Sul Confine e Oltre

Oikonomia

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Sul confine e oltre/13 - La vita è più del lavoro e molto più del consumo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/04/2017

Sul confine e oltre 13 rid«Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di nulla... Un nuovo edonismo! Di questo ha bisogno il nostro secolo. Potreste esserne il simbolo visibile. Nulla è vietato alla vostra persona. Il mondo è vostro, per una stagione...»

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

La religione capitalistica vuole abolire la festa. Le ha dichiarato una vera e propria guerra, che si accompagna ad una esplosione di offerta di divertimenti e di svago, che non hanno nulla, o troppo poco, dell’esperienza della festa. È questa un’altra espressione della ormai nota ‘distruzione creatrice’ del capitalismo del XXI secolo, che prima ha eliminato la festa e poi ci vende merci per cercare di sostituirla. Ma non ci riesce, perché la gratuità non si vende né si compra. E così i suoi divertimenti ci lasciano solo un grande vuoto e una grande nostalgia di festa vera, di cui i primi indigenti sono soprattutto i bambini e i ragazzi. Solo una civiltà che conosce i tempi diversi e gli spazi liberi della gratuità può essere una cultura della festa.

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La festa è un bisogno primario e fondamentale dell’uomo, della donna, delle bambine, dei bambini, dei malati, dei vecchi. Non si vive a lungo senza far festa. Si può forse sopravvivere, ma quando manca la festa la vita individuale e sociale si intristisce e si spegne. La festa è il bene relazionale per eccellenza, non si può far festa da soli. Da soli ci si può, forse, svagare davanti a Tv, smart-phones e pc; ma per far festa ci vogliono gli altri, i compagni, i bambini. Nella Bibbia la festa è profondamente legata al settimo giorno, allo shabbat (il sabato). Nel principio della creazione, il primo a far festa fu Elohim stesso, che per poter festeggiare dovette arrivare al termine della creazione, dovette aspettare l’Adam. Anche Dio ha bisogno di compagnia per far festa. Ha bisogno della compagnia della sua creazione, della terra, ha bisogno della nostra compagnia. Se è vero che lo shabbat è il grande dono di Elohim alla terra, è anche vero che lo shabbat è anche il dono di reciprocità che la creazione fa al suo creatore, perché gli dona la possibilità di riposarsi e fare festa, insieme a noi.

Nello shabbat si può e si deve far festa, visitare gli amici e i parenti, pregare e cantare insieme. Lo shabbat è la madre di tutte le feste bibliche e della nostra domenica, perché è ricordo-memoria della creazione, dell’Alleanza, e soprattutto della fuga attraverso il mare. Della liberazione dall’Egitto, dalla schiavitù, dai lavori forzati nelle fabbriche di mattoni. Nell’umanesimo biblico, ogni festa è nuova liberazione, è nuovo passaggio del mare, nuovo Esodo. È una nuova Pasqua. Il Dio d’Israele è un Dio diverso perché non vuole che gli uomini lavorino sempre. Gli idoli, invece, non conoscono il sabato, non conoscono la gratuità, non conoscono la festa, vogliono un culto perenne e perfetto.

Il culto capitalista si caratterizza per essere una religione-idolatria senza festa. Fino al XX secolo, la cultura del lavoro era stata, con le sue ambivalenze e ombre, una cultura ancora dalla parte della vita e, in Occidente, erede dell’umanesimo ebraico-cristiano, anche perché aveva salvato il confine tra lavoro e festa. Si lavorava molto, si lavorava troppo, ma gli uomini e le donne libere non lavoravano sempre. C’era il tempo del riposo e della festa. Le forze cieche del capitale, avrebbero voluto, come tutti gli imperi, lavoratori-schiavi tutti dediti alla produzione dei loro ‘mattoni’. Ma la politica, le chiese, i sindacati glielo hanno impedito, e così hanno con-tenuto il capitale dentro limiti sociali e morali. Nel giro di pochi anni, però, il capitalismo ha drasticamente e radicalmente mutato volto, è diventato qualcosa di molto diverso. Il consumo ha preso il posto del lavoro al centro del sistema economico-sociale, e sono saltati tutti i limiti e i confini. Il lavoro ha un suo limite intrinseco: non si lavora sempre anche perché non si può lavorare sempre. C’è la vita al di fuori del lavoro che impedisce al lavoro di diventare attività perpetua. È la fatica connaturale al lavoro il suo primo limite. Il consumo, invece, non conosce questi confini, perché essendo attività di puro piacere non ha un suo limite interno. Tanti, forse tutti, vorrebbero negozi aperti ad ogni ora, in ogni tempo e in ogni luogo per soddisfare tutti i bisogni e i capricci. Finché la cultura economica è stata scandita dal lavoro, i negozi restavano chiusi perché il lavoro umano dietro al consumo lo comandava e gli poneva dei limiti. E lasciava tempo e spazio per la festa, non voleva il monopolio né del tempo né dello spazio. Quelle serrande abbassate ricordavano a tutti che la vita è più grande del lavoro e del consumo. A farci indignare e protestare oggi non è il lavoro festivo e pasquale degli addetti agli altiforni nelle imprese industriali, né quello dei poliziotti, né quello degli infermieri e dei medici del pronto-soccorso. Questo lavoro non è nemico della festa, e chi incontra questi lavoratori festivi li riconosce ed è riconoscente.

La nostra cultura centrata sul consumo non vede più il lavoro nascosto dietro i consumi, o se lo vede lo assoggetta e asservisce all’idolo sempre affamato. È la sovranità del consumatore la sola sovranità riconosciuta ai cittadini-fedeli del mono-culto consumista, che sta seriamente minando la cittadinanza politica. È il lavoro per il consumo idolatrico che nega la festa e nega il lavoro.

Per questo la lotta tra questo capitalismo e la festa è molto profonda e radicale. Le grandi imprese e banche, ad esempio, cercano in tutti i modi di ricreare la forza simbolica ed emotiva della festa, la sua capacità di creare senso di appartenenza, spirito di corpo, ‘senso del noi’. La cultura del lavoro del secolo passato l’hanno creata anche le feste popolari, religiose e laiche, i matrimoni e i battesimi. Le fabbriche e gli uffici hanno usato quel capitale simbolico, sociale e spirituale che ricevevano gratuitamente dalle comunità nelle quali i loro lavoratori crescevano e vivevano. Le liturgie, le processioni, i giorni della memoria dei grandi dolori e delle liberazioni, nutrivano l’anima e tutte le virtù delle persone, che quando lavoravano le donavano alle loro imprese, un valore molto più grande del salario che restituivano. I capitali da cui nascevano i profitti delle imprese valevano (e valgono) molto più dei loro capitali privati. Insieme agli uomini e alle donne, nei cancelli delle imprese entravano valori civili, religiosi, morali, che nessun capitalista ha mai pagato - stava anche qui la radice morale delle tasse, perché nei profitti c’era e c’è molta ricchezza donata alle imprese dalle comunità.

La cultura individualista e consumista del capitalismo del nostro tempo sta spazzando via questi capitali civili e spirituali. Le grandi imprese ne avvertono la mancanza, anche se non ne sanno individuare le ragioni profonde. E così pensano che una festa aziendale, una convention o l’aperitivo del venerdì pomeriggio, possano sostituire capitali formatisi attraverso i secoli. I simboli della festa senza la verità popolare e povera che li hanno generato, produce solo nuovi grifoni e minotauri, ibride creature mostruose.

È ancora troppo presto per capire che la grande carestia alle porte della nostra economia è la carenza drammatica di capitali spirituali, morali e simbolici, dei quali le imprese si sono nutrite ma che si stanno esaurendo più velocemente del petrolio. L’economia di solo consumo vive in un eterno presente, senza radici e senza futuro. Il tempo, però, continua a scorrere sulla terra. Le ferite e le rughe di chi circonda e assedia i templi del consumo attratti dalla stessa promessa e illusione, sono sempre più profonde e dolorose, crescono, riempiono il mondo. E il club degli illusi, incantato dall’elisir dell’eterna giovinezza, non vuole vederle e quindi continua a produrle. Ma, diversamente dal romanzo di Oscar Wilde, il ritratto con le piaghe e le rughe non è nascosto in soffitta: sta sempre di fronte a noi. Sono soltanto i nostri occhi e la nostra capacità di vergognarci ad essere finiti in soffitta, per non voler vedere l’immagine reale e bruttissima di ciò che stiamo diventando. Quando inizieremo a guardare le piaghe sul volto degli scartati dal consumo, e ne diventeremo responsabili?

In una cultura del lavoro, la Bibbia per annunciare la sua liberazione ci ha donato lo shabbat dal lavoro. In una cultura del consumo, lo spirito biblico oggi ci dovrebbe suggerire uno shabbat dal consumo, per poter dire all’idolatria del nostro tempo: “tu non sei dio, io non sono tuo schiavo”. Senza un sabato del consumo non ritroveremo più un buon rapporto né con il lavoro né con la festa. Il benedetto giorno in cui decidessimo di liberare un tempo e uno spazio per il non-consumo di merci, per fare festa, per celebrare le relazioni, i legami, la gratuità, sarebbe l’aurora di una nuova civiltà.

La prima richiesta che Mosè fece al faraone fu quella di lasciare il popolo libero di andare tre giorni nel deserto per festeggiare la Pèsah (Esodo 5,3), che era un’antica festa della transumanza delle greggi. Il faraone negò quel permesso, perché gli schiavi non possono far festa, perché fare festa è già l’inizio del tempo della libertà. Senza la festa, il lavoro è sempre lavoro schiavistico. E senza un tempo per il non consumo di merci, la schiavitù è perfetta, perché mancando il dolore e la fatica, il consumo ci appare come libertà e non sentiamo più il bisogno della liberazione.

Anche se non siamo più capaci di vederli né di riconoscerli, dietro ai nostri lavori per garantire consumi perpetui ci sono nuovi faraoni che non vogliono lasciarci liberi di ‘camminare tre giorni nel deserto’. Forse perché temono che davanti a noi potrebbe ancora aprirsi il mare, e non torneremmo più.
Buona Pasqua!

Oggi termina la serie ‘Sul Confine e oltre’. Nuove pagine scritte insieme, nuove scoperte, nuovi-antichi dialoghi, nuovi grazie. Da domenica prossima riprendo il commento della Bibbia, con il profeta Geremia. Oseremo ancora un’escursione oltre il confine, mendicando altre parole, per continuare a camminare, in questo nostro tempo tremendo e splendido.

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Sul confine e oltre/13 - La vita è più del lavoro e molto più del consumo

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 16/04/2017

Sul confine e oltre 13 rid«Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di nulla... Un nuovo edonismo! Di questo ha bisogno il nostro secolo. Potreste esserne il simbolo visibile. Nulla è vietato alla vostra persona. Il mondo è vostro, per una stagione...»

Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray

La religione capitalistica vuole abolire la festa. Le ha dichiarato una vera e propria guerra, che si accompagna ad una esplosione di offerta di divertimenti e di svago, che non hanno nulla, o troppo poco, dell’esperienza della festa. È questa un’altra espressione della ormai nota ‘distruzione creatrice’ del capitalismo del XXI secolo, che prima ha eliminato la festa e poi ci vende merci per cercare di sostituirla. Ma non ci riesce, perché la gratuità non si vende né si compra. E così i suoi divertimenti ci lasciano solo un grande vuoto e una grande nostalgia di festa vera, di cui i primi indigenti sono soprattutto i bambini e i ragazzi. Solo una civiltà che conosce i tempi diversi e gli spazi liberi della gratuità può essere una cultura della festa.

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La grande libertà della festa

Sul confine e oltre/13 - La vita è più del lavoro e molto più del consumo di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 16/04/2017 «Vivete! Vivete la meravigliosa vita che è in voi! Nulla deve andar perduto per voi. Cercate continuamente nuove sensazioni. Non abbiate paura di nulla... Un nuovo edoni...
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Sul confine e oltre/12 - Il «ritmo» altro di tempo e relazioni che cambia la vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/04/2017

Sul confine e oltre 12 rid«Questo pomeriggio, tornando giù dalla cava con l’asino carico di breccia, non sei stata avvicinata da un uomo? Non gli hai dato un pezzo di pane?’, riprese a domandare il carabiniere. ‘E’ un peccato quello di cui mi accusa? Fare la carità è un peccato?’. ‘Non ti sei accorta – riprese il carabiniere - che quell’uomo era un soldato nemico?’. ‘Era un nemico? Che cosa vuol dire?. ‘E che aspetto aveva?’, domandò il carabiniere. ‘Un aspetto di un uomo’, rispose Caterina»

Ignazio Silone, Una manciata di more

 Ora et labora non è soltanto l’immagine e il messaggio del monachesimo. È anche il respiro della nostra civiltà, che si è costituita scandendo tempi diversi, componendo una sinfonia nella varietà dei ritmi, nell’alternanza di suoni e di silenzio. Le parole e lo spirito del lavoro sono diversi da quelli della preghiera, alleati e amici perché ad un tempo vicini e lontani, intimi e stranieri. Quando, in quegli antichi monasteri, si tornava dalla vigna e si entrava nel coro, si lasciava un tempo per trovarne un altro.

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Quello della preghiera e dell’opus Dei, che aveva un altro scorrere, un altro ritmo, un altro suono. Bucava il tempo storico per toccare, o almeno sfiorare, l’eternità, per tentare di sconfiggere la morte. Riviveva quella prima-ultima cena, quella croce, rotolava ancora la pietra. Quando si varca la soglia per entrare nel templum, si diventa un po’ signori del tempo, si sente di non essere dominati dal solo tempus razionale e spietato, si viaggia liberi tra il primo giorno della creazione e l’eskaton. L’adam torna a passeggiare nei giardini dell’eden.

Qualcosa di simile accade al tempo del lavoro rapportato a quello della cura. C’è un profondo nesso tra preghiera, contemplazione, interiorità e cura. Il tempo, i modi, le parole, le mani, lo spirito della cura non sono quelli del lavoro. Quando torniamo dall’ufficio e giochiamo col nostro bambino, gli narriamo una fiaba o gli cantiamo una filastrocca, usciamo dal registro e dal ritmo del lavoro ed entriamo un mondo governato da altre leggi e da altri tempi. Quando ascoltiamo un genitore vecchio e malato, quando gli parliamo e sappiamo che la malattia gli impedisce di comprendere le nostre parole sul piano del logos, se ascoltiamo e parliamo con cura sentiamo che ci sintonizziamo su un altro tempo con un altro ritmo; e così continuiamo quel dialogo dell’anima che nessuna malattia può impedire. Quando curiamo una pianta, prepariamo un pranzo, o puliamo semplicemente la casa, nel silenzio diciamo parole importanti agli altri e a noi stessi. Si parla ogni giorno anche anche facendo trovare colazioni apparecchiate, bagni puliti, piante annaffiate, coperte rimboccate nel sonno. Parole fondamentali anche quando quella colazione apparecchiata è la nostra, perché siamo rimasti soli.

Tutti sappiamo che la cura è un nome diverso del dono. E quindi sappiamo che la cura conserva tutte le bellezze e tutte le ambivalenze dei doni. Perché i doni non sono mai stati tutti uguali. Quelli, ad esempio, celebrati nella sfera pubblica sono stati sempre faccende di reciprocità. I doni-sacrifici agli dèi, quelli ai faraoni, e poi le magnificenze, le donazioni, la filantropia, sono stati associati a qualche forma di virtù, e in quanto tali pubblicamente riconosciuti, apprezzati, ricompensati, onorati. Si facevano doni ai grandi, ai potenti, alla città, alla chiesa, e si attendevano benedizioni, grazie, riconoscimenti, applausi, lodi.

Discorso ben diverso, e radicalmente opposto, era quello sul dono all’interno delle mura domestiche, o sotto la tenda della casa. Qui i doni di tempo, di risorse, di vita, di cura, non erano certamente minori di quelli nella piazza della città, i loro valori non erano inferiori, la loro presenza non era meno essenziale per poter vivere e per vivere bene. Ma, per molte ragioni (la maggior parte delle quali riconducibili al potere, alla forza e ai loro strumenti) i doni domestici non erano riconosciuti come doni. I nomi che il dono prendeva dentro casa erano soprattutto dovere e obbligo.

Gli attori del dono-virtù pubblico erano i maschi, quelli del dono-obbligo privato le donne. Nelle società tradizionali gli onori e la gloria del dono spettavano agli uomini, mentre la prima opera di assoggettamento e di subordinazione della donna è stata la negazione e il non-riconoscimento dei suoi doni. La maternità, l’accudimento e l’educazione dei bambini e dei giovani, la cura della casa e delle relazioni primarie, erano considerati doveri e obblighi derivanti dall’essere madre, moglie, sorella. Quella libertà di donare che gli uomini sperimentavano nella sfera pubblica e che ne costituiva la sua meritorietà, scompariva nei doni-obblighi delle donne nella sfera privata.

Stesso discorso per i sacrifici. Quelli offerti agli dèi, ai faraoni, ai re, accendevano nei ‘sacrificanti’ crediti. I sacrifici fatti nel mondo del lavoro producevano, come reciprocità, stipendi e salari. Solo i sacrifici fatti dentro casa dalle donne erano semplicemente doveri e obblighi derivanti dal loro stato, debiti materni e filiali, debiti coniugali. Non capiamo che cosa è stata nel Novecento la possibilità per le donne di poter accedere al ‘mercato del lavoro’ di tutti, senza prendere in considerazione il significato di riconoscimento e di reciprocità celato dentro un rapporto di lavoro. Lo stipendio di quelle donne operarie, impiegate, maestre, non era diverso da quello dei mariti e dei fratelli solo perché (in genere) più basso: quella busta paga aveva anche un sapore e un colore di reciprocità, dignità, stima sociale, riconoscimento, onore, che non erano i sapori e i colori che quelle donne conoscevano dentro casa. I lavori degli uomini e delle donne non sono stati mai uguali.

Il mutuo vantaggio e la reciprocità, che abbiamo messo al cuore della vita pubblica e poi del mercato, non è stato il registro principale con il quale le civiltà hanno letto fino a tempi recenti il rapporto uomo-donna, e in generale il contributo delle donne alla vita sociale. Alle donne le civiltà occidentali riservavano l’amore e la riconoscenza, ma non la reciprocità libera né il riconoscimento.

Anche per questa ragione, lo sguardo delle donne sul dono è diverso da quello degli uomini, come è diverso quello sul sacrificio. Tutta la teoria del dono, costruita sul triplice movimento ‘dare-accettare-ricambiare’, se fosse stata scritta da donne avrebbe raccontato un ‘accettare’ molto meno libero, e un ricambiare molto lontano dalla gratuità. “Io non amo usare le parole sacrificio e servizio” - mi confidava qualche giorno fa Jennifer Nedelsky, una filosofa americana - “perché per troppe donne sono state e sono parole associate ad azioni non scelte e piene di dolore”. Tutte le volte che mi trovo a parlare e scrivere di dono, sacrificio, gratuità, servizio, cerco di farlo tenendo fissi davanti ai miei occhi i doni, i sacrifici, la gratuità e i servizi delle mie nonne Cecilia e Maria, contadine, e quelli di mia mamma, casalinga.

Queste esperienze e sguardi diversi hanno ancora importanti conseguenze nel modo di concepire il rapporto tra il mercato, l’assistenza e la cura. Pulire i bagni e spazzare le stanze, curare bambini, malati e anziani, erano attività un tempo affidati ai servi e agli schiavi, poi alle nutrici, balie, cameriere, cuoche. Infine alle mamme, alle sorelle, alle figlie. Mai agli uomini liberi o alle donne nobili e benestanti, che quindi hanno sempre guardato le attività di cura come faccende per schiavi, servi, o donne – per capire le diverse esperienze del dono e del sacrificio, la distinzione uomo/donna è utile al 95%, perché c’è sempre stata un’élite di donne che nella cura e nel sacrificio somigliavano più ai loro mariti che alle loro serve.

Ad un certo punto è nato il ‘mercato della cura’, ma l’esperienza millenaria della cura come regno degli schiavi, dei servi e delle donne (povere), continua a segnare pesantemente la nostra società e il nostro capitalismo. Lo vediamo ovunque. I lavori di cura (sanità, educazione) sono pagati poco perché ancora associati al sacrificio e al dono-obbligo, ancora profondamente condizionati dalla cultura sacrificale-senza-reciprocità. Il riconoscimento dei lavoratori della cura continua ad essere insufficiente, come lo è la nostra riconoscenza nei loro confronti.

La disistima della cura è stata ed è una delle ragioni profonde del malessere che ha accompagnato e accompagna il mondo del lavoro. La cura è una dimensione essenziale di ogni vita umana buona, ma l’associazione tra cura e servitù l’ha tenuta ben distante dalla sfera pubblica e quindi dall’economia (per non parlare della politica). Colpisce sempre la carestia di cura nelle imprese, negli uffici, che non diminuisce con l’arrivo di molte donne in questi luoghi, perché, in genere, è la non-cura del registro maschile a prevalere su tutti e tutto.

La cura continua ad essere maltrattata, non stimata, umiliata, oggi non meno del passato. I nuovi schiavi non sono comprati a Lisbona o Nantes, ma sul ‘mercato del lavoro’ dove uomini e donne ricchi comprano servizi offerti da donne e uomini poveri, che offrono per necessità quella cura che i potenti non amano e disprezzano. Abbiamo combattuto per secoli per eliminare la schiavitù e la servitù dalla sfera politica, e oggi siamo totalmente e colpevolmente silenti di fronte alle schiavitù-servitù che regna nella sfera economica in materia di cura.

Infine, per la forte influenza che la cultura economica esercita sull’intera vita sociale, i valori e le virtù dell’economia e del business stanno cambiando e colonizzando anche il mondo e i tempi della cura. Efficienza, velocità, fretta, stress, meritocrazia, incentivi, entrano anche dentro casa, e distruggono quel poco che restava dei tempi, dei ritmi, delle parole, dello spirito della cura. Varcando la soglia di casa non cambiamo i tempi, non cambiamo spirito, non cambiamo parole. E non buchiamo più il tempo, non assaporiamo l’eternità, non sperimentiamo la libertà che solo il tempo diverso del prendersi cura ci può donare. Il valore economico cresce quando riduciamo il tempo impiegato. Il valore della cura cresce insieme al tempo investito.

Quando riusciamo ad entrare nel tempio della cura, le ore nostre e quelle degli altri si espandono, le nostre vite si allungano, la morte di tutti si allontana. Come nell’infanzia, quando le giornate non finivamo mai, e un anno di scuola sembrava eterno. La prima reciprocità della cura è il dono di un tempo più lento e più lungo, è un ritorno al tempo infinito dell’infanzia.

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Sul confine e oltre/12 - Il «ritmo» altro di tempo e relazioni che cambia la vita

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 09/04/2017

Sul confine e oltre 12 rid«Questo pomeriggio, tornando giù dalla cava con l’asino carico di breccia, non sei stata avvicinata da un uomo? Non gli hai dato un pezzo di pane?’, riprese a domandare il carabiniere. ‘E’ un peccato quello di cui mi accusa? Fare la carità è un peccato?’. ‘Non ti sei accorta – riprese il carabiniere - che quell’uomo era un soldato nemico?’. ‘Era un nemico? Che cosa vuol dire?. ‘E che aspetto aveva?’, domandò il carabiniere. ‘Un aspetto di un uomo’, rispose Caterina»

Ignazio Silone, Una manciata di more

 Ora et labora non è soltanto l’immagine e il messaggio del monachesimo. È anche il respiro della nostra civiltà, che si è costituita scandendo tempi diversi, componendo una sinfonia nella varietà dei ritmi, nell’alternanza di suoni e di silenzio. Le parole e lo spirito del lavoro sono diversi da quelli della preghiera, alleati e amici perché ad un tempo vicini e lontani, intimi e stranieri. Quando, in quegli antichi monasteri, si tornava dalla vigna e si entrava nel coro, si lasciava un tempo per trovarne un altro.

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Il tempio infinito della cura

Sul confine e oltre/12 - Il «ritmo» altro di tempo e relazioni che cambia la vita di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 09/04/2017 «Questo pomeriggio, tornando giù dalla cava con l’asino carico di breccia, non sei stata avvicinata da un uomo? Non gli hai dato un pezzo di pane?’, riprese a do...
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Sul confine e oltre/11 - Riti che consumano la vita e il senso del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/04/2017

Sul confine e oltre 11 rid«La generosità, la nobiltà sono scomparse e, con esse, la contropartita spettacolare che i ricchi ricambiavano ai miserabili»

Georges Bataille, La nozione di dépense

Le molte, troppe persone che lavorano poco, male, o niente, non sono il solo sintomo della grave malattia del mondo del lavoro. Un altro suo grave segno di malessere, ancora poco visibile, sono quei lavoratori che lavorano troppo, che dissipano enormi energie nei nuovi riti delle imprese, nuove vittime sacrificali immolate ai nuovi dèi.

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Nelle civiltà arcaiche il sacrificio era caratterizzato da una tensione fondamentale tra l’utile e l’inutile. Il sacrificio è un dono utile e gradito agli dèi-idoli se e in quanto è inutile sul piano umano, se è espressione di una qualche nostra perdita. Le offerte sacrificali attivano l’economia divina perché negano l’economia umana. Nella Bibbia il sacrificio perfetto (l’olah: "far salire") consisteva nell’offerta degli animali migliori, che venivano interamente bruciati, senza lasciare nessun resto utilizzabile dai sacrificanti: «Il sacerdote brucerà il tutto sull’altare come olocausto, sacrificio consumato dal fuoco» (Levitico 1,9). Affinché l’atto del sacrificio sia massimamente utile a Dio deve essere massimamente inutile agli uomini, o, meglio, disutile. Il sacrificio perfetto è, dunque, associato a una perdita, al puro spreco economico, a quella che filosofo Bataille chiamava dépense. Questa idea è ancora dominante nel significato corrente del termine sacrificio: sacrificarsi per qualcuno, per qualcosa, rimanda a una perdita che il sacrificante subisce a vantaggio del destinatario del sacrificio. Una perdita, una dissipazione, che acquista, paradossalmente, una dimensione positiva.

Ed è a questo livello radicale che sacrificio e dono si incontrano. Tra le molte pratiche arcaiche di dono (i cosiddetti potlàc: "consumare"), studiate dagli antropologi nei primi anni del XX secolo, particolarmente interessanti sono quelle caratterizzate dalla distruzione del "dono" di fronte al rivale. Nel popolo Tlingit (tra Canada e Alaska), per esempio, un capo si presentava davanti a un altro capo e sgozzava un certo numero di schiavi. Il rivale, qualche giorno dopo tornava e sgozzava un numero ancora maggiore di uomini. Queste gare, dove la dimensione dissipativa è assoluta e arcaica, nella loro brutale trasparenza ci possono fare intravvedere dimensioni analoghe e presenti in modo spurio nel nostro tempo.

Nonostante la novità assoluta nella cultura del sacrificio portata dal messaggio di Cristo, per tutto il Medioevo e oltre questi elementi arcaici del dono-sacrificio hanno continuato a essere ben presenti. Non capiamo quel mondo senza la magnificenza dei ricchi e dei potenti, le grandi spese improduttive per il culto, gli sprechi delle feste patronali e delle processioni, i fuochi d’artificio, vere e proprie gare di doni dissipatori allo scopo di creare e mantenere ranghi e potere nella città, e/o per meritarsi qualche sconto di pena in purgatorio – sono ancora molti, troppi, i potlàc dei mafiosi nei nostri paesi e nelle nostre feste.

Nella spiritualità cristiana, poi, è rimasta per secoli l’idea che il sacrificio-dono è gradito a Dio perché espressione di una nostra perdita, di una rinuncia, di un costo. L’analogia economica usata per intendere la vita spirituale, portava con sé necessariamente l’idea di prezzo, e quindi che nel rapporto con Dio per avere qualcosa (grazie, benedizioni...) occorresse pagare. E così persino la vita consacrata nella verginità per lungo tempo è stata letta e vissuta come una scelta di grande valore spirituale proprio perché dono-sacrificio della parte più preziosa della persona. Sant’Ambrogio affermava che vergine è «la vittima della castità». Per San Gregorio Magno la verginità sostituiva il martirio: «Il tempo delle persecuzioni è passato, ma la nostra pace ha un suo martirio». Una idea sacrificale, espressione di una teologia dell’espiazione, che ritroviamo ancora viva nel Novecento, dove ricorrendo all’immagine dell’olocausto, si incoraggiano le vergini a «perseverare fermamente nel sacrificio e a non sottrarre e prendere per sé una parte anche minima dell’olocausto offerto sull’altare di Dio» (Sagra Virginitas, Pio XII, 1954).

La Riforma protestante ha segnato un momento di svolta anche in questa cultura del dono-sacrificio. Lutero individuò nella mentalità sacrificale ancora presente nella Chiesa e nella cristianità la principale ragione dell’allontanamento dalla genuinità e novità dell’evento cristiano. E non aveva torto, perché quella cultura del sacrificio-perdita era una continuazione della teologia economica e meritocratica pre-cristiana. Per Lutero non aveva alcun senso cristiano rinunciare all’utile umano sperando in un utile divino: quei nostri sacrifici non servono a nulla, perché dall’altra parte non c’è un Dio che è interessato a quelle nostre perdite. Il Dio cristiano non è un idolo affamato. Il paradiso non va guadagnato da noi, perché ci è stato già dato in dono. Da qui anche la sua critica ai conventi, ai monasteri e al valore della vita consacrata in quanto offerta in sacrificio. E anche la condanna degli sprechi vistosi, delle magnificenze dei culti, dei pellegrinaggi, delle feste, dell’ozio, dei lussi.

Tutto ciò che nella vita civile e religiosa era dispendio inutile per gli uomini venne interpretato dalla Riforma come sacrificio e quindi come una sbagliata ricerca di meriti spirituali, come comportamento contrario al cristianesimo vero della sola gratia. La gratuità dei sacrifici fu vista come una gratuità perversa, perché se è vero che ogni dono è una rinuncia a qualcosa di proprio per il bene di qualcun altro, nel rapporto con Dio questo schema non funziona perché il Dio di Gesù Cristo non ha bisogno dei nostri sacrifici – perché l’unico sacrificio buono e vero è quello che ha fatto lui per noi dando la vita per amore, e una volta per sempre, e la sola reciprocità da parte nostra è la gratitudine per Dio e l’amore per il prossimo.

E così la gratuità di una azione umana venne letta come la più alta forma di non-gratuità spirituale. Questa interpretazione dell’inutilità e perdita intramondana come desiderio improprio di guadagno oltremondano, portò il mondo della riforma a guardare con sospetto la gratuità tout court, sia nella sfera civile che in quella religiosa, a considerarla un mercanteggiare sul piano sbagliato. È questa la radice culturale profonda che ha generato l’idea che la gratuità sia qualcosa di tutto sommato negativo. O è inutile o è sbagliata, perché non trova una giustificazione né nell’economia umana (dove vige l’utile) né, tantomeno, sul piano spirituale. Una diffidenza profonda che ritroviamo a cuore del capitalismo e del suo "tabù della gratuità".

Calvino, poi, con la sua "dottrina della predestinazione" spinse questa rivoluzione alle sue estreme conseguenze. Dato che gli uomini non hanno alcun potere di modificare l’economia divina, le uniche nostre azioni buone e benedette sono quelle orientate all’economia umana e ai suoi fini. Il lavoro, la professione, la produzione, prendono così il posto che nella cultura medioevale avevano l’ozio, gli sprechi e la contemplazione, e tutto ciò che non è utile, orientato razionalmente all’utilità, viene condannato. I soli sacrifici buoni sono quelli orientati a fini terreni e utili, e quindi anche al lavoro. Un utile economico e lavorativo che non può e non deve diventare un merito per il cielo, ma che è l’unico merito possibile e lodevole sulla terra. L’inutilità, la perdita, il debito-colpa, la pigrizia, sono il grande e unico demerito dei singoli e dei popoli. L’utile e il merito, cacciati via dal paradiso, diventano così i sovrani assoluti della terra.

Ma c’è di più. Le pratiche dissipatrici, quegli atti gratuiti tanto utili perché inutili, in questi ultimi anni di capitalismo stanno ritornando con sempre maggiore forza e pervasività. Un nuovo culto sacrificale – altro paradosso – nato da quei Paesi di prevalente cultura protestante e calvinista che tanto aveva criticato l’inutilità e i sacrifici "gratuiti".

I potenti hanno sempre usato la dépense come strumento per dire e ribadire il proprio potere, e quindi per creare status, per umiliare i sudditi. File interminabili, risposte importanti che arrivano sempre nell’ultimo giorno utile, ritardi intenzionali negli appuntamenti, attese inutili per "segnare" le distanze... Chiedere e pretendere sacrifici dai sudditi, che non hanno alcun scopo se non quello di umiliare le persone e rafforzare le gerarchie: pratiche sociali ben note a tutti, ieri e oggi. Ciò accade negli ambienti laici, ma anche in quelli religiosi, dove le pratiche inutili al solo fine di rafforzare distanze e poteri sono particolarmente pericolose perché vengono rivestite da una giustificazione sacrale e sono spesso interiorizzate dalle stesse vittime come necessarie e magari buone.

Le grandi imprese, però, si stanno spingendo molto lontano in queste pratiche sacrificali dissipatrici. Riunioni fissate di domenica quando potrebbero essere fatte di lunedì, alle dieci di sera invece che nel pomeriggio, il 24 dicembre e non il 23, chiamate al lavoro persino nel giorno di Pasqua. Perdite inutili di tempo e di vita, che non hanno nessuno scopo produttivo né di efficienza. Sono pura dissipazione cultuale, dépense che i membri dei team finiscono con l’auto-infliggersi immersi in questa nuova cultura sacrificale, dove le offerte valgono tanto più quanto più inutili e dissipative. Orari insostenibili e inutilmente infiniti, che riducono spesso efficienza e qualità del lavoro, che però servono ad aumentare il valore della vittima offerta in olocausto. Riunioni di lavoro dove si dovrebbe parlare dei problemi del lavorare, e che invece si trasformano in estenuanti riti inutili ma utili per consolidare ruoli e gerarchie. Fino ad arrivare al vero e proprio sacrificio dell’intera vita privata e familiare, dove rivive il potlàc di pura distruzione, una dépense disutile all’economia aziendale ma essenziale al culto perché segnale di devozione totale e assoluta. Nuovi olocausti.

"Doni" che diventano poi strumenti di concorrenza e rivalità tra lavoratori e tra aziende, che gareggiano tra di loro usando come linguaggio i propri sacrifici-dono totalmente gratuiti, e inutili. Questa gratuità pervertita sta uccidendo la gratuità buona e si sta mangiando quel poco che restava della cultura del lavoro dei secoli passati. E sta oscurando il vero valore che avevano e hanno alcune azioni inutili, quello di poter gridare una libertà più grande.

L’umanità ha impiegato millenni per giungere a una idea di Dio che non ha bisogno di mangiare gli uomini e le nostre cose per essere saziato, placato, abbonito. Ma gli uomini, i potenti, non hanno mai smesso di desiderare di essere dio. Se non capiamo subito la natura sacrificale neo-arcaica dell’attuale capitalismo, quando un giorno ci accorgeremo di essere precipitati in un culto perpetuo e assoluto sarà senz’altro troppo tardi. Potremo svegliarci sopra un altare sacrificale, e le danze e i canti per noi saranno già iniziati.

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Sul confine e oltre/11 - Riti che consumano la vita e il senso del lavoro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 02/04/2017

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Georges Bataille, La nozione di dépense

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L’utilità divorante dell’inutile

Sul confine e oltre/11 - Riti che consumano la vita e il senso del lavoro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 02/04/2017 «La generosità, la nobiltà sono scomparse e, con esse, la contropartita spettacolare che i ricchi ricambiavano ai miserabili» Georges Bataille, La nozione di dépense L...
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Sul confine e oltre/10 - Sfidati a ritrovare il linguaggio della reciprocità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/03/2017

«Sul confine e oltre 10 new ridL’obbligo di reciprocità nello scambio non è una risposta a specifici poteri legati agli oggetti, ma una concezione cosmica che presuppone una circolazione eterna delle specie e degli esseri»

M. Mauss, Saggio sul dono

All’origine dell’ethos dell’Occidente c’è il dono con le sue ambivalenze. Molti miti dell’inizio associano la storia umana al rifiuto degli uomini di stare e rimanere in una condizione di armoniosa reciprocità di doni. I racconti di Prometeo e Pandora (“tutto dono”), o quelli di Adamo ed Eva, ci dicono con linguaggi diversi che gli esseri umani sono incapaci di edificare la propria civiltà sul dono libero. Ma ci dicono anche che esiste un rapporto profondo tra dono e disobbedienza, tra gratuità e autorità, tra libertà e gerarchia.

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Nell’Eden la sottomissione della donna all’uomo, radice di ogni altra subordinazione sociale, è frutto della loro comune disobbedienza: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (Genesi 3,16). Dal fallimento del primigenio rapporto di reciprocità nasce la prima relazione gerarchica di dominio. E così la gerarchia diventa la principale risposta all’insuccesso della gratuità libera, la sua prima alternativa, il suo primo nemico.

Esiste, infatti, una tensione radicale tra la gerarchia e il dono. La gerarchia mangia i doni dei sudditi, li consuma sotto forma di sacrificio: i re, i faraoni, i sacerdoti, pretendono le primizie, vogliono sempre la parte migliore (Zeus condanna Prometeo perché gli offre la parte peggiore del toro squartato). Ma la gerarchia teme più di ogni altra cosa il dono libero e non orientato ai suoi obiettivi perché non orientabile. Cercare di trasformare il dono-gratuità in cose simili ma innocue è la tendenza-tentazione invincibile di ogni gerarchia, che fa di tutto per togliere dal dono la sua eccedenza ingestibile, il suo pungiglione velenoso perché libero.

Anche i governi delle organizzazioni hanno bisogno della creatività della libertà e del dono, ma vorrebbero solo quella che può (e che deve) rimanere dentro i confini stabiliti e custoditi. E così, nei momenti di crisi vera, quando la gratuità libera sarebbe la prima cosa veramente necessaria, ci si ritrova indigenti proprio di questo essenziale.

Sta quasi tutta qui la tragedia del dono nelle imprese e nelle istituzioni. Questa tragedia si manifesta a vari livelli. Le comunità e i movimenti della società civile, non di rado anche le imprese, nascono anche, e in molti casi soprattutto, dalle passioni, dai desideri, dall’eccedenza, dalla nostra voglia di vita, di futuro, di infinito. Quindi dalla nostra gratuità. Queste forme associate del vivere sono generate perché qualche persona, almeno una, un giorno vede spazi tutti nuovi e interminati per esprimere fino in fondo la propria personalità e i propri sogni. Vede che c’è un luogo, e quello soltanto, dove gli ordinari limiti che ci sono altrove sono scomparsi, dove le barriere sono cadute, o non si vedono più. Tutto diventa possibile. E parte verso l’infinito, anche quando tutto si compie in un sottoscala, o in un villaggio in mezzo alla foresta.

Poi con lo scorrere del tempo gli ideali e le passioni diventano pratiche, nascono le prime proto-istituzioni, si definiscono i responsabili, si scrivono le regole. Quindi i contratti, i regolamenti, e presto si forma l’inevitabile gerarchia. E così quelle comunità-movimenti diventano via via associazioni, organizzazioni, cooperative, imprese, che per poter funzionare e crescere hanno bisogno di gestire, normalizzare, eliminare e bandire quelle pratiche spontanee e quelle eccedenze che erano state all’origine della prima esperienza. Al fine di poterla gestire e incanalare dentro le regole di governo, per poter coordinare e orientare le azioni verso gli obiettivi istituzionali, diventa necessario uniformare e standardizzare i comportamenti. E muore la prima libertà dei primi doni. I soli doni che restano sono i sacrifici per nutrire la gerarchia e i suoi obiettivi, per sfamare la sua fame. Tutto ciò accade non perché il management sia cattivo o ottuso, ma per la stessa natura e vocazione della gerarchia, che per svolgere il suo compito deve incoraggiare le componenti più ordinarie, gregarie e addomesticate della creatività e della libertà, e quindi combattere le dimensioni più sovversive e destabilizzanti della gratuità, quelle che però sarebbero essenziali soprattutto nei momenti più importanti e delicati (crisi, cambi generazionali, prove…).

È questa una delle dinamiche più importanti delle istituzioni: una volta che la nostra gratuità ha generato organizzazioni, la dinamica intrinseca e necessaria del loro governo finisce per negare l’espressione e la pratica di quei doni liberi che l’avevano fatta nascere. L’organizzazione "figlia" mangia il dono "padre". È così che terminano molte tra le creazioni collettive più belle, perché il corpo generato dalla gratuità spegne lo spirito originario creativo e libero, il solo soffio che la vita conosce. Questo "teorema di impossibilità" scatta in molte organizzazioni e istituzioni, ma è centralissimo nelle cosiddette Organizzazioni a Movente Ideale (Omi) e quindi nelle comunità spirituali e carismatiche, che molte volte si spengono, appassiscono e muoiono perché la gerarchia e il governo impediscono alle sue risorse di gratuità di operare e quindi di salvare l’organizzazione dalla propria estinzione. Ne abbiamo quotidiana e ampia evidenza.

Alla base della progressiva eliminazione del dono libero, un ruolo chiave lo gioca il processo di trasformazione del dono in incentivo. Doni e incentivi sembrano realtà molto diverse. Ma se li guardiamo bene ci accorgiamo che sono concetti confinanti che si assomigliano. I rapporti di reciprocità basati sullo scambio di doni, creano per la loro stessa natura posizioni di debito/credito relazionale che sono altamente generativi e radicalmente complicati da governare. I doni che nascono per rispondere ad altri doni, non essendo mai equivalenti tra di loro, non riescono a compensare e a "saldare" il debito del primo dono, ma rialimentano il rapporto e riattivano il circuito della reciprocità. Quando, in altre parole, si riconosce un dono ricevuto e si cerca di ricambiarlo con un altro dono, il secondo dono non è il primo dono con il segno meno davanti, ma è un atto originario che tiene aperta e rilancia la catena delle reciprocità dei doni.

Ecco perché questa reciprocità, che è stato il primo linguaggio con il quale le comunità si sono incontrate e hanno iniziato a conoscersi, progressivamente ha generato la reciprocità commerciale del contratto. La corrispondenza perfetta ed equilibrata del contratto, infatti, mira a chiudere un rapporto, mentre la corrispondenza imperfetta e squilibrata della reciprocità di doni ha come scopo mantenere quel rapporto umano aperto, generativo, fecondo, e quindi imprevedibile, capace di sorprenderci e sorprendere, come la vita. Nella reciprocità tra doni il "credito" creato dal primo dono non viene compensato dal secondo dono, che resta eccedente, e questa eccedenza diventa madre di nuovi rapporti, alba di nuovi giorni. La compensazione tra doni è impossibile, o quanto meno è sempre imperfetta e parziale, perché non possediamo l’unità di conto per fare i calcoli, perché non li vogliamo fare, e per di più spesso li sbagliamo alimentando dissapori e conflitti. Come in un iceberg, la parte più grande e importante del dono è quella invisibile. Ciò che riusciamo a vedere è solo la sua superficie, ma sappiamo che al di sotto dei suoi segni vive una energia potente, misteriosa, capace di cose straordinarie: può riedificare un’intera comunità ma può anche distruggerla. Questa parte invisibile e oscura del dono è la radice del fascino e della paura che il dono ha sempre esercitato ed esercita su di noi.

Ma – e siamo nel cuore della tragedia del dono – la sua parte sommersa, i calcoli non fatti e i conti che non riportano, i debiti e i crediti che non si compensano tra di loro, sono quanto più odiano le imprese, e in genere le organizzazioni. L’utopia di ogni organizzazione è allora riuscire ad ottenere la creatività, la passione, l’energia, la generosità dell’homo donator senza le sue ambivalenze, le sue richieste di gratitudine, le riconoscenze, senza legami. E così operano una manipolazione genetica e lo trasformano in homo oeconomicus. L’incentivo è il primo strumento per tentare la manipolazione del dono in contratto. I due si assomigliano, un po’: l’homo oeconomicus è un homo donator privato della sua energia originaria, creatrice, destabilizzante e distruttiva.

L’incentivo, se lo osserviamo bene, si presenta realmente come una sorta di contro-dono all’interno di una forma di reciprocità. È quanto il principale (proprietà e/o management) "dona" all’agente (il lavoratore) in cambio di un dato comportamento fatto a suo vantaggio. Ecco perché qualche economista (tra cui il premio Nobel George Akerlof) ha descritto il rapporto di lavoro come uno "scambio di doni", aggiungendo, onestamente, l’aggettivo "parziale". L’incentivo può essere descritto come un contro-dono parziale, perché totalmente spuntato della sua componente libera, per rendere l’agente controllabile e gestibile dal principale. Non a caso l’incentivo è spesso chiamato dalle aziende (impropriamente) premio, al fine di sottolineare simbolicamente la sua dimensione di dono simulato, di dono… parziale. Peccato che se c’è qualcosa nella vita umana che non si presta a riduzioni parziali, a essere accorciato, spuntato, tagliato, è proprio il dono. Diversamente da altre realtà viventi, il dono vive solo se è intero: se lo riduco, lo dimezzo, semplicemente lo uccido. L’incentivo, presentandosi come dono ridotto e parziale, è in realtà l’anti-dono, l’antidoto che difende il corpo aziendale dal dono vero e libero, che scompare e non c’è più quando ne avremmo bisogno per ripartire, per risorgere.

Le imprese continuano a vivere, a nascere e a rinascere perché tanti lavoratori violano il tabù della gratuità, subendone tutte le conseguenze. Le imprese non lo sanno e non lo vogliono, ma se sono vive e rinascono è perché il tabù della gratuità è ogni giorno profanato da persone libere che non riescono a non donare, nonostante il divieto di farlo. Non riusciamo a non donare perché siamo vivi, e perché gli incentivi sono troppo poco: vogliamo e valiamo molto di più.

Molto tempo fa, il dono generò il mercato. Potrà, un giorno, il dono rinascere dal cuore del mercato?

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Sul confine e oltre/10 - Sfidati a ritrovare il linguaggio della reciprocità

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/03/2017

«Sul confine e oltre 10 new ridL’obbligo di reciprocità nello scambio non è una risposta a specifici poteri legati agli oggetti, ma una concezione cosmica che presuppone una circolazione eterna delle specie e degli esseri»

M. Mauss, Saggio sul dono

All’origine dell’ethos dell’Occidente c’è il dono con le sue ambivalenze. Molti miti dell’inizio associano la storia umana al rifiuto degli uomini di stare e rimanere in una condizione di armoniosa reciprocità di doni. I racconti di Prometeo e Pandora (“tutto dono”), o quelli di Adamo ed Eva, ci dicono con linguaggi diversi che gli esseri umani sono incapaci di edificare la propria civiltà sul dono libero. Ma ci dicono anche che esiste un rapporto profondo tra dono e disobbedienza, tra gratuità e autorità, tra libertà e gerarchia.

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L’epoca del dono parziale

Sul confine e oltre/10 - Sfidati a ritrovare il linguaggio della reciprocità di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/03/2017 «L’obbligo di reciprocità nello scambio non è una risposta a specifici poteri legati agli oggetti, ma una concezione cosmica che presuppone una circolazione eterna de...
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Sul confine e oltre/9 - Per un mercato guidato anche dalla «mano visibile»: il dono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/03/2017

Sul confine e oltre 09 rid«Anche se il mondo in cui viviamo è meno violento di qualsiasi mondo del passato, questo è solo uno dei suoi aspetti. L’altro aspetto evidenzia esattamente il contrario: uno spaventoso aumento di violenza e minaccia di violenza. Il nostro mondo risparmia più vittime e contemporaneamente uccide più vittime di quanto sia mai avvenuto in passato»

René Girard, Violenza e religione

La gratuità è il principale tabù del capitalismo. La teme come il pericolo più grande, perché se la lasciasse correre liberamente nei suoi territori, ne verrebbe contagiato e il suo "veleno" ne decreterebbe la morte, oppure – ed è la stessa cosa– lo trasformerebbe in qualcosa di sostanzialmente diverso. Scorgere il tabù della gratuità dentro la nostra economia (e società) è difficile perché è coperto da un altro tabù: quello del riconoscimento della sua esistenza. Per capire, allora, il rapporto profondo tra gratuità e capitalismo dobbiamo violare questo primo tabù, iniziando, semplicemente, a parlarne.

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Secondo una importante tradizione antropologica, l’origine delle civiltà è profondamente legata a due parole: la violenza  e il sacro. Anche la Bibbia fa iniziare la storia umana fuori dall’Eden con il fratricidio di Caino. La morte del mite e giusto Abele, diventa il primo prezzo della fondazione della civiltà umana. Miti fondativi di altre città (ad esempio, Roma) narrano simili violenze e omicidi, che a volte hanno gli dèi come complici. Le comunità hanno dovuto imparare a gestire le pulsioni violente degli uomini, per evitare la propria auto-distruzione. La creazione dei tabù va inserita all’interno degli strumenti per regolare e controllare la violenza, per evitare che diventasse mimetica, ripetuta, esplosiva. Strumenti che le comunità hanno pagato a caro prezzo, perché i tabù sono stati posti su persone e azioni che hanno prodotto discriminazioni e non di rado autentiche persecuzioni nei confronti di chi era oggetto del tabù (donne, lebbrosi, poveri, malati, interi popoli).

Il rapporto tra una comunità e i suoi tabù presenta una radicale ambivalenza. Da una parte il tabù è tutto ciò che si deve evitare, che non si può toccare, da cui immunizzarsi per non essere contaminati e contagiati dal suo spirito (il mana). E le parole associate al tabù non si devono pronunciare. La terra del tabù non può essere attraversata. Le comunità sono cambiate, morte e risorte secondo il ritmo della creazione, violazione ed eliminazione dei tabù. E, sebbene con modalità tutte diverse, questo stesso ritmo ancestrale della terra continua a scandire anche la nostra storia.

Al tempo stesso, il contenuto del tabù esercita sulle persone un’attrazione fatale, forte, a tratti invincibile: il tabù non può essere violato, ma (e in quanto) desidereremmo profondamente farlo – è il desiderio di vendetta nei confronti di Caino («chiunque mi troverà mi ucciderà») che produce il suo "segno" («nessuno tocchi Caino»): Genesi 4,14. Le sue parole sono vietate, ma forte è la tentazione di volerle pronunciare. In base a quello che, ad esempio, Freud chiama "il tabù dei dominatori", i re non possono essere toccati dai loro sudditi, un divieto che mira a contrastare la passione-desiderio profonda di uccidere i re e dominatori presente nei membri delle comunità.

Gli oggetti, gli animali, le persone considerate tabù presentano poi una duplice caratteristica: non posso essere toccati, ma non possono neanche essere eliminati. L’obiettivo della gestione dei tabù non è la scomparsa del tabù, perché se il tabù sparisse porterebbe via con sé anche il confine dell’invalicabile, la comunità si contaminerebbe e quindi si cadrebbe esattamente dentro il "peccato" che il tabù vuole evitare. Il tabù e i suoi segni devono allora essere molto visibili, tutti devono poter riconoscere i suoi totem.

Possiamo capire molto del capitalismo, e in genere, dell’economia, se prendiamo sul serio il suo tabù della gratuità. Il rapporto tra la gratuità e il mercato contiene i tratti antropologici del tabù. Innanzitutto vi ritroviamo la violenza originaria. Le comunità tradizionali, o pre-mercantili, si basavano su due princípi originari e distinti: la gerarchia e il dono. La gerarchia era lo strumento per la gestione del potere, mentre il dono regolava la reciprocità nelle famiglie, nei clan, nelle comunità. L’avvento dei mercati avviene sull’uccisione del dono, che deve morire per poter creare al suo posto il contratto e lo scambio commerciale, che si caratterizzano proprio per non essere dono, per non essere gratuità. L’economia di mercato non mette in discussione la gerarchia, anzi la radicalizza – tanto che le imprese capitalistiche sono anche il principale luogo, insieme agli eserciti, dove nell’era delle democrazie la gerarchia continua a svolgere una funzione essenziale e tutto sommato accettata socialmente.

All’origine del mercato c’è invece una sorta di violenza primordiale sulla gratuità-dono (anche se non è avvertita né raccontata come tale dai suoi protagonisti). Anche la violenza di Caino è legata al dono e all’economia. Dio non accettava i suoi doni, una negazione che generò la violenza su Abele, l’eliminazione del fratello fragile che sapeva fare i doni. La gratuità è fragile e vulnerabile come Abele, esposta all’abuso, indifesa e umile. Ma Caino è anche il protettore dei mestieri, il fondatore della prima città, che prende il nome da suo figlio (Enock). E il suo stesso nome ha una forte assonanza con il verbo qanah: acquistare. Sempre nel libro della Genesi, poi, la parola "profitto" (bècà) fa la sua comparsa all’interno della scena della vendita di Giuseppe come schiavo da parte, ancora, dei suoi fratelli (37,28). La fraternità dei doni è negata dalla comparsa del profitto. A Roma il numus (moneta) era il non-munus (dono). Nella modernità, a cuore del mito fondativo dell’economia politica, "la mano invisibile", ritroviamo la tesi che il motore della ricchezza delle nazioni non è "la benevolenza", la gratuità, dei commerciali, ma i loro interessi personali (Adam Smith). La mano visibile che conteneva i doni viene sostituita da quella invisibile del mercato, che non è la Provvidenza degli antichi, perché la sua natura è l’assenza del dono.

Anche la gratuità nel mercato, poi, non può essere profanata, ma deve essere visibile e ben in vista. Il confine che ne delimita il suo territorio coincide con i limiti stessi del mercato: la terra del gratuito inizia dove finisce quella del mercato, del contratto, degli incentivi. La gratuità inizia oltre i cancelli dell’impresa, dopo che abbiamo fatto la spesa e torniamo a casa. Tutti devono vederlo, tutti devono capirlo senza il bisogno di discorsi complicati: è sufficiente la vista dei suoi segni e dei suoi totem: cartellini, le durate delle pause pranzo, la gestione degli straordinari, e soprattutto il linguaggio. Le parole del tabù non possono essere pronunciate: guai a pronunciare la parola dono o gratuità e i suoi sinonimi durante l’ordinario svolgimento del lavoro.

Ma, come accadeva in alcune civiltà totemiche, anche qui ci sono alcuni momenti precisi nei quali l’oggetto intoccabile del tabù può e deve essere toccato, sacrificato, consumato ritualmente per potersi impadronire della sua forza misteriosa e terribile. E così nelle convention aziendali il dono viene evocato, pronunciato, mangiato, per rimetterlo poi il giorno dopo nel suo tabernacolo inviolabile. Si organizzano iniziative di volontariato dei dipendenti, cene sociali per aiutare i poveri, purché siano attività gestite e regolate dentro i confini rassicuranti delle regole e limitate a quel solo momento controllato. Questi donuncoli, doni addomesticati, gestiti e controllati, sono nuove bambole vudu, che riproducono le sembianze della persona vera (il dono-gratuità) con la speranza di controllarla e stregarla.

Quali sono, allora, le ragioni profonde della paura che la gratuità esercita sull’economia capitalistica, per farne il suo primo tabù? La prima ragione si trova, anche qui, nel suo fascino. Anche nella gratuità, come per tutti i tabù, il divieto nasce da un desiderio profondo. Nulla desideriamo più del dono: lo bramiamo, ci fa vivere, è la nostra vocazione profonda. E se l’economia è vita, anche nella vita economica il fascino del dono (dato e ricevuto) si sente forte, molto, troppo forte.

Ma nulla è più trasgressivo del dono, nulla è più libero. È trasgressivo e libero ovunque, ma nell’ambito economico i suoi effetti sarebbero particolarmente devastanti. Perché spezzerebbe le regole dei contratti, minerebbe la gerarchia. Se le imprese accettassero e accogliessero il registro del dono-gratuità, si ritroverebbero con persone ingestibili, imprevedibili, capaci di azioni non controllabili dalle gerarchie e dagli incentivi, perché libere veramente. Avrebbero a che fare con lavoratori che seguirebbero le proprie motivazioni intrinseche, che lavorando travalicherebbero i limiti del contratto – che sono troppo stretti e piccoli per contenere la forza eccedente del dono. Si troverebbero di fronte persone che fuoriuscirebbero dagli organigrammi, dalle job-description, con molta più vita, quindi con molta più confusione e rumore come accade con le cose vive. E se poi i responsabili delle imprese riconoscessero questo dono come tale, se quindi diventassero riconoscenti nei confronti dei loro colleghi e dipendenti, si creerebbe nelle imprese quella reciprocità libera e quei legami forti che sono i tipici frutti dei doni riconosciuti, accettati, ricambiati. E la gerarchia cambierebbe, diventerebbe fraterna e quindi fragile, vulnerabile, esposta come il mite Abele: ma la fragilità e la vulnerabilità sono i grandi nemici delle imprese capitalistiche e della loro culture immunitaria. Per evitare il rischio del riconoscimento del dono e la generazione di legami forti, la cultura e la governance delle imprese rispondono semplicemente negandolo: è così che il tabù della gratuità rinasce e si rafforza ogni giorno. Le imprese e i mercati si proteggono dalla gratuità per proteggersi dalla propria morte.

Ma c’è ancora qualcos’altro da dire. Negli ultimi anni, il tabù della gratuità è uscito dall’economia e dalle grandi imprese per passare progressivamente e velocemente alla società civile, alle organizzazioni non-profit, alle associazioni, ai movimenti, alle comunità. Il tabù si sta espandendo e la casa della gratuità sulla terra diventa sempre più angusta. Le tecniche e gli strumenti di gestione, che fino a poco tempo fa erano esclusiva delle sole grandi imprese e banche, stanno entrando in molti luoghi della società civile. Il vero prezzo, quasi sempre invisibile sebbene sia molto alto, dell’ingresso del management capitalistico all’interno delle organizzazioni civili, dei movimenti, delle comunità, è l’eliminazione progressiva in questi luoghi del dono libero. E così, paradossalmente, il tabù della gratuità si crea proprio nel cuore di realtà nate dalla e per la gratuità.

Chi riuscirà a violare questo grande tabù del nostro tempo? E se qualche profeta lo farà per noi, saremo poi capaci di camminare verso la terra delle donne e degli uomini liberi? O, anche noi, nel deserto rimpiangeremo la carne e le cipolle della schiavitù?

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Sul confine e oltre/9 - Per un mercato guidato anche dalla «mano visibile»: il dono

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/03/2017

Sul confine e oltre 09 rid«Anche se il mondo in cui viviamo è meno violento di qualsiasi mondo del passato, questo è solo uno dei suoi aspetti. L’altro aspetto evidenzia esattamente il contrario: uno spaventoso aumento di violenza e minaccia di violenza. Il nostro mondo risparmia più vittime e contemporaneamente uccide più vittime di quanto sia mai avvenuto in passato»

René Girard, Violenza e religione

La gratuità è il principale tabù del capitalismo. La teme come il pericolo più grande, perché se la lasciasse correre liberamente nei suoi territori, ne verrebbe contagiato e il suo "veleno" ne decreterebbe la morte, oppure – ed è la stessa cosa– lo trasformerebbe in qualcosa di sostanzialmente diverso. Scorgere il tabù della gratuità dentro la nostra economia (e società) è difficile perché è coperto da un altro tabù: quello del riconoscimento della sua esistenza. Per capire, allora, il rapporto profondo tra gratuità e capitalismo dobbiamo violare questo primo tabù, iniziando, semplicemente, a parlarne.

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Violiamo il grande tabú

Sul confine e oltre/9 - Per un mercato guidato anche dalla «mano visibile»: il dono di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/03/2017 «Anche se il mondo in cui viviamo è meno violento di qualsiasi mondo del passato, questo è solo uno dei suoi aspetti. L’altro aspetto evidenzia esattamente il ...
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Sul confine e oltre/8 - Dilaga la socialità a buon mercato e ci tradisce

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/03/2017

Sul confine e oltre 08 rid«Questa è la caratteristica di un animo grande e nobile: non ricercare un utile dai benefici fatti, ma badare al beneficio in se stesso»

Seneca, De Beneficiis

Sine merito: senza merito. Era questo il nome con cui tra Medioevo e Modernità venivano chiamati i primi Monti di pietà, quelle proto-banche popolari create e promosse dai francescani dell’Osservanza. Per sottolineare la loro natura di istituzioni umanitarie o filantropiche, si negava la presenza del merito. Qualche secolo prima, Bernardo di Chiaravalle descriveva la passione di Cristo come: donum sine pretio, gratia sine merito, charitas sine modo: dono senza prezzo, grazia senza merito, amore senza misura. Per dire dono escludeva il prezzo, per dire amore eliminava la misura, per dire grazia negava il merito. Merito prezzo misura, da una parte; dono grazia carità, dall’altra.

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Queste distinzioni e opposizioni hanno retto l’ethos e la spiritualità dell’Occidente per molti secoli, finché la cultura capitalista, con la sua nuova religione pelagiana e quindi meritocratica, ci ha finalmente convinto che tutte quelle parole fossero invece dalla stessa parte, amiche e alleate; che il dono andasse insieme al prezzo, che merito fosse un nome nuovo dell’amore, che la grazia/gratuità fosse utile solo se presente nella ‘giusta’ (e microscopica) misura, come nei vaccini dove si introduce nel corpo una minuscola dose di virus per immunizzarci da esso.

Le maggiori innovazioni umane sono avvenute quando dentro una religione, una filosofia, una tradizione sapienziale, qualcuno ha spezzato il rapporto economico-retributivo con gli dèi, con gli idoli, con i faraoni e con i re, e ha proclamato un giubileo ‘di liberazione dei prigionieri’. Una di queste grandi innovazioni antropologiche e teologiche è contenuta nel libro di Giobbe, il libro biblico che più ha combattuto la logica economico-retributiva della fede. Il libro si apre con una scommessa tra Dio-Elohim e il suo angelo Satan, che riguarda esattamente la gratuità. Il Satan, leggiamo nel Prologo, era tornato da un giro sulla terra, e notata la rettitudine di Giobbe, chiede a Dio: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani ... Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!”» (Giobbe 1,9-11). Interessante che l’autore del racconto scelga Satan come esponente della visione ‘economica’ della religione e della vita – una scelta che già in sé dice molte cose. Il Satan sfida Elohim e sfida Giobbe, sfida Dio e sfida l’uomo, per provare se è possibile che sulla terra ci sia almeno un uomo che tema-ami Dio ‘per nulla’, cioè gratuitamente, senza una ricompensa, senza essere pagato.

Sappiamo essere buoni e giusti per il valore intrinseco della bontà e della giustizia, o solo perché speriamo in una qualche ricompensa? Siamo capaci di amore puro o, invece, siamo soltanto dentro un registro commerciale di dare-avere? Si comprende allora che il tema della gratuità è profondamente legato a quello della libertà: che cosa resta della libertà nostra e di quella degli altri se, in realtà, nel cuore delle nostre azioni c’è un padrone che pagando ci fa fare quello che vuole – il primo ad essere liberato in ogni superamento delle religioni retributive, ieri e oggi, è Dio stesso, che finalmente esce dai palazzi dei re e degli imperatori e viene ad abitare in mezzo a noi.

Non stupisce allora che alcune tappe decisive della storia umana siano state scandite da dibattiti, scismi, rivoluzioni che avevano a che fare direttamente con la gratuità. Che cosa è che ci salva veramente? Sono i meriti, gli incentivi, l’utile, o è invece qualcos’altro che vale proprio perché non è merito, non è incentivo, non è utile? Valiamo, abbiamo una dignità infinita, perché ce lo meritiamo, perché siamo utili a qualcuno o a qualcosa, o invece per qualche altra ragione che viene prima di tutto questo? Sta qui, nella sua essenza, la natura di quella dimensione che chiamiamo gratuità, che le culture, le religioni e le filosofie hanno declinato in molti modi, ma che al centro ha questa dimensione di non-utile, di non-merito, di non-incentivo. La resistenza costante che le civiltà hanno sempre opposto, fino a tempi recenti, all’affermazione della logica del mercato derivava dall’intuizione, formulata in vari modi, che quando nei rapporti umani scatta il registro mercantile, questo ha una tendenza invincibile a scacciare e a distruggere proprio quel qualcosa di vago, difficile da definire, sottile ed essenziale che si chiama gratuità.

L’incentivo è oggi lo strumento principale con il quale il culto capitalistico sta eliminando la gratuità dal mondo degli uomini - grazie a Dio, di gratuità ce ne sarà sempre molta nella natura, nel sole, nel cielo, nella vita degli animali, nella pioggia e nella neve, nei bambini. Ogni culto idolatrico tende, infatti, all’eliminazione di ogni dimensione intrinseca nelle nostre azioni. Finché facciamo qualcosa perché ci crediamo o perché ci piace, non siamo ancora prigionieri degli idoli. L’ideologia dell’incentivo produce esattamente lo svuotamento delle dimensioni intrinseche dell’azione, perché assegnando un prezzo ad ogni cosa e ad ogni atto, finisce per espellere la gratuità dal mondo. L’incompatibilità tra la gratuità e l’ideologia dell’incentivo non sta nell’opposizione gratis-pagamento (c’è molta gratuità dentro molti rapporti retti da contratti e regolati da prezzi, e ci sono molti servizi resi gratis che non hanno alcuna gratuità). Il conflitto è più radicale, e rimanda esattamente a quella tesi del Satan: non è possibile che le persone facciano cose buone gratuitamente, ‘senza essere pagati’.

La fede nell’incentivo si sta estendendo indisturbata ovunque, perché, paradossalmente, si presenta come una espressione della ‘libertà dei moderni’.

Una delle sue ultime conquiste è la cosiddetta sharing economy. La condivisione di case, automobili, pasti, si presentano oggi come esperienze innovative e più umane di quelle possibili nei tradizionali mercati e imprese capitalistiche. E alcune lo sono realmente. Ma, come sempre, per capire che cosa sta accadendo anche in questo affascinante e variegato mondo della sharing economy, bisogna essere capaci di vedere i suoi effetti non-intenzionali, che sono quelli più importanti.

L’essenza della sharing economy consiste nel creare nuovi mercati in ambiti precedentemente retti dalla gratuità. Fino a pochi anni fa, per andare in vacanza si doveva scegliere tra un amico che ci ospitava o un hotel. Se volevamo andare a cena fuori, l’alternativa era tra amici-parenti e ristorante. Se dovevamo fare un viaggio potevamo affidarci all’autostop o ai mezzi a pagamento. Due mondi ben distinti e retti da logiche ben diverse: gratuità e profitto. Oggi si sta sviluppando una terza via: per andare in vacanza possiamo essere ospitati anche da famiglie sconosciute; per cenare fuori ci sono persone che organizzano cene per noi; per viaggiare c’è anche una rete che associa domanda e offerta di passaggi in auto; e molto altro ancora: basta pagare qualcosa. Il mercato continua a fare il suo mestiere, offrendo scambi di mutuo vantaggio, che consentono incontri tra persone che non si sarebbero mai incontrate senza questi nuovi mercati ‘collaborativi’, che funzionano grazie alla combinazione di socialità e profitto. Un fenomeno che piace molto, perché sembra aggiungere una nuova opportunità lasciando tutto il resto intatto (hotel, amici, ristoranti, treni, autostop …). Allarga l’insieme delle scelte possibili, e quindi espande le libertà delle persone e delle società.

In realtà, il mercato e i suoi attori hanno già capito che l’arrivo di questi nuovi ‘prodotti low cost’ non lascia affatto intatti i mercati precedenti, perché è in atto, anche qui, una ‘distruzione creatrice’ che sta scardinando antichi equilibri e rendite, e che potrebbe creare nel medio periodo un’autentica rivoluzione. E così i protagonisti dei mercati di oggi reagiscono, si preoccupano, e i più scaltri cercano alleanze con questi nuovi soggetti.

Nel secondo ambito coinvolto dalla rivoluzione della sharing economy, quello della gratuità o della socialità sine merito, tutto tace. Gli interessi dei mercanti sono concentrati, chiari e forti, e così decise sono le reazioni. Gli ‘interessi’ dei non-mercanti sono invece diffusi, poco visibili e soprattutto molto deboli. Per la gratuità non ci sono organizzazioni di categoria, sindacati, né tantomeno politici di riferimento. E così nessuno si muove. E non ci accorgiamo che anche sull’altro lato della sharing economy è in atto una ‘distruzione creatrice’, che avvenendo su beni comuni e senza diritti di proprietà, si compie nell’indifferenza o tra gli applausi, e qualche volta è accolta con lo stesso entusiasmo con cui l’imperatore azteco Montezuma accolse lo spagnolo Cortés, pensando che fosse ritornato il loro dio (Quetzalcoatl). Quando il mio vicino di casa inizia ad organizzare a casa sua cene a pagamento, ciò che accade è la creazione, invisibile ma realissima, di un ‘costo opportunità’. Anche se non farò il mio home restaurant, quella creazione di prezzo agisce anche su di me. Perché quando farò i miei conti per calcolare il costo di una cena con sette amici, non userò il costo di mercato degli ingredienti ma il maggiore ‘costo opportunità’ della cena dei vicini. E magari, un giorno, concluderò che costa troppo, e rinuncerò a questa socialità gratuita, o comincerò a chiedere un prezzo – o quantomeno un rimborso spese. Altri continueranno ad invitare amici a cena, con lo sconto del 50% sul prezzo della cena simile nell’appartamento accanto. E presteremo la casa ad un nostro parente con uno sconto dell’80% sul prezzo corrente nella sharing economy delle abitazioni. Noi ci sentiremo generosi, e loro penseranno di aver ricevuto un dono. E i poveri saranno sempre più esclusi dalle case, dai viaggi, dai pasti, emarginati da una cultura che non vuole più nulla e nessuno sine merito.

Presto questi nuovi mercati sociali saranno regolati e diventeranno mercati come tutti gli altri. Nel frattempo, però, avremo ancora ridotto il campo della gratuità, e avremo sempre meno amici.

Nel libro di Giobbe, il Satan non vinse la sua scommessa, perché Giobbe fu capace di continuare ad essere giusto ‘per nulla’, gratuitamente. Per oltre duemila anni la sua vittoria è stata anche la nostra, e siamo stati capaci di invitare a cena qualcuno ‘senza ricompensa’.

Ma se domani, un altro angelo farà un altro giro in cerca di qualcuno capace di gratuità, riuscirà a trovare un nuovo Giobbe sulla nostra terra del merito, dell’utile e dell’incentivo?

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Sul confine e oltre/8 - Dilaga la socialità a buon mercato e ci tradisce

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/03/2017

Sul confine e oltre 08 rid«Questa è la caratteristica di un animo grande e nobile: non ricercare un utile dai benefici fatti, ma badare al beneficio in se stesso»

Seneca, De Beneficiis

Sine merito: senza merito. Era questo il nome con cui tra Medioevo e Modernità venivano chiamati i primi Monti di pietà, quelle proto-banche popolari create e promosse dai francescani dell’Osservanza. Per sottolineare la loro natura di istituzioni umanitarie o filantropiche, si negava la presenza del merito. Qualche secolo prima, Bernardo di Chiaravalle descriveva la passione di Cristo come: donum sine pretio, gratia sine merito, charitas sine modo: dono senza prezzo, grazia senza merito, amore senza misura. Per dire dono escludeva il prezzo, per dire amore eliminava la misura, per dire grazia negava il merito. Merito prezzo misura, da una parte; dono grazia carità, dall’altra.

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Ma il futuro è «senza merito»

Sul confine e oltre/8 - Dilaga la socialità a buon mercato e ci tradisce di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 12/03/2017 «Questa è la caratteristica di un animo grande e nobile: non ricercare un utile dai benefici fatti, ma badare al beneficio in se stesso» Seneca, De Beneficiis Sine mer...
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Sul confine e oltre/7 - Il sacro strumento compra tutto. Ma fino a quando?

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/03/2017

Sul confine e oltre 07 rid«In un mondo dove con la moneta si compra tutto, la moneta diventa tutto»

Giacomo Becattini, Da una conversazione privata

Fin dall’aurora delle civiltà, il denaro ha avuto la tendenza invincibile a entrare nel territorio del sacro. I custodi del sacro hanno cercato di contenere il denaro dentro i suoi argini, ma in alcuni momenti della storia la moneta e il sacro sono diventati alleati, e hanno dato vita a culti idolatrici e a molte varianti di "mercati delle indulgenze". Nel nostro tempo l’esondazione della moneta ha generato un culto economico molto più radicale e pervasivo di quello delle età precedenti. Ma questa nuova patologia religiosa non sta generando anticorpi e riformatori capaci di capire la gravità di questo nuovo mercato globale, e reagire con efficacia.

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La distinzione-separazione tra sacro e profano è un asse fondamentale delle religioni e delle culture, anche se le esperienze che i popoli hanno fatto e fanno del sacro e del profano sono molto diverse tra di loro, e occupano l’intero spettro che va dal sacro che attrae e seduce fino al sacro che terrorizza perché tremendo. L’umanesimo biblico conosce questa stessa separazione, ma è anche attraversato da un grande e continuo tentativo di spezzare la soglia che separa sacro e profano, città e tempio. La sua anima profetica e sapienziale è stata, infatti, una lunga e tenace pedagogia per insegnarci che il "luogo di Dio" non era né la tenda né il tempio, ma la terra. Tutto il mondo è sacro perché creazione, e quindi tutto il mondo è profano, perché Elohim è presente sulla terra senza diventare la terra né le sue cose. Per questo, al culmine della rivelazione biblica, leggiamo che nella nuova Gerusalemme «non vidi in essa più alcun tempio» (Apocalisse 2,22-27).

La separazione sacro-profano era (ed è) soprattutto un sistema di controllo sociale, di creazione e di rafforzamento delle gerarchie e delle caste. La prima e originaria distinzione sacro-profano generava, infatti, l’altra separazione altrettanto radicale puro-impuro. Gli impuri non avevano accesso al sacro, il luogo della purità, che era tale se e in quanto non-contaminato dall’impurità. Nel mondo delle religioni è stato sempre difficile aiutare e riscattare veramente i poveri perché, essendo in genere impuri, non potevano essere toccati dai puri.

Anche lo sviluppo dell’economia e quindi della moneta è profondamente legato a questa radicale distinzione del e nel mondo. Al centro delle economie monetarie troviamo, però, un elemento che nel tempo si è rilevato decisivo per le sorti dell’Europa, del mondo, del capitalismo: la moneta è esente dalle leggi della purità/impurità. Diversamente da oggetti, animali, persone, materiali organici, la moneta non diventa impura quando viene toccata da persone o cose impure – sono rare le esperienze di lebbrosari e di villaggi di lebbrosi nei quali circolava soltanto una moneta speciale che non poteva uscire al di fuori di quei confini rigidamente disegnati e gestiti dai "puri".

Questa speciale immunità del denaro è tanto significativa quanto poco esplorata. A differenza di tutte le altre cose che diventano impure se toccate da un essere o da un oggetto impuro, la moneta a contatto con l’impurità non diventa impura. Il primo "strumento" che i cambiavalute medioevali utilizzavano per testare la non falsità delle monete erano i denti: venivano morse negli angoli, e la prima abilità di quei proto-banchieri iniziava dalla sensibilità dentale. Una moneta talmente pura da poterla introdurre in bocca. Pecunia non olet (la moneta non puzza), esprime anche questa antica immunità e non-contaminazione del denaro, che ritroviamo in varie forme in tutte le civiltà. Al tempo stesso, però, anche per l’influenza decisiva del cristianesimo, nel Medioevo il denaro era anche "lo sterco del demonio", che in quanto tale puzza, eccome. Puzza, ma il suo contatto non contamina. È l’unico sterco che non rende impuri. Non stupisce, allora, che nell’Europa cristiana fossero soprattutto gli ebrei, confinati nei loro ghetti, a gestire il denaro, e che nell’India tradizionale fossero prevalentemente i paria a svolgere le funzioni bancarie. Gli scartati, perché considerati portatori di una qualche impurità, che toccando le monete le trasformano nell’unica "cosa" che può circolare tra tutti senza contaminare nessuno - due "negativi" moltiplicati tra di loro che diventano magicamente un "positivo".

Questa speciale protezione dall’impurità ha così consentito alle monete di essere scambiate ovunque e con chiunque: tra cristiani, ebrei, musulmani, fedeli e infedeli, persino con popoli che quelle religioni consideravano idolatri. Non avremmo avuto lo sviluppo dei commerci nel Medioevo e poi la nascita del capitalismo globale senza questo statuto speciale di immunità e di esenzione del denaro.

Questo lasciapassare speciale di cui godevano le monete, valeva anche per entrare nel regno dei morti. È antichissima e diffusa la tradizione di mettere monete sul corpo, sugli occhi, sulla bocca dei defunti. I sacerdoti egizi si rifiutavano di trasportare lungo il Nilo i morti che non avevano saldato i debiti prima di morire. E così, per estensione, si mettevano monete nelle tombe per il pagamento del pedaggio a Caronte, o per saldare ipotetiche colpe-debiti non ancora pagati all’arrivo nel regno dei morti. In questa creativa "partita doppia" tra cielo e terra, la moneta diventava il mezzo per cancellare nell’aldilà colpe maturate nell’al di qua. È molto emblematico questo pagamento dell’obolo per l’attraversamento dell’ultima soglia. La moneta che diventa l’oggetto sulla terra più simile agli dèi e l’oggetto più profano, la cosa che puzza di meno e quella che puzza di più, ma non sottoposto alle prime leggi religiose dell’impurità, che quindi può essere toccata da tutti senza nessuna conseguenza.

Così, quando sulla fine del Medioevo a qualche possessore di moneta venne in mente di usare il denaro per pagare qualcun altro per adempiere una propria promessa o un voto (crociate, pellegrinaggi), di pagare poveri perché pregassero e facessero penitenze per loro conto, o addirittura di comprare con il denaro anche lo sconto di anni di purgatorio o un pezzo di paradiso, non si fece nulla di veramente innovativo perché le monete avevano sempre avuto anche una natura e un potere sovrannaturali. Nel mondo biblico e nei Vangeli la moneta "impura" occupa un ruolo importante. Ma l’impurità delle monete era legata alla presenza su di esse di immagini di re, animali o in ogni caso idolatriche. Anche se non senza fatica e disagio, gli ebrei però maneggiavano e toccano le monete che apparivano loro impure. C’era un solo luogo nel quale quelle monete non potevano entrare: il tempio. Al suo interno erano ammesse solo monete senza immagini idolatriche, e quelle monete pure erano il linguaggio con cui comunicare con YHWH attraverso i sacrifici e le offerte.

Il "disincanto del mondo" e la desacralizzazione della terra sono il risultato anche, e in certo senso soprattutto, del lasciapassare che la moneta ha ottenuto in tutte le soglie visibili e invisibili.

Se poi guardiamo bene, scopriamo altri aspetti interessanti nascosti sotto l’immunità della moneta. L’esenzione della moneta dalle regole di purità/impurità non ha né eliminato né ridotto i sistemi castali nel mondo, ma li ha rafforzati, ne ha creati di nuovi, li ha esasperati. Innanzitutto, anche nel rapporto con la moneta gli impuri sono sempre esistiti e continuano a esistere. Erano e sono coloro che non sono nelle condizioni di possedere la moneta, coloro che non la toccano. Per un altro paradosso dell’economia, l’impurità delle società monetarie nasce da un non-contatto: è impuro chi non può toccare la moneta. Impuro perché povero, escluso, scartato dai paradisi dei ricchi e dei capienti, dal club del mercato. Ieri e oggi.

Ma c’è ancora qualcosa di più radicale e quindi poco visibile a occhio nudo. Nell’antichità, la moneta che passava tra le varie classi sociali e le oltrepassava, consentiva che i ricchi e i bramini potessero utilizzare i servizi dei lavoratori manuali e dei poveri senza doverli "toccare", senza il bisogno di entrare in un rapporto personale con essi. Pagando qualcosa, in genere molto poco, i detentori del potere dato dalla moneta riuscivano e riescono a usufruire di braccia e di mani senza toccarle. Con lo sviluppo dell’economia di mercato e poi del capitalismo finanziario, la moneta è così diventata il grande mediatore del nostro tempo, lo strumento che ci consente di vivere vicini senza toccarci per non contaminarci, per non farci ferire dalla diversità. Con la smaterializzazione del denaro che, grazie alla tecnica, sta conoscendo la nostra epoca, si è amplificata la natura "spirituale" del denaro, che, come gli dèi più evoluti, non si vede ma opera, agisce, salva, condanna. La moneta elettronica invisibile media sempre più i nostri rapporti reciprocamente immuni, con la novità che non è più necessario toccare neanche la moneta, divenuta magicamente un "mediatore nulla". Non vediamo più i paria che toccando la moneta la purificano con la loro impurità, ma nel sottosuolo del nostro capitalismo tanti continuano a lavare denaro sporco: nuovi fuoricasta, la stessa antica funzione.

C’è, infine, un’ulteriore, decisiva, novità della nostra civiltà della moneta invisibile e onnipotente se confrontata con quelle passate. Fino a tempi recenti, le cose acquistabili con la moneta erano tutto sommato poche e quasi mai decisive. Con essa non si potevano acquistare i beni più importanti della vita, ma solo una piccola parte di salute, una piccola parte di stima, una parte (meno piccola) di comfort e di cura. Per millenni le monete compravano poco, certamente non tutto, e soprattutto erano poche e per pochi. La natura sacrale e misterica della moneta dipendeva anche dalla sua scarsità e quindi dall’ignoranza e incompetenza che sperimentava la grande maggioranza delle persone che entravano in contatto con essa – simili a quelle che oggi sperimenta la stragrande maggioranza delle persone nei confronti della nuova finanza.

Oggi con la moneta invece si compra molto, si vorrebbe comprare quasi tutto, ci stanno convincendo che si possa e si debba comprare tutto: dalla salute alla giovinezza, dalla giustizia alla bellezza. Ecco allora ritornare un nuovo e globale "mercato delle indulgenze", dove con il denaro si promettono e si comprano paradiso e purgatorio, dove i ricchi dai poveri comprano tempo, servizi, cura, vita. Non si paga più un povero perché preghi per noi o vada al nostro posto alle crociate o a Santiago di Compostela, ma perché ci venda un rene, ci generi un bambino, o ci aiuti a morire.

La moneta continua a voler comprare il paradiso. E noi glielo consentiamo, anche perché ci siamo dimenticati di come era quello vero.

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Sul confine e oltre/7 - Il sacro strumento compra tutto. Ma fino a quando?

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/03/2017

Sul confine e oltre 07 rid«In un mondo dove con la moneta si compra tutto, la moneta diventa tutto»

Giacomo Becattini, Da una conversazione privata

Fin dall’aurora delle civiltà, il denaro ha avuto la tendenza invincibile a entrare nel territorio del sacro. I custodi del sacro hanno cercato di contenere il denaro dentro i suoi argini, ma in alcuni momenti della storia la moneta e il sacro sono diventati alleati, e hanno dato vita a culti idolatrici e a molte varianti di "mercati delle indulgenze". Nel nostro tempo l’esondazione della moneta ha generato un culto economico molto più radicale e pervasivo di quello delle età precedenti. Ma questa nuova patologia religiosa non sta generando anticorpi e riformatori capaci di capire la gravità di questo nuovo mercato globale, e reagire con efficacia.

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Onnipotente è la moneta

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Sul confine e oltre/6 - Le «canzonette» dell'analfabetismo spirituale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2017

Sul confine e oltre 06 rid«Le mie parole sono troppo difficili per te, per questo ti suonano troppo facili»

Yehudah ha-Levi, Kuzari

La legge aurea del mutuo vantaggio è alla base di molta vita buona degli esseri umani. Il mercato è una rete di scambi di interessi reciproci, ma anche le associazioni e persino le comunità e le famiglie possono essere descritte come un intreccio di relazioni mutuamente vantaggiose. Nei processi educativi, nelle azioni tese alla riduzione delle vulnerabilità economiche e sociali, se ci muoviamo dentro il registro del mutuo vantaggio abbiamo più speranze di dar vita a pratiche rispettose della dignità della persona, più responsabili, meno paternalistiche. Per questa ragione, sono sempre stati molti i sapienti di ogni tempo ad aver individuato nella reciprocità (non nell’altruismo né nell’interesse individuale) la prima regola della vita comunitaria e sociale. Ci sono però dei luoghi del vivere dove cercare il mutuo vantaggio non è bene, perché soddisfare i reciproci interessi porta solo e semplicemente allo snaturamento e alla degenerazione di quei rapporti. Uno di questi ambiti è quello della spiritualità.

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Il nostro tempo conosce una grande offerta di spiritualità a "buon mercato", anche nel mondo delle grandi imprese. Il capitalismo di ultima generazione, intuendo che i lavoratori sono esseri spirituali e simbolici, cerca di offrire un po’ di spiritualità anche nel posto del lavoro. Per un mutuo vantaggio: più felici i lavoratori, più produttivi i team di lavoro, più profitti per le imprese. Ma siccome la spiritualità vera e seria è difficile da "offrire" e da "domandare", tanto più in una cultura come la nostra che ha perso contatto con le fedi e con la pietà popolare – e la stessa parola "spiritualità" è diventata ambigua. Capire e apprezzare oggi una preghiera o un salmo è difficile almeno quanto capire e apprezzare le sinfonie di Mahler o di Respighi. Siamo dentro un immenso processo di analfabetismo spirituale di ritorno. Abbiamo perso capacità di vita interiore, di pace dell’anima e di silenzio del cuore. Abbiamo accelerato lo scorrere del tempo, e poi lo abbiamo riempito in ogni sua frazione. E quando proviamo a prendere in mano libri come la Bibbia, un testo di poesie e di vera spiritualità, ci appaiono difficili, lontani, troppo lontani, muti. Non ci parlano, non li capiamo, non li amiamo, non ci amano.

La spiritualità autentica non è un bene di consumo, non aumenta il nostro comfort. Non è equivalente a un massaggio o a una doccia emozionale nella Spa degli hotel dove si svolge la convention aziendale. Nel benedetto giorno in cui incontriamo una spiritualità vera e ci sentiamo chiamati dentro a iniziare un nuovo cammino meraviglioso, comincia una vera liberazione. Entriamo in crisi, siamo ribaltati dentro, spesso all’inizio perdiamo produttività, non aumentiamo efficienza, perché per molto tempo, a volte per anni, siamo troppo distratti da "cose" che le imprese non vogliono. E così, in cerca del mutuo vantaggio, il mercato abbassa i prezzi e offre imitazioni della spiritualità, facili e innocue, che ci intrattengono, ci attivano le emozioni più semplici che quando si placano ci lasciano come ci avevano trovati. Quelle emozioni che non ci chiedono nessuna conversione, e che ci confermano, quieti, in quanto facevamo ed eravamo già. Invece delle "sinfonie" ci offrono canzonette orecchiabili che riprendono strutture melodiche e armoniche delle opere vere, magari cantate qualche volta da star dell’Opera. E siamo tutti felici: le imprese, i lavoratori, i cantanti. Soffrono solo Mahler e Respighi, e chi li ama e li stima. Meglio Paulo Coelho di Isaia, il Vangelo di Tommaso di quello di Marco.

È questo un tipico caso in cui non è vera la regola del "meglio poco che niente", perché quel "poco", non essendo una porzione o un assaggio dello stesso bene, ma una merce di un’altra natura, (quasi) sempre la canzonetta spegne il desiderio delle sinfonie.

Questo riduzionismo della fede e della spiritualità a bene di comfort sta influenzando decisamente anche quel poco che resta della vita religiosa e spirituale delle chiese, delle parrocchie e delle comunità religiose, nuove e antiche. È questo un altro dei molti paradossi del nostro tempo confuso, un altro eloquente segno della natura religiosa-idolatrica del capitalismo. La spiritualità ridotta a bene di consumo, considerare il fedele come un cliente portatore di gusti da soddisfare al meglio, offerte religiose tese a rispondere alla domanda di consumo spirituale, stanno infatti sempre più caratterizzando il nuovo panorama religioso.

Nel corso dalla sua lunga storia, l’umanesimo ebraico-cristiano è stato più volte profondamente influenzato anche dalla logica del mercato. La Bibbia abbonda di episodi, di racconti, di parole presi in prestito dal lessico e dalla mentalità dell’economia del tempo. Non capiamo l’Alleanza senza conoscere i trattati commerciali del tempo, né la Legge (Torah), né gli amici di Giobbe. E senza considerare l’economia non comprendiamo molte parole del Nuovo Testamento e neanche il Medioevo cristiano. Commercio ed economia hanno sempre offerto categorie e parole per interpretare e raccontare le vicende religiose.

Ma – e qui sta il punto – quelle economiche e commerciali sono sempre state categorie e parole che hanno sistematicamente condotto le fedi su strade sbagliate, più facili, ma cattive. I profeti, alcuni libri sapienziali, hanno cercato di raddrizzare quelle strade storte, mostrando un altro Dio e un altro uomo liberati dalla logica commerciale e dalla religione retributiva. Nel cristianesimo non ci siamo ancora liberati del tutto della "teologia dell’espiazione", che ci ha fatto leggere per molti secoli l’incarnazione e la morte di Gesù come il pagamento di un "prezzo" a un Dio-Padre detentore di un credito infinito verso l’umanità per i nostri infiniti peccati e debiti, che poteva essere ripagato-appagato solo dal sacrificio del suo Figlio unigenito. Una teologia-ideologia economico-retributiva che ci ha allontanato molto dalla Bibbia, ci ha velato le pagine più belle dei Vangeli, di san Paolo, e ha deformato l’idea di Dio e degli uomini. Le metafore e i linguaggi non sono mai strumenti neutrali: le parole creano, tutte, anche quelle sbagliate.

Oggi stiamo vivendo un’altra stagione di profonda influenza dell’economia sulla fede e sulla spiritualità, la più grande e potente di tutte quelle che abbiamo conosciuto lungo la storia. Il mercato sta cambiando progressivamente quella cultura religiosa che prima aveva combattuto e ridotto a merce, e sta creando nuove "teologie dell’espiazione e dei debiti", più potenti delle antiche, per la inedita potenza di questo nostro mercato.

Il fenomeno è molto vasto. In superficie si manifesta nell’ingresso dentro parrocchie e movimenti del linguaggio e delle categorie aziendali e del management. Leadership, velocità, efficienza, e persino merito, sono parole che ormai costituiscono il vocabolario ordinario di molte comunità, movimenti, parrocchie, famiglie.

Ma dobbiamo guardare oltre la superficie se vogliamo vedere le cose più interessanti. Pensiamo, per esempio, al crescente sviluppo di "liturgie emozionali", dove si coinvolgono le persone attivando soprattutto la loro dimensione sentimentale ed emotiva. La gente arriva in Chiesa o nei gruppi influenzata da una cultura centrata sul consumo che attiva sempre più le emozioni e, in linea con la cultura edonista di questo capitalismo, incoraggia la ricerca del piacere. E così chiede, più o meno consapevolmente, che anche le liturgie e le pratiche religiose soddisfino i bisogni emotivi. Se i responsabili di comunità e movimenti cedono alla logica economica del "mutuo vantaggio", abbassano i prezzi, e soddisfano le preferenze dei consumatori-fedeli che diventano presto fedeli-consumatori.

È difficile cogliere questa deriva consumistica della fede, perché la liturgia e l’esperienza delle fedi sono sempre state eventi globali, che hanno coinvolto la persona intera, incluse le loro emozioni. Tutti i sensi sono attivati nelle esperienze spirituali: gli occhi che guardano la bellezza dell’architettura, delle vetrate e degli affreschi, le mani che stringono altre mani, l’orecchio che ascolta la musica... Ma anche i culti idolatrici e totemici erano e sono esperienze sensoriali globali, che la Bibbia e i cristiani hanno duramente combattuto. Non avremmo avuto duemila anni di civiltà cristiane se nei primi tempi avessero prevalso le dimensioni emotive e di consumo nelle liturgie. Quella Rilevazione sarebbe stata riassorbita dai culti naturali circostanti. Perché, come ci ricorderà sempre la grande tradizione sapienziale, la strada che conduce ai templi è piena di tranelli e di alcune trappole mortali.

Esiste allora un "punto critico" sull’asse del consumo emotivo che non occorre superare. Senza il coinvolgimento dell’emotività, la spiritualità non diventa carne e non salva; ma se la dimensione emozionale e di consumo diventa l’unico o solo il principale registro della fede, è fin troppo probabile perdere contatto con il mondo biblico e ritrovarsi, senza né volerlo né saperlo, in un banchetto idolatrico, dove le prime vittime sacrificali siamo noi. Le comunità cristiane hanno dovuto lottare non poco per far sì che le loro cene non fossero quelle tanto comuni nei riti dei popoli del mediterraneo, per dire che l’eucarestia era tutto e solo gratuità e comunione donata, ricevuta, ridonata, rendimento di grazie. E per questo chiamavano quella cena col nome più bello: agape, lo stesso nome del loro Dio diverso.

Si vince l’eterna tentazione del consumismo idolatrico quando non si trattengono le persone dentro le liturgie, quando dalla "spiritualità-consumo" si passa alla "spiritualità-produzione", alla moltiplicazione della comunione al di fuori del tempio, non sotterrando il talento nelle cripte delle chiese. E invece l’enfasi sulla fede emotiva blocca le persone nelle case e nelle chiese, le ancora ai divani e alle panche, non le fa uscire per liberare qualcuno, almeno uno, almeno se stessi. L’enfasi sul consumo individuale e collettivo di beni religiosi trasforma inevitabilmente le comunità in club, ci allontana dalla storia, dall’incarnazione, dalle periferie, dai poveri. E quando finisce la liturgia emozionale, di quel cibo non resta nulla. L’autentica vita spirituale non è un’aspirina, ma una sostanza a lento assorbimento, che porta frutto a tempo opportuno, quando ci ritroviamo dentro qualcosa e Qualcuno che era cresciuto in silenzio nel nostro campo, mentre noi ci occupavamo di altro, degli altri. La fede di solo consumo non ci aiuta a camminare nella vita fuori dal tempio. E muore la bella laicità della strada.

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Sul confine e oltre/6 - Le «canzonette» dell'analfabetismo spirituale

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 26/02/2017

Sul confine e oltre 06 rid«Le mie parole sono troppo difficili per te, per questo ti suonano troppo facili»

Yehudah ha-Levi, Kuzari

La legge aurea del mutuo vantaggio è alla base di molta vita buona degli esseri umani. Il mercato è una rete di scambi di interessi reciproci, ma anche le associazioni e persino le comunità e le famiglie possono essere descritte come un intreccio di relazioni mutuamente vantaggiose. Nei processi educativi, nelle azioni tese alla riduzione delle vulnerabilità economiche e sociali, se ci muoviamo dentro il registro del mutuo vantaggio abbiamo più speranze di dar vita a pratiche rispettose della dignità della persona, più responsabili, meno paternalistiche. Per questa ragione, sono sempre stati molti i sapienti di ogni tempo ad aver individuato nella reciprocità (non nell’altruismo né nell’interesse individuale) la prima regola della vita comunitaria e sociale. Ci sono però dei luoghi del vivere dove cercare il mutuo vantaggio non è bene, perché soddisfare i reciproci interessi porta solo e semplicemente allo snaturamento e alla degenerazione di quei rapporti. Uno di questi ambiti è quello della spiritualità.

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Gli dei facili dei mercati

Sul confine e oltre/6 - Le «canzonette» dell'analfabetismo spirituale di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 26/02/2017 «Le mie parole sono troppo difficili per te, per questo ti suonano troppo facili» Yehudah ha-Levi, Kuzari La legge aurea del mutuo vantaggio è alla base di molta vita buon...
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Sul confine e oltre/5 - Nel tempo della «meritocrazia spirituale» dei leader

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/02/2017

Sul confine e oltre 05 rid«La spiritualità al lavoro sembra essere un nuovo e significativo paradigma manageriale che i dirigenti aziendali potranno sfruttare al fine di migliorare le proprie organizzazioni aumentando, fra gli altri, i livelli di impegno organizzativo, soddisfazione e performance dei propri dipendenti

Sofia Lupi, La spiritualità nelle organizzazioni

Nel ‘mercato della spiritualità’ sta rivivendo l’antica ‘Legge di Gresham’: la moneta cattiva scaccia la moneta buona. Questa legge scattava ogni volta che nelle piazze giravano due tipi di moneta: quella buona e quella falsa non facilmente riconoscibile come tale. La moneta cattiva infestava le piazze, e nel giro di poco tempo quella buona scompariva dalla circolazione.

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Il culto capitalistico-meritocratico, più ‘leggero’ e di veloce circolazione, sta spiazzando le fedi genuine tradizionali, spacciando i suoi culti totemici per grandi innovazioni, che poi rischiano di infettare anche ciò che resta delle antiche fedi, affascinate e sedotte a loro volta dal nuovo culto. La prima grande operazione del capitalismo di ultima generazione è stata la riduzione delle religioni e della spiritualità a merci. La seconda recentissima operazione è un autentico capolavoro: trasformare le grandi imprese nei primi consumatori di queste ‘merci spirituali’.

Pensiamo ai riti aziendali, la nuova moda nelle grandi imprese, dove ritroviamo sempre più forme liturgiche e rituali tipici delle antiche idolatrie. Gruppi di lavoro abbandonati per alcuni giorni nelle foreste e nei deserti, per iniziazioni collettive e ‘team building’; giochi di ruolo sempre più bizzarri per aumentare lo ‘spirito’ di squadra; sessioni di ‘escape room’, dove le persone vengono richiuse per un certo tempo, risolvere enigmi, e poi riuscire a fuggire nel tempo stabilito. Veri e propri riti sociali stanno sostituendo gli ormai arcaici esercizi di ‘fiducia’, dove qualcuno si lasciava cadere indietro mostrando così fiducia nei confronti degli altri membri del gruppo.

Quando, alcuni anni fa, questi giochi per adulti furono introdotti in alcune aziende innovative, le prendevamo tutti un po’ come dei momenti di ricreazione, e ci divertivamo pure. Ad un certo punto, però, il gioco è scappato di mano, abbiamo smesso di ridere, ci hanno convinto che era tutto una cosa seria, serissima. E ci abbiamo creduto. Anche le tradizionali convention, dove tutti i dipendenti indossavano la divisa (o magliettina) aziendale, dove si intonavano i tristi inni dell’impresa, sono oggi sostituiti da liturgie più sofisticate. Tra queste il ‘teatro aziendale’, dove durante le feste i dipendenti rappresentano delle pièce, scritte o riviste dai consulenti, per sublimare i conflitti e le frustrazioni del lavoro. O i cosiddetti ‘road show’, dove il top management si reca in visita nei reparti e nelle filiali, per incontrare direttamente i lavoratori nel loro ambiente. Vere e proprie visite pastorali, che si alternano a quelle ad limina.

Non stupisce, allora, che una ultima frontiera delle grandi imprese sia la spiritualità nel management, che sta conoscendo un vero e proprio boom. Si moltiplicano convegni, corsi, libri su temi molto affascinanti: ‘amore e perdono nel management’, ‘come formare leader spirituali’, ‘interiorità e leadership’, e molto altro. E così si invitano in azienda guru di ogni ‘religione’ antica e nuova, purché riescano ad aumentare il ‘capitale spirituale’ delle imprese, a coltivare il karma aziendale. Nelle imprese iniziano a fare la loro comparsa le ‘meditation room’ dove poter trascorrere alcuni minuti (ben contingentati) per recuperare energia spirituale. O ad essere prodotte vere e proprie liturgie e preghiere aziendali, con cui iniziare le riunioni di lavoro o i ‘ritiri spirituali’ aziendali. Questi riti e liturgie ‘laiche’ sono ben conosciuti da tempo nel mondo dell’economia. Ma fino a poco fa erano segreti, solo per alcuni, e fortemente osteggiati dalle chiese e dal mondo del lavoro. Oggi sono pubblici, popolari, lodati da (quasi) tutti.

Un ambito dove questa ondata di spiritualità è particolarmente evidente e pericolosa è il variegato mondo della leadership. Leader e leadership, declinati con aggettivi sempre più creativi, stanno diventando le prime parole d’ordine di questa nuova religione, che si sposa perfettamente con l’ideologia meritocratica. Parole come responsabili, dirigenti, capiufficio, sono ormai diventate vecchie e superate, legate ad un capitalismo troppo banale. Ecco allora che emergono questi nuovi termini, pronunciati sempre nella lingua sacra inglese: i leader. Questi, diversamente dai vecchi dirigenti, devono avere carisma, fascino, attrattività. Nelle nuove imprese è indispensabile ottenere il consenso dell’anima e del cuore, non basta quello del contratto, e solo un leader può guadagnarsi questo tipo di adesione dello spirito. Per la stessa natura della leadership, non tutti possiamo essere leader. Ecco allora arrivare consulenti e professionisti che sanno riconoscere nei lavoratori i segnali di vocazione alla leadership. Li selezionano, li formano, li avviano alla loro missione, che nella sua essenza consiste nella capacità di manipolare il consenso delle persone da loro guidate, portandole a dare un assenso volontario alle proposte del leader. Lo scopo ultimo del leader è infatti l’adesione intenzionale e libera dei seguaci agli obiettivi del gruppo, che vengono interiorizzate e seguite grazie all’abilità e al carisma del leader. È il superamento definitivo della gerarchia e della coercizione: il leader ha il dono di trasformare ordini esterni in ordini interiori, dove ogni seguace aderendo intimamente alle direttive del leader obbedisce solo a se stesso, realizzando così la più grande autonomia del lavoratore-seguace. Si realizza finalmente il sogno di un sistema di produzione ‘fraterno’, non più basato sul conflitto e sulla lotta, ma sul consenso libero e reciproco del cuore.

Se, allora, andiamo a guardare bene tra le righe della nuova teoria e prassi della leadership di ultima generazione scopriamo, e qualche volta leggiamo, che la figura del leader ideale è quella del profeta: cioè qualcuno seguito liberamente e con gioia per la forza del suo carisma, per la sua autorevolezza, per il suo fascino spirituale. Qualcuno che ha la capacità di convertire interiormente i suoi seguaci senza bisogno di nessun comando né controllo, perché i lavoratori interiorizzano la sua parola, diventando perfettamente autonomi e legge a se stessi. E soprattutto felici di seguirlo.

La leadership di ultima generazione si presenta allora come leadership spirituale, dando vita ad una nuova forma di meritocrazia: la ‘meritocrazia spirituale’ (Shawn van Valkenburgh). Questo new age aziendale del terzo millennio, mettendo insieme meritocrazia e spiritualità, sta implementando perfettamente quella religione retributivo-economica contro la quale avevano lottato con tutte le loro forze Giobbe, i profeti e poi il cristianesimo. E ciò che è sconvolgente, è che tutto sta avvenendo non solo nel silenzio del mondo amico del lavoro vero e della gente, ma anche di buona parte del mondo ecclesiale e in generale delle religioni ‘vere’. Tra i guru invitati a parlare di spiritualità ai manager troviamo sempre più monaci e sacerdoti, e stanno crescendo i corsi di leadership per parroci e ‘leader’ di comunità religiose, organizzati e venduti, ovviamente, dalle stesse società di consulenza e business school.

Purtroppo i promotori e divulgatori di queste quasi-teorie, non sanno che i profeti biblici e i fondatori di autentici movimenti carismatici, non si sono mai considerati dei leader. I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia), quando ricevono la chiamata di Dio oppongono resistenza, proprio perché non si sentono dei leader, né, tantomeno, vogliono diventarlo. Il solo pensiero di essere dei leader li terrorizzava. Dove invece si radunavano spontaneamente molti uomini che bramavano di diventare leader erano le scuole profetiche, che sfornavano moltitudini di ‘profeti per mestiere’ e, soprattutto, molti falsi profeti e ciarlatani. La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato recita: ‘diffidate da chi si candita a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta’, un imbroglione, o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono che si diventa ‘leader’ non volendolo diventare. Ma soprattutto ci dicono che quando le comunità si sono messe a disegnare a tavolino classi di leader, hanno finito nella migliore delle ipotesi con un buco nell’acqua, e nella peggiore formando dei mostri, anche quando mosse da ottime intenzioni.
Soltanto un paio di decenni fa, quando erano ancora vive e attente la tradizione sindacale e la cultura del lavoro vero, questi fenomeni sarebbero stati denunciati come abusi della peggiore fatta, combattuti e, soprattutto, ridicolizzati e sbeffeggiati, si sarebbe sommersa con sdegno e risate questa nuova sotto-cultura. Oggi invece, nella crisi spirituale ed etica nella quale siamo sprofondati, queste manipolazioni si presentano come innovazione, umanesimo, governance partecipativa, modernità, e sono accolte con entusiasmo.

Oggi alle imprese dobbiamo chiedere più laicità, molta più laicità. Che facciano il loro mestiere, e ridimensionino le loro mire imperialiste nel mondo e nell’anima. Dalle imprese non vogliamo né profeti né salvezza, ma che ci lascino più spazi liberi, un pezzo di terra libera dove possiamo coltivare le piante e i fiori che ci piacciono. Le imprese possono fare molte cose buone, ma non tutte. Le aziende che vogliono sinceramente aumentare il benessere dei loro lavoratori (e ce ne sono), quelle che hanno capito che la coltivazione della vita spirituale li fa vivere meglio, lascino loro un tempo adeguato per coltivare queste dimensioni essenziali della vita ma al di fuori del posto di lavoro. Con la loro famiglia, con i loro amici, con le loro comunità. Non cerchino il monopolio delle vite e delle anime. La spiritualità che fa bene e che fa vivere richiede più aria di quella possibile dentro gli uffici, più cielo di quello che si vede dalle finestre delle imprese, più luce di quella delle lampade led. E soprattutto ha bisogno di due parole che poi sono una: libertà e gratuità. Arte, fede, preghiere sono tra le espressioni umane più belle e sublimi se e perché non sono finalizzate e nulla che non siano la bellezza, la fede, la preghiera. L’unico fine che possono avere è l’infinito. Quando, invece, cerchiamo di orientarle, di finalizzarle, di usarle, queste realtà meravigliose diventano delle caricature, dei giocattoli, qualche volta dei mostri. Dietro l’offerta e la domanda di spiritualità che sta emergendo dal capitalismo ci sono certamente anche buone intenzioni, mescolate con manipolazioni e molta ingenuità. Ma gli effetti più importanti nelle realtà sociali e organizzative sono quelli non intenzionali e di medio periodo. Se oggi sottovalutiamo il movimento di spiritualità aziendale, non lo critichiamo e lo incoraggiamo, forse domani per trovare una messa in città dovremo chiedere di essere ospitati da un’impresa. Sarà una messa laica e spiritualissima, ci verrà offerta gratuitamente. E noi ringrazieremo.

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Sul confine e oltre/5 - Nel tempo della «meritocrazia spirituale» dei leader

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 19/02/2017

Sul confine e oltre 05 rid«La spiritualità al lavoro sembra essere un nuovo e significativo paradigma manageriale che i dirigenti aziendali potranno sfruttare al fine di migliorare le proprie organizzazioni aumentando, fra gli altri, i livelli di impegno organizzativo, soddisfazione e performance dei propri dipendenti

Sofia Lupi, La spiritualità nelle organizzazioni

Nel ‘mercato della spiritualità’ sta rivivendo l’antica ‘Legge di Gresham’: la moneta cattiva scaccia la moneta buona. Questa legge scattava ogni volta che nelle piazze giravano due tipi di moneta: quella buona e quella falsa non facilmente riconoscibile come tale. La moneta cattiva infestava le piazze, e nel giro di poco tempo quella buona scompariva dalla circolazione.

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La salvezza non è un’impresa

Sul confine e oltre/5 - Nel tempo della «meritocrazia spirituale» dei leader di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 19/02/2017 «La spiritualità al lavoro sembra essere un nuovo e significativo paradigma manageriale che i dirigenti aziendali potranno sfruttare al fine di migliorare le proprie ...
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Sul confine e oltre/4 - Una "carestia di gratitudine" riempie il mondo di dannati

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/02/2017

Sul confine e oltre 04 rid«La sventura è di per sé inarticolata. Gli sventurati supplicano in silenzio che vengano loro fornite parole per esprimersi. Vi sono epoche in cui non sono esauditi

Simone Weil, La persona e il sacro

Il merito è il grande paradosso del culto economico del nostro tempo. Il primo spirito del capitalismo fu generato dalla radicale critica di Lutero alla teologia del merito, ma quella "pietra scartata" oggi è diventata la "testata d’angolo" della nuova religione capitalista, che sta nascendo dal cuore di Paesi edificati proprio su quell’antica etica protestante anti-meritocratica. La salvezza per "sola gratia" e non per i nostri meriti fu posta al centro della Riforma protestante. Fu anche una ripresa, dopo un millennio, della polemica di Agostino contro Pelagio (Lutero era stato monaco agostiniano). La critica anti-pelagiana era essenzialmente un superamento dell’antichissima idea che voleva che la salvezza dell’anima, la benedizione di Dio, il paradiso, potessero essere guadagnati, acquistati, comprati, meritati dalle nostre azioni. La teologia del merito voleva imprigionare anche Dio dentro la logica meritocratica, costringendolo a punire e premiare sulla base di criteri che i teologi gli attribuivano.

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La lotta al pelagianesimo fu un’operazione tutt’altro che marginale. Fu decisiva per la Chiesa dei primi secoli (una lotta che in realtà, come possiamo vedere, non è stata mai vinta). Se, infatti, fosse stata la teologia pelagiana a prevalere, il cristianesimo si sarebbe aggiunto alle tante sette mediorientali apocalittiche e gnostiche, o trasformato in un’etica simile allo stoicismo. Avrebbe infatti perso la charis (la grazia, la gratuità), che rappresentava il suo segno specifico, e che lo distingueva nettamente dalle dottrine religiose e dalle idolatrie meritocratiche dominanti.

L’origine della religione meritocratica è dunque molto antica, si perde nella storia delle religioni e dei culti idolatrici. Il messaggio di Cristo, in continuità con l’anima profetica della Bibbia, ha operato una vera e propria rivoluzione in un mondo teologico dominato da culti economico/retributivi e dal loro merito – basta rileggere i dialoghi di Giobbe con i suoi amici per averne una idea molto chiara. Anche se nei vangeli e nei testi neo-testamentari ritroviamo residui meritocratici, le parole e la vita di Gesù furono soprattutto una critica radicale alla fede meritocratica, proseguita e sviluppata dalla teologia di Paolo. Per capirlo è sufficiente prendere la parabola dell’operaio dell’ultima ora, dove la politica salariale del "padrone della vigna" segue un criterio radicalmente anti-meritocratico; oppure considerare la figura del "fratello maggiore" nel racconto del "figliol prodigo", che rimprovera il padre misericordioso proprio perché non ha seguito il registro meritocratico nei confronti del fratello – la misericordia è l’opposto della meritocrazia: non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che commuove le viscere della misericordia. Per non parlare delle beatitudini, che sono un manifesto eterno di non-meritocrazia. Nel suo Regno vige un’altra legge: "Siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni". La perfezione di questa etica sta nel superamento definitivo del registro del merito: "Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste" (Matteo, 5).

Nonostante la chiarezza e la forza di questo messaggio, l’antica teologia economico-retributiva-meritocratica ha continuato ad influenzare l’umanesimo cristiano per tutto il Medioevo, e ben oltre. Le idee neo-pelagiane continuarono a informare la dottrina e soprattutto la prassi cristiane, fino alla vera e propria malattia del "mercato delle indulgenze", che si comprende solo all’interno di una deformazione in senso retributivo-meritocratica del messaggio cristiano. E come sempre accade in materia di religione, le conseguenze di queste idee teologiche furono (e sono) immediatamente sociali, economiche, politiche. Coloro considerati demeritevoli erano (e sono) condannati ed emarginati anche dagli uomini, e i meritevoli prima di guadagnarsi il paradiso nell’altra vita lo raggiungevano su questa terra, dove ai loro meriti erano associati molti privilegi, denaro, potere.

La storia dell’Europa cristiana è stata un lento processo per liberarsi da questa visione arcaica della fede, in un alternarsi di fasi storiche più agostiniane ad altre più pelagiane. Ma fino a tempi recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno  - altra grande parola oggi dimenticata e sostituita dai gusti dei consumatori. La scuola, ad esempio, è un luogo dove nessuno, o pochi, hanno messo in dubbio che l’impianto meritocratico dovesse essere quello prevalente nella formazione e valutazione dei bambini e dei giovani (anche se non l’unico).

Non pensiamo però che questa scelta, apparentemente non controversa, non abbia prodotto nei secoli conseguenze molto rilevanti. Sulla base dei meriti e dei voti scolastici abbiamo costruito tutto un sistema sociale ed economico gerarchico e castale, dove nei primi posti stavano coloro che rispondevano meglio a quei meriti, e negli ultimi quelli che a scuola ottenevano performance peggiori. E così medici, avvocati, professori universitari hanno avuto stipendi e condizioni sociali molto migliori degli operai e dei contadini; e oggi, in questa nuova ondata di meritocrazia pelagiana, i lavoratori che, giorno e notte, mantengono pulite strade e fogne, ricevono salari centinaia di volte inferiori a quelli dei manager delle imprese nelle quali lavorano.

Quel merito scolastico, che sembrava così ovvio e pacifico, in realtà ha determinato privilegi e dignità molto diversi tra di loro, che hanno retto e continuano a reggere l’impianto e le diseguaglianze delle nostre società. Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione, dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche, soprattutto nei Paesi più poveri – come fummo capaci di fare in Europa nel secolo scorso con l’introduzione della scuola universale, obbligatoria e, gratuita.

Oggi sarebbe più che mai urgente tornare all’antica critica di Agostino a Pelagio. Agostino non negava l’esistenza nelle persone di talenti e di impegno che poi generano quelle azioni o stati etici che chiamiamo meriti (da merere: guadagnare, mercede, lucro, meretrice). Il punto decisivo per Agostino riguardava la natura dei doni e dei meriti. Per lui erano charis, grazia, gratuità. Secondo Agostino, "Dio coronando i nostri meriti, corona i suoi doni". I meriti non sono merito nostro - se non in minima parte, una parte troppo minima per farne il muro maestro di una economia e di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti ricevuti come merito e non come doni, è una drammatica carestia di gratitudine vera e sincera. È l’ingratitudine di massa la prima nota dei sistemi meritocratici.

Quando, infatti, leghiamo la stima sociale, le remunerazioni e il potere ai talenti e quindi ai meriti, non facciamo altro che ampliare e amplificare enormemente le diseguaglianze. Persone già diseguali alla nascita per talenti naturali e condizioni famigliari e sociali, da adulti lo diventano molto di più. Nel XX secolo, soprattutto in Europa, la politica riduceva le distanze nei punti di partenza, in nome del principio di uguaglianza. Il nostro tempo meritocratico, invece, le potenzia e le estremizza. Così, se sono figlio di genitori colti, ricchi e intelligenti, se nasco e cresco in un Paese con molti beni pubblici e con un buon sistema sanitario ed educativo, se la mia dotazione iniziale di cromosomi e geni è stata particolarmente felice, ne segue che frequenterò scuole migliori, maturerò più meriti scolastici dei miei compagni nati in condizioni naturali e sociali più sfavorevoli, troverò con ogni probabilità nel mercato del lavoro un’occupazione più remunerata dal sistema meritocratico. E così, quando andrò in pensione, la distanza dai miei concittadini venuti al mondo con meno talenti, si sarà moltiplicata nel corso della vita di un fattore di 10, 20, 100.

Non capiamo allora l’aumento delle diseguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio la sua radice: il forte aumento della teologia meritocratica del capitalismo. E non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più considerati non come sventurati ma come demeritevoli, se non consideriamo l’avanzare indisturbato della logica meritocratica. Se, infatti, interpreto i talenti ricevuti (dalla vita o dai genitori) come merito, il passo di considerare immeritevoli e colpevoli coloro che quei talenti non li hanno, diventa molto, troppo, breve. L’asse dei mondi meritocratici non è il paradiso, ma l’inferno e il purgatorio. Sono i demeriti i protagonisti degli imperi del merito.

Tutte le teologie meritocratiche, prima di essere una teoria del merito, sono una teoria e una prassi del demerito, delle colpe, delle espiazioni. Si presentano come umanesimo, personalismo e liberazione, ma diventano immediatamente un meccanismo di creazione di colpe e di pene, una produzione di massa di peccati e di peccatori che poi gestiscono e controllano con un complesso sistema teso a ridurre quelle pene su questa terra e in cielo. Gli universi meritocratici sono abitati da pochissimi eletti e da una moltitudine di "dannati" che sperano per tutta la vita in sconti di pena. Ieri, e oggi, quando il posto dei predicatori pelagiani lo hanno preso i nuovi evangelizzatori della meritocrazia nelle imprese e ormai ovunque, che nei loro templi stanno ricreando nuovi fiorentissimi "mercati delle indulgenze", nei quali la moneta per comprare il paradiso, o almeno il purgatorio, non è più il denaro né i pellegrinaggi a Santiago, ma il sacrificio di interi brani della propria vita, carne e sangue. Il controllo delle anime non avviene più nei confessionali e nei manuali per confessori, ma negli uffici di coaching e counseling e, soprattutto, grazie al meccanismo dei contratti incentivanti, che accordano perfettamente i premi e le pene ai meriti e ai demeriti, definiti dettagliatissimamente dalla divinità-impresa e implementati dai suoi sacerdoti.

Ieri e oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti. Solo una rivoluzione della gratuità – urlata, desiderata, vissuta, donata – potrà liberarci da questa nuova inondazione di pelagianesimo, se durante questo tempo di schiavitù e di lavori forzati a servizio del faraone, non smetteremo di sognare insieme una terra promessa.

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Sul confine e oltre/4 - Una "carestia di gratitudine" riempie il mondo di dannati

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 12/02/2017

Sul confine e oltre 04 rid«La sventura è di per sé inarticolata. Gli sventurati supplicano in silenzio che vengano loro fornite parole per esprimersi. Vi sono epoche in cui non sono esauditi

Simone Weil, La persona e il sacro

Il merito è il grande paradosso del culto economico del nostro tempo. Il primo spirito del capitalismo fu generato dalla radicale critica di Lutero alla teologia del merito, ma quella "pietra scartata" oggi è diventata la "testata d’angolo" della nuova religione capitalista, che sta nascendo dal cuore di Paesi edificati proprio su quell’antica etica protestante anti-meritocratica. La salvezza per "sola gratia" e non per i nostri meriti fu posta al centro della Riforma protestante. Fu anche una ripresa, dopo un millennio, della polemica di Agostino contro Pelagio (Lutero era stato monaco agostiniano). La critica anti-pelagiana era essenzialmente un superamento dell’antichissima idea che voleva che la salvezza dell’anima, la benedizione di Dio, il paradiso, potessero essere guadagnati, acquistati, comprati, meritati dalle nostre azioni. La teologia del merito voleva imprigionare anche Dio dentro la logica meritocratica, costringendolo a punire e premiare sulla base di criteri che i teologi gli attribuivano.

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I tristi imperi del merito

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Sul confine e oltre/3 - Questo mercato divora vita e rende un po’ di denaro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/02/2017

Sul confine e oltre 03 rid«Il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia»

Walter BenjaminIl capitalismo come religione

Il capitalismo dei secoli XIX e XX è stato animato da uno spirito ebraico-cristiano, spirito di lavoro, di fatica, di produzione. Ma non capiamo più lo spirito del nostro capitalismo se continuiamo a cercarlo all’interno del cristianesimo o della Bibbia. La società di mercato negli ultimi anni assomiglia sempre più a una religione, ma i tratti che sta assumendo l’avvicinano alle città mediorientali di tremila anni fa, o a quelle greche e romane di alcuni secoli successivi. Ai loro spazi pubblici occupati da molte statue, da templi, steli, altari, edicole sacre, e ai loro spazi privati riempiti di amuleti, penati, e da una enorme produzione di idoli domestici. E ai loro molti sacrifici, attorno ai quali erano ordinate la vita, le feste, la morte. L’umanesimo ebraico-cristiano è stato, soprattutto, un tentativo di svuotare il mondo dagli idoli e liberarlo dai sacrifici, un tentativo solo in parte riuscito, perché è sempre stata troppo forte negli uomini la tendenza a costruire idoli per adorarli.

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I profeti, e la tradizione sapienziale (Qohelet), e poi Gesù, hanno operato una rivoluzione religiosa straordinaria anche per la loro radicale lotta anti-idolatrica. Hanno cercato di eliminare gli idoli dai templi e dalle chiese, e creare così un ambiente libero dalle cose dove si potesse ascoltare la voce libera e liberata dello spirito, la sua “sottile voce di silenzio”. Il cristianesimo, poi, ha superato per sempre l’antica logica sacrificale, perché al sacrificio degli uomini offerti a Dio ha sostituito il sacrificio-dono di Dio offerto agli uomini, istaurando l’era della gratuità. Ma oggi, dopo duemila anni, il capitalismo, combattendo prima la gratuità e poi cercando di metterla a reddito, sta reintroducendo nel proprio culto arcaiche pratiche sacrificali.

La cultura sacrificale del capitalismo la possiamo intravvedere ovunque. Pensiamo, ad esempio, alla recente spettacolarizzazione del cibo e del cucinare in tv e nei media. Nelle varie culture, il mangiare era una pratica fondamentale, sempre comunitaria, cuore delle relazioni famigliari, dei rapporti di amicizia, ed espressione massima di solidarietà. Si mangiava insieme perché il cibo è la prima risorsa, quella decisiva delle comunità, e quindi deve essere condivisa, “costruita” socialmente, non lasciata al gioco naturale della forza e del potere dei singoli individui. Il cibo è il primo linguaggio della fraternità, che tramite l’istituzione universale dell’ospitalità si apre anche a chi bussa alla porta. Per questo il luogo del mangiare era la casa, l’intimità della tenda. La preparazione del cibo era faccenda privata, in genere affidata alle donne, che erano le produttrici dei pasti, che trasformavano i prodotti scarsi della terra in convivialità e i beni in beni relazionali. La fiducia nella persona che cucinava era la prima parola del discorso sul cibo. La credenza non conservava soltanto gli alimenti, custodiva anche la fiducia e il credere nelle relazioni primarie della casa.

In pubblico, nella piazza, si mangiava invece in occasione delle feste, che nel mondo pre-cristiano erano associate ai sacrifici di animali offerti alla divinità. Gli animali offerti venivano poi cotti, cucinati e mangiati insieme in pubblico. La civiltà cristiana ha trasformato quelle antiche feste, e per superare l’arcaica logica sacrificale ha scoraggiato il cucinare, il mangiare e il bere in pubblico. Nelle feste cristiane in pubblico si ballava, si cantava, si giocava, si facevano le processioni, e soprattutto si celebrava l’eucarestia: la buona (eu) gratuità (charis), in un’altra cena, un altro pane, un altro vino. Ma si mangiava a casa, e la preparazione dei cibi restava cosa privata e femminile. La grande spettacolarizzazione che stanno conoscendo il cibo e il cucinare, ci sta riportando indietro alla cultura dei sacrifici, ai banchetti sacri agli idoli, al cucinare in piazza. Per capire l’autentica invasione di cuochi e di pasti, non è infatti sufficiente ricorrere ai soli aspetti sociologici (dover reimparare a cucinare, o la domanda di salute): occorre scoprire la loro natura religiosa e sacrificale. Gli idoli mangiano sempre, non sono mai sazi.

In questi nuovi riti, celebrati da sacerdoti maschi, il cibo perde interamente la sua natura intima e famigliare. La sua solidarietà e la sua condivisione sono totalmente cancellate, per lasciare al loro posto la concorrenza, la gara. Le buone parole di casa diventano insulti, al pane che cade per terra non si dà un bacio, ma fa eco un urlo, il cucinare non è più circondato dalle parole buone e famigliari della commensalità: è tutto e soltanto gioco, spettacolo, business. E dimentichiamo e rinneghiamo la regola base della prima educazione che per millenni le mamme hanno trasmesso ai loro figli: “Con il cibo non si gioca”, perché è una cosa troppo seria, la cosa più seria di tutte, sacra. Invece questo nuovo-arcaico sacrificio del cibo non rende sacro niente e nessuno, e ci fa riprecipitare in un mondo popolato di are e di vittime: panem et circenses.

Ma sacrificio è anche una parola chiave delle nuove grandi imprese globali. Per capire l’universo del “sacro” aziendale, non dobbiamo fermarci ai suoi aspetti più superficiali – quali la presenza nelle imprese di coach, che cercano di imitare i vecchi padri spirituali; l’uso di parole prese dal linguaggio spirituale, come “missione”, “vocazione”, “fedeltà”, “merito”; i finti riti di iniziazione e le pseudo-liturgie di marketing; il disprezzo della parola “vecchio” che ormai è diventata una parolaccia o un insulto (“sei vecchio!”: tutti i culti idolatrici adorano la gioventù). Questi fenomeni sono sintomi epidermici di qualcosa di molto più profondo e radicato nell’organismo del capitalismo.

Dopo aver utilizzato, fino a pochi anni fa, linguaggi e metafore presi dalla vita militare o dallo sport, le grandi imprese capitalistiche si stanno accorgendo che per comprare il cuore dei propri dipendenti c’è bisogno di un codice simbolico più forte, e lo stanno prendendo dalla sfera religiosa. Ma, anche qui, il registro simbolico non lo stanno prendendo dalla cultura religiosa ebraico-cristiana, né, tantomeno, da altre grandi religioni (islam o induismo). Questi grandi umanesimi spirituali sono troppo complessi e resilienti per essere facilmente manipolati dal business. E allora, con un balzo indietro di millenni, tornano direttamente al totemismo e ai suoi sacrifici.

Il sacrificio è una parola centrale del culto del business. Nulla più del sacrificio è chiesto ai lavoratori delle grandi imprese: sacrificio di tempo, della vita sociale e famigliare. Il lavoro è sempre stato fatica, sudore, e quindi in un certo senso anche sacrificio. Ma il sacrificio della cultura dell’impresa del XX secolo, era trasparente in chi lo faceva e in chi lo riceveva. Tutto il movimento sindacale era riuscito a contenerlo dentro limiti politici, e quando eccedeva questi limiti non era chiamato “sacrificio”, ma “sfruttamento”. Abbiamo sempre saputo che dietro a molto lavoro c’erano “dèi” lontani che vivevano di rendita grazie ai nostri sacrifici e allo sfruttamento del nostro lavoro nei campi e nelle fabbriche: ma ne eravamo coscienti, ci soffrivamo molto, e abbiamo lottato per ridurre o eliminare queste ingiustizie. Oggi la manipolazione semantica della nostra età sta riuscendo a presentarci il “di più” del sacrificio come una forma di “dono” volontario. Siamo più sfruttati di ieri da dèi ricchissimi, ma, diversamente da ieri, dobbiamo essere felici dei nostri sacrifici, interiorizzarli come dono. Il sacrificio richiesto ai lavoratori dalle grandi imprese è un atto necessario per poter sperare nel “favore degli dèi” e quindi fare carriera, guadagnare molto, avere stima e riconoscimento dall’alto. Chi, invece, si rifiuta di fare questi sacrifici e s’impegna a salvaguardare un confine tra impresa e famiglia, chi non accetta le richieste di restare in ufficio fino alle undici di sera, rimane fuori dal numero degli eletti, e, spesso, sviluppa gravi sensi di colpa per il suo essere un perdente.

Inoltre, come nei sacrifici agli antichi dèi e idoli, le offerte e i voti non potevano mai estinguere il debito del sacrificante, oggi in queste imprese più si dona tempo e vita più vengono richiesti tempo e vita, finché un giorno esauriamo le nostre offerte – ma in questo giorno, il management ci offrirà “gratuitamente” il giusto coach che ci farà rialzare per recarci di nuovo all’altare e offrire altri sacrifici. L’idolo non si sacrifica, può solo ricevere sacrifici dai suoi fedeli. Gli dèi invisibili e lontani si nutrono dei sacrifici dei lavoratori, ne hanno sempre più un bisogno vitale. Ma il colpo di genio di questo capitalismo sta nell’essere riuscito a coprire con il “contratto" la struttura sacrificale del “mercato del lavoro”. Ciò che in realtà ci chiedono è un sacrificio, ma presentandolo come contratto libero nascondono molto bene la sua vera natura. Pagando, le imprese diventano totalmente slegate e ingrate verso i loro fedeli. E il giorno in cui le opportunità di mercato e di profitto cambiano, non si sentono debitrici per i molti sacrifici ricevuti, cercano paradisi fiscali; e con poche migliaia di euro – nell’ipotesi migliore – ripagano il sacrificio di una vita, il sacrificio della vita. Il sacrificio degli antichi culti doveva essere vivo: agli dèi si offrivano animali, bambini, vergini, raramente piante (libagioni), mai oggetti. I nuovi dèi continuano a chiedere vita e restituiscono denaro.

La natura sacrificale di questo capitalismo non è tanto una proprietà morale delle persone, riguarda il sistema nel suo insieme. Le sue prime vittime sacrificali sono gli stessi dirigenti e manager, sacerdoti e vittime insieme.

Lo scenario probabile e cupo che si prospetta all’orizzonte della nostra civiltà, è una rapida crescita di questa nuova idolatria, che dall’ambito economico sta via via migrando verso la società civile, la scuola, la sanità. Non trova opposizioni nel suo sentiero di espansione, perché ricorre a simboli religiosi che la nostra cultura non ha più le categorie per comprendere. Chi oggi vuole capire e magari governare l’economia e il mondo, deve studiare meno business, e più filosofia e antropologia.

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Sul confine e oltre/3 - Questo mercato divora vita e rende un po’ di denaro

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 05/02/2017

Sul confine e oltre 03 rid«Il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia»

Walter BenjaminIl capitalismo come religione

Il capitalismo dei secoli XIX e XX è stato animato da uno spirito ebraico-cristiano, spirito di lavoro, di fatica, di produzione. Ma non capiamo più lo spirito del nostro capitalismo se continuiamo a cercarlo all’interno del cristianesimo o della Bibbia. La società di mercato negli ultimi anni assomiglia sempre più a una religione, ma i tratti che sta assumendo l’avvicinano alle città mediorientali di tremila anni fa, o a quelle greche e romane di alcuni secoli successivi. Ai loro spazi pubblici occupati da molte statue, da templi, steli, altari, edicole sacre, e ai loro spazi privati riempiti di amuleti, penati, e da una enorme produzione di idoli domestici. E ai loro molti sacrifici, attorno ai quali erano ordinate la vita, le feste, la morte. L’umanesimo ebraico-cristiano è stato, soprattutto, un tentativo di svuotare il mondo dagli idoli e liberarlo dai sacrifici, un tentativo solo in parte riuscito, perché è sempre stata troppo forte negli uomini la tendenza a costruire idoli per adorarli.

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Gli idoli non sono sazi mai

Sul confine e oltre/3 - Questo mercato divora vita e rende un po’ di denaro di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 05/02/2017 «Il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il cult...
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Sul confine e oltre/2 - Mentre trionfa e vacilla il mercato individualistico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/01/2017

Su confine e oltre 02 rid«Vi è per tutte le passioni un tempo in cui esse sono soltanto funeste, in cui deprimono le loro vittime con il peso della stupidità – e un tempo più tardo, assai più tardo, in cui si sposano con lo spirito, si ‘spiritualizzano’»

F. NietzscheIl crepuscolo degli idoli

Una forma particolarmente importante di “distruzione creatrice” del capitalismo del nostro tempo è quella operata nei confronti della religione. L’economia di mercato è cresciuta e cresce grazie al consumo del territorio sacro, che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo terreno liberato per gli scambi commerciali. I mercanti sono tornati nel tempio, tutto il tempio sta diventando mercato, anche il sancta sanctorum è stato messo a reddito.

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Per distruggere una religione occorre prima minare le comunità e isolare le persone trasformandole in individui. E questo il capitalismo lo ha saputo fare molto bene. Gli individui sono slegati tra di loro, e quindi non possono avere la religio, che è esperienza possibile solo a coloro che condividono e custodiscono insieme qualcosa di importante. Quando viene meno la terra comune della comunità, l’esperienza religiosa inesorabilmente si spegne. O diventa un bene di consumo, come è capitato all’Occidente, dove nel giro di due generazioni abbiamo ridotto in macerie un patrimonio comunitario e religioso costruito in oltre duemila anni, e dove gli individui senza casa e senza radici sono diventati i consumatori perfetti. Ci siamo lasciati svuotare di senso e siamo stati riempiti di cose.

Questo svuotamento-riempimento rappresenta il massimo sviluppo di quel primo “spirito del capitalismo” che leggeva l’accumulo di beni come benedizione di Dio. Con una differenza decisiva però: quella che era stata per almeno due secoli una esperienza elitaria di un ristretto numero di imprenditori e banchieri, nel corso del XX secolo è diventata una religione di massa, grazie allo spostamento del baricentro etico del capitalismo dalla sfera della produzione a quella consumo. A essere “benedetto da Dio” non è più colui che produce, ma colui che consuma (che è lodato e invidiato perché e se ha i mezzi per consumare). I predestinati sono diventati coloro che possono consumare i beni, non più quelli che li producono lavorando. Più consumo, più benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al nuovo sacerdote e messia del manager-consumatore, che è tanto più “benedetto” quanto più alto è il suo bonus e quindi il suo standard di consumo.

Come conseguenza di ciò, il lavoro è uscito di scena, relegato tra i ricordi un po’ nostalgici del passato e delle sue utopie. È diventato un mezzo per aumentare i consumi, grazie a una finanza sempre più amica del consumo e nemica del lavoro, dell’impresa e dell’imprenditore-lavoratore. Il vecchio spirito calvinista del capitalismo, centrato attorno alla produzione e al lavoro, era ancora un capitalismo essenzialmente e naturalmente sociale. Lavorare e produrre sono azioni collettive, cooperazione, mutualità. Il lavoro è il primo mattone delle comunità umane. Spostando l’asse del sistema economico e sociale dal lavoro al consumo, la comunità ha naturalmente lasciato il posto all’individuo. Il consumo è diventato sempre più un atto individuale, perdendo progressivamente quella dimensione sociale pur legata alla sfera economica. Fino a qualche decennio fa nei mercati si scambiavano anche parole. Oggi l’atto di consumo perfetto è diventato l’acquisto online, dove il prodotto mi raggiunge a casa senza che tra me e l’oggetto del desiderio si inserisca nessun altro essere umano (possibilmente neanche il postino). Ecco perché l’azzardo di ultima generazione è icona massima di questo capitalismo. Dalla schedina del totocalcio o dalle corse all’ippodromo, che erano in molti casi esperienze sociali, si è passati al rapporto individuo-macchina, dove ciascuno “gioca” (ma non è un gioco) da solo, interamente concentrato e risucchiato dal suo oggetto – non a caso molte slot machine hanno aspetto totemico: luccicanti, coloratissime, sempre affamate.

Il passaggio dal lavoro al consumo è frutto anche di una operazione sistematica di disistima di tutto ciò che sa di fatica, sudore, sacrificio. Il consumo ci piace molto perché è tutto e solo piacere: nessuna fatica, nessun dolore, nessun sacrificio. Così non stupisce che la nuova frontiera della battaglia civile si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”, che sta diventando lo slogan del XXI, magari reso possibile grazie a un reddito minimo garantito per poter essere introdotti nel nuovo tempio. Più consumo, meno lavoro, più benedizione. Le idolatrie sono sempre economie di puro consumo. Il totem non lavora, e il lavoro dei suoi devoti vale solo in quanto orientato al consumo: all’offerta, al sacrificio. Più una cultura è idolatrica più disprezza il lavoro e adora il consumo e quella finanza che promette un culto perpetuo di solo consumo senza fatica.

Questo impianto antropologico, sociale e sacrale che ha retto finora il capitalismo, sta però entrando inesorabilmente in crisi. Il capitalismo individualistico sembra avere i giorni contati, anche se oggi vive la sua stagione migliore (le grandi crisi iniziano sempre al culmine del successo, e si manifestano con un ritardo temporale di alcuni anni). E non è difficile accorgersene.

Finché siamo stati all’interno di un’economia della scarsità di merci, al culto del mercato bastavano le cose per riempire la nostra fantasia e appagare i nostri desideri. Ma da quando la gran parte della società ha raggiunto e superato la soglia della sazietà, la religione capitalistica deve ripensarsi completamente se vuole continuare a crescere e trattenere i suoi fedeli – dimenticando, tra l’altro, tutti coloro che non sono sazi e bussano alle porte dei nostri banchetti. Ed è proprio osservando i cambiamenti in corso in questa nuova fase – il capitalismo della post-sazietà – che possiamo vedere con chiarezza la potenza della natura religioso-idolatrica dell’impianto attuale.

Pensiamo al rapporto individuo-comunità. Le componenti più intelligenti del nostro sistema economico stanno intuendo che il culto capitalista ha bisogno di comunità per poter essere potente e durare. Come ogni religione, anche quella capitalistica, non può che essere comunitaria. Tutte le religioni sono un «fenomeno sociale integrale» (Émile Durckheim). E così, dal centro del capitalismo è iniziato ad emergere qualcosa di molto difficile da immaginare soltanto pochi anni fa. Una volta che il processo di individualizzazione del consumo e del conseguente azzeramento della comunità stava raggiungendo la sua apoteosi, quella stessa cultura economica ha partorito figli che assomigliano molto alla vecchia religione e alla vecchia comunità che tanto ha osteggiato e combattuto come suoi principali nemici. La fase del mercato che cresce offrendo merci a individui che sostituivano gli antichi culti collettivi con l’idolatria individuale di nuovi oggetti-totem, sta infatti progressivamente lasciando il posto ad una nuova fase di consumo comunitario, e quindi più religioso. L’individuo consumatore separato e isolato, adoratore di idoli dai quali è divorato, non sarà il protagonista dei mercati dei prossimi anni. Il mercato del futuro sarà sociale e pieno di storie. Non capiamo, ad esempio, la nuova stagione di sharing economy (“economia della condivisione” o, se si preferisce, “consumo collaborativo”), se non la leggiamo all’interno di questa nuova fase diversamente comunitaria della religione capitalistica (e lo vedremo in un prossimo articolo).

Pensiamo al grande fenomeno del marketing narrativo e al cosiddetto storytelling, sempre più inseriti tra gli ingredienti delle nuove imprese di successo. La narrazione è un tipico elemento delle religioni e delle comunità, tanto da costituirne il loro primo capitale. Le fedi sono soprattutto un patrimonio di storie ricevute e donate. Non ci sono fedi senza narrazioni dell’inizio, della fine, dei padri, delle liberazioni, degli incontri con Dio. Si trasmette una fede raccontando una storia. Il nuovo marketing dell’era della post-scarsità non presenta più i prodotti con le loro caratteristiche tecniche o merceologiche. Non ci ammalia descrivendoci le proprietà delle merci: ci incanta raccontandoci storie. Come facevano i nostri nonni, come faceva e fa la Bibbia. La nuova pubblicità è sempre più una costruzione di racconti con il tipico linguaggio del mito, dove lo scopo è attivare l’emozione del consumatore, il suo codice simbolico, i suoi desideri, i suoi sogni – non solo, non più, i suoi bisogni.

E così per venderci i loro prodotti le nuove imprese ci fanno sognare ricorrendo alla forza evocativa del mito: come le fedi, come le storie che hanno formato il nostro patrimonio religioso e sociale. Con una differenza fondamentale, però: le storie delle fedi e le fiabe delle nonne erano più grandi di noi ed erano tutto e solo gratuità. Il loro scopo era trasmetterci un dono, una promessa, una liberazione, facendoli rivivere ogni volta solo per noi. Non ci volevano vendere nulla, solo trasmetterci un’eredità. E invece lo storytelling delle imprese emozionali del capitalismo di oggi e di domani vuole solo e soltanto venderci qualcosa. Non hanno nulla di gratuito e sono più piccole di noi proprio perché mancanti di quella gratuità che faceva grandi le altre storie: le nuove imprese ci raccontano storie per aumentare i profitti di chi investe molto denaro per inventare e raccontarci quelle storie – che poi non sono altro che plagi e imitazioni delle grandi narrazioni religiose che hanno ricevuto, anche loro, gratuitamente e che poi riciclano a scopo di lucro. Le storie di ieri, di sempre, hanno saputo incantarci perché non volevano incatenarci. Le storie raccontate a scopo di lucro sono invece tutte varianti della fiaba del Pifferaio magico: se non è pagato per la sua opera, questo “mercante” torna in città, e mentre siamo occupati nei nostri nuovi culti nelle nuove chiese con il flauto incantatore ci porta via i nostri bambini, per sempre.

Finora la storia delle civiltà ci ha insegnato che la gratuità usata senza gratuità non dura, e presto si scopre il bluff. Ma forse la grande innovazione del capitalismo di domani consisterà nel trasformare anche la gratuità in una merce, e lo farà così bene che non saremo più capaci di distinguere la gratuità taroccata da quella genuina. Ma potremo salvarci ancora da questa enorme manipolazione, che sarebbe la più grande di tutte, se avremo tenuto vive, da qualche parte, le grandi storie di gratuità custodite dalle fedi. O se avremo conservato il seme della gratuità in un ultimo posto dell’anima che siamo riusciti a non mettere in vendita.

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Sul confine e oltre/2 - Mentre trionfa e vacilla il mercato individualistico

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 29/01/2017

Su confine e oltre 02 rid«Vi è per tutte le passioni un tempo in cui esse sono soltanto funeste, in cui deprimono le loro vittime con il peso della stupidità – e un tempo più tardo, assai più tardo, in cui si sposano con lo spirito, si ‘spiritualizzano’»

F. NietzscheIl crepuscolo degli idoli

Una forma particolarmente importante di “distruzione creatrice” del capitalismo del nostro tempo è quella operata nei confronti della religione. L’economia di mercato è cresciuta e cresce grazie al consumo del territorio sacro, che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo terreno liberato per gli scambi commerciali. I mercanti sono tornati nel tempio, tutto il tempio sta diventando mercato, anche il sancta sanctorum è stato messo a reddito.

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Resistere al pifferaio magico

Sul confine e oltre/2 - Mentre trionfa e vacilla il mercato individualistico di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 29/01/2017 «Vi è per tutte le passioni un tempo in cui esse sono soltanto funeste, in cui deprimono le loro vittime con il peso della stupidità – e un tempo più tardo, assai più...
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Sul confine e oltre/1 - Tra mercato e gratuità, per trovare altre strade

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/01/2017

Su confine e oltre 01 rid«Non possiamo amare nulla se non in relazione a noi stessi. Soltanto l’interesse produce l’amicizia»

F. de La Rochefoucauld, Massime

 La solitudine nel nostro tempo cresce insieme al nostro desiderio di comunità, che cerchiamo di soddisfare con modalità e strumenti che finiscono, troppo spesso, per accrescere quel desiderio. La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e radici troppo profonde, e ha i mezzi economici e politici per crearli sempre più così. Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire.

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Non capiamo il successo straordinario che il mercato capitalistico sta raccogliendo negli ultimi due-tre decenni, se non poniamo sufficiente attenzione al suo principale dispositivo: la distruzione di beni liberi non di mercato che vengono sostituiti da merci, che mentre cercano di rispondere alla carestia dei primi beni (e a modo loro ci riescono) continuano ad alimentarla. La nuova cultura del lavoro e del consumo produce individui con relazioni sempre più frammentate, e poi grandi aziende multinazionali offrono nuove forme di comunità sulla rete che mentre accompagnano le nostre solitudini non fanno altro che aumentare il numero delle nostre ore solitarie trascorse di fronte a telefoni, computer, TV. Il Pil cresce grazie al nostro tentativo di rispondere col mercato alle solitudini generate dallo stesso mercato – e così la quota di reddito che le famiglie spendono oggi in telefoni, ricariche e canoni internet, ha superato quella spesa per il cibo.

Le conseguenze di questa nuova forma di ‘distruzione creatrice’ – che distrugge beni liberi e crea merci con un prezzo – sono gravemente sottovalutate. Pensiamo all’esclusione sociale e alla povertà. Le comunità tradizionali erano generalmente beni comuni gratuiti, accessibili anche ai poveri, in certi casi soprattutto ai poveri, che compensavano i loro minori beni economici con maggiori beni relazionali. I poveri spesso non erano poveri di tutto: avevano ricchezze comunitarie, di festa, che li facevano meno poveri. La tendenza forte delle nuove povertà del terzo millennio è la creazione di poveri che sono poveri in tutto. Quando eravamo bambini, ad esempio, l’organizzazione sociale di città e campagne ci (quasi) impediva di diventare obesi: tutto era movimento naturale e necessario. Le nostre città e la nostra organizzazione sociale ed economica producono (quasi) naturalmente obesità. Ma poi, con il colpo di genio collettivo più impressionante della nostra era, il capitalismo ha inventato tutto un business di palestre, piscine, fitness, alimenti speciali, allo scopo di combattere quell’obesità che la società di mercato crea – semplicemente pagando. E così i bambini (e gli adulti) più poveri sono spesso anche quelli più obesi, perché non possono accedere alle ‘cure’ che il mercato vende.

Crescere e fare profitti grazie alla risoluzione dei danni che crea nel fare altri profitti (e rendite), è la grande ‘innovazione sociale’ del capitalismo del nostro tempo. Il meccanismo di questa distruzione creatrice è molto radicale, e si applica primariamente alla stessa comunità. Le comunità tradizionali erano solo in minima parte elettive: sceglievamo la moglie, qualche amico, non i genitori, né i fratelli, né i figli, né i vicini di casa, né gli altri abitanti del nostro villaggio. Tutti questi compagni erano eredità, destino, soprattutto corpo, carne, sangue, con tutte le loro tipiche ferite e benedizioni. Le comunità post-moderne sono soltanto elettive: scegliamo quasi tutto, vorremmo scegliere tutto. Soltanto i legami deboli, disincarnati e scelti ci piacciono; e così ci scordiamo che le persone sono vive e vere perché oggi sono diverse da quelle che abbiamo scelte ieri. La buona fioritura di una vita è restare fedeli a tutto ciò che è cambiato, che continua a cambiare e che non abbiamo scelto nelle persone che amiamo – ogni patto matrimoniale è un reciproco sì per una fedeltà a ciò che l’altro diventerà, un’alleanza per accogliere ed amare il non ancora (di sé e dell’altro) che non conosciamo e non controlleremo (e invece ‘sei cambiata’, ‘non sei più l’uomo che ho sposato’, sono le parole dei nostri abbandoni, come se non avessimo sposato anche quel ‘cambiamento’ e quel ‘non essere più’).

Un posto importante in questo ragionamento lo occupa il tema dell’autenticità. Nel XX secolo l’autenticità – sincerità, genuinità – era anche una dimensione del mercato. Le imprese, le cooperative, i negozi, le banche erano faccende umane a tutto tondo, con gli stessi vizi e le virtù della vita. E quindi genuine come la vita. Poi abbiamo iniziato a costruire una cultura aziendale e di marketing sempre più artificiale, a costruire una pubblicità dove si presentano beni che tutti sappiamo non essere quelle merci che poi andremo a comprare, a vendere prodotti finanziari artificialissimi e finti, a relazionarci con colleghi, clienti, fornitori e capi seguendo i protocolli e gli schemi di incentivo. Una commedia dell’arte dove ciascuno interpreta il suo ruolo grazie alla maschera che gli copre il volto – e così non vediamo più il rossore sulle guance e le lacrime negli occhi. Una certa artificialità e non sincerità hanno sempre fatto parte dell’ethos del mercato – chiunque frequentava le fiere e i mercati di ieri entrava dentro un mondo di venditori seduttori che parlavano di proprietà fantastiche di prodotti miracolosi. Ma ne eravamo coscienti, quella artificialità faceva parte del folklore e dei riti di quel mondo, di ogni mondo. Quella parte di artificialità era esplicita, nota a tutti, e quindi diventava, paradossalmente, autentica e sincera. Giocavamo un po’ tutti ‘a mercanti in fiera’, ma lo sapevamo.

Ad un certo punto, però, quella prima cultura di mercato è stata amplificata, gonfiata ed esasperata dalle grandi imprese multinazionali e dalle società di consulenza globali. È diventata una vera e propria ideologia, e quella prima buona dimensione di artificialità delle relazioni di mercato è cresciuta molto, troppo. Poco alla volta, e senza accorgercene, ci siamo dimenticati della non-autenticità di molte pratiche, e abbiamo dato loro consistenza di realtà. La gestione del lavoro è diventata tecnica, le persone risorse umane, il marketing una scienza coltivata nei laboratori di neuroscienza. Il gioco è diventato la realtà, e quella prima genuinità è uscita di scena.

Ma ancora una volta, il mercato sta trovando la soluzione al male che ha creato. La ricerca di autenticità dentro il mercato è infatti una delle tendenze più importanti e profittevoli dell’attuale capitalismo. I consumatori cercano autenticità nei prodotti e nei servizi che comprano. La vogliamo nei prodotti alimentari, dove tutto ciò che sa di autentico vale di più; nella ristorazione, quando a Napoli cerchiamo il locale che sia veramente napoletano, e lisboeta a Lisbona. Persino nel turismo ‘sociale’ vogliamo vedere indigeni autenticamente indigeni, e poveri che siano autentici poveri. Birre e gelati artigianali sono preferiti perché portatori di qualcosa di quella autenticità che ci siamo messi decisamente a cercare. Non ci basta uno chef preparato, ne vorremmo uno che crede veramente in quello che fa e dice di fare. Né un contadino che coltiva i suoi prodotti in modo biologico: lo vogliamo incontrare mentre lavora nei suoi campi e ci parla in dialetto, per verificare la genuinità della storia che ci racconta con la merce.

Un primo effetto collaterale di questo interessante fenomeno nuovo riguarda il prezzo di questi prodotti. Questa autenticità è associata in genere ad un prezzo alto, qualche volta molto alto, da cui deriva, anche qui, l’esclusione dei poveri. L’autenticità, poi, non è una caratteristica dei prodotti, è una dimensione anche delle persone. Se allora guardiamo bene ci accorgiamo che stiamo chiedendo al mercato quella gratuità che è precisamente quanto ha espulso dai suoi uffici, negozi, banche, soprattutto negli ultimi decenni.

In questo variegato mondo dei mercati autentici, si aprono allora scenari futuri da seguire con molta attenzione. Uno riguarda la grande crescita di nuove comunità di mercato, dove è il consumo dello stesso prodotto o brand ad aggregare le persone in nuove forme di ‘tribù’. Ciò che oggi vediamo ancora solo per alcuni prodotti particolarmente identitari (nel cibo, nella musica, nell’abbigliamento, nelle automobili, nelle moto …), domani potrebbe diventare un fenomeno molto esteso e generalizzato. In queste tribù di consumatori è l’oggetto a diventare l’elemento di costruzione della ‘comunità’. Rivivono così forme arcaiche di culto totemico, dove il rapporto tra persone è un effetto collaterale del rapporto di ciascun individuo con la cosa. I fedeli (la fede-fedeltà qui è tutto) offrono sacrifici di tempo e energie a qualcosa che, per natura, non ha nulla di gratuito - il prodotto ha un suo prezzo di vendita, ha i suoi profitti che non vanno agli adoratori ma ai proprietari della marca, che usano gratuitamente il lavoro e la promozione dei loro fidelizzati. Nuove religioni-idolatrie di solo culto, che riempiono di feticci una terra svuotata di dèi.

L’umanesimo biblico ha combattuto l’idolatria del suo tempo anche per liberare l’uomo dal debito originario che caratterizzava i culti totemici e pagani dei popoli circostanti. L’Alleanza con un Dio che crea per eccedenza di amore, era stata anche la liberazione dai culti per gli oggetti, dai totem e dai tabù del mondo antico, dove gli oggetti incantavano e incatenavano gli uomini con la loro magia e i loro poteri occulti. Se il disincanto del mondo e la battaglia contro l’umanesimo ebraico-cristiano cui stiamo assistendo, producessero, alla fine, un banale ritorno a nuovi culti totemici degli oggetti, saremmo di fronte al peggiore fallimento dell’umanesimo occidentale, alla distruzione di due millenni e mezzo di sviluppo umano e spirituale.

Ma sono possibili anche altri scenari, si possono già intravvedere narrazioni diverse sulla linea dell’orizzonte del nostro tempo complicato e bellissimo. Per osservarli e capirli noi ci porremo ‘sul confine e oltre’. Porremo il nostro posto di vedetta sul confine tra gratuità e mercato, tra comunità e persone, tra i totem e l’autentica spiritualità. Aspettiamoci di tutto, e buon viaggio.

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Sul confine e oltre/1 - Tra mercato e gratuità, per trovare altre strade

di Luigino Bruni

pubblicato su Avvenire il 22/01/2017

Su confine e oltre 01 rid«Non possiamo amare nulla se non in relazione a noi stessi. Soltanto l’interesse produce l’amicizia»

F. de La Rochefoucauld, Massime

 La solitudine nel nostro tempo cresce insieme al nostro desiderio di comunità, che cerchiamo di soddisfare con modalità e strumenti che finiscono, troppo spesso, per accrescere quel desiderio. La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e radici troppo profonde, e ha i mezzi economici e politici per crearli sempre più così. Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire.

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Via dalla distruzione creatrice

Sul confine e oltre/1 - Tra mercato e gratuità, per trovare altre strade di Luigino Bruni pubblicato su Avvenire il 22/01/2017 «Non possiamo amare nulla se non in relazione a noi stessi. Soltanto l’interesse produce l’amicizia» F. de La Rochefoucauld, Massime  La solitudine nel nostro temp...