Nelle aziende servono manager capaci di vedere e di riconoscere il dono.
di Luigino Bruni
pubblicato sul Messaggero di Sant'Antonio il 03/12/2018
La nostra cultura non considera il dono una virtù del mercato. Lo considera una faccenda privata, o importante in alcuni momenti particolari (durante le catastrofi o nelle emergenze), ma non lo vede necessario dentro i negozi né nelle fabbriche, se non per aspetti molto secondari e, tutto sommato, trascurabili.
Il nostro mercato conosce gli sconti, i gadget, le offerte promozionali, che somigliano al dono «vero» perché ne prendono dosi infinitesime e le inseriscono nel corpo dell’economia. È una sorta di «dono omeopatico» che viene immesso nel mercato allo scopo di tenere lontano il virus del dono vero e proprio. Se quest’ultimo entrasse davvero dentro grandi imprese e banche, infatti, le manderebbe profondamente in crisi, perché esso è troppo sovversivo e incontrollabile per poter essere gestito dalle tecniche del management.
Ed è qui che si apre un vero e proprio paradosso. Nessuna realtà umana potrebbe nascere né sopravvivere senza doni e senza scambi di doni. Neanche l’economia, che non è altro che la vita, potrebbe allora nascere e vivere senza doni.
Il dono è, infatti, il luogo della libertà, è quella dimensione della persona che si attiva quando ci sentiamo veramente liberi di fare e di dare tutto e così, potendo fare e donare molto, siamo anche capaci di donare qualcosa. Il dono è la cifra degli uomini liberi. Imprese senza persone libere sarebbero troppo piccole per generare innovazioni e ricchezza. Solo le persone libere innovano e lavorano veramente; ma le persone libere non possono essere gestite e comprate dagli incentivi e dai contratti, perché quando le imprese provano a farlo finisce la libertà, finisce il dono, finisce l’innovazione vera, finisce la ricchezza.
Per questa ragione anche gli scambi economici hanno un bisogno vitale di dono, ma la cultura del business non lo sa, o lo sa male. Pensiamo al lavoro: se quando entro in un’aula non introduco, insieme, il dottor Bruni e Luigino, non lavoro veramente. Vale a dire che se io (che sono un docente) prima di entrare in classe non mi fermo un attimo per mettere da parte i miei problemi, per dare ai miei studenti la parte migliore di me, il mio entusiasmo, la mia voglia di vivere, in realtà mi fermo sull’uscio del lavoro. Ma – e qui sta il paradosso del dono – l’entusiasmo e la voglia di vivere non sono contratti. Nessuna impresa li può comprare se noi non decidiamo liberamente di donarli. Eppure se nel lavoro mancano queste dimensioni di gratuito, che non possono essere acquistate, l’impresa fallisce.
È questa una delle verità più importanti e poco conosciute del nostro capitalismo: le aziende possono comprare solo la parte meno importante del nostro lavoro – a che ora entriamo e usciamo, etc. – ma non possono comprare ciò di cui hanno veramente e disperatamente bisogno.
L’economia e le imprese sono piene di dono, ma non riusciamo a vederlo. Consumano molti doni che non pagano, perché il dono è, nella sua parte più importante, invisibile. Parla un linguaggio opposto a quello del business. Accade come quando portiamo un regalo a un amico e lui ci dice: «Non dovevi disturbarti, mi dispiace…». Se il management interpreta male tale linguaggio, cioè prende alla lettera le parole del dono, lo distrugge.
C’è molto dono «rubato» nelle nostre imprese, le quali, non potendo acquistare il dono lo trasformano in doveroso, in contratto. Ed è proprio l’impressione di essere defraudati del molto dono che ogni giorno mettiamo nel lavoro una delle prime cause di malessere dei lavoratori.
Ci vorrebbero manager capaci di vedere e di riconoscere il dono. Ma ciò è difficile, perché il riconoscimento del dono crea gratitudine, e la gratitudine rende vulnerabili e fragili, una vulnerabilità non amata e molto temuta dalla nostra cultura del business. Ma il dono resiste, vive, opera, nonostante facciamo di tutto per disinnescarlo.