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Economia Civile

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Capitale. La lezione di Genovesi

pubblicato sul settimanale Vita dell'8 maggio 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate da Luigino Bruni: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità. Questa settimana la seconda puntata della parola «Capitale».

Come spiegato sul numero scorso, la storia dell’economia può essere raccontata anche come l’evoluzione del significato di capitale. Capitale deriva dal latino caput, capitis,che significa “capo”, “testa”.

L’economia classica tra Sette e Ottocento ha concepito il capitale come il principale fattore produttivo e con Marx diventa la chiave di lettura non solo della dinamica economica ma dell’intera società.

ABCDEconomia "C" come "Capitale" - 2a puntata

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L’economista liberale austriaco J.A. Schumpeter nel 1942 superava questo legame tra capitale e imprenditore intravvedendo sulla scena una nuova forna di capitalismo, il capitalismo finanziario.

Nel corso degli ultimi decenni la parola capitale si sta sempre più distinguendo e autonimizzando dal capitalismo. Il capitale umano è entrato per primo nel dibattito, nel dopoguerra, quando importanti economisti (tra cui G. Becker) iniziarono a costruire modelli dove spiegavano che un’azienda o un sistema economico crescono quando oltre ai capitali fisici, finanziari e tecnologici, dispongono anche di capitale umano, cioè di persone qualificate, formate, che hanno fatto investimenti in istruzione e che hanno così aumentato il valore capitale della loro persona e quindi della loro azienda.

Negli anni 90 si è fatto poi strada il concetto di capitale sociale (social capital), che è costituito dal tessuto di fiducia e di virtù civili che consente al mercato di svilupparsi e crescere. Anche qui uno dei primi ad intuire il ruolo essenziale del capitale sociale è stato il napoletano Antonio Genovesi, che nel 1754 scriveva che la ragione per la quale il suo Regno non cresceva come gli altri Stati europei era proprio la mancanza di quella che lui chiamava “fede pubblica”. A Napoli, diceva, abbondano la fede privata e l’onore, ma non la fede pubblica che porta a fidarsi delle istituzioni e, quindi, anche dei forestieri, determinando così lo sviluppo dei mercati e della società.

Oggi si sta facendo (timidamente) strada anche il concetto di “capitale relazionale”, che fa sì che una organizzazione sia qualche cosa di più di una somma di individui, ma un corpo legato dalla fiducia, dalla fides, che, come ricordava lo stesso Genovesi, significa anche «corda che lega e unisce».

Infine un concetto ancora più recente è quello di “capitale spirituale”, che consiste nel patrimonio di vita interiore (non necessariamente di religione) che caratterizza una persona, una comunità, un’impresa.

Questo capitale si rivela particolarmente prezioso nei momenti di crisi, dove c’è bisogno di capacità di andare avanti nei momenti di sospensione e di grande incertezza, di gestire conflitti profondi, di saper ricominciare e perdonare davvero.

Un’ultima nota. Sono  convinto che tra le varie forme di capitale ci sia normalmente un nesso di complementarietà e di interdipendenza. Quando, ad esempio, un’impresa in crisi inizia a parlare di possibilità di licenziamenti, succede spesso che questo segnale ha come effetto immediato che i primi ad abbandonare l’impresa siano i lavoratori più bravi (che hanno alternative sul mercato). Si verifica quindi un’emorragia dei migliori, restano i lavoratori meno qualificati, e questo processo determina presto una crisi finanziaria ed economica più grave di quella di partenza. Se invece si risponde ad una crisi rafforzando la fides, cioè il capitale relazionale (e magari spirituale) dell’azienda, si può evitare il deterioramento del capitale umano, e quindi di quello economico e finanziario. Il capitale è uno, ma i capitali sono molti: l’arte più difficile è saperli accudire tutti, con una costante opera di manutenzione.

La Settimana prossima ultimo appuntamento con la voce "Dono"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Capitale. La lezione di Genovesi

pubblicato sul settimanale Vita dell'8 maggio 2009

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ABCDEconomia "C" come "Capitale"- 2a puntata

ABCDEconomia di Luigino Bruni Capitale. La lezione di Genovesi pubblicato sul settimanale Vita dell'8 maggio 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate da Luigino Bruni: Felicità, Profitto, M...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Capitale. Non di solo capitalismo

pubblicato sul settimanale Vita del 1 maggio 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate da Luigino Bruni: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità.  Questa settimana la prima puntata della parola «Capitale ».

La storia dell’economia può essere raccontata anche come l’evoluzione del significato di capitale.CAPITALE deriva dal latino caput, capitis, che significa “capo”, “testa”, ma anche ciò che è principale e dal quale le altre parti discendono.Uno dei primi significati economici di CAPITALE è stato, infatti, quello finanziario, dove il CAPITALE (parte principale, caput) generava elementi secondari (interessi) che da questo discendevano. 
ABCDEconomia "C" come "Capitale"

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Nell’antichità il CAPITALE erano anche i “capi” di bestiame, una importante forma di ricchezza. Con l’economia classica tra Sette e Ottocento il CAPITALE viene visto come il principale fattore produttivo (insieme al lavoro e alla terra) dal quale dipendono, primariamente, le sorti del sistema economico che, non a caso, da Marx in poi sarà denominato proprio “capitalismo”.

Nel marxismo il CAPITALE (che è anche il titolo del libro più importante di Marx, 1867) diventa la chiave di lettura non solo della dinamica economica ma dell’intera società. L’appropriazione dei mezzi dei produzione (il CAPITALE) da parte dei capitalisti viene vista come l’origine e la spiegazione di ogni diseguaglianza e di ogni ingiustizia sociale (tra cui l’appropriazione indebita da parte dei capitalisti del valore creato dai lavoratori).
Marx aveva teorizzato una natura transitoria del capitalismo, poiché la legge endogena di movimento della storia avrebbe portato al suo superamento. L’idea di un superamento del capitalismo ha dominato il dibattito teorico fino alla seconda guerra mondiale. L’economista liberale austriaco J.A. Schumpeter, ad esempio, uno dei maggiori scienziati sociali del XX secolo, nell’introduzione ad uno dei suoi libri più importanti (Capitalismo socialismo democrazia, 1942) scriveva: «Può il capitalismo sopravvivere? No, non credo che lo possa».

La spiegazione di questa sua profezia consisteva nel deterioramento della funzione innovatrice dell’imprenditore che Schumpeter intravvedeva nella nascita del capitalismo finanziario dominato da poche grandi imprese. Di fine del capitalismo non si è più parlato tra gli economisti teorici e liberali fino a questa crisi. Una delle ragioni di questa eclisse è la confusione, molto comune, tra capitalismo ed economia di mercato: non potendo oggi mettere più in discussione l’economia di mercato, non si mette più in discussione neanche il capitalismo.

In realtà l’economia di mercato non coincide con il capitalismo: quella nasce ben prima del capitalismo, ha conosciuto varie forme non-capitalistiche che hanno convissuto con il capitalismo (si pensi al movimento cooperativo), e certamente gli sopravviverà.

Nel corso degli ultimi decenni la parola CAPITALE si sta sempre più distinguendo e autonomizzando dal capitalismo: si parla di CAPITALE umano e di CAPITALE sociale, intesi come nuovi fattori di produzione da cui dipende la produzione di ricchezza (e non solo).

Il CAPITALE umano è entrato per primo nel dibattito, nel dopoguerra, quando importanti economisti (tra cui G. Becker) iniziarono a costruire modelli dove spiegavano che un’azienda o un sistema economico crescono quando oltre ai capitali fisici, finanziari e tecnologici, dispongono anche di CAPITALE umano, cioè di persone qualificate, formate, che hanno fatto investimenti in istruzione e che hanno così aumentato il valore CAPITALE della loro persona e quindi della loro azienda.

In realtà questa idea era già presente in economisti classici come Pareto a fine Ottocento, o il veneziano Ortes quando affermava che la ricchezza di un popolo è la sua gente (1792).

Con il prossimo numero di VITA la seconda parte della voce “Capitale"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Capitale. Non di solo capitalismo

pubblicato sul settimanale Vita del 1 maggio 2009

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ABCDEconomia "C" come "Capitale" -1a puntata

ABCDEconomia di Luigino Bruni Capitale. Non di solo capitalismo pubblicato sul settimanale Vita del 1 maggio 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate da Luigino Bruni: Felicità, Profitto, ...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dragonetti. Il pensatore della virtù

pubblicato sul settimanale Vita del 24 aprile 2009

In questa settimana di lutto abbiamo voluto interrompere il ritmo naturale delle parole del nostro abbecedario di economia civile, ed esprimere la nostra solidarietà con la città de L’Aquila ricordando un suo cittadino che è tra gli autori classici dell’economia civile, Giacinto Dragonetti, marchese aquilano, il cui palazzo storico è stato tra quelli danneggiati dal terremoto.

Giacinto Dragonetti è l’autore di un piccolo libro, Delle virtù e de’ premi, che associato al più celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, riscosse un significativo successo nell’Europa dei lumi pre rivoluzionaria. Il libro di Dragonetti ebbe, infatti, una grande circolazione nell’Europa del Settecento. Il libro uscì a Napoli anonimo nel 1766. Fu poi pubblicato in francese (1767), in inglese (1769), in tedesco (1769) e in russo (1769).

ABCDEconomia "Dragonetti"

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Ho trovato  un’edizione spagnola del 1838. Non escludo che ne esistano anche altre edizioni. Dragonetti fu quindi più tradotto del suo maestro Antonio Genovesi e, se si esclude Beccaria, occorre aspettare Pareto nel Novecento perché uno studioso italiano di scienze sociali abbia di nuovo una tale notorietà internazionale.

Di formazione giuridica, Dragonetti era interessato sia all’economia che ai temi giuridici. In gioventù, a poca distanza dalla pubblicazione del libro di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene, pubblicò a Napoli quel piccolo libro che voleva essere completamento e sviluppo della tesi di Beccaria.

Nell’introduzione  del libro si legge: «Gli uomini hanno fatto milioni di leggi per punire i delitti, e non ne hanno stabilita pur una per premiare le virtù». Dragonetti propose una vera e propria legislazione dei premi alle virtù, addirittura un codice delle virtù che si affiancasse al codice penale: «I Legislatori Romani conobbero la necessità delle ricompense, le accennarono, ma non ebbero il coraggio di formarne il codice». E poi aggiunge che «il parlare dunque dei premi alle virtù dovuti non farà opera perduta in questo Secolo, che si crede destinato a rendere la nativa efficacia ai rispettivi diritti degli uomini».

Ovviamente Dragonetti non nega l’importanza delle pene, anzi ne riconosce il ruolo essenziale; crede però che puntare solo sulla punizione dei delitti non sia sufficiente per far avviare il suo Paese su una via di sviluppo civile ed economico. Ma che cos’è la virtù?

Per Dragonetti la virtù è associata alla ricerca diretta e intenzionale del bene pubblico. Quando qualcuno agisce per «l’altrui vantaggio» abbiamo a che fare con le virtù: «Si diede il nome di virtù a tutte le azioni, che riguardavano interesse degli altri, o a quella preferenza del bene altrui sopra il proprio» (p. 7). Le virtù debbono essere premiate: «Essendo la virtù un prodotto non del comando della legge, ma della libera nostra volontà, non ha su di essa la società diritto veruno. La virtù per verun conto non entra nel contratto sociale; e se si lascia senza premio, la società commette un’ingiustizia simile a quella di chi defrauda l’altrui sudore» (pp. 11-12).

Il “premio” dunque è una ricompensa per l’azione che va “oltre” i contratti e le leggi: è una ricompensa ad un atto sostanzialmente di gratuità: «È vero, che tutti i membri dello stato gli debbono i servigi comandati dalle leggi, ma è altresì fuor di dubbio, che i Cittadini debbono esser distinti, e premiati, a proporzione de’ loro servigi gratuiti».

Pagine e idee di grande valore e attualità, che fanno onore alla terra aquilana. Dragonetti scriveva nei suoi testi la parola “Cittadini” sempre con la maiuscola; mentre scrivevo questa nota pensavo ai tanti abruzzesi (e non solo) che in questi giorni stanno mostrando che quella C maiuscola era quanto mai appropriata, oggi non meno di ieri.

Che queste virtù civili, ancora vive in Abruzzo sebbene non sempre adeguatamente riconosciute e premiate, siano il punto di rinascita di quelle nobili terre.

La parola della prossima settimana: Capitale

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Dragonetti. Il pensatore della virtù

pubblicato sul settimanale Vita del 24 aprile 2009

In questa settimana di lutto abbiamo voluto interrompere il ritmo naturale delle parole del nostro abbecedario di economia civile, ed esprimere la nostra solidarietà con la città de L’Aquila ricordando un suo cittadino che è tra gli autori classici dell’economia civile, Giacinto Dragonetti, marchese aquilano, il cui palazzo storico è stato tra quelli danneggiati dal terremoto.

Giacinto Dragonetti è l’autore di un piccolo libro, Delle virtù e de’ premi, che associato al più celebre Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, riscosse un significativo successo nell’Europa dei lumi pre rivoluzionaria. Il libro di Dragonetti ebbe, infatti, una grande circolazione nell’Europa del Settecento. Il libro uscì a Napoli anonimo nel 1766. Fu poi pubblicato in francese (1767), in inglese (1769), in tedesco (1769) e in russo (1769).

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Reciprocità. Lo scambio senza inganni

pubblicato sul settimanale Vita del 17 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione. Questa settimana la voce «Reciprocità».

La reciprocità è probabilmente la norma sociale più rilevante nella vita civile. L’intera dinamica della vita in comune, dal micro al macro, può essere letta come un network di relazioni molto diverse tra di loro, ma che hanno come comun denominatore una qualche norma di reciprocità.

Nel suo significato originario reciprocità proviene dal latino rectus-procus-cum, “ciò che va e che torna vicendevolmente”.

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Le comunità umane - dalla famiglia alla nazione - crescono quando tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle “positive”, quelle cioè che danno vita a cooperazione e sviluppo civile (contratti, mercato, mutualità, amicizia, amore), e quindi quando le forme distruttive o “negative” della reciprocità (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) non prendono il sopravvento.

La reciprocità è di due grandi tipi: la reciprocità diretta e quella indiretta. La reciprocità diretta si presenta con la seguente struttura A verso B; B verso A: una persona (A) dà o fa qualcosa per un’altra (B), e questa risponde verso la stessa persona. Ciò che viene scambiato tra A e B può essere di valore equivalente, e allora siamo nella forma di reciprocità tipica dei contratti, o può essere di valore non equivalente, e allora abbiamo a che fare con altre forme di reciprocità, come l’amicizia, ad esempio.

In ogni caso, però, la risposta di B verso A deve essere considerata da A adeguata (anche se non equivalente), se si vuole che la reciprocità continui nel tempo e si affermi come norma sociale.

La reciprocità è infatti spesso una interazione ripetuta, e l’adeguatezza è condizione necessaria perché il rapporto duri nel tempo, poiché se una delle parti del rapporto si sente sfruttata dall’altra la reciprocità non è sostenibile.

Ci sono però altre forme di reciprocità che sono molto rilevanti per la vita sociale. Sono le forme della reciprocità indiretta.

La struttura della reciprocità indiretta è duplice. La prima è del tipo A verso B verso C: A agisce nei confronti di B, e questa azione di A produce degli effetti nel modo in cui B tratta a sua volta un terzo soggetto C, senza che tra C ed A ci sia stato alcun rapporto diretto.

Nella famiglia tale struttura relazionale è alla base di buona parte del processo educativo, ma molte dinamiche all’interno delle organizzazioni dipendono anche dalla reciprocità indiretta che è alla base della cultura organizzativa che si crea nel tempo e della cooperazione spontanea.

La seconda forma della reciprocità indiretta è invece del tipo: A verso B, C verso A: A agisce in un certo modo verso B e un soggetto esterno, C, che osserva la prima azione di A verso B, viene influenzato nel suo rapporto diretto verso A.

Nella vita  economica più ordinaria, simili dinamiche sono molto importanti. Pensiamo, ad esempio, ad un cliente (C) di un’impresa (A) che legge l’azione che questa fa a favore di un progetto sociale (B) come un mezzo per aumentare i suoi profitti; questo cliente potrebbe anche penalizzare l’azione “sociale” dell’impresa.

Molto del successo di campagne di responsabilità sociale dipende anche da come i vari stakeholders leggono le intenzioni dei protagonisti. Gli esseri umani sono gli unici animali capaci di attribuire un senso alle azioni proprie e degli altri: per questa ragione la reciprocità non si gioca solo sul registro delle azioni, ma anche su quello delle intenzioni. Non ci bastano i fatti “oggettivi”, vogliamo capire il messaggio relazionale e motivazionale che questi incorporano.

La parola della prossima settimana: Capitale

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Reciprocità. Lo scambio senza inganni

pubblicato sul settimanale Vita del 17 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione. Questa settimana la voce «Reciprocità».

La reciprocità è probabilmente la norma sociale più rilevante nella vita civile. L’intera dinamica della vita in comune, dal micro al macro, può essere letta come un network di relazioni molto diverse tra di loro, ma che hanno come comun denominatore una qualche norma di reciprocità.

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ABCDEconomia di Luigino Bruni Reciprocità. Lo scambio senza inganni pubblicato sul settimanale Vita del 17 aprile 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banc...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Organizzazione. Investire sulla differenza

pubblicato sul settimanale Vita del 10 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse. Questa settimana la voce Organizzazione.

La nostra vita si svolge per buona parte all’interno di organizzazioni: famiglia, palestra, associazioni, imprese, supermercati. Un’impresa o un ospedale sono delle istituzioni complesse create e coordinate in vista di un fine (o di più fini), con appositi strutture e strumenti.

Una famiglia o un’associazione sportiva non vengono immediatamente percepite come organizzazioni, perché non è semplice individuare né il fine per cui nascono, né gli strumenti per il loro funzionamento. Va però ricordato, anche perché spesso dimenticato anche dai teorici delle organizzazioni, che la vita sociale non è composta solo da organizzazioni: l’altra metà del cielo è infatti occupata da convenzioni, cioè da azioni complesse che non sono “create” da qualcuno (come un’impresa o una scuola). Il traffico stradale, ad esempio, è un classico esempio di convenzione.

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Nelle organizzazioni la nota dominante è la cooperazione. Nelle convenzioni la cooperazione è molto meno evidente, e non è normalmente intenzionale: chi esce di casa al mattino in auto non ha come fine cooperare con gli altri automobilisti, ma arrivare prima possibile e bene al lavoro: la cooperazione è un fatto in un certo senso oggettivo. Anzi, potremmo dire che una importante differenza tra le organizzazioni (le imprese) e quella grande convenzione-istituzione (non organizzazione) che è il mercato, ha proprio a che fare con il binomio cooperazione-competizione.

Il mercato, si dice, funziona bene quando i soggetti competono tra di loro, mentre l’impresa è essenzialmente cooperazione. O meglio: l’impresa in quanto organizzazione, o nei rapporti interni, è cooperazione; l’impresa, in quanto soggetto del mercato, nei suoi rapporti esterni, è invece competizione. In realtà questa visione, ben consolidata nella teoria, ha delle pecche, sia per l’impresa-organizzazione che per il mercato-convenzione. Innanzitutto anche all’interno delle organizzazioni la competizione è importante: certo, se prevale questa rispetto alla cooperazione le organizzazioni vanno in crisi, ma la competizione va anche letta come cumpetere, cercare insieme. Al tempo stesso, il mercato non può essere letto solo come una faccenda di concorrenza, poiché la dinamica di mercato è anche, e secondo me soprattutto, un’azione cooperativa congiunta.

C’è poi un aspetto che considero particolarmente pericoloso oggi nella teoria, e soprattutto nella prassi, della organizzazione: è quello che potremmo chiamare “riduzionismo”o “isomorfismo” organizzativo. Di che cosa si tratta? È la tendenza a trattare tutte le forme organizzative come realtà sostanzialmente simili. Ovviamente ci sono molte cose in comune tra un’impresa commerciale, una cooperativa e una comunità religiosa, ma una buona teoria organizzativa deve concentrarsi sulle differenze.

Gli esseri umani e gli scimpanzé condividono il 98% del Dna, ma proprio quel 2% è ciò che più conta. La cultura della globalizzazione porta con sé una radicale tendenza alla standardizzazione degli strumenti organizzativi: se non si dà importanza a quel 2% di differenza non riusciamo più a vedere gli elementi decisivi in ogni organizzazione, che si chiamano cultura, identità, valori, missione. L’organizzazione di una cooperativa sociale potrà avere, forse, solo il 2% di diversità rispetto ad un’impresa capitalistica, ma se consulenti e manager le trattano allo stesso modo cancellano secoli di storia,di libertà, di civiltà, e così spesso la portano su sentieri insostenibili.

Una società civile invece cresce bene quando rende possibile la vita a più forme organizzative, rispettandole e favorendole nelle loro specificità e cultura.

La prossima voce di ABCDEconomia è: Reciprocità

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Organizzazione. Investire sulla differenza

pubblicato sul settimanale Vita del 10 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse. Questa settimana la voce Organizzazione.

La nostra vita si svolge per buona parte all’interno di organizzazioni: famiglia, palestra, associazioni, imprese, supermercati. Un’impresa o un ospedale sono delle istituzioni complesse create e coordinate in vista di un fine (o di più fini), con appositi strutture e strumenti.

Una famiglia o un’associazione sportiva non vengono immediatamente percepite come organizzazioni, perché non è semplice individuare né il fine per cui nascono, né gli strumenti per il loro funzionamento. Va però ricordato, anche perché spesso dimenticato anche dai teorici delle organizzazioni, che la vita sociale non è composta solo da organizzazioni: l’altra metà del cielo è infatti occupata da convenzioni, cioè da azioni complesse che non sono “create” da qualcuno (come un’impresa o una scuola). Il traffico stradale, ad esempio, è un classico esempio di convenzione.

ABCDEconomia "O" come "Organizzazione"

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ABCDEconomia "O" come "Organizzazione"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Interesse. Il contrario del tornaconto

pubblicato sul settimanale Vita del 3 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole. Questa settimana Luigino Bruni conclude il ragionamento, iniziato nello scorso numero, su una voce tanto decisiva quanto delicata: la voce Interesse.

Interesse è una parola dal significato ambivalente. In economia per interesse si intendono infatti almeno due realtà diverse. Il primo significato è l’interesse sul denaro, come abbiamo spiegato settimana scorsa.

Fino all’inizio della modernità, il prestito ad interesse era proibito e la ragione principale di questo divieto era di tipo filosofico e teologico: la natura sterile del denaro. Poi, grazie allo sviluppo dei commerci e dei mercati, sul finire del Medioevo quando i prestiti iniziarono ad essere utilizzati per investimenti produttivi, divenne moralmente lecito richiedere sulle somme prestate un interesse, che veniva percepito come una remunerazione per la partecipazione al rischio d’impresa.
ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 2a parte

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C’è poi un secondo significato del termine interesse, che rimanda alle motivazioni delle azioni economiche: normalmente si afferma che si agisce in economia mossi dagli interessi personali, da quello che Adam Smith chiamava il “self-interest”, un’espressione che potremmo tradurre con “tornaconto” personale. Scriveva sul finire dell’Ottocento Maffeo Pantaleoni, uno dei maggiori economisti italiani: ciò che porta «gli spazzini a spazzare le strade, la sarta a fare un abito, il tramviere a fare 12 ore di servizio sul tram, il minatore a scendere nella miniera, l’agente di cambio ad eseguire ordini, il mugnaio a comperare e vendere il grano, il contadino a zappare la terra, etc», è l’interesse economico, e non certamente «l’onore, la dignità, lo spirito di sacrificio, l’attesa di compensi paradisiaci, il patriottismo, l’amore del prossimo, lo spirito di solidarietà, l’imitazione degli antenati e il bene dei posteri».

Pur riconoscendo il realismo di questa tesi del grande economista italiano, dobbiamo anche ricordare che molta parte dell’economia sociale e civile di oggi (e di ieri) ci dice che la ricerca della “dignità”, propria e degli altri, “l’amore per il prossimo” e “lo spirito di solidarietà” possono essere moventi anche per le azioni economiche, sebbene non possono essere l’unico movente: un progetto economico dura nel tempo se oltre a rispondere a interessi generali e al bene comune risponde anche agli interessi e al tornaconto di chi promuove quell’attività e di chi vi lavora. L’interesse personale e il bene comune, la dignità personale e quella degli altri possono e debbono convivere in una buona società. Una società inizia a decadere, anche economicamente, quando si iniziano a vedere in contrapposizione gli interessi individuali e quelli comuni. Oggi nei mercati e nella società non bisogna aver paura di chi ha interessi personali o di chi cerca il proprio tornaconto quando opera nell’economia e nella finanza.

L’economia ha anche la funzione di assicurare alle persone il proprio tornaconto, di metterli in modo di raggiungere i loro interessi: questa è una degna e nobile funzione. Certo, una economia composta da soli cercatori di interessi individuali non può costruire una buona società, ma nessuna società è possibile se le persone non esprimono interesse, se non hanno desideri. L’interesse, infatti, può anche essere declinato come: questa attività “mi interessa”, sono “interessato” ad essa. Il termine opposto o speculare a interesse non è primariamente l’altruismo o benevolenza, ma il “disinteresse”, che confina con “apatia” e “indifferenza”. Cultura è anche saper rideclinare le parole quotidiane: usciremo dalla crisi imparando a interpretare gli interessi come desideri, e a leggere i nostri interessi con gli interessi degli altri.

La settimana prossima con ABCDEconomia la parola “Organizzazione”

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Interesse. Il contrario del tornaconto

pubblicato sul settimanale Vita del 3 aprile 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole. Questa settimana Luigino Bruni conclude il ragionamento, iniziato nello scorso numero, su una voce tanto decisiva quanto delicata: la voce Interesse.

Interesse è una parola dal significato ambivalente. In economia per interesse si intendono infatti almeno due realtà diverse. Il primo significato è l’interesse sul denaro, come abbiamo spiegato settimana scorsa.

Fino all’inizio della modernità, il prestito ad interesse era proibito e la ragione principale di questo divieto era di tipo filosofico e teologico: la natura sterile del denaro. Poi, grazie allo sviluppo dei commerci e dei mercati, sul finire del Medioevo quando i prestiti iniziarono ad essere utilizzati per investimenti produttivi, divenne moralmente lecito richiedere sulle somme prestate un interesse, che veniva percepito come una remunerazione per la partecipazione al rischio d’impresa.
ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 2a parte

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ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 2a puntata

ABCDEconomia di Luigino Bruni Interesse. Il contrario del tornaconto pubblicato sul settimanale Vita del 3 aprile 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le ...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Interesse, quel “di più” ha ragioni fondate

pubblicato sul settimanale Vita del 27 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole. Questa settimana (e la prossima), la voce Interesse.

Interesse è una parola dal significato ambivalente. In economia per interesse si intendono infatti almeno due realtà diverse. Il primo significato che salta alla mente è l’interesse sul denaro. Questo interesse, inteso come compenso per chi consente ad altri l’uso di denaro non proprio (da cui la parola usura), è stato oggetto di dibattiti secolari se non millenari, e ancora oggi ben vivi e civilmente molto rilevanti.
ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 1º Parte

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Fino all’inizio della modernità, il prestito ad interesse era proibito dalle norme morali (religiose), e la ragione principale di questo divieto era di tipo filosofico e teologico: la natura sterile del denaro. Come ben sapevano il Gatto e la Volpe (e come invece ignorava l’ingenuo Pinocchio) il denaro non è in sé fruttifero: lo è solo nel Paese dei barbagianni. Se per seminare prendo in prestito la semente dal vicino di casa, quando avrò il raccolto potrò restituire la semente più gli interessi perché quei 10 semi ne hanno nel frattempo fruttato 100. Col denaro, si pensava, questa moltiplicazione non si verifica, e chiedere un “di più” al momento del rimborso  era considerato un atto immorale.

Teologicamente, poi, si aggiungeva un’altra argomentazione: se presto oggi 100 e domani ne richiedo 101 sto lucrando sul tempo, che è il solo elemento che è cambiato nel frattempo: ma il tempo non è nostro, il tempo è di Dio.

A questo punto domandiamoci: questa condanna dell’interesse era dovuta solo ad una teoria economica primitiva e involuta? Non solo, poiché c’è anche una spiegazione ancora oggi ragionevole, che possiamo intuire quando accostiamo quell’antico divieto a chi considera moralmente ingiusto chiedere un “di più” ad un fratello quando ci restituisce il denaro che gli abbiamo prestato per riparare la casa: nella Christianitas medievale la fraternità era estesa ad ogni fratello cristiano.

Al tempo stesso possiamo capire il superamento di quell’antico divieto se pensiamo alla differenza tra un prestito fatto oggi ad un familiare per riparare la casa e il prestito fattogli per consentirgli di non perdere un buon affare: in questo secondo caso diventa eticamente legittimo chiedere anche ad un famigliare di poter partecipare ad una quota dei futuri profitti (l’interesse). Quando, infatti, grazie allo sviluppo dei commerci e dei mercati, sul finire del Medioevo i prestiti iniziarono normalmente ad essere utilizzati per investimenti produttivi, divenne moralmente lecito richiedere sulle somme prestate ai mercanti un interesse, che veniva percepito come una remunerazione per la partecipazione al rischio d’impresa (un’idea ancora oggi presente anche in esperienze di banca islamica).

Si riuscì (almeno per qualche decennio) a conciliare gli interessi con la fraternità cristiana. Per questa ragione il tasso d’interesse è sempre direttamente collegato al rischio dell’investimento. Una delle ragioni della crisi che stiamo vivendo è stata la sottovalutazione di questa antica verità. C’è poi un secondo significato del termine interesse, che rimanda alle motivazioni delle azioni economiche: normalmente si afferma che si agisce in economia mossi dagli interessi personali, da quello che Adam Smith chiamava il “selfinterest”, un’espressione che potremmo tradurre con “tornaconto” personale. In effetti un progetto economico dura nel tempo se oltre a rispondere a interessi generali e al bene comune risponde anche agli interessi e al tornaconto di chi promuove quell’attività e di chi vi lavora. Ma come possono convivere interesse individuale e interesse collettivo?

Lo vedremo la settimana prossima.

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Interesse, quel “di più” ha ragioni fondate

pubblicato sul settimanale Vita del 27 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole. Questa settimana (e la prossima), la voce Interesse.

Interesse è una parola dal significato ambivalente. In economia per interesse si intendono infatti almeno due realtà diverse. Il primo significato che salta alla mente è l’interesse sul denaro. Questo interesse, inteso come compenso per chi consente ad altri l’uso di denaro non proprio (da cui la parola usura), è stato oggetto di dibattiti secolari se non millenari, e ancora oggi ben vivi e civilmente molto rilevanti.
ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 1º Parte

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ABCDEconomia "I" come "Interesse" - 1a puntata

ABCDEconomia di Luigino Bruni Interesse, quel “di più” ha ragioni fondate pubblicato sul settimanale Vita del 27 marzo 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava vo...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Regole, chiunque le faccia siamo noi ad “abitarle”

pubblicato sul settimanale Vita del 20 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla settimana voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità. Questa settimana, la voce Regole.

Nessun sistema civile potrebbe funzionare senza regole. Il mercato è un momento della vita civile e quindi per ben funzionare richiede regole. Da almeno due secoli, però, si discute su chi deve scrivere le regole e chi farle rispettare. L’idea comune sul rapporto regole/mercato è più o meno la seguente: la politica scrive le regole, i giudici le fanno rispettare, e il mercato le prende per buone e si muove all’interno di queste che considera come un limite alla sua azione.

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A questa idea comune è spesso associata, soprattutto nei media, anche la metafora sportiva e calcistica in particolare: la Figc o il Coni, scrivono le regole del gioco, l’arbitro e i giudici sportivi le fanno rispettare, e i giocatori giocano all’interno di queste regole date. Se ciascuno fa la sua parte, lo sport è attività civile e buona. Da questa prospettiva la politica non è uno dei giocatori in campo, come non lo sono la magistratura e i vari organi e le varie istituzioni preposte a far rispettare e ad implementare le regole.

Oggi, quindi, di fronte alla crisi si evoca facilmente questa semplice metafora: c’è la crisi perché le regole non sono state scritte, o non sono state scritte bene, e quelle poche buone che c’erano non sono state fatte rispettare. E da qui la semplice ricetta per uscire dalla crisi: più presenza della politica nella finanza e nell’economia con regole nuove e più efficaci, più controlli e più attenzione da parte degli arbitri e dei giudici sportivi.

In realtà, come si sarà già intuito, la storia è molto più complessa. Innanzitutto, con la cosiddetta globalizzazione non è più chiaro chi gioca, chi scrive le regole e chi fa l’arbitro. Le grandi imprese, le banche e la finanza, non sono solo “giocatori” all’interno di regole scritte da altri (la politica, ad esempio), ma sono loro stessi generatori di norme: decidono i casi in cui c’è la punizione e il rigore, il fuorigioco e il fallo di mano.

Decidono anche se una sostanza è doping o no, e in alcuni casi affermano che il doping sia addirittura positivo e virtuoso per il mercato (come nel caso degli stipendi dopati dei manager). D’altro canto, la politica non si limita più a fare le regole, ma diventa essa stessa giocatore: oggi sappiamo che i soggetti politici hanno obiettivi privati come quelli economici, vogliono essere rieletti, hanno vincoli di bilancio, di consenso e di debito pubblico, quindi spesso lasciano il loro posto di produttori di regole e scendono in campo a concorrere con gli attori economici.

Le regole non sono mai neutrali, soprattutto nei mercati, e di fatto ogni regola avvantaggia qualcuno e penalizza altri. Le regoledi Basilea II, ad esempio, hanno reso molto difficile la vita a soggetti della società civile che chiedevano un finanziamento ad una banca, poiché molti titoli tossici risultavano, applicando quelle regole, più sicuri di una parrocchia o di una cooperativa sociale.

Per queste ragioni c’è sempre più chi sostiene che le sole regole buone sono solo quelle che nascono dal “basso”, dall’autoregolazione del mondo delle imprese. Questo dibattito è particolarmente acceso nel caso della responsabilità sociale d’impresa dove ci sono molti che sostengono che tutte le regole etiche dovrebbero essere adottate liberamente solo da chi lo vuole, e sarà poi la “vecchia” concorrenza di mercato a “costringere” le imprese ad essere responsabili, altrimenti i clienti le puniscono.

Come stanno allora le cose? In primo luogo, dobbiamo certamente usare metafore più sofisticate e complesse per intuire i meccanismi dell’economia e della finanza globalizzata: non è sufficiente pensare al mercato come ad un campionato di calcio, né alla politica come l’unico soggetto custode delle regole e del bene comune. Dobbiamo riconoscere che oggi le regole dell’economia le scrivono (o spesso non le scrivono) più soggetti e più agenzie, compreso il mercato e la società civile. In un mondo che si muove in tempo reale, i tempi delle della politica sono diventati troppo lenti per l’economia, e le regole arrivano troppo spesso quando quel fenomeno da regolare è già cambiato e diventato altro. Inoltre, le regole debbono sempre più essere pensate in modo globale. In una economia e in una finanza che hanno perso il rapporto con il territorio (al quale le regole tradizionali erano legate: si pensi alle tasse), se un Paese regolamenta in modo severo la finanza, le imprese e le banche spostano le sedi legali altrove: fin quando esisteranno sedi legali di imprese (che magari pubblicano splendidi social reports) nei paradisi fiscali (anche europei), è solo ingenuo parlare di nuova governance dell’economia e della finanza.

Infine, anche in un approccio plurale alla regolamentazione dobbiamo riconoscere che esistono ambiti della vita civile - tra cui la finanza - dove l’informazione è asimmetrica, e esistono incentivi per chi sa di più ad approfittare di chi sa di meno. In questi settori regole più efficaci e maggiore attenzione da parte delle istituzioni economiche civili ed economiche sono molto opportune. Resta comunque ancora più vero che sono i cittadini adulti che oggi debbono riprendersi intere fette di libertà, di democrazia e di civiltà che per troppo tempo hanno delegato alla politica e ai controllori, pensando che questi fossero animati dal bene comune. Indipendentemente da chi sia il “produttore” delle regole (parlamento, governo, agenzia o una norma di autoregolamentazione), come cittadini dobbiamo “abitare” i luoghi dell’economia e della finanza, riappropriandoci della nostra cittadinanza attiva. I primi ad avere interessi legittimi perché le regole siano applicate, da qualunque parte provengano, sono i cittadini.

Questa crisi ci dice anche che siamo stati troppo a lungo distratti, pensando che arbitri imparziali vegliassero sui nostri risparmi e acquisti. Dalla paura e dalla incertezza di questi tempi non si esce con Leviatani hobbesiani o solo con sanzioni più severe; anzi, queste minacce autoritarie finiscono per aumentare la sfiducia reciproca, e minacciano la libertà e la democrazia. La prima regola dell’economia oggi si chiama partecipazione.

La prossima settimana "Interesse"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Regole, chiunque le faccia siamo noi ad “abitarle”

pubblicato sul settimanale Vita del 20 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla settimana voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità. Questa settimana, la voce Regole.

Nessun sistema civile potrebbe funzionare senza regole. Il mercato è un momento della vita civile e quindi per ben funzionare richiede regole. Da almeno due secoli, però, si discute su chi deve scrivere le regole e chi farle rispettare. L’idea comune sul rapporto regole/mercato è più o meno la seguente: la politica scrive le regole, i giudici le fanno rispettare, e il mercato le prende per buone e si muove all’interno di queste che considera come un limite alla sua azione.

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ABCDEconomia "R" come "Regole"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Regole, chiunque le faccia siamo noi ad “abitarle” pubblicato sul settimanale Vita del 20 marzo 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla set...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Responsabilità, persone più che procedure

pubblicato sul settimanale Vita del 13 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla sesta voce: Responsabilità. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento.

Responsabilità deriva da rispondere: essere responsabili significa infatti rispondere, offrire ragioni, quando si è interpellati da qualcuno. Una persona o un’impresa è irresponsabile quando non offre ragioni, buone ragioni, per le sue azioni. La cultura dominante dell’impresa e dell’economia è, per tradizione, irresponsabile, poiché la logica sulla quale si è costruita la logica del mercato e della concorrenza nell’ultimo secolo, soprattutto nel mondo anglosassone, è stata basata su quello che A. Hirschman ha chiamato “exit” (l’uscita).
icon ABCDEconomia "R" come "Responsabilità"

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Nella sfera politica la gente protesta e vuole risposte (perché l’uscita è difficile e molto costosa), ma nella sfera economica dove invece si può uscire cambiando impresa, non ha senso protestare.
In altre parole, nel mercato se non mi piace un prodotto o un servizio ho solo un modo per protestare: cambiare impresa.

In realtà sappiamo che negli ultimi anni il confine tra politica ed economia è sempre più sfumato, e i cittadini protestano anche nel mercato, chiedono “buone ragioni” alle imprese per le loro azioni. Potremmo definire un cittadino responsabile qualcuno che prima di uscire (cambiare impresa) protesta per cercare di ottenere un cambiamento dall’impresa, votando, come si dice, “con i piedi”. Questo bisogno di chiedere e di protestare anche nei mercati rappresenta un’anomalia o un fatto davvero nuovo nel nostro modello di sviluppo.

Infatti, nei decenni passati, anche la crescita della grande distribuzione è stata la conseguenza di questa stessa cultura dell’anonimato. Il dogma del consumismo del XX secolo, o del capitalismo di seconda generazione, era il seguente: meno relazioni personali, meno prossimità nel consumo, più efficiente è il sistema economico, più soddisfatti i cittadini. La crisi che viviamo è anche la crisi di questa cultura del mercato.

Se guardiamo bene nelle pieghe della nostra società, ci accorgiamo che si sta sviluppando un fenomeno generale che va in direzione opposta. Mi riferisco alla tendenza ad “accorciare la filiera dei prodotti”, a ridurre la distanza tra produttore e consumatore, a personalizzare gli incontri economici. C’è, in altre parole, una richiesta di maggiore responsabilità, e una reazione contro la prassi irresponsabile, molto diffusa nel nostro Paese, di rinviare le risposte, quando si è interrogati per un problema, a qualcun altro, che è sempre assente, lontano, anonimo e quindi irraggiungibile. Ciò che oggi sta avvenendo in particolare nel campo alimentare sta dicendo che il “grande, anonimo e lontano” non funziona più.

La mia previsione è che la tendenza ad “accorciare le distanze” si estenderà dai beni alimentari a tanti altri settori: nel turismo, nell’arte, nella ristorazione, nei servizi di cura è già evidente. Anche la nuova alleanza tra imprese e banche, economia e società dovrà dunque tener conto di questa esigenza di “riduzione delle distanze”: in questi mesi ci stiamo infatti accorgendo che non solo la qualità del cibo è importante per una vita buona e sana; anche pensioni, risparmi, mutui, sono importanti per una vita individuale e sociale sana. Ci si avvelena con cibo inquinato, ma anche con mutui tossici. Quando l’anonimato diventa sistema si inizia ad uscire dal territorio dell’umano. La responsabilità sociale delle imprese non si gioca sugli “strumenti” (bilanci sociali, codici etici…), ma soprattutto e principalmente sulle persone. Per uscire da questa crisi c’è bisogno di una nuova alleanza basata sulla responsabilità.

Sarà solo un’alleanza di persone, tra persone, per le persone che potrà creare le basi per una nuova economia.

La settimana prossima Luigino Bruni analizzerà la voce "Regole"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Responsabilità, persone più che procedure

pubblicato sul settimanale Vita del 13 marzo 2009

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla sesta voce: Responsabilità. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento.

Responsabilità deriva da rispondere: essere responsabili significa infatti rispondere, offrire ragioni, quando si è interpellati da qualcuno. Una persona o un’impresa è irresponsabile quando non offre ragioni, buone ragioni, per le sue azioni. La cultura dominante dell’impresa e dell’economia è, per tradizione, irresponsabile, poiché la logica sulla quale si è costruita la logica del mercato e della concorrenza nell’ultimo secolo, soprattutto nel mondo anglosassone, è stata basata su quello che A. Hirschman ha chiamato “exit” (l’uscita).
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ABCDEconomia "R" come Responsabilità

ABCDEconomia di Luigino Bruni Responsabilità, persone più che procedure pubblicato sul settimanale Vita del 13 marzo 2009 Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato alla sesta voce:...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Investe bene chi spera tanto

pubblicato sul settimanale Vita del 6 marzo 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, e ora Investimento.

In una delle prime lezioni di economia si spiega agli studenti che la spesa (da cui dipende Pil e sviluppo) è composta da consumi e investimenti. Si spende consumando beni e servizi ma anche, e soprattutto, investendo. Questa prima lezione di economia dovrebbe essere oggi ricordata a chi per sostenere l’economia invita a consumare: si sostiene l’economia anche, e soprattutto, con gli investimenti.
icon ABCDEconomia "I" come Investimento

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L’investimento è atto tipico dell’imprenditore, anche se non esclusivo di questi: si pensi all’investimento in capitale umano, in istruzione, da parte dei privati cittadini, o agli investimenti pubblici, elemento co-essenziale di ogni buona economia.
Tutti possono consumare e molti risparmiare, ma per gli investimenti, in una economia di mercato, occorrono principalmente imprenditori.

L’investimento è una spesa che non ha come scopo soddisfare un bisogno (come nel caso del consumo), poiché il suo obiettivo è invece la creazione di ricchezza futura che poi a sua volta soddisfarà altri bisogni futuri, propri e di altri. L’investimento è perciò un propagatore di ricchezza, uno strumento per redistribuire ricchezza, che in una società di sole rendite e solo consumi resta bloccata nelle mani delle stesse persone. Ma qual è il senso e la natura dell’investimento? Quando un imprenditore acquista nuova tecnologia, costruisce un capannone, assume nuovi lavoratori o fa ricerca sta dicendo a se stesso e alla società civile: «Io credo nel futuro, ho speranza».

Un atto d’investimento, infatti, è sostanzialmente un atto di speranza, di fiducia che «l’avvenire sarà migliore del passato » (per usare una bella espressione del teologo Teilhard de Chardin). Chi investerinuncia ad un consumo di risorse disponibili oggi, si indebita con le banche e/o con le famiglie, perché ha speranza, ha buone aspettative che domani questa scelta porterà frutti.

Da che cosa dipende, allora, l’ammontare degli investimenti (e quindi dell’innovazione, della ricerca, dello sviluppo) in una data economia? Certamente dal costo del denaro, ma, come ci ha mostrato soprattutto Keynes negli anni 30, l’investimento dipende soprattutto dalle aspettative degli imprenditori, dalla loro lettura e interpretazione del mondo.

Ecco perché un Paese con imprenditori pessimisti e cinici non investe, anche quando il tasso d’interesse fosse molto basso (come oggi), proprio perché manca la speranza nel futuro.

Oggi l’economia, per uscire rigenerata da questa crisi, ha bisogno soprattutto di imprenditori capaci di immaginare un futuro migliore; ha bisogno della grande virtù della speranza.

La speranza è infatti una virtù perché richiede la forza morale di non soccombere di fronte alle prove e andare avanti. Senza speranza c’è solo consumo, consumismo e depressione. Ma la speranza, virtù anche economica, non nasce e non si rigenera dentro l’economia, nei mercati. Essa nasce e si alimenta nella società civile e nella vita della polis.

Per questo l’economia ha oggi un urgente bisogno di imprenditori che investono perché ritrovano ragioni per sperare ancora, ma queste ragioni sono sempre più grandi della sola economia. La politica serve l’economia non tanto sostenendo i consumi, ma accompagnando gli imprenditori nell’opera di costruzione e di ricostruzione di scenari di speranza, nei quali gli investimenti sono immaginabili e possibili. E così, e solo così, uscire dalla crisi.

La settimana prossima Luigino Bruni analizzerà la parola "Responsabilità"

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Investe bene chi spera tanto

pubblicato sul settimanale Vita del 6 marzo 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, e ora Investimento.

In una delle prime lezioni di economia si spiega agli studenti che la spesa (da cui dipende Pil e sviluppo) è composta da consumi e investimenti. Si spende consumando beni e servizi ma anche, e soprattutto, investendo. Questa prima lezione di economia dovrebbe essere oggi ricordata a chi per sostenere l’economia invita a consumare: si sostiene l’economia anche, e soprattutto, con gli investimenti.
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ABCDEconomia "I" come "Investimento"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Investe bene chi spera tanto pubblicato sul settimanale Vita del 6 marzo 2009 Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già analizzate: Felicità...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Cara banca, re-impara qual è il tuo mestiere

pubblicato sul settimanale Vita del 27 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato. E ora Banca.

L'economia è nata con l’uomo, poiché anche nella preistoria i poneva un problema economico tutte le volte che sistevano risorse scarse. E con l’economia è nato anche il risparmio, a rinuncia, cioè, ad un consumo corrente per un consumo futuro.

La banca, invece, è un’invenzione tutto sommato recente, poiché risale al Medioevo, anche se attività di eposito e prestito sono esistite fin dall’antichità. Il risparmio  la banca sono infatti due concetti logicamente e storicamente distinti e autonomi: si può risparmiare anche senza banca, ome ci ha insegnato soprattutto J. Keynes.
icon ABCDEconomia "B" come "Banca"

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La banca nasce con lo sviluppo dei mercati, quando iniziò crescere la domanda di denaro da parte di mercanti che vevano progetti imprenditoriali ma non le risorse finanziarie ecessarie.

In quelle prime banche era chiara la distinzione tra prestito per l’investimento (o ai mercati) e il prestito al consumo alle famiglie): mentre dall’Umanismo in poi nessuno metteva seriamente in dubbio che il prestito all’imprenditore oveva essere accompagnato da un tasso di interesse, molti invece negavano che l’interesse dovesse essere pagato anche in caso di prestito al consumo delle famiglie.

Perché? La ragione semplice: quando si presta ad un imprenditore quel prestito ha in sé le premesse di futuri frutti. Quando invece si accede al restito per consumare beni di prima necessità, quel consumo "distrugge” ricchezza, non è fruttifero. Ecco perché l’unico interesse che i Monti di Pietà chiedevano alle famiglie bisognose era di fatto una partecipazione ai costi di esercizio della banca:  in termini attuali, quelle banche erano istituzioni non profit.

Ma se guardiamo bene la natura della banca potremmo arrivare ad affermare, e senza neanche troppe forzature, che la sua natura normale non dovrebbe essere la ricerca del profitto, per il semplice fatto che essa amministra e rischia risorse che non sono sue. La banca è per natura un’impresa civile, il cui scopo è molto più grande del profitto. Ecco perché un settore bancario che genera alti profitti denuncia una patologia. La crisi attuale infatti ci sta dicendo due cose fondamentali. La prima, è che il sistema di incentivi e di ricompense è sbagliato: il mercato finanziario ha remunerato troppo chi assumeva alti rischi (con soldi non propri). In secondo luogo, abbiamo assistito con troppa indifferenza al processo di trasformazione delle banche da istituzioni civili a speculatori. La banca è troppo importante per essere lasciata in mano ai cercatori di profitto.

Occorre ri-civilizzare il sistema bancario per rilanciare l’intero patto sociale che tiene assieme le nostre società complesse.

La Settimana prossima Luigino Bruni affronterà la parola “Interesse”

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Cara banca, re-impara qual è il tuo mestiere

pubblicato sul settimanale Vita del 27 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già analizzate: Felicità, Profitto, Mercato. E ora Banca.

L'economia è nata con l’uomo, poiché anche nella preistoria i poneva un problema economico tutte le volte che sistevano risorse scarse. E con l’economia è nato anche il risparmio, a rinuncia, cioè, ad un consumo corrente per un consumo futuro.

La banca, invece, è un’invenzione tutto sommato recente, poiché risale al Medioevo, anche se attività di eposito e prestito sono esistite fin dall’antichità. Il risparmio  la banca sono infatti due concetti logicamente e storicamente distinti e autonomi: si può risparmiare anche senza banca, ome ci ha insegnato soprattutto J. Keynes.
icon ABCDEconomia "B" come "Banca"

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ABCDEconomia "B" come "Banca"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Cara banca, re-impara qual è il tuo mestiere pubblicato sul settimanale Vita del 27 febbraio 2009 Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Le parole già ...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Da economia di mercato a società di mercato

pubblicato sul settimanale Vita del 20 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settimana scorsa era toccato a «Profitto».

La parola mercato racchiude in sé una pluralità di significati. Originariamente, il mercato era il luogo fisico dove avvenivano gli scambi: l’agorà greca, il foro romano, la piazza medioevale, le fiere. Nella civiltà tradizionale il mercato occupava, ed in alcune regioni del globo lo occupa ancora, uno spazio limitato, seppure importante, nella vita civile.
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Per tutti gli altri giorni non era il mercato basato su prezzi e moneta la principale istituzione che regolava la produzione e l’allocazione delle risorse, ma questa funzione era svolta principalmente dall’autoproduzione e dalla redistribuzione di ricchezza.

Questa economia non di mercato ha ceduto il passo all’economia di mercato, un processo che ha subìto una forte accelerazione negli ultimi due secoli, quando il mercato è diventato la principale istituzione per allocare le risorse nella società.
Il sistema dei prezzi è ciò che più si “vede” del meccanismo di mercato, ed è ciò garantisce che le risorse vengano prodotte e allocate. Senza questo meccanismo, decidere che cosa e quanto produrre è estremamente complesso.

Oggi l’economia di mercatosi sta trasformando in società di mercato: qual è la differenza?
In una economia dove esistono i mercati ma che non è una economia di mercato, il mercatoè una istituzione che si affianca, in alcuni momenti e luoghi, ad altre istituzioni economiche, come la famiglia, il clan, la Chiesa, la corte, lo Stato.

Sono queste istituzioni che gestiscono primariamente la vita economica, e civile. Con l’avvento dell’economia di mercato è quest’ultimo ad occupare il centro dell’ambito economico, ma le altre istituzioni (famiglia, comunità...) continuano a restare centrali nelle altre sfere o ambiti della vita sociale.

Quando invece si entra in una società di mercato i meccanismi economici (prezzi, contratti…) gestiscono non solo l’economia ma l’intera vita civile, che inizia ad essere letta come una serie di contratti, di interessi, di scambi mutuamente vantaggiosi.

Senza una economia di mercato non sono garantite libertà e uguaglianza, poiché prendono il sopravvento sistemi gerarchici e feudali. Quando però diamo vita ad una società di mercato è la fraternità che viene alla lunga negata, poiché nella società vi sono cittadini che non sono raggiunti dai contratti perché non sono portatori di interessi (stakeholders) ma solo portatori di bisogni (needholders).

E senza fraternità neanche l’uguaglianza e la libertà, grandi conquiste dell’economia di mercato, riescono a svilupparsi in pienezza e a fiorire in vita buona. (3.continua)

La Settimana prossima la quarta parola: BANCHE

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Da economia di mercato a società di mercato

pubblicato sul settimanale Vita del 20 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settimana scorsa era toccato a «Profitto».

La parola mercato racchiude in sé una pluralità di significati. Originariamente, il mercato era il luogo fisico dove avvenivano gli scambi: l’agorà greca, il foro romano, la piazza medioevale, le fiere. Nella civiltà tradizionale il mercato occupava, ed in alcune regioni del globo lo occupa ancora, uno spazio limitato, seppure importante, nella vita civile.
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ABCDEconomia "M" come "Mercato"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Da economia di mercato a società di mercato pubblicato sul settimanale Vita del 20 febbraio 2009 Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settimana scors...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Benedetto sia il profitto (se non è lo scopo)

pubblicato sul settimanale Vita del 13 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settimana scorsa ABCDEconomia era iniziato con la parola «Felicità».

La natura del profitto è stata da sempre al centro della teoria economica classica. Per Smith il profitto era la remunerazione del capitale, per Marx era sfruttamento e, nel Novecento, per Schumpeter era il premio dell’innovazione.
Di questi antichi dibattiti oggi non c’è più alcuna traccia nei manuali di teoria economica. Se infatti li apriamo, leggiamo alle prime pagine che lo “scopo” dell’impresa è la massimizzazione del profitto, un profitto che viene dato per ovvio, scontato, e non discusso. Il profitto è diventato dunque lo scopo dell’azione dell’imprenditore, sotto vari vincoli (sindacati, etica, tasse,…).
icon ABCDEconomia - "P" come "Profitto"

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Poi in alcuni (pochi in realtà) di questi manuali, leggiamo, spesso in nota, che esistono altre imprese “non profit” che invece hanno altri scopi, diversi dal profitto. Sono convinto che una tale visione, tipica della tradizione statunitense, e distante da quella italiana e in un certo senso anche da quella europea, sia una delle tesi più fuorvianti, pericolose e sbagliate del pensiero economico corrente.

I libri di economia di qualche decennio fa affermavano che chi ha come scopo il profitto non è l’imprenditore, ma un’altra figura: lo speculatore. È lo speculatore, infatti, che svolge una data attività economica strumentalmente con lo scopo di far profitto. Per un tale soggetto produrre scarpe, pomodori, violini o libri è tutto sommato irrilevante: l’importante è che portino soldi. L’imprenditore, invece, (ce lo diceva ad esempio Luigi Einaudi) non ha come scopo il profitto, ma un progetto, un’impresa, appunto.

Per l’imprenditore il profitto è essenzialmente un segnale che l’impresa, il suo progetto, sta crescendo bene. Il profitto, infatti, è solo la punta dell’iceberg della ricchezza o del valore aggiunto creato da un imprenditore: beni e servizi, posti di lavoro sono componenti co-essenziali della ricchezza prodotta da un’impresa. Il profitto poi, e questo ce lo dice ancora la buona teoria economica, tende ad annullarsi se il mercato funziona bene. Certo, l’impresa che non produce ricchezza o valore aggiunto non contribuisce al bene comune, ma, ripeto, il profitto è troppo poco per essere lo scopo di un’impresa, perché non basta per spendere una vita in un progetto.

E quando lo scopo diventa davvero il profitto è tutta l’economia e la società che si impoverisce, perché ogni attività economica diventa solo strumentale senza un valore intrinseco. Sono infatti convinto che un’economia e un sistema economico che vedano un’impresa come una macchina per far profitti tendono a depauperare la vita in comune perché riducono lo spazio delle passioni umane, della vita (si ricordi che l’economia è vita). La storia ci ha insegnato che le civiltà avanzano quando gli imprenditori prevalgono sugli speculatori, regrediscono quando accade il contrario: non è forse ciò che ci sta dicendo questa crisi?

La settimana prossima la terza parola: MERCATO

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Benedetto sia il profitto (se non è lo scopo)

pubblicato sul settimanale Vita del 13 febbraio 2009

Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settimana scorsa ABCDEconomia era iniziato con la parola «Felicità».

La natura del profitto è stata da sempre al centro della teoria economica classica. Per Smith il profitto era la remunerazione del capitale, per Marx era sfruttamento e, nel Novecento, per Schumpeter era il premio dell’innovazione.
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ABCDEconomia "P" come "Profitto"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Benedetto sia il profitto (se non è lo scopo) pubblicato sul settimanale Vita del 13 febbraio 2009 Prosegue il dizionario di Luigino Bruni: una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Settiman...
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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Quella scienza fondata sui numeri e sulla felicità

pubblicato sul settimanale Vita del 6 febbraio 2009

La grande crisi ha mandato in tilt tutti i punti fermi abituali dell’economia.
Per questo Vita ha chiesto a Luigino Bruni, docente all’università Milano Bicocca di pensare un dizionario per le categorie chiave dell’economia che verrà.
Si comincia dalla F: di “felicità (pubblica)”.

L'economia nasce nel Settecento italiano come «scienza della pubblica felicità». La scelta di questo bel titolo per la nascente nuova scienza era espressione di una speranza, tutta illuministica e riformatrice, che se si fosse riusciti a trasformare la società feudale in una società libera e commerciale, il Regno di Napoli (dove nascono queste idee), l’Italia e l’Europa avrebbero finalmente conosciuto una nuova stagione di vita buona, di benessere, di civiltà, di felicità, di pubblica felicità.

icon ABCDEconomia - F come Felicità

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L’aggettivo “pubblica” diceva poi qualcosa di importante: la felicità è legata al bene comune, o si è felici tutti in una nazione o non lo è nessuno, poiché la felicità di un popolo è un gioco di “coordinamento”:o si coopera tutti (o la quasi totalità) e allora lo sviluppo civile ed economico decolla; oppure se qualcuno fa il “birbo” (come si esprimeva Antonio Genovesi) restiamo tutti bloccati in varie trappole di povertà.
La stagione della pubblica felicità fu breve in Europa, al punto che Saint Just, il rivoluzionario di Parigi, a fine Settecento affermava che la felicità era in Europa una “parola nuova”, poiché tra la metà del Settecento e la fine, i riformatori illuministi si accorsero che i “birbi” erano tanti, e che la felicità pubblica era un obiettivo troppo ambizioso da raggiungere. Allora negli Usa si scelse il diritto individuale «alla ricerca della felicità », come è scritto nella loro Dichiarazione di indipendenza del 1776, e in Inghilterra, in quello stesso anno, Adam Smith rifondava l’economia politica sulla “ricchezza delle nazioni”, concetto sempre importante e essenziale per un popolo, ma che rispetto alla pubblica felicità è molto meno esigente: basta la ricerca del proprio interesse individuale e la ricchezza pubblica la crea la “mano invisibile” del mercato, senza il bisogno che si entri in rapporti personali e profondi con gli altri concittadini -
elemento invece fondamentale nell’economia civile napoletana, basata sul concetto di “mutua assistenza”.
Così la pubblica felicità è stata presente solo nell’aurora dell’Europa moderna, un’aurora che ancora attende il mezzodì. Oggi la felicità sta tornando di nuovo tra gli economisti, e vi sta tornando come “felicità individuale”. Esiste però anche una
scuola di economisti, non a caso italiani, che sta riportando all’interno del dibattito teorico e di policy il tema della pubblica felicità, abbinando al tema della felicità quello delle relazioni umane (i “beni relazionali”). Oggi, come ieri, la pubblica felicità è un tema fragile perché esposto al rischio di chi vuol fare il “birbo”. Ma occorre osarlo, poiché non possiamo accontentarci della più “semplice” ricchezza (quando c’è e per pochi).
Senza una dimensione pubblica, senza un’appartenenza ad un destino comune, i popoli, le città decadono. Ecco perché quell’antica felicità “pubblica” è una parola vitale anche per l’oggi.

La prossima settimana, “P” come Profitto

 

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ABCDEconomia di Luigino Bruni

Quella scienza fondata sui numeri e sulla felicità

pubblicato sul settimanale Vita del 6 febbraio 2009

La grande crisi ha mandato in tilt tutti i punti fermi abituali dell’economia.
Per questo Vita ha chiesto a Luigino Bruni, docente all’università Milano Bicocca di pensare un dizionario per le categorie chiave dell’economia che verrà.
Si comincia dalla F: di “felicità (pubblica)”.

L'economia nasce nel Settecento italiano come «scienza della pubblica felicità». La scelta di questo bel titolo per la nascente nuova scienza era espressione di una speranza, tutta illuministica e riformatrice, che se si fosse riusciti a trasformare la società feudale in una società libera e commerciale, il Regno di Napoli (dove nascono queste idee), l’Italia e l’Europa avrebbero finalmente conosciuto una nuova stagione di vita buona, di benessere, di civiltà, di felicità, di pubblica felicità.

icon ABCDEconomia - F come Felicità

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ABCDEconomia - "F" come "Felicità (pubblica)"

ABCDEconomia di Luigino Bruni Quella scienza fondata sui numeri e sulla felicità pubblicato sul settimanale Vita del 6 febbraio 2009 La grande crisi ha mandato in tilt tutti i punti fermi abituali dell’economia. Per questo Vita ha chiesto a Luigino Bruni, docente all’università Milano Bicocca di...