Oikonomia

Il nuovo lessico del ben vivere sociale

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Capitali - Lessico del ben vivere sociale/6

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 03/11/2013 

Logo nuovo lessicoStanno aumentando le povertà “cattive” e diminuendo quelle “buone”. Ci stiamo impoverendo velocemente e male perché ildeterioramento dei nostri capitali civili, educativi, relazionali, spirituali, pubblici ha superato un punto critico, innescando una reazione a catena. Il nostro è un declino capitale. Le povertà che oggi sappiamo misurare si manifestano come carestie di flussi (lavoro, reddito), ma in realtà sono l’espressione di processi “in conto capitale” molto più profondi e di lungo periodo, che dipendono poco dalla crisi finanziaria del 2007-08, o dalle politiche della Germania – i nostri soliti, e ormai stucchevoli, alibi, che eclissano le vere ragioni di quanto di serio ci sta accadendo.

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Sono ormai in tanti a denunciare che dietro il nostro declino ci sono la carenza e il deterioramento di capitali produttivi, tecnologici, ambientali, infrastrutturali, istituzionali. Verità sacrosanta. Non si dice, però, che la crisi di questi capitali cruciali per lo sviluppo economico dipende in massima parte dall’aver consumato forme di capitali più fondamentali (morali, civili, spirituali), quelli che hanno generato economia, industria, civiltà. L’industria, e prima le culture contadine, marinare, artigiane dell’Europa, sono state generate da un intero umanesimo, un processo durato secoli, millenni.

La nostra rivoluzione economica, e quindi civile, non nacque dal nulla, ma fu la fioritura di un albero secolare, con radici profonde e fecondissime. Non dobbiamo dimenticare che le nostre buone classi imprenditoriali sono state l’evoluzione di decine di migliaia di mezzadri, di contadini, di artigiani che già proto-imprenditori lo divennero in modo nuovo e su più vasta scala. Come non dovremmo dimenticare che ci furono altri elementi decisivi per i nostri “miracoli” economici e civili: l’istruzione obbligatoria, l’emigrazione interna, e un “consumo” enorme, quasi infinito, di lavoro relazionale e domestico femminile non remunerato, che non entrava nei costi aziendali, ma che di certo aumentava i ricavi e i profitti di quelle imprese. Dovremmo poi, ogni tanto, ricordare che dietro la “questione meridionale”, ancora aperta e a tratti tragica (basta guardare i dati sulla disoccupazione o sull’abbandono scolastico), ci sono precise scelte politiche relative ai tipi di capitali su cui investire. Si pensò, e si pensa ancora, che fossero cruciali i capitali industriali e finanziari (la Cassa del Mezzogiorno); ma non facemmo abbastanza per diffondere in quelle regioni le cooperative o le casse rurali. Portare la fabbrica era senz’altro una via di civilizzazione (portarvi, più tardi, i rifiuti tossici no); ma assieme a questi capitali sarebbe stata necessaria una grande azione politica di sviluppo di cultura e prassi cooperative, che avrebbe consentito lo sviluppo di capitali civili. Non credo che i siciliani abbiano un’antropologia diversa dei trentini, e che quindi siano per natura culturale incapaci di cooperare (o capaci soltanto di cooperazione sbagliate); ho sempre pensato, invece, che mentre tra Otto e Novecento i parroci, i politici, i sindacalisti del Trentino davano vita a casse rurali, a cooperative e a centrali cooperative, i loro colleghi del Sud facevano altro (complice la politica nazionale), e soprattutto facevano in modo che alcune grandi e luminose figure (come quella di don Luigi Sturzo) restassero stelle chiare di un’alba che non divenne giorno.

I flussi economici nascono prima da capitali morali e civili, che diventano poi capitali industriali, e quindi lavoro, reddito, ricchezza. Proviamo ad immaginare come sarebbe oggi l’Italia, e in un certo senso l’Europa del Sud, se nel Novecento i grandi partiti, la politica nazionale, la stessa Chiesa avessero profuso il massimo impegno anche per la diffusione capillare nel Sud del movimento cooperativo nel consumo, nel credito, nell’agricoltura, accompagnato da programmi scolastici e di apprendistato adeguati. Alla storia servono poco i “se” e i “ma”, ma al presente servono, e molto. Se ripartiremo, la leva per risollevarci sarà poggiata nel Sud, dove giacciono troppe potenzialità, anche economiche, ancora inespresse, troppe ferite civili che aspettano di diventare benedizioni.

C’è un’altra forma decisiva di capitale in rapido deterioramento. L’economia di mercato nel Novecento è stata generata anche da un grande patrimonio spirituale ed etico fatto da milioni di donne e di uomini educati e abituati alla sofferenza, al travaglio del lavoro, alle carestie della vita e della storia, alle guerre, persone capaci di fortezza e di resilienza di fronte alle ferite buone e cattive. Un’immensa energia spirituale e civile che era cresciuta e maturata nei secoli da un terreno fecondato dalla pietà cristiana, dalla fede semplice ma vera del popolo, e anche dalle ideologie, che erano state spesso capaci di offrire un orizzonte più grande dell’asprezza del quotidiano. C’era anche questo “spirito” popolare dentro il nostro capitalismo buono. Il capitale spirituale della persona, e quindi delle famiglie, delle comunità, delle scuole, delle imprese, è sempre stato la prima forma della ricchezza delle nazioni. Una persona, o un popolo, continua a vivere e non implode durante le crisi finché ha capitali spirituali cui attingere. Non muore finché nei tempi della notte sa andare dentro l’anima propria e del mondo e trovarci qualcosa, qualcuno, cui aggrapparsi per ricominciare. Non si riesce a dar vita a un’impresa, a trovare le risorse morali di avventurarsi in cammini rischiosi per sé e per gli altri, a convivere con le sospensioni, con le avversità e la sventura di cui è composta la vita imprenditoriale, senza capitali spirituali personali e comunitari. Quali capitali spirituali, antichi e nuovi, stiamo donando, creando nelle nuove generazioni? Stiamo dotando i giovani, e tutti noi, di risorse spirituali per le tappe cruciali dell’esistenza? Quando abbassano gli occhi dentro, vi trovano qualcosa capace di far rialzare lo sguardo? Se non troviamo una nuova-antica fondazione spirituale dell’Occidente, la depressione sarà la peste del XXI secolo. I segnali di fragilità dell’attuale generazione di giovani-adulti dicono molto, dovremmo solo ascoltarli di più.

È allora un’esigenza primaria di Bene comune riuscire a dare vita a una nuova stagione di alfabetizzazione spirituale delle masse, con tutti i mezzi (compreso il web), e in tutti i luoghi (compresi i mercati, le piazze, le imprese). La domanda di questo “bene”, ancora in buona parte latente e potenziale, è immensa. Ma occorre saperla ritracciare proprio nel vuoto di spiritualità che (sembra) dominare la nostra era – fare come quell’imprenditore di calzature che di fronte al report sconsolato ("Qui sono tutti scalzi") dell’agente inviato in un Paese lontano, esclamò: "Ci si apre un mercato immenso". Siamo di fronte a un passaggio decisivo, questo sì davvero epocale: se la domanda di beni spirituali non incontrerà una nuova “offerta” da parte delle grandi e millenarie tradizioni religiose, che hanno patrimoni fecondi capaci di produrre nuovi beni spirituali donati oggi con nuovi linguaggi vitali e comprensibili, sarà il mercato a offrire e vendere spiritualità, trasformandola in merci (sta già accadendo: vedi il moltiplicarsi dei settari cialtroni for-profit). E il rimedio sarà stato peggiore del male.

Dobbiamo investire in capitali spirituali e morali, e fare una manutenzione straordinaria di quanto ci resta. Lo sapeva bene il nostro Antonio Genovesi, il cui messaggio civile di speranza per l’Italia e per l’Europa sarà celebrato il prossimo 14 novembre all’Istituto Lombardo: "I Canali di comunicazione sono altri fisici, e altri morali. Le strade sode, facili, sicure: i fiumi, e gli scavi da traghettare; le macchine trattorie … sono i primi. Ma si richiede de’ canali morali. La più bella, ampia, soda strada, la via Appia, la via Valeria, se sia infestata dalla PAURA, dalla SCHIAVITÙ, dalla RABBIA, dall’AVANIA [ingiustizia], dalla PENITENZA, dalla MISERIA, non vi vedrete pure le fiere trapassare".

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Capitali - Lessico del ben vivere sociale/6

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 03/11/2013 

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Povertà - Lessico del ben vivere sociale/5

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 27/10/2013

Logo nuovo lessicoLa povertà è una dimensione essenziale della condizione umana, è una "parola prima" della vita di tutti. Un errore grave della nostra civiltà è considerarla un problema tipico di alcune categorie sociale o popoli, che di volta in volta diventano gli "appaltatori" della povertà. E così vorremmo immunizzarci sempre più dai poveri, espellendoli, come il capro espiatorio, fuori dai confini della nostra convivenza civile. Non conosciamo più la povertà e non la riconosciamo, perché ci siamo dimenticati che nasciamo nella povertà assoluta e che termineremo la vita in una povertà non meno assoluta.

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Ma se guardassimo bene ci accorgeremmo che la nostra intera esistenza è una tensione tra il volere accumulare ricchezze che colmino questa indigenza antropologica radicale, e la consapevolezza, che cresce con gli anni, che l'accumulo di merci e denaro è solo una risposta parziale, e nell'insieme insufficiente, al bisogno di ridurre le vere vulnerabilità e fragilità dalle quali proveniamo, per sconfiggere la morte. Una consapevolezza che è massima quando (e se) pensiamo a come termineremo la nostra esistenza, nudi come vi siamo venuti entrandovi, quando le ricchezze e i beni passeranno, e di noi resterà – se resterà – altro.

C'è questa intuizione dietro la scelta di chi decide di diminuire denaro e merci perché scopre che la decrescita di alcune ricchezze consente la crescita di altri beni generati da quella nuova e diversa povertà scelta. È questo l'itinerario spirituale ed etico di Gesù CristoDa ricco qual era si è fatto povero, per arricchirci con la sua povertà») e, poi, fatto proprio da Francesco, da Gandhi, da Simone Weil, e da tanti altri giganti di umanità e di spiritualità che con la loro povertà scelta hanno arricchito, e continuano ad arricchire, la vita sulla terra, soprattutto quella di milioni e milioni di poveri che la povertà non l'hanno scelta, ma solo subita.

Accanto a questi grandi amanti della povertà-liberante e profetica, stanno molti altri uomini e donne, di ieri e di oggi (e di domani). Moltissimi li troviamo tra i poeti, le suore, i missionari, i cittadini responsabili, persino tra i giornalisti, gli imprenditori e i politici.

Senza scegliere di diventare poveri di potere, di ricchezze, di se stessi, non si possono condurre lunghe ed estenuanti lotte di giustizia, che possono portare anche a dare la vita, persino a morire, per quegli ideali. Solo questi poveri possono donare la loro vita per gli altri, perché non la considerano un geloso possesso. Chi non è capace di donare la propria vita per gli ideali in cui crede, considera ben poca cosa quegli ideali e la propria vita.

Qualcosa della complessa semantica della povertà ce la dischiude l'economista iraniano Rajiid Rahnema, quando in una sua bella pagina distingue tra diverse forme di povertà: «Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale».

Ed è qui che si apre un discorso cruciale, e troppo taciuto, sulle povertà. La povertà cattiva (ad esempio le ultime quattro forme di Rahnema), quella che dovremmo presto estirpare dal pianeta, è prima di tutto un'assenza di "capitali" che impedisce la generazione di "flussi" (tra cui il lavoro e il suo buon reddito) che ci consentono poi di svolgere attività fondamentali per vivere una vita degna, e magari bella. Se guardiamo le tante, crescenti, forme di povertà non scelta e subita nelle quali si trovano intrappolate le persone (ancora troppe nel mondo, e ancora troppe donne, troppi bambini, tantissime bambine), ci accorgiamo, o dovremmo accorgerci, che le situazioni di indigenza, precarietà, vulnerabilità, fragilità, insufficienza, esclusione sono il frutto della mancanza di capitali non solo e non tanto finanziari, ma relazionali (famiglie e comunità spezzate), sanitari, tecnologici, ambientali, infrastrutture, sociali, politici, e ancor più educativi, morali, motivazionali, spirituali; carestie di philia, di agape.

Per capire allora quale tipo di povertà sperimenta una persona che viene definita povera (perché possiede meno di uno o due dollari al giorno), sarebbe fondamentale guardare ai suoi capitali, e a se e come quei capitali diventano flussi. E a quel livello intervenire. Potremmo così scoprire – se guardiamo bene – che vivere con due dollari al giorno in un villaggio con acqua potabile, senza malaria, con una buona scolarizzazione di base, è una povertà molto diversa da quella in cui si trova chi vive con due (o anche 5) dollari al giorno, ma che questi capitali non possiede, o ne possiede di meno. Come ci sta insegnando da decenni l'economista e filosofo indiano Amartya Sen, la povertà (cattiva) consiste nel non essere nelle condizioni – anche sociali e politiche – di poter sviluppare le proprie potenzialità, che così restano incagliate in capitali troppo bassi, che impediscono che il viaggio della vita sia lungo abbastanza, non troppo accidentato e doloroso. Quindi la povertà, ogni povertà, è molto di più, e qualcosa di diverso, dall'assenza di denaro e di reddito, come possiamo vedere anche nei casi drammatici quando perdiamo il lavoro e non ne troviamo un altro perché non siamo in possesso di "capitali" che sarebbero fondamentali (non solo un'istruzione alta, ma anche l'aver appreso negli anni giusti un mestiere).

I capitali delle persone e dei popoli, quindi le ricchezze e le povertà, sono sempre intrecciati fra di loro. Alcuni capitali, ricchezze e povertà, sono più decisivi per la fioritura umana, ma, tranne casi estremi (anche se rilevantissimi), nessuno è povero al punto di non avere anche qualche forma di ricchezza. Questo intreccio fa del mondo un luogo forse meno ingiusto di quanto sembri a prima vista, stando però sempre molto attenti a non cadere nella "retorica della povertà felice", che spesso si rintraccia in chi loda indigenze di altri stando comodamente in ville lussuose, o passando con auto blindate nelle periferie delle città del Sud del mondo in forme – a volte equivoche – di "turismo sociale". Prima di poter parlare della povertà bella occorre guardare bene negli occhi quelle brutte, e possibilmente assaggiarne qualche boccone. Ma la consapevolezza del rischio, sempre reale, di cadere nella retorica borghese della lode della bella povertà (quella di altri, mai conosciuti né toccati), non deve spingersi fino a cancellare una verità ancora più profonda: ogni processo di uscita da trappole di miseria e di indigenza comincia sempre dal valorizzare quelle dimensioni di ricchezza e di bellezza presente in quei "poveri" che si vorrebbero aiutare. Perché quando non si parte dal riconoscimento di questo patrimonio spesso sepolto ma reale, i processi di sviluppo e di "capacitazione" dei "poveri" sono inefficaci se non dannosi, perché manca la stima dell'altro e delle sue ricchezze, e quindi l'esperienza della reciprocità delle ricchezza e delle povertà.

Ci sono molte povertà dei "ricchi" che potrebbero essere curate dalle ricchezze dei "poveri", se solo si conoscessero, si incontrassero, si toccassero. E se non ricominceremo a conoscere e riconoscere la povertà, tutte le povertà, non potremo tornare a fare buona economia, che risorge sempre dalla fame di vita e di futuro dei suoi poveri.

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Povertà - Lessico del ben vivere sociale/5

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 27/10/2013

Logo nuovo lessicoLa povertà è una dimensione essenziale della condizione umana, è una "parola prima" della vita di tutti. Un errore grave della nostra civiltà è considerarla un problema tipico di alcune categorie sociale o popoli, che di volta in volta diventano gli "appaltatori" della povertà. E così vorremmo immunizzarci sempre più dai poveri, espellendoli, come il capro espiatorio, fuori dai confini della nostra convivenza civile. Non conosciamo più la povertà e non la riconosciamo, perché ci siamo dimenticati che nasciamo nella povertà assoluta e che termineremo la vita in una povertà non meno assoluta.

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La profezia e l’ingiustizia

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Beni relazionali - Lessico del ben vivere sociale/4

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 20/10/2013 

Logo nuovo lessicoChe i beni e i mali più importanti sono le nostre relazioni interpersonali, la sapienza popolare lo ha sempre saputo. I miti, la letteratura, le storie e le tradizioni non fanno altro che dircelo da millenni, raccontandoci di ricchezze divenute grandi mali a causa di rapporti sbagliati, e di povertà materiali dove il poco si moltiplica perché condiviso nella comunione. Da qualche decennio stanno iniziando ad accorgersene anche gli scienziati sociali e perfino alcuni economisti (il primo è stato Benedetto Gui, nel 1986), che usano l’espressione ‘beni relazionali’ per indicare quel tipo di beni dove è la relazione tra le persone a costituire il bene.

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Con bene relazionale oggi si intendono molte cose. Qualcuno chiama beni relazionali quei servizi alla persona il cui valore dipende principalmente dalla qualità della relazione che si instaura tra le persone coinvolte. Il benessere di una serata in pizzeria con amici dipende certamente dalla qualità e dal prezzo della pizza, della birra e del locale, ma soprattutto (l’80-90%?) deriva dalla qualità delle relazioni che abbiamo generato assieme – tanto che se scoppia un banale litigio, alla fine della serata ci resterà ben poco “benessere”, anche se le pizze erano squisite. La soddisfazione (o insoddisfazione) che traiamo dall’assistenza, dalla cura, ma anche dalle visite mediche, dalla scuola, dipende molto dalla qualità di quelle relazioni e incontri umani. Un ‘molto’ che diventa praticamente tutto, quando abbiamo a che fare con bambini, con lunghe degenze in ospedale, con i rapporti con nostri genitori anziani e vecchi. Nei beni relazionali un ruolo tutto speciale lo hanno le motivazioni e le intenzioni delle persone che ‘producono’ e, simultaneamente, ‘consumano’ questi beni. Il ‘perché’ è decisivo. Se, per un esempio, il consulente o l’assicuratore mi chiede dei miei bambini e della mia famiglia ‘perché’ sa che creare questo clima familiare rende il contratto più semplice (e per lui più conveniente), e questa motivazione mi si palesa, quel dialogo pre-commerciale non genera alcun bene relazionale (probabilmente un ‘male relazionale’).

 Il bene relazionale, infatti, è un bene di grande valore, che resta tale finché non cerchiamo di assegnarli un prezzo, di trasformarlo in merce e metterlo in venditaMuorese perde il principio attivo della gratuità. I beni relazionali orientano e condizionano le nostre scelte, dalle più piccole e quotidiane a quelle grandi e decisive.

Basterebbe pensare, ogni tanto, a quanto pesano i beni (e i mali) relazionali nella qualità del nostro lavoro, per il nostro restare in un’impresa, o per il nostro partire. Andiamo ad abitare in un altro quartiere e ogni tanto torniamo a fare colazione nel vecchio bar, perché insieme al cornetto e al cappuccino “consumiamo” anche quei beni fatti di incontri, battute, persino di sfottò calcistici con gli amici. Senza prendere in considerazione il bisogno di questo tipo di nutrimento, non capiremmo, tra l’altro, perché tanti anziani e anziane escono di casa più volte al giorno per acquistare prima il pane, poi la verdura e infine il latte: insieme a questi prodotti ‘consumano’ beni relazionali, e si nutrono di essi. Se togliamo la domanda e il bisogno di beni relazionali dall’orizzonte della politica, perché prima uscito da quello dei suoi tecnici e consulenti, non riusciamo a capire ed ad amare le nostre città, le loro vere povertà e le loro ricchezze, a comprendere i veri costi e i veri ricavi della chiusura, ad esempio, dei piccoli negozi delle città.

Questi beni relazionali non esauriscono, però, la natura relazionale dei beni. Ogni bene, non solo quelli che oggi chiamiamo relazionali, porta inscritta in sé l’impronta delle persone e delle relazioni umane che l’hanno generato. Il peso, la forma e la visibilità di questa impronta variano da bene a bene, ma non scompaiono mai del tutto, se vogliamo e sappiamo vederli. Guardati da questo punto di osservazione, tutti i beni diventano beni relazionali. Lo capiamo se pensiamo ai prodotti artigiani. Nella cultura artigiana – ancora ben viva, mai interamente soppiantata da quella industriale - un violino, un mobile, un’arcata erano riconoscibili ben prima di leggere la firma del suo autore (che spesso mancava, anche perché non necessaria). Dall’oggetto si risaliva facilmente al soggetto, dalla creatura al ‘creatore’. Ma dove l’ impronta personale è visibilissima, al punto di non riuscire più a distinguere l’autore dall’opera, è nella creazione artistica. Un artista non ‘aliena’ mai completamente una sua opera nel venderla, perché in quella scultura è contenuto un pezzo della sua vita, del suo amore, del suo dolore, e lo è per sempre.

Nella nostra società di mercato, dopo qualche decennio dominato da prodotti di massa anonimi e spersonalizzati, c’è oggi una forte e crescente tendenza a ri-personalizzare i beni. Si vuole fare emergere quei “rapporti tra persone, celati nel guscio di un rapporto tra cose” (Marx, Il Capitale). Nei mercati, sugli scaffali, nel web, vediamo merci e servizi, ma al di sotto di essi, ci sono, invisibili ma realissimi, rapporti di lavoro, di produzione, relazioni di potere, amore e dolore umani. Dobbiamo allenare la vista e aguzzare l’udito, e riusciremo ad udire voci e a vedere tanti volti non solo dietro i banconi della frutta o alla cassa di un negozio, ma anche dietro a frigoriferi, scarpe, vestiti, computer, perché ci sono realmente. Un caffè consumato in un bar de-slottizzato, magari sorseggiato in compagnia di amici, non è lo stesso caffè che bevevo qualche tempo fa nel bar della strada accanto, anche se era fatto con la stessa miscela e con la stessa macchina. Ha un sapore molto diverso, ma occorrono ghiandole spirituali e civili per gustare questa differenza, ghiandole che si stanno atrofizzando.

Dovremmo imparare a chiedere sempre di più ai nostri beni (e mali), interrogarli, dialogare con loro. Non ci basta più, non deve bastarci più, che ci parlino di qualità merceologiche e di prezzi. Vogliamo che ci raccontino anche storie di persone e di ambiente, che ci parlino di giustizia, di rispetto, di diritti, che ci svelino ciò che è invisibile agli occhi ma che per molti di noi sta diventando l’essenziale. Qualcosa di questo invisibile ce lo dicono ormai le etichette apposte nelle confezioni, e i marchi di qualità. Ma è troppo poco, perché nei beni ci sono ancora molte storie importanti e decisive che non conosciamo. Quelle etichette non ci dicono, o ce lo dicono ancora troppo poco, se i salari pagati ai lavoratori del cacao e dei blue jeans sono equi, né dove si trova la sede fiscale dell’impresa; ci tacciono se alle donne e mamme è reso possibile lavorare bene, non ci dicono dove finiscono i profitti, né quante e quali azioni di altre aziende si trovano nel portafoglio dell’impresa che mi vende quel prodotto. Le filiere etiche dei prodotti sono ancora troppo corte, terribilmente troppo corte, e si fermano dove cominciano le cose che contano e che conteranno sempre di più per la democrazia.

La nostra cultura capitalistica ci sta portando ad attribuire una crescente importanza alle calorie, ai sali e agli zuccheri. Ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che esistono calorie sociali, sali di giustizia, e altri zuccheri in eccesso che creano infarti, obesità e diabete civili e morali.

I beni sono simboli, e come tutti i simboli con la loro presenza-assenza ci indicano qualcosa o qualcuno presente e vivo altrove. Qualcuno e qualcosa che possiamo ignorare, far finta che non esistano, negarli, dimenticarli. Ma non cessano di essere vivi e reali. E continuano a parlarci, a raccontarci storie, ad attenderci.

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Beni relazionali - Lessico del ben vivere sociale/4

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 20/10/2013 

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Qualcosa di essenziale

Beni relazionali - Lessico del ben vivere sociale/4 di Luigino Bruni  pubblicato su Avvenire il 20/10/2013  Che i beni e i mali più importanti sono le nostre relazioni interpersonali, la sapienza popolare lo ha sempre saputo. I miti, la letteratura, le storie e le tradizioni non fa...
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Beni - Lessico del ben vivere sociale/3

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 13/10/2013 

Logo nuovo lessicoAnche in questo tempo sempre più dominato dalla tecnica e dalla finanza invisibile e senza volti umani, i protagonisti dell’economia continuano ad essere le persone e i beni. Ogni atto economico – dal consumo al lavoro, dal risparmio all’investimento – è un intreccio di persone e di beni. E anche quando le persone agiscono all’interno di istituzioni complesse, regole, contratti, e i beni perdono materialità e sembrano dileguarsi, alla fine e all’inizio di ogni atto economico ritroviamo sempre beni e persone. [fulltext] => Ecco perché parallelamente ad una riflessione sulle persone – come cittadini, “consumatori”, imprenditori, investitori, lavoratori -, per poter scrivere un nuovo lessico economico è necessario, ed urgente, un pensiero nuovo sui beni, sugli oggetti dell’economia, e quindi sulle nuove prassi di consumo e di vita.

Ieri, oggi e domani, l’economia cambia, evolve e involve quando cambiano, evolvono e involvono i beni e le persone. Tra le persone e i beni esiste un misterioso rapporto di reciprocità. Se è vero, infatti, che i beni vanno ricondotti alle persone (le sole che sulla terra hanno libertà, e quindi responsabilità), una volta che i beni sono stati generati acquistano vita propria e una grande capacità di modificare la nostra vita, benessere e libertà. È questa una legge formidabile dell’esistenza umana, che i grandi miti ci hanno raccontato in molti modi, e che continuano ancora a raccontarci. Non sono soltanto i figli che generiamo a modificare e cambiare radicalmente e per sempre la nostra vita; anche le cose che costruiamo ci cambiano, ci trasformano, ci fanno migliori o peggiori, non ci lasciano mai indenni. Il mondo non è più lo stesso ogni volta che nasce un bambino, lo sappiamo; ma, sebbene in modi diversi e sempre nuovi, il mondo cambia continuamente anche per i nostri manufatti, prodotti, incontri, beni. Coltiviamo e custodiamo la terra creando, scambiando, consumando i beni.

 Per chiamare le merci, i primi economisti scelsero la parola “beni”, un termine che presero in prestito dalla filosofia e della teologia. Bene deriva infatti dalla categoria morale di buono, bonum. È quindi bene aumentare i beni perché – e se - questi sono cose buone, aumentano il bene delle persone, delle famiglie, della città, il Bonum commune. Per questa ragione la riflessione etica sull’economia era basata in origine sull’ipotesi che non tutte le merci e le cose dell’economia sono beni (cose buone). Non si comprende, ad esempio, l’antica riflessione etica sui vizi (lussuria, gola, avarizia, invidia …) al di fuori di questo affratellamento tra i beni e il Bene, e tra i beni e i bisogni.

Ma ad un certo punto della traiettoria culturale e antropologica dell’Occidente, gli individui non accettarono più che qualcuno (la tradizione, la società, la religione, il padre …) dicesse loro quali sono i beni “buoni” e quali i bisogni “veri”, quali le cose veramente utili – e lo accettano sempre meno. Il soggetto diventa l’unico deputato a dire, esprimendo una domanda di mercato pagante, se una cosa è per lui un bene. La ricchezza nazionale è divenuta così l’insieme di questi beni (merci e servizi) definiti tali dalle singole persone, e il PIL non fa altro che misurare questi beni. Così la nostra ricchezza economica si è popolata di una miriade di beni diversi, accumunati solo dal metro monetario: l’antibiotico, i biglietti per vedere a teatro Pirandello e Ibsen, i fiori acquistati per donarli a chi amiamo, i beni relazionali, insieme alle spese per servizi legali generati dai nostri litigi e reati, le mine anti-uomo, le slot-machines, la pornografia. Tutti beni, tutto PIL, tutta crescita. Tutto lavoro comunque, qualcuno dice; ma non è difficile immaginare la qualità umana del lavori di chi, magari donna, deve stampare in un’impresa materiale pornografico per vivere – e far arricchire chi su quei ‘beni’ specula. Non tutto il lavoro, e non tutti i posti di lavoro, sono cose buone, non lo mai stati. I beni hanno perso contatto col Bene, e senza questo tocco non abbiamo più le categorie culturali per capire che non sempre l’aumento di beni è Bene, che non tutti i beni sono cose buone, che non ogni crescita aumenta la felicità o il benessere. Il contrasto tra i nostri beni e il bene appare con tutta la sua tragica chiarezza nell’ambiente naturale, che è troppo spesso lo spettacolo dell’intreccio di beni individuali e Male comune.

Quale criterio etico abbiamo oggi per dire se un aumento percentuale di Pil è un bene o un male? Dovremmo essere capaci di conoscere e dire come e per quali ‘beni’ il Pil è cambiato, ma non lo siamo. Nel riconoscere tutto ciò in tutta la sua drammaticità, dobbiamo però tener ben presente che una delle condizioni della democrazia è la presenza nel mondo di un numero maggiore di beni rispetto alle cose che sono buone per me, perché in questo ‘scarto’ ci potrebbero essere, e ci sono, anche quelle cose che sono beni per me ma non per gli altri e per la maggioranza. Un esercizio fondamentale della democrazia è tollerare l’esistenza di più beni di quelli che ci piacciano. Uno ‘scarto democratico’ che però non deve impedirci di ricominciare a farci domande difficili e rischiose sulla natura morale dei beni economici, e persuaderci a vicenda sulla bontà dei beni nostri e di quelli degli altri.

C’è infine un’ultima nota. Sulla terra ci sono molti beni (e mali) che non sono merci, cioè molte cose che hanno un valore ma non un prezzo, anche se è in corso una velocissima trasformazione di (quasi) tutti i beni e i mali in merci. Un nuovo indicatore di benessere potrebbe allora essere calcolato sulla base della differenza tra i beni e le merci, che ci darebbe un’idea di quanta gratuità resiste all’imperialismo delle merci. Ma sotto il mondo delle cose c’è ancora di più. Il valore economico dei beni è soltanto una minima parte del loro valore totale. Generiamo molto più bene di quanto i prezzi e il Pil siamo capaci di misurare, un ‘credito di valore’ che forse compensa, almeno in parte e nel suo insieme, il debito dei tanti mali non adeguatamente risarciti in moneta, perché troppo umani e dolorosi per avere un equivalente monetario.

Questa eccedenza del valore sul prezzo riguarda molti beni, ma è particolarmente vero per molti servizi alla persona, per la cura, l’educazione, la sanità, la ricerca ... Il valore totale di una visita medica che mi trova la soluzione ad un serio problema di salute, ha un valore umano e morale che nessuna parcella, anche salata, può pareggiare. Il valore economico di un’insegnante che aiuta i nostri bambini a crescere è infinitamente più grande del suo stipendio. Questa sovrabbondanza c’è, in misure diverse, per ogni lavoro, e i super-stipendi milionari ce la fanno vedere con più chiarezza, nel controluce dell’indignazione. È tutto ciò che dà valore morale a quel “grazie” che dopo aver regolarmente pagato il prezzo diciamo al benzinaio o alla barista.

Queste cose le sappiamo, le sentiamo, le soffriamo tutti. Anche per questa ragione i lavoratori per essere soddisfatti e vivere bene hanno un bisogno vitale – quasi mai appagato – di altre forme di remunerazioni simboliche e relazionali che riempiano, almeno un poco, il gap tra il salario monetario del “bene lavoro” e il dono della vita nel lavoro. È questa eccedenza antropologica che fa il lavoro più grande della merce-salario, sempre e ovunque. Quando trasformiamo i valori in prezzi e i beni in merci non dobbiamo mai dimenticare la differenza tra il valore delle cose e la loro misura monetaria, tra il lavoro e ogni suo prezzo. Riconoscerlo, e agire di conseguenza, è un atto di giustizia economica che fonda ogni ben vivere sociale.

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Beni - Lessico del ben vivere sociale/3

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 13/10/2013 

Logo nuovo lessicoAnche in questo tempo sempre più dominato dalla tecnica e dalla finanza invisibile e senza volti umani, i protagonisti dell’economia continuano ad essere le persone e i beni. Ogni atto economico – dal consumo al lavoro, dal risparmio all’investimento – è un intreccio di persone e di beni. E anche quando le persone agiscono all’interno di istituzioni complesse, regole, contratti, e i beni perdono materialità e sembrano dileguarsi, alla fine e all’inizio di ogni atto economico ritroviamo sempre beni e persone. [jcfields] => Array ( ) [type] => intro [oddeven] => item-even )

Il prezzo non è giusto

Beni - Lessico del ben vivere sociale/3 di Luigino Bruni  pubblicato su Avvenire il 13/10/2013  Anche in questo tempo sempre più dominato dalla tecnica e dalla finanza invisibile e senza volti umani, i protagonisti dell’economia continuano ad essere le persone e i beni. Ogni atto e...
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Ricchezza - Lessico del ben vivere sociale/2

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 06/10/2013 

Logo nuovo lessicoLe ricchezze, come le povertà, sono molte. Alcune buone, e altre, rilevantissime, cattive. Le grandi culture lo sapevano bene; la nostra, perché non è grande, lo ha dimenticato. La natura plurale e ambivalente della ricchezza è iscritta nella sua stessa semantica. Ricchezza proviene da rex (re), e quindi rimanda al potere, al disporre, attraverso il denaro e i beni, anche delle persone. [fulltext] => Il possesso delle ricchezze è sempre stato, ed è, profondamente intrecciato con il possesso delle persone, e il confine oltre il quale la democrazia diventa plutocrazia (governo dei ricchi) è sempre poco tracciato, fragile, con pochissimi custodi e sentinelle che non siano sul libro paga dei plutocrati.

Ma la ricchezza è anche wealth, che in inglese rimanda al weal, well-being, cioè al benessere, alla prosperità, alla felicità individuale e collettiva. Adam Smith per il titolo del suo trattato di economia (The Wealth of Nations, 1776), scelse wealth (e non riches), anche per dire che la ricchezza economica è qualcosa di più della sola somma dei beni materiali, o del nostro Pil.

Gli italiani e molti economisti dei Paesi latini scelsero per questa seconda forma di ricchezza l’espressione “felicità pubblica”, non sottovalutando mai il complesso passaggio dalla ricchezza alla felicità. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la tradizione della “pubblica felicità” divenne un fiume carsico, e nel mondo anglosassone l’antica idea di benessere sottesa a wealth progressivamente si smarrì. E così, in tutto l’Occidente, lo spettro semantico della ricchezza si è molto impoverito, e noi con esso. Abbiamo costruito un capitalismo finanziario che ha generato molta ‘ricchezza’ sbagliata, che non ha migliorato la nostra vita né quella del pianeta.

Dobbiamo, con urgenza, ricominciare a distinguere le forme della ricchezza, a discernere tra gli ‘spiriti’ del capitalismo, e riiniziare a dire, pubblicamente e con forza, che non tutte le cose che chiamiamo ricchezza sono buone.

Non è buona la ‘ricchezza’ che nasce dallo sfruttamento dei poveri e dei fragili, quella che proviene dal depredare le materie prime dell’Africa, quella dell’illegalità, della finanza-slot, della prostituzione, delle guerre, de traffico delle droghe, quella che nasce dal mancato rispetto dei lavoratori e della natura. Dobbiamo avere la forza etica di dire che questa pseudo-ricchezza non è buona, e dirlo senza ‘se’ e senza ‘ma’. Non esistono buoni usi di questi soldi sbagliati, tantomeno il finanziamento del non-profit o delle strutture per bambini gravemente malati - questi bambini ‘giudicheranno’ il nostro capitalismo.

Da dove nasce, allora, la buona e vera ricchezza? Quale la sua origine e la sua natura? Per Smith, che queste domande aveva posto al centro della sua ricerca, la ricchezza nasce dal lavoro umano, e lo scrisse come prima riga della sua Wealth of Nations: “Il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui essa trae tutte le cose necessarie e utili per la vita”. Le ricchezze naturali, i mari, i monumenti e le opere d’arte non diventano ricchezza economica e civile se non c’è lavoro umano capace di mettere questi beni a reddito.

Ma se guardiamo alle radici profonde della ricchezza, scopriamo qualcosa che potrebbe sorprenderci, perché ci potremmo accorgere che la sua natura più vera è il dono. La ricchezza buona che nasce dal lavoro dipende dai nostri talenti (il talento, ce lo dice la parabola, si riceve), cioè da doni di intelligenza, di creatività, doni etici, spirituali e relazionali.

Dietro la nostra ricchezza ci sono eventi provvidenziali che non sono né merito solo nostro, né soltanto il frutto del nostro impegno (che comunque è sempre co-essenziale): esser nati in un determinato Paese, amati in una famiglia, l’aver potuto studiare in buone scuole, aver incontrato quell’insegnante e poi quelle persone giuste lungo il nostro cammino, ecc. Quanti potenziali Mozart e Levi Montalcini non sono fioriti solo perché nati o cresciuti altrove, o semplicemente perché non amati abbastanza?!

C’è qualcosa di questa tensione tra dono e ingiustizia nel mito di Pluto (il dio greco della ricchezza), che, accecato, distribuisce la ricchezza tra gli uomini senza poter guardare né alla loro giustizia né al merito. Come ritroviamo la consapevolezza della natura di dono della ricchezza alla radice dell’istituzione in Israele dell’anno giubilare, quando, ogni cinquant’anni, “ciascuno tornerà in possesso del suo” (Levitico). E invece noi abbiamo dimenticato, e quindi espulso dell’orizzonte civile (e fiscale), che la proprietà dei beni e delle ricchezze è un rapporto, una faccenda sociale: “Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!(J.J. Rousseau, Il contratto sociale). Se cancelliamo questa natura più profonda e vera della ricchezza e la destinazione universale di tutti i beni, perdiamo anche i sentimenti di riconoscenza civile per le nostre ricchezze.

È la gratuità-charis a fondare ogni ricchezza buona. Dovremmo allora guardare il mondo e dirci gli uni gli altri: “io sono tu che mi fai ricco”. E non smettere mai di ringraziarci a vicenda. Che cosa è la mia ricchezza se non il frutto di un insieme di relazioni, alcune con radici antichissime? Nel medioevo i forestieri, anche se ricchi, nelle processioni religiose (ordinate sulla base del censo) erano inseriti tra gli indigenti, perché mancanti di amici, perciò poveri della ricchezza più importante, quella delle relazioni.

Senza questo riconoscimento-riconoscenza della natura relazionale e di dono della ricchezza, finiamo per considerare un’usurpazione ogni sua ridistribuzione, che percepiamo come gravi profanazioni di mani altrui che si infilano nelle nostre tasche. Anche gli imprenditori sanno che la loro (buona) ricchezza nasce anche, e soprattutto, dalla ricchezza dei territori, dalla ricchezza di talenti e di virtù dei lavoratori, dalla ricchezza morale di fornitori, banche, clienti, pubblica amministrazione, dalla ricchezza spirituale della loro gente (ecco perché l’evasione fiscale è un grave atto di ingiustizia e di non riconoscenza). E così, ogni tanto, tornano a casa dopo aver delocalizzato, perché senza quelle ricchezze diverse non sono riusciti ad aumentare neanche la sola ricchezza finanziaria. Se la ricchezza è primariamente dono, allora il condividerla e usarla per il Bene comune non è un atto eroico, è un dovere di giustizia. La possiamo, e dobbiamo, condividere perché l’abbiamo in massima parte ricevuta. Quando una cultura perde questo profondo senso sociale e politico delle proprie ricchezze, si smarrisce, declina, tramonta.

Oggi l’economia soffre e non genera la sua tipica buona ricchezza perché si sono impoverite le altre forme di ricchezza, e una parte rilevante di questo impoverimento l’ha prodotta la stessa economia finanziaria, che ha consumato risorse morali e spirituali senza preoccuparsi di rigenerarle. Ha agito come quell’apicultore che per far più soldi possibili con le sue api, si è concentrato unicamente sui suoi alveari, e ha trascurato e inquinato i territori circostanti. I prati e i frutteti si sono così impoveriti, e oggi le sue api, esauste, producono sempre meno miele, e di qualità sempre peggiore. Quest’apicultore, se vuol tornare a produrre buon miele, deve allargare gli orizzonti del suo problema, capire la vera causa della sua crisi, e poi iniziare ad occuparsi dei prati e dei frutteti dei territori circostanti con la stessa cura con cui tratta le sue api e i suoi alveari. Ogni bene è anche un bene comune, perché se non è comune non è, veramente, un bene. Uscire dai cantieri per ‘addetti ai lavori’ e tornare nei territori a prendersi cura dei prati e dei frutteti, dei beni comuni: è questa la sfida principale da raccogliere se vogliamo tornare a generare buona ricchezza, e quindi lavoro.

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Ricchezza - Lessico del ben vivere sociale/2

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 06/10/2013 

Logo nuovo lessicoLe ricchezze, come le povertà, sono molte. Alcune buone, e altre, rilevantissime, cattive. Le grandi culture lo sapevano bene; la nostra, perché non è grande, lo ha dimenticato. La natura plurale e ambivalente della ricchezza è iscritta nella sua stessa semantica. Ricchezza proviene da rex (re), e quindi rimanda al potere, al disporre, attraverso il denaro e i beni, anche delle persone. [jcfields] => Array ( ) [type] => intro [oddeven] => item-odd )

L'orizzonte dei talenti

Ricchezza - Lessico del ben vivere sociale/2 di Luigino Bruni  pubblicato su Avvenire il 06/10/2013  Le ricchezze, come le povertà, sono molte. Alcune buone, e altre, rilevantissime, cattive. Le grandi culture lo sapevano bene; la nostra, perché non è grande, lo ha dimenticato. La ...
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Commenti - Lessico del ben vivere sociale/1

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 29/09/2013 

Logo nuovo lessicoAlcuni sono fermamente convinti che il peggio della crisi sia ormai dietro di noi; altri altrettanto persuasi che la ‘grande crisi’ sia appena incominciata. In realtà, ciò che è certo è che dobbiamo iniziare a prendere coscienza che è proprio la parola ‘crisi’ a non essere più adeguata ad esprimere il nostro tempo. Ci troviamo, infatti, dentro un lungo periodo di transizione e di cambio di paradigma, iniziato ben prima del 2007 e destinato a durare ancora a lungo. Dobbiamo quindi presto imparare a vivere bene nel mondo come ci si dà oggi, compreso il suo lavoro.

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Ma dobbiamo imparare un nuovo lessico economico, che sia adeguato prima a farci comprendere questo mondo (non quello di ieri), e poi offrirci strumenti per poter agire e magari migliorarlo.

 

Una nuova forma di indigenza collettiva è il non riuscire più a capire la nostra economia, il nostro lavoro e il nostro non lavoro. Dalla presa di coscienza di questa nuova indigenza ‘lessicale’ e quindi di pensiero, nasce l’idea di iniziare – o forse continuare – la scrittura di una sorta di ‘Lessico del ben vivere sociale’, una espressione presa a prestito, o donataci, dall’economista e storico napoletano Ludovico Bianchini, che ricoprì la cattedra di economia che era stata, cento anni prima, di Antonio Genovesi. Egli volle intitolare il suo principale trattato di economia Della scienza del ben vivere sociale (1845). Nessun nuovo lessico nasce dal vuoto. Si nutre, vive, cresce delle parole passate, e prepara quelle future. Quindi è sempre provvisorio, parziale e necessariamente incompleto; materiale di lavoro, una cassetta di strumenti per ragionare e agire.

Ci sono parole fondamentali del vivere sociale che devono essere ripensate, e in parte riscritte, se vogliamo che il vivere civile ed economico sia ‘buono’, e possibilmente anche giusto. In questa nostra età stiamo facendo molta cattiva economia anche perché stiamo parlando e pensando male la vita economica e civile. Le parole da ripensare e riscrivere sono molte. Tra queste ci sono senza dubbio: ricchezza, povertà, imprenditore, finanza, banca, bene comune, lavoro, giustizia, management, distribuzione del reddito, profitto, diritti di proprietà delle imprese, indignazione, modello italiano, capitalismo, e molte altre. Un nuovo lessico è necessario anche per capire e quindi rivalutare lo specifico della tradizione economica e civile italiana ed europea. Il XXI secolo sta, infatti, (pericolosamente) diventando il secolo del pensiero economico-sociale unico.

Stiamo perdendo troppa biodiversità, ricchezza antropologica, etica, eterogeneità culturale. Non stanno solo scomparendo migliaia di specie viventi, stanno anche morendo forme viventi di imprese, banche, tradizioni artigiane, visioni del mondo, cultura imprenditoriale, cooperazione, mestieri, saper fare e saper pensare, etiche del lavoro. E molte di quelle che stanno nascendo assomigliano troppo a specie parassita e aggressive, che accelerano la morte di antiche e buone piante. Si stanno riducendo le forme d’impresa, le culture di governo, i tipi e le culture di fare banca, schiacciati dall’ideologia del ‘business is business’, dove il business è solo quello di derivazione anglosassone, USA in particolare, un business dove anche le banche sono tutte uguali, quelle che scommettono con i nostri risparmi e quelle che amano e servono i territori, le famiglie, le imprese.

L’economia europea ha secoli di biodiversità prodotta dalla lunga storia, molti secoli che invece non ha il capitalismo che ci sta colonizzando. Chi dimentica questa lunga storia e questa ricchezza produce danni civili ed economici enormi, e molto spesso irreversibili.
Il XX secolo era stato invece il secolo della pluralità dei sistemi economici e dei capitalismi. Quel secolo, che appare ormai lontanissimo, aveva visto dispiegarsi più tipi o forme di economie di mercato. L’economia sociale di mercato tedesca, l’economia collettivista, quella mista italiana – un ‘misto’ che era molto più ampio del solo rapporto privato/pubblico -, il modello scandinavo, francese, inglese, US, giapponese, indiano, sudamericano e, nell’ultimo suo squarcio, anche quello ibrido cinese. Tutta questa varietà di economie di mercato, capitalistiche e non, era poi stata accompagnata da grandi, a tratti enormi, luoghi di economia tradizionale, che continuavano a persistere anche nella nostra vecchia Europa. Tutta questa biodiversità sta scomparendo nel XXI secolo.

È sempre la diversità a rendere meraviglioso il mondo, e la biodiversità di forme civili ed economiche non lo rende meno splendido e ricco di quella delle farfalle e delle piante. Il paesaggio italiano ed europeo è patrimonio dell’umanità non solo per le colline e i boschi (frutto, tra l’altro, dei grandi carismi monacali del medioevo, e quindi di tanta biodiversità spirituale). Le nostre piazze e le nostre valli le hanno fatte stupende non solo le viti e gli olivi, ma anche le cooperative, le migliaia di casse rurali e BCC tutte uguali e tutte diverse, le casse di risparmio, le botteghe dei liutai e le stalle di montagna, le imprese dei distretti, le confraternite, le misericordie, le scuole di Don Bosco e quelle delle Maestre Pie, gli ospedali delle Ancelle della carità accanto a quelli pubblici e privati. Ogni volta che una di queste istituzioni muore, magari per leggi sbagliate e consulenti impreparati, il nostro Paese si impoverisce, diventiamo meno colti, profondi, liberi, e bruciamo secoli di storia e di biodiversità. 

Dove non c’è biodiversità c’è solo sterilità, incesto, nanismo, quelle patologie che sta conoscendo un capitalismo finanziario che non è più capace di generare bel lavoro e buona ricchezza, proprio perché troppo appiattito su una sola cultura e su un solo principio attivo (massimizzare profitti e rendite di breve periodo). Questa perdita di biodiversità civile ed economica (e quindi umana) è una malattia molto seria, che chiama in discussione direttamente la democrazia, oggi come ieri strettamente connessa alle sorti, alle forme e alla pluralità dei protagonisti dell’economia di mercato.

Ecco allora che si aprono nuove sfide, decisive per la qualità della vita nostra presente e futura: fin dove vogliamo estendere il meccanismo dei prezzi per regolare la vita in comune? siamo sicuri che il modo con cui stiamo governando le imprese, soprattutto le grandi, sia capace di futuro? i lavoratori dovranno restare sempre fuori dai Cda delle imprese? vogliamo continuare a depredare l’Africa, o possiamo iniziare con quei popoli lontani e sempre più vicini un nuovo rapporto di reciprocità? quando smetteremo di rubare futuro ai nostri nipoti indebitandoci per consumi eccessivi e egoistici? è possibile estendere il sistema del ‘trip advisor’ dagli hotel a tutti i beni di mercato, per una vera democrazia economica? Come Europa, abbiamo ancora qualcosa da dire sul mercato e l’impresa? Queste, e altre, difficili domande e sfide non si possono affrontare con successo se prima non impariamo a pensarle e dirle con le parole giuste.

Sono stati troppi in questi anni i danni, non solo economici, procurati da chi ha presentato ‘mali’ sotto forma di ‘beni’, costi come ricavi, vizi mascherati da virtù. Danni che continuiamo a produrre, non sempre intenzionalmente. Dobbiamo attrezzarci tutti – cittadini, economisti, istituzioni, media, politici -, e dare vita ad un linguaggio economico e civile che ci aiuti a dare il nome giusto alle cose, per amarle e migliorarle. In tutte le età di rinascimento le parole invecchiano molto velocemente, e nessuna età della storia ha consumato parole e concetti più rapidamente della nostra. Se vogliamo veramente ricreare lavoro, concordia civile, cooperazione e ricchezza, prima occorre saperli pronunciare, chiamarli. Quando dal ‘caos’ si vuole passare al ‘cosmos’ (ordine), il primo atto umano fondamentale è dare il nome alle cose, conoscerle, custodirle, coltivarle. Ma il nome più importante che oggi dobbiamo reimparare a riconoscere e a pronunciare è il nome dell’altro. Perché quando si dimentica quel primo nome non riusciamo più a chiamare noi stessi né le cose, comprese le importantissime cose dell’economia. Solo quando le chiameremo con il giusto nome esse ricominceranno a risponderci.

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Commenti - Lessico del ben vivere sociale/1

di Luigino Bruni 

pubblicato su Avvenire il 29/09/2013 

Logo nuovo lessicoAlcuni sono fermamente convinti che il peggio della crisi sia ormai dietro di noi; altri altrettanto persuasi che la ‘grande crisi’ sia appena incominciata. In realtà, ciò che è certo è che dobbiamo iniziare a prendere coscienza che è proprio la parola ‘crisi’ a non essere più adeguata ad esprimere il nostro tempo. Ci troviamo, infatti, dentro un lungo periodo di transizione e di cambio di paradigma, iniziato ben prima del 2007 e destinato a durare ancora a lungo. Dobbiamo quindi presto imparare a vivere bene nel mondo come ci si dà oggi, compreso il suo lavoro.

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Parole per questo tempo duro

Commenti - Lessico del ben vivere sociale/1 di Luigino Bruni  pubblicato su Avvenire il 29/09/2013  Alcuni sono fermamente convinti che il peggio della crisi sia ormai dietro di noi; altri altrettanto persuasi che la ‘grande crisi’ sia appena incominciata. In realtà, ciò che è certo è c...