uomini e il renderli schiavi e servi. Il grande messaggio biblico sull’idolatria è molto semplice: gli idoli vanno eliminati.
Eppure, la Bibbia ci parla di divinazione: per esempio, lei si è occupato di Giuseppe che interpreta i sogni nella Genesi.
La vocazione di Giuseppe, la sua vita e la sua giovinezza furono segnati in negativo dal fatto di aver ricevuto il «dono dei sogni». Giuseppe sognava, raccontava i sogni, fu gettato in una cisterna dai fratelli invidiosi, venduto e condotto in Egitto. Rinchiuso in carcere (perché era stato onesto), vide due funzionari che erano tristi e interpretò i loro sogni. Uno di questi, il coppiere, si ricordò di Giuseppe quando il faraone fece dei sogni cupi con le vacche grasse e le vacche magre che i divinatori d’Egitto non riuscivano a interpretare. Giuseppe venne chiamato e disse una frase molto bella: «Non io, ma Dio darà la risposta per la salute del faraone». Qui inizia, secondo me, una fase nuova per l’umanità che è quella della profezia e non della divinazione. C’è sempre stato nell’umanità chi tende a utilizzare doni, talenti, tecniche per poter manipolare le persone, ma la Bibbia è molto dura verso queste figure. Il Dio biblico libera da queste cose.
Perché oggi non abbiamo più grandi sogni?
Non abbiamo più sogni perché la scienza ci ha «disincantati». Il mondo antico aveva più registri per accedere alla realtà: uno di questi era il sogno. L’uomo antico è simbolico, non gli basta il mondo che vede, vuole l’invisibile. Oggi ci mancano anche interpreti dei sogni che svolgano questo ruolo per gratuità. Ho una grande stima delle guide spirituali, di persone sagge che, per vocazione, accompagnino il prossimo a capire la propria strada, da cui andare magari durante una crisi o quando si ha un sogno grande, un grande progetto da realizzare. Mancano «interpreti dei sogni» per vocazione (e non per mestiere). Il mondo educativo (scuola, università) dovrebbe essere molto più popolato a persone sagge che sanno ascoltare i giovani e interpretare i loro sogni per gratuità.
La poesia, la bellezza possono essere risposte alla diffusa paura del futuro?
La poesia e tutta l’arte vera non fanno altro che ricordarci che non siamo noi i padroni della nostra vita. Ci sono dimensioni come la bellezza, la poesia che apparentemente non «servono» ma hanno un valore intrinseco, ricordando «l’eccedenza» del mondo rispetto all’utile e quindi sono profondamente legate alla speranza. Se vogliamo avere, in futuro, una generazione di persone capaci di vita spirituale, e non solo di clienti o consumatori, dobbiamo instillare nei giovani il senso della poesia, della bellezza e dell’arte. Il formare una generazione, dopo la nostra, ancora capace di grandi sogni dipende dall’educazione che oggi siamo in grado di dare ai giovani.
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